lunedì 23 febbraio 2009

Susanna frammento 15


Giovedì 23: la dernière chance. Primo contatto col mysterium magnum. Come reagirà? Intendo, “nell’interiore”, e nel medio periodo. Intanto i fatti. Le punte rosse delle unghie, i polpastrelli delicati, le esitanti falangi della mano tremante. Non più, non altro.. Non oltre. Un primo conatus. Fra le torsioni violente delle dita intrecciate, a vivere un loro tormento di esitazione, di desiderio, di curiosità. Di paura. Un brivido di rivelazione.
Capirà il senso di tanta novità, o raccoglierà l’insidia del disgusto propiziato dall’ipocrisia corrente? O l’educazione, i suoi arcigni pregiudizi, le ciance vane sulla moralità erotica uccideranno la spinta dell’eros migliore?
Ma io, intanto e forse, voglio spacciare per sacra ambrosia la prosaica realtà del pane quotidiano? No, davvero. Ma non intendo nemmeno cadere nella trappola del cinismo vanesio. E dunque sciocco: c’è, nel mio gesto, qualcosa che si alza di un palmo, almeno, sull’immediato del fatto bruto. Qualcosa d’intenso, di intimo, di totale. Di mistico? Perché no? Lo spirito che contempla la natura si scopre natura, esso stesso. Atteone, ricorda il grande Giordano, contempla Diana nuda, e da cacciatore diventa caccia, preda. Atteone è lo spirito, Diana la natura: specchiandosi nella nudità della Natura, lo spirito si riconosce identico alla natura, tutto natura, nella sua sostanza e attività. E se lo spirito si fa natura, non può cercarsi e volersi che nei corpi. Nei loro spazi più ghiotti, se all’azione è motore la prima diramazione dell’originaria spinta trofica. E quale sia questa prima tu lo sai bene, quaderno dell’anima. E l’anima? Che ne è dell’anima? No problem! E’ qui, tutta presente: è il prurito più nascosto dei loro misteri pulsanti di arterie e nervi. Ore 1,35. Oh, santa istologia ontica. Anzi, antica!


28 settembre,
mezzanotte

[...]L’acerbo vero, i ciechi / destini investigar delle mortali / e dell’eterne cose; a che prodotta, / a che d’affanni e di miserie carca / l’umana stirpe; a quale ultimo intento /lei spinga il fato e la natura; a cui / tanto nostro dolor diletti o giovi:/ con quali ordini e leggi, a che si volga / quest’arcano universo; il qual di lode / colmano i saggi, io d’ammirar son pago. / In questo specolar gli ozi traendo/ verrò, ché conosciuto, ancor che tristo, / ha suoi diletti il vero. E se del vero/ ragionando talor fiano alle genti/ non grati i miei detti o non intesi non mi dorrò che già al tutto il vano disio di gloria antico in me fia spento / Vana diva, non pur, ma di fortuna,/ del fato e d’amore diva più vana.

Stanotte ho sognato il nano-gigante di Recanati. Ma vivo, contemporaneo, non di carta e colori. Sentivo che un evento specialissimo lo aveva restituito alla carne: per poco tempo, per uno straordinario dono (a chi e perché?), né si poteva stabilire il quanto. Nel sogno mi rendevo conto (ma secondo una logica tutta onirica, sfasata con lo spazio-tempo della veglia) che mi trovavo in una situazione irreale, ma nello stesso tempo la percepivo concreta. Sorrideva, il Tutto-testa (Tutto-testa? Ma che calunnia!), guardandomi. Di un sorriso dolcissimo e complice. A un certo momento si staccò da una piccola folla di chissà quale festa culturale (forse una conferenza, forse un premio letterario) dove entrambi, con molti altri, conoscenti amici sconosciuti, letterati e teste d’uovo di ogni età e d’ambo i sessi (non senza, mi pare, qualche gay ciarliero) eravamo presenti come invitati. Si staccò e, con un grosso cono gelato nella mano destra, mi si accostò, dette una copiosa succhiata alla crema, si avvicinò all’orecchio, la sua mano sinistra sul mio braccio destro, e mi sussurrò: Ti sbagli: io, non solo non ti critico né condanno, ma t’invidio e ti ammiro. Vivi, strappa alla vita tutto il piacere che puoi, e fra cinquanta o sessant’anni (è il mio augurio), morirai contento. E nella prosciugata vecchiaia avrai di che consolarti con il nettare dei ricordi: sono così veri a volte! Ripensa alle mie Ricordanze, al Sogno, a certe pagine dei Pensieri e dello Zibaldone. Io ho scritto quella nobile lagna sullo specolar tutto astrale e privo di sesso, di naturale e gentile sesso, intendo, perché la truce natura puttana mi ha condannato a questo digiuno forzato. E alle prevedibili soluzioni solitarie. Se avessi potuto, se potessi, mi abbandonerei anche al sesso nudo e crudo, e saprei fingermi, o perfino avvertire sinceramente, un senso d’amore per la donna che mi gratificasse della sua pietà corporale.
Che sogno inverosimile e strambo. Me ne sento ancora avvolto come dentro un vapore drogato. Me ne viene anche spinta e sostanza di riflessione. Non soltanto a conferma della vecchia e precoce passione leopardiana, ma altresì della facilità con cui la gente, idiota o acculturata, s’induce a credere a un’altra vita: come affascina il pensiero di potere incontrare, oltre la grande muraglia del finis terrae assoluto, le persone care perdute in questa turpe vallis lacrimarum. In coda, poi, a questa risacca di sensazioni immagini pensieri, i versi degli Sciolti a Carlo Pepoli sopra trascritti, mi ronzavano nell’eccitato limbo della memoria semovente (una buona metà del “canto” l’ho imparata, appunto, a memoria). Ma perché proprio quel passo, quel finale? Be’, mi pare ovvio: è l’invocazione di un rinforzo (termine tecnico, quaderno) alla mia costante polemica fisiologica. Naturalmente, le parole del Poeta “trascritte” non sono pura e
 distillata memoria, ma un mix di memoria e di sottesa integrazione ad sensum.

10 ottobre, ore 23, 30

Osservai, non senza interesse, che molti degli uomini politici dichiaratamente pacifisti si preoccupavano più di sapere chi di loro avrebbe capeggiato il movimento che non di adoperarsi in modo concreto contro la guerra […] Ma ancora più raccapricciante, a parer mio, era il fatto che la prospettiva di una carneficina fosse causa di piacevole eccitamento per, si può dire, il novanta per cento della popolazione. Dovetti ricredermi sulla natura umana (Bertrand Russell, Autobiografia, Longanesi, vol.II)
*
Torna, di quando in quando, quell’improvvisa accensione di meraviglia di fronte al livellamento delle notizie sui quotidiani, anzi sulla carta stampata in genere; e sul video: notizie atroci di guerra e di cronaca nera si stendono con uguale neutralità e nonchalance accanto a noterelle rosa e di pettegolezzo mondano. In prima pagina un grosso titolo per l’ultima strage in Vietnam di civili gratificati del lurido fosforo giallo e del satanico soffio dei defolianti alla diossina lo trovi affiancato a una prodezza di pura scemenza mondana di questa o quell’attricetta o diva degli schermi o madama della cosiddetta alta società.
Una meraviglia come di una scoperta improvvisa, mai fatta prima, mentre si tratta di “ordinaria amministrazione”: del sadismo umano e dell’umana, diffusa, indifferenza al dolore altrui. Il flash fa presto a spegnersi nell’acqua del deja vu, ma ti lascia un vago malessere, un fondo di malinconia sull’inevitabilità di certa malagrazia e malasorte imposta dalla filogenesi antropica. Una necessità di roccia, una fatalità torva che non sempre si riesce ad accettare rassegnati. E torna vano il recitarsi per l’ennesima volta il senechiano ducunt volentes fata, nolentes trahunt. Si ha un bel dirselo: l’humor atrabiliare scorre indisturbato nei suoi canali. Per un po’ di tempo, si capisce.

Rileggendo, mi accorgo che dovrei correggere in parte quanto scritto sopra. Vero è che la prima impressione registra l’equivalenza anodina delle notizie più divaricate. Ridotti, o ricondotti, allo status di news drammi e commedie di fatti, tragedie e farse di eventi reali recitate a strazio o a diletto della pura carnalità umana non denunciano nessuna differenza. Ma si dirà meglio: la sola differenza è che le notizie tragiche prevalgono su quelle di ordinaria quotidianità (politica, economica, cronachistica…): con  grossi titoloni e altri sbalzi verso l’attenzione del consumatore (cartaceo o televisivo). Nel che si rivela un altro aspetto del “piacevole eccitamento” segnalato dal grande Russell, osservatore principe della “natura umana”: i fabbricanti del giornale, telegiornale e altro prodotto notiziante conoscono i loro polli: e condiscono di conseguenza il piatto delle notizie più attraenti, graduando gli ingredienti perché la
 pietanza riesca la meglio appetibile.
Gulizza direbbe: di che ti meravigli? Non siamo che macchine fagiche, e i cibi più eccitanti (si mangi con zanne di bocca o di occhi e orecchie) sono sempre quelli che più si accostano alla meccanica originaria e fondante del masticare. Indi, le notizie tragiche sono le più saporite.
Ma siccome tutto ciò rende tristi, ognuno di noi nasconde a se stesso questa fatalità nucleare, e produce velami di nobili idee a coprire l’horror che turba e disturba. Ultimo dettaglio: la variabilità individuale del Dna concederà pure che sia soltanto “il novanta per cento della popolazione”, e non l’inesplorabile totale, che si abbandona a quel piacere della strage radicato nel nostro remoto dettato citologico. Quel dieci per cento, più o meno, reagisce con una capacità empatica di vario livello tensivo, ma in ogni caso reale quanto basta a sentire un po’ come nostre le sofferenze altrui. Ed ecco la pietà, la compassione e quant’altro contrasta e limita la disposizione sadica geneticamente fissata nel nostro destino di carnivori-onnivori.
Donde, questa tirata (forse ripetitiva, in questa sede)? A confessartelo, quaderno, si rischia di rafforzare la confessione del Russell. E’ stato un seguito di nessi che dalla somiglianza di un’alunna con una mia prima passione d’amore mi ha rituffato in quel remoto passato e fermato davanti a due ordini di fatti. Primo: la fanciulla, appena 14 anni (meno qualche mese, forse), ma già formata e sensibile, mi confessò un giorno, con sorridente ilarità, che a lei piacevano gli scenari di guerra, quadri, fumetti, sequenze di film e quant’altro. Secondo. Io, da ragazzino delle elementari, diciamo dalla terza in poi, sfogavo la mia attitudine al disegno copiando scene di guerra dalla Domenica del Corriere (quante “copertine” di Beltrame e di Molino copiai con innocente diletto!). E se vuoi un altro particolare, ti dirò, quaderno, che ci guadagnavo pure: vendevo, infatti, per mezza liretta quei disegni (di solito pari a mezzo foglio modello A4) ai miei compagni di classe (o, eventualmente, di altre classi, informate dai miei compagnetti sventolanti i miei lavorucci). Disegni di riproduzione accurata, svampanti di colori e di evidenze drammatiche.
Che successo, quei primi conati di mercatura artistica! Avessi continuato…
Mi ferma un altro flash memoriale del contesto qui evocato. Un giorno si creò malumore fra me e il mio compagno di banco (ero, forse, in quarta) che era fra i miei clienti più convinti. Non ci parlavamo (chissà per quale futilità). Il ragazzino aveva comprato la mia ultima fatica, un’affollata scena di Beltrame (o di Molino?) crepitante di bombe e fuochi, militari colpiti e aerei turbinanti, impegnati a sganciare quelle promesse di mala morte. L’indomani, appena seduto al nostro banco, tiro fuori un disegno identico al venduto. Il ragazzo lo guardò perplesso, mi guardò, aprì la borsa, in sospetto di furto, e naturalmente vi trovò ciò che vi aveva messo dentro, compreso il mio disegno. Con l’innocente malizia dei ragazzini, avevo montato quello scherzo per suscitare il suo sospetto e la sua sorpresa. Naturalmente, non mancò l’occasione di piazzare anche quella replica identica

14 ottobre, mezzanotte

Ancora blasone del mio pascaliano divertissement, eros sbalza il muscolo nevrotizzato a 100 pulsazioni e più. Il reticolo di aculei che lo pungono ha nomi antichi: emozione dell’attesa, ansia dilagante, trepidazione senza freni. In una parola, schietta come la mia nausea, paura. Il solito introibo umorale. Poi, la luce esplode. Dopo tanta frustrazione e limbo, questo squarcio di fuoco benigno è grazia sufficiente, assistente e santificante. Gli occhi della certezza aprono lampi sul drappo dell’imbrunire. Solitudine e silenzio, condizione ardua, di faticoso acquisto e paziente costanza, incidono il nostro affanno. Preghiere, gesti, implorazioni, torsioni di corpi stretti tra la paura e il desiderio. Sintonie di tremori e contrappunto di brace sul pallore irresistibilmente ghiotto del più seduttivo sembiante del mistero ontologico. Sotto lo sguardo del destino, anime avvinghiate soffrono l’incontro-scontro delle non fusibili fisicità. I
 veli-metafora del tabernacolo si lacerano, dita tremanti avanzano nei penetrali del santo dei santi. L’esorcismo di Nostra Signora Nera è umido di mucose destate. E l’umile stanza, quasi disadorna con i suoi mobili essenziali, mi diventa covo, tana, caverna. Spazio chiuso a proteggere, disabitato, tranne che per la coppia in peccato di furtivo edoné. Una specie di grotta di Lourdes ripulita dalle bave del Sacro convenzionale. Ma anche ricovero esposto, una casa sulla strada: un ritorno anticipato, un intruso casuale che bussi dall’imbroglio della parentela e dalla precarietà dell’amicizia, e l’incanto sfumerebbe in una nuvoletta di scomposta delusione. Se non di peggio. Neanche le grotte sacre sono inviolabili dagli alieni. Ahimè!

Memento mori. Ho paura. La pallida fobia ha avuto ragione della mia fretta. Domani, che sarà? Un fluido elettrico corre le vie dei corpi inchiodati ai pilastri rigidi della responsabilità civile, ormoni affrettati sciamano per le ferrovie neuronali disturbate dall’imperativo non categorico. Questa corrente di terrore paralizza le gambe di Cupiditas. Che si ferma al di qua. Sempre al di qua dell’esito. Ma gli emisferi del mondo conciso furono pressione delle mie brame, palme adoranti lanciate verso le prode del geloso segreto. Ah, quest’ansia di conoscenza che gonfia le nostre cellule. Che sarà di me, di noi? Di noi due, di noi tre, di noi quattro? Cari fantasmi della Responsabilità intrigante, come rimbrottate fragorosi! E vani, se esistono attrazioni fatali.
E intanto il moi frivolo si domanda: l’umido uscio di Afrodite cadrà ai piedi dell’impazienza paziente? Quel mélange, mon Dieu! Un insinuante, saltellante sentore di morte mi accompagna in ogni pensiero fantasia emozione scivolata fuori dai sacri testi. Sfondo inamovibile, ora silente ora clamante, Thànatos batte, di nuovo, il suo orologio inflessibile: ora lento, ordinario; ora veloce, incalzante. E sempre ammonitore ghignante sopra gli acquisti non autorizzati del sottoscritto filosofante.
Forse è per turarci le nari che mi tuffo in te, candida compagna delle mie notti solitarie. Tu, complemento del mio corpo, distanza dell’anima, surroga e compi l’interrotto miracolo di queste occasioni non consumate. Voglio dire, non esaurite, ché, quanto al consumare, se non inteso nel perentorio senso conclusivo, non c’è penuria. Né di cinetica esplorativa né di esiti erogativi (specialmente in partibus fidelium, al femminile).
La Gloria non è mio appannaggio, consorte: tu surroga e compi. Elle è un furto, una frode inebriante, che altri avrebbe ragione di invidiarmi. Tu la realtà precisa che scaccia l’ossessione della morte.. Grazia, anche tu, Rina, e farmaco. Nonché espiazione della mia mediocrità. Dono al mio calvario senza apoteosi. Altisonante? E sia.

17 ottobre, ore 1

Albo signanda lapillo? Parlo del testè trascorso 10 ottobre. Questo turgore di voci che non escono! Un umido soffocare. Non c’è un luogo dove si possa gridare? Spiagge dell’Oceano, deserti di sabbia e monumenti di roccia, paesaggi e cieli senza traccia d’uomo, accogliete questo urlo di silenzio che ribolle nella mia anima-corpo. Maudit e felice, ultimo e primo fra gli uomini, moi, un corpo non bello (appena corretto da buoni dettagli), dilaniato da sentimenti padroni, ti saluto, Notte, imago mortis: mito che sorride dietro un velo di lacrime, miraggio che tenta e seduce con i dardi dei suoi occhi. Grazia e dono, espiazione e ceppi. E tu, carne della mia carne: benedizione e inferno, catena di vita e memento mori, gioia e rimorso. Freno alla mia libertà di volere e di prendere, Tu, figlio mio immeritato, perdona queste fantasie lugubri confuse di vitalità vagabonda. Cantano, in viluppi di contrasti, la tristezza del tempo vorace e il cruccio di
 una vita scontenta. Ah, gli exploits eleusini! Che piacere, che dolore. Quale scarificante rinuncia, questa negazione del racconto claris litteris et apertis verbis, questo sorvolo criptico sul dettaglio.
Homines sumus, non dei (Petronio)
 
20 ottobre

Stat sua cuique dies (Virgilio). Rileggendo le ultime notazioni. Un certo imbarazzo per quella carica euforica. Come se dovessi leggerle ad altri, come se dovessero cadere sotto occhi estranei di possibili giudici. Dovessi, fra trenta o quaranta anni, utilizzarle per una racconto autobiografico, dovrei mettervi sopra un bel frego antiretorica. Dovrei. Ma chi sarà mai capace, dei due mezzi ego in contrasto che mi compongono, di sciogliere e riscattare queste pagine erratiche in una narrazione accettabile?
Intanto, lasciamo retorica ed esaltazione tra le loro linee nere. E nel loro nero inchiostro. Lo stile acceso sia almeno spia di una viscerale autenticità preletteraria. Quale che sia. Chi può vivere di sola moderazione? Ci sono momenti (devono esserci) in cui anche la più cauta fitness deve andare a farsi fo…ndere.
O no? Un bel frego…


3 novembre

Fugit inreparabile tempus (Virgilio). Come mi diventa sempre più discontinuo e casuale questo diario. Quanta perdita, in questa rapsodia erratica.. Una data sulla scatola dei fiammiferi: che significa? O crivello indegno della mia memoria! Non raccogli più neanche i lembi del drappo verde: come farò a stare attaccato al tronco?
Forse si tratta di te, madrepora della fantasia. Forse in quel buco di luce sorrideva il tuo volto dalle gote anele.

Vita ipsa, brevis est (Sallustio). Appuntiamo fatti grassi e piccoli eventi.. Magari divergenti. Questo pomeriggio si sono svolti i funerali del mio medico di famiglia, qui in Magna Grecia. Un cancro lo ha “scompaginato” in un paio di mesi. Aveva sessant’anni. L’ultima volta che ci siamo incontrati mostrava già tutti i segni della demolizione interna: tremava, stentava a coordinare i movimenti, a stringere nella mano destra gli oggetti, la penna, in particolare: quasi non riusciva a scrivere la ricetta. Gli avevo detto: “Lei non sta bene, dottore. Mi scusi se mi permetto, ma dovrebbe badare di più a se stesso, deve curarsi. Lasci stare il lavoro, si faccia sostituire e badi a riacquistare la sua salute, prima di curare quella degli altri”. Avevo capito di che si trattava. Lui diceva che, sì, certo, si sarebbe curato, avrebbe badato di più a se stesso, come no? Mi ringraziava dell’attenzione, sforzandosi di essere cordiale. Ma senza riuscire a nascondere un remoto brivido di amara ironia. Io, non so come, ho avuto la sensazione che non volesse curarsi, che fosse rassegnato alla morte ormai incalzante. La sensazione era, anche, che ci fosse un segreto nella sua trascuranza della malattia: possibile che un medico non capisse, non avesse capito, in tempo, e già da tempo, che i suoi sintomi portavano al mostro innominato? E allora perché s’era trascurato fino a quell’aggravamento palese? Quelli non erano sintomi misteriosi: dicevano chiaro che si trattava di una situazione grave, e, con estrema probabilità, di quella gravità. Aveva un cruccio segreto? Lo minava un disamore della vita da delusione personale? Come dirlo, e come negarlo?
Ma chi mi garantisce la fondatezza di questo almanaccare? Anche un medico tende a illudersi, a sottovalutare sintomi e segnali. E poi, magari, quando il guasto viene scovato è troppo tardi per ogni tentativo di contrasto valido.
Grande folla ai funerali. Io e Rina abbiamo “fatto il nostro dovere”, come si dice. Pensavamo di doverlo completare con un “fiore che non marcisce”, ma qui non usa. Grande folla, sì: con un particolare comico. Un gruppo di giovani del Movimento Sociale ha creduto opportuno (e bello) salutare il “camerata” medico col rituale fascista: saluto romano, eia eia alalà, l’appello nominale col lugubre “presente!”. Una farsa. Che non vale la pena nemmeno di qualificare ignobile, prevalendovi l’avventatezza giovanile e il cattivo suggerimento dei “vecchi”. Sì, era un camerata il buon medico. E non è certo il primo caso di collocazione politica sbagliata. Brava gente e buona fede portano, non raramente, a fusioni storpie.

*

L’altro fatto da appuntare è meno drammatico. Anzi, un po’ ridicolo, e molto inusuale. La mia alunna Maria Rosa P. chiede di potermi parlare da sola, e, in un angolo del corridoio della succursale, dove attualmente è ospitata la sua classe, mi confida, tra esitazioni e allusioni, che la sua compagna Concetta C. l’assilla, le sta sempre “addosso”, si mostra troppo premurosa nei suoi confronti. Insomma, le dà la sensazione di un attaccamento morboso. “Morboso?” – fa la mia riluttanza a recepire certe stramberie – “Morboso come? In che senso?” – Il senso filtrava dalle parole scomposte della ragazza, e si insinuava nelle prime fessure delle mie difese. Tuttavia un’istintiva resistenza nella mia fisiologia e cultura lo fermava sulla soglia della coscienza. Che diamine, mica si può pensare subito a sentimenti morbosi appena una buona compagna di classe mostra un po’ di amicizia in più, un interesse più affettuoso. Misi in imbarazzo la ragazza. La quale, comunque, incalzata dalla mia, forse non prevista, reazione (da sprovveduto) si vide costretta a fornire altri particolari: – “Professore, mi creda, e non mi giudichi maliziosa, è tanto che dura questa storia. Lei è gelosa delle mie amicizie; è gelosa dei compagni che mi frequentano, delle compagne. Mi fa delle mezze scenate, inventa presunti rischi per me, attribuisce insincerità alle mie amiche, alle nostre compagne di classe, ai miei amici. Dice che bisogna stare molto attente a fidarsi dei maschi, che sono tutti traditori, tutti pronti a ingannare per divertirsi alle nostre spalle. A furia di esclusioni, secondo le sue insinuazioni, l’unica persona sincera che mi sta vicina sarebbe lei. E ora comincia a stendere un po’ troppo le mani, e, quando ci separiamo, schiocca baci piuttosto strani per un’amica. E poi, fa certi discorsi sulla bellezza spirituale delle vere amicizie femminili, sulla dolcezza della confidenza assoluta, e altre cose curiose. Al mare, l’estate scorsa, con la scusa del confronto personale, studiava le mie forme, commentava su questo e su quello. Insomma…” – “… insomma, non sono fantasie tue, ma segni convergenti di una situazione affettiva che deraglia. E che non ti piace proprio.” – “Piacermi? Mi provoca disgusto” – O Cristo, anche questo mi doveva capitare, le confidenze delicate delle alunne fiduciose. – “Hai cercato di farle capire che non è cosa per te, che non te la senti di valicare certi limiti?” – “Come no? Ma lei insiste…” –“Forse la tua ritrosia non è stata abbastanza decisa?” – “Professore, non posso certo insultarla, è stata così premurosa con me, come faccio?” - “Non c’è bisogno di insultarla, ma di una più marcata dimostrazione di indisponibilità non potrai fare a meno”.
Mi chiedeva consigli, mi faceva capire che avrebbe gradito un mio intervento diretto. Ho maledetto ancora una volta la mia faccia: che kacchio vi leggono le mie alunne per eleggermi a loro confessore? Non tutte, certo, ma quelle più aperte, più fidenti e introverse, mi trascinano volentieri nei loro problemi, e mica solo scolastici. Non una o due volte, mi era capitato di ascoltare confidenze intime, ma si trattava sempre di rapporti normali, tra ragazze amiche e compagne di scuola, tra ragazze e ragazzi, tra ragazze e famiglie. Una cosa simile ancora non s’era presentata alla mia disponibile ribalta. Che cosa dirle, come tirarmi indietro da quella mezza sollecitazione a intervenire sull’amica troppo amica? Breve. Dissi che, sì, avrei cercato di parlare a Concetta (ma chi la sospettava di gusti particolari?), di farle capire l’opportunità di fermarsi, di contentarsi di una buona amicizia senza complicazioni. Avrei tentato, cioè, di accontentare un vampiro con un bicchiere di latte. Vedremo.
Ti ho già detto, quaderno, che Lella La Mela, la compagna di classe di Susanna Castrato, si mostra vieppiù gelosa della buona amicizia che lega costei alla mia famiglia? Ed evita di incontrarla in casa mia, viene, quando viene (da tempo più raramente), in ore diverse e di improbabile incrocio con quelle di Susy. Il feeling, così franco e ciarliero, della scorsa estate perde calore ogni mese che passa. La cosa mi dispiace, ma non so che farci. E mi chiedo: era, poi, davvero così termicamente sincero? Il feeling, intendo. Il poi insinua qualche sospetto nel prima. Che cosa di più naturale che la rivalità affettiva fra ragazze interessate allo stesso soggetto maschile, compagno di classe o professore, con secondi fini o senza? Niente d’imprevedibile, insomma. E tutto nella norma. Dell’universale mediocrità emozionale e dell’eterno femminino relazionale.

martedì 17 febbraio 2009

Susanna frammento 14


17 settembre, ore 23 e 45’

Pochi segni per pochi eventi. Nel privato più privato e personale.. Primo dei quali, l’ingresso dei nuovi mobili in questa stanza, ora più legittimata nella sua ambizione di essere studio: un bel tavolo lucido di finto massello ligneo, una poltroncina imbottita, delle sedie per ospiti, una libreria bonzai componibile ad angolo, una mensoliera per dossier in carpette di varia misura.
Poi, una bella gita in macchina oltre lo Stretto, nella seducente Trinacria turistica e panoramica, con amici calamagnesi: l’avvocato Carolui, la moglie Angelina, la prosperosa figlia diciassettenne, di indole taciturna ma cordiale e pacata, io, mia moglie, il piccolo. Danzano nel ricordo ancora fresco visioni di luoghi-incanto, potenziati in un rinverdito fascino dal piacere di poterli mostrare agli ospiti, di poterne illustrare e rivelare i siti e gli angoli più suggestivi, ignoti ai visitatori. Taormina, innanzitutto, più che mai “perla dello Jonio” e inesauribile scrigno di sorprese vedutistiche. E poi Realpolia, Ciclopia, Castelrupe, Liotria, i paesi subetnei: una lunga corsa con brevi soste concitate, per un assaggio augurale. Salvo che a Taormina, nelle cui sottostanti spiagge abbiamo fatto un folto bagno collettivo, corona apicale di una permanenza protratta e distesa.
Una macchina da presa alle prese con le bellezze dei nostri panorami, riprese fulminee e saltellanti. E poi villa Beltini, a Liotria, un elefante, pacioso e saggio, delle scimmie petulanti e avide, bei pappagalli rossi e multicolori, disposti a concedere qualche saggio fonetico. Breve incanto. E tanta allegria nel cervellino trillante del piccolo Giampiero, affascinato dalle scimmie, dall’elefante, da quegli strani uccelli parlanti. Tutti contenti dell’esperienza, i nostri ospiti, che, stranamente, non conoscevano proprio quei luoghi. Almeno le donne, l’avvocato essendoci capitato qualche volta, ma per impegni di lavoro, senza agio di visite e godurie.
Più dolce al palato della Memoria una passeggiata notturna per la circonvallazione del nostro paese, fino alla piazzetta di Santa Sofia, la sosta sui gradini dell’alta gradinata monumentale, di fronte al nastro teso del corso principale che scende dritto al centro. Scrigno di ricordi tenaci, il breve comprensorio che include piazzetta, chiesa e due palazzine, ritrovava l’antica patina di magia degli anni adolescenti, delle sere e notti d’amore e dolore precoci. Da lustri non vedevo quei fantasmi di pietra lavica in queste condizioni di tempo e solitudine. Nella compagnia degli ospiti, stavo un po’ dentro e un po’ fuori, con loro e con la mia Mneme prodiga di risvegli euforizzanti.
*
Qui, in Magna Grecia, la “lotta” prosegue. Crescono ostacoli. L’essere m’illumina della sua presenza raggiante, ma elude l’ente che ne tenta il contatto elisio. Si difende. Vorrebbe smussare le punte vogliose che lo sollecitano. Il mio siamese estetico ricama teoresi commosse. Le porzioni sub-trascendentali intrecciano complesse operazioni avvinghianti. L’esito si erge in tensioni circolatorie rosse di spasimo. L’estremità allucea dell’espansione operante giunge al fronte coperto del mistico pomo, e se ne avverte nel contesto somatico trascendente la risonanza di pronto riscontro. Scatta, infatti, la chiusura mistica delle colonne del tempio attorno all’espansione indurita. E una delizia scorre dentro le vene ad accendere piccole estasi controllate nel mio reattore ontico sintonizzato sulla trascendenza tentata. L’essere, infatti, resiste, ma non ignora la pietà concessiva: per esempio, stringe, ormai, con le sue dita di fede, le
propaggini estreme della cupiditas rigonfia di tenace interesse. Ne vibra, seppur mutilato, il rapporto ontologico, e brividi di voluttà circolano per i canali invisibili del presente ctonio. S’accendono i ceri della speranza, ultima dea. Il rapporto conoscerà distanze più lunghe sul quadrante del tempo: l’essere si difende e invoca pace e oblio. Per sé, e per la mia sofferenza, che cerca la fede dell’incarnazione.
Matematica e metafisica: vecchio connubio, antica contaminatio. Fertile, a volte, di impensati sbocchi: conosco professori di matematica che hanno preteso di dimostrare, more geometrico, l’esistenza di dio. Del dio trascendente e mitico, intendo, non del Deus sive natura spinoziano. L’ingegnosità umana è grande, ha osservato un filosofo e storico della filosofia. Specie se si tratta di servire nostra sorella e madre fame corporale – chiosa il sottoscritto. La quale, non per niente, sa anche mascherarsi di pura e cristallina spiritualità transuranica.
*
Vagando e divagando. Dio mi guarda con i suoi occhi d’amore. Il buondio, che s’è fatto uomo e carne, e s’è lasciato straziare. Io vorrei esserne degno, ma il mio scetticismo è più forte del suo sguardo amoroso. S’è nutrito troppo di evidenze il nostro scetticismo, per potersi genuflettere alle belle (o insulse?) bugie consolatorie. S’è fatto crocifiggere: e per cosa? Homo biotrophicus è uguale nei millenni, stabili come rocce d’acciaio le sue pulsioni basali. E peggiorato (o migliorato?) nelle capacità di distruggere e seminare dolori e inventarne di nuovi. Sacrificio inutile. Come mille e mille altri, precedenti e seguenti al calvario. A quel Calvario. Tutto quello che i miti del dio-uomo che si lascia tormentare e uccidere, per poi risorgere e spargere benedizioni ben materiali sul desco del suo popolo, riescono a dimostrare è la cruda verità della bestia umana, fatalmente assassina perché originaria struttura trofica, come
qualsiasi altra creatura animale, e perfino, in alcuni casi, vegetale (non sono un geniale scherzo di madre Natura artista le piante carnivore, bulimiche di carnuti insetti beffati da seduttivi inganni?). L’immensa tela culturale delle mitologie e religioni con i loro riti crudeli copre, complica, e colora di mille peculiarità locali il tentativo salvifico di gestire questa tremenda verità fisiologica: Homo necans dalle molte vite. E dalle troppe risorse distruttive. No, non nego né svaluto le opere dell’ingegno e della mano, le scienze le arti le belle scritture: dico soltanto che non compensano. Troppa la sofferenza che la distruttività implicata nella struttura fagica sparge fra le carni sensibili. Se è vero che le più strepitose meraviglie della conoscenza, tanto celebrate come pura teoresi (o contemplazione disinteressata, che dir si voglia) puntano, prima che a curare e confortare, a potenziare le capacità aggressive del rettile
giurassico in noi. Sì, è questa la verità pudenda e rimossa, coperta e drappeggiata in cultura e scienza, arte e poesia.
La quale verità, comunque si mascheri, mostra sempre la Morte trionfante, ubiquamente sincronica e infinitamente diacronica: come prima, più di prima. In questi felici tempi di frenesia scientifica e impazienza tecnologica, le sue possibilità applicative si sono dilatate in iperboli pantoclastiche. E in fondo, una luminaria nucleare planetaria non sarebbe, forse, il peggiore dei mali. E’ male più scempio, ripeto il forse, questa lenta agonia che mastica speranze, illusioni, promesse e menzogne; forza di vita e dolore d’amore.
*
Scendendo al personale e privato, nella cripta chiusa di questo silenzio notturno, un confiteor esigente recita amare giaculatorie. Il bluff mi appare la risoluzione definitiva della mia morte lenta: in amore, nel lavoro, nell’amicizia, nell’ambizione professionale e letteraria. Io sono tutta una frode.
Beato Platone e le sue eterne Idee. Ci ho creduto anch’io, per anni; fino a quel figlio legittimo della modernità che è lo spirito facitore di idee e categorie. Poi mi hanno insegnato che il corpo è tutto. Lezioni della bassa empiria e stimoli di maestri hanno spazzato via la stagnola luccicante dell’iperuranio, vuoi trascendente e schietto, vuoi mascherato d’immanenza. E’ rimasta la fede nelle certezze che si toccano con le mani (e anche coi piedi). L’anima è nulla, il sentimento zero, una burla quasi criminale la ratio naturalis e quella extrafisiologica. Ovvero, traducendo dinamicamente: l’anima è soltanto l’animazione del corpo, il sentimento una modalità della originaria tensione fagica, sempre bivalente (appetire-ingerire, o respingere come non-cibo, e magari distruggere mimando l’atto fagico, senza consumarlo compiutamente); la ratio, nelle sue varie modalità operative, una multiforme tecnica della fame, capace di mille
trasposizioni. Perfino un elettrone è corpo, e fisicità totale ogni moto dell’anima e del cuore, dispersi negli intrichi neuronali e nelle tempeste cinetiche delle neurotrasmissioni. Tutto questo sa di materialismo volgare? Viva il materialismo volgare.
*
Eros ha smesso le ali da quando mi frequenta nel circolo degli anni sessanta: reclama merce in contanti di sensi e sesso, anche se di modesto peso e strozzata dialettica; e lascia alle euforie dei drogati del sacro le cambiali avallate dal cielo. Non pretendo sempre il tutto e l’intero: la parte mi basta ancora dove l’intero reca il segno della minaccia e un vago odore di morte. Civiltà, non è forse fuga dalla morte, esorcismo della violenza bruta? Un po’ forse, se vogliamo. E un po’ bugia, ma allunga la vita. A volte, o sovente, viltà e civiltà si confondono. “Essere educati vuol dire vivere naturalmente al di là della forza”, lessi in un celebre libro. Giusto. Ma bisogna tradurre: vuol dire, anche, rinunciare al pasto completo. Spesso, contentarsi delle briciole. O degli antipasti. Io mi contento. Sono civile, educato: vorrei vivere a lungo. Cioè, morire lentamente. Ho dei doveri.. Di marito e di padre. Di padre, soprattutto.
Perciò parlavo, lassù, di “modesto peso”. E di “strozzata cinematica”.

18 settembre
vestibolo della Notte

Questa frode atroce che diciamo Vita è alternanza di varia morte. Si vive morendo, si vive uccidendo: uomini, animali e piante. E minerali, se la convenzione della distinzione triplice concede una deroga. Tanto miracolo non ha bisogno di padreterni creatori e provvidenti. Pure, la paura della bestia umana reclama altari e incensi. E la fame ingorda dei sapientes brucia ancora chi rifiuta tanta mortificazione. Ci sono roghi anche oggi: bruciano corpi di carta e inchiostro, con legna di calunnie e di silenzi. Bruciano tranquillità e benessere, appagamenti e “corpi gloriosi”, di notorietà e di carriera. Condannano, ove possono, all’indigenza i reprobi (cioè, i resistenti alle sirene incensiarie) e premiano i convertiti. Che sono spesso furbi voltagabbana e damascati da estrema unzione.
Quanto a me, reclamo corpi in senso stretto e trascendenze corporee in senso largo. Preferisco il labile, evanescente certo al fatuo, iper-ipotetico, ambiguo incerto (ovvero, sogno infantile di eternità mai dimostrate). Quel labile evanescente e fugacissimo certo è ben più denso dei sospiri spiritali e delle flatulenze metafisiche. Und liebe ich dich in contanti di incantevole Fleisch. Bene irrorata e benissimo innervata (concordanze in traduzione italiana). E’ qui che il “labile evanescente” si rinsalda e inturgidisce, si fa febbre di sangue veloce, stringe i pugni del concreto in faccia all’astratto dell’eterno.. E non baratta col cielo di sospiri l’umida densità del suo spasimo di fibre canali tubi e molecole saettanti.


19 settembre

Sto per inviare al ch.mo lincèo prof. Nicola Abbagnano un ritaglio della Gazzetta dello Stretto con la mia recensione al suo capolavoro teoretico, Introduzione all’esistenzialismo, ora ristampato dal “Saggiatore”. La recensione, in realtà, è una carrellata sull’intero itinerario speculativo del filosofo, e storico del pensiero, dalle precocissime “origini” al ricolmo, indaffaratissimo oggi. Ecco la letterina di accompagnamento.

“Ch.mo Professore,
tempo fa Lei mi incoraggiò, con gentili parole, a mandarLe i miei articoli di filosofia, in particolare quelli che la riguardano. EccoLe, dunque, una recensione alquanto panoramica al Suo Introduzione all’esistenzialismo (che uscirà anche su I problemi della pedagogia). Vi unisco la preghiera di scusare le eventuali imprecisioni e le inevitabili semplificazioni: il carattere e la destinazione dello scritto ne sono, in buona parte, responsabili. Mi scuso anche di quanto sto per chiederLe. La copia dell’Introduzione e quella di Filosofia, religione, scienza in mio possesso sono ridotte in pessime condizioni: se potessi rimpiazzarle con una copia nuova che mi venisse da Lei (e magari recasse la Sua firma e qualche parola autografa) ne sarei, ovviamente, felice. Ma, naturalmente, se la cosa Le creasse difficoltà, sia come non avessi formulata la richiesta (forse un po’ “impertinente”). / Si abbia i miei più distinti e, se mi consente, cordiali
saluti.”

In calce, firma e indirizzo. Alla buonora.
Troppo cerimoniosa? Ma no: la mia ammirazione per il Salernitano è antica e sincera. Quanto il rispetto che mi ispira. Ed è ammirazione e rispetto anche per lo stile divulgativo, quella chiarezza espositiva e lindura di lingua che ne fanno un elzevirista principe. Caso raro nel panorama della filosofia italiana contemporanea. Anche di quella che onora la stampa quotidiana.
Ma sì, forse, a ripensarci, un po’ ruffiana è. E sia. Infine, chi sono io per esibire “sostenutezze” degne di ben altre altezze?


Domenica 26 settembre, Ore 0,35

Ohimè, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da quali contese e gemiti nascesti! (EMPEDOCLE)
Una volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte, o piuttosto riposare; e lasciano figli, in modo che altri destini di morte si compiano. (ERACLITO)
(v. I presocratici, a cura di G. Giannantoni e altri, Bari Laterza,
*
Approfitto di questa vacanza di stanchezza per condensare in gocce (magre) di inchiostro un paio di pruriti emozionali: qualche lampo di gioia nervosa, spenta dalla paura; qualche torsione viscerale di tedio recidivo; e cenci di memoria inzuppati di scoramento.
La gioia. Felicità, avrei detto in altri tempi. Il sole nelle mani non lo è forse? Succhiare secrezioni di speranze rapprese in fremiti di istologia orale, o premere il grembo velato del lungo sogno in metamorfosi di anatomia vibrante – dita di mani prensili, questa volta, invece di alluci – non è felicità? Distanze di ore consumate in sospiri di sguardi impotenti; lontananze di giorni mesi anni coperte – prodigi della circospetta tenacia – in tête-à-tête già declinanti sulla china della disperata rassegnazione e ora realtà pulsante di sviluppi metafisici superattivati. Trepide attese di lungo corso, progetti librati tra caute rêveries e delibazioni oniriche avvelenate da livide albe ghignanti di banalità quotidiana, calate, di colpo, nelle pieghe di un sogno di carne: tutto questo è merito di buona sorte e implosive convergenze astrali. E sostanza di mistica edoné non sottovalutabile.

Paure. Un ronzare di sospetti, un mobile cerchio di sguardi ambigui, ancestrali potenze in letargo che l’Imprevisto potrebbe destare e scatenarmi addosso dall’ara dei Diritti e dal podio degli affetti parentali. Con esiti catastrofici, che non ho la forza di fermare in immagine oltre il microtempo del lampo. Lo spettro della chute definitiva semina terrori dentro canali di vita e osmosi di sangue. Terrori in mitraglia di ricorrenti flash, che mozzano il fiato alla gioia sopra onorata (e sia pure in timidezza di cenni mascherati). La gioia delle chances lungamente cercate, e con fatica e ingegno costruite, e poi, al dunque dei fatti, avvelenate, un po’ (molto?), da questi “terrori da misfatti”, evocatori di scatenate Erinni.
*
Tedio. Di questa compressione, di questa regolarità quotidiana gocciolante stupidità: discorsi vuoti di senso che non sia di immediata empiria, parole schiacciate sulle supreme necessità della biologia domestica – spese alimentari, arredamento, consorte aliena da ogni solletico di cultura e traboccante di casa mobili in arrivo passeggiate parrucchiere, partite a carte serali con amiche, sbadigli davanti al televisore-altare.. Tedio, di questa impotenza che mastica una sola certezza, che lo stillicidio delle ore e il rotolare dei giorni inchioda all’antica paralisi: sein zum Tode, essere per la morte. Magari in versione banalizzata.
Ma veramente: che fare al suo cospetto? Lavorare, scrivere, amare, mangiare con le nostre mille bocche: non è un annegare la paura, la grande paura fondamentale, uno stordire, ubriacare la coscienza, la lucida consapevolezza dell’Inevitabile strutturale? La quale coscienza, poi, non si lascia offuscare e imbavagliare con facili riti; non le si può tappare gli occhi né turare le orecchie. Tutto ciò che la circonda, vivo o morto, le canta l’eterno refrain: a che? Il saldo è lì, sul tavolo della vana fatica. Verrà la mano invisibile e apporrà la sua firma inappellabile. Verrà: prima o poi. E la distanza tra quel prima e quel poi, fosse di molti decenni, non sarà, infine, che una sfumatura appena percettibile. Il pneumatico si affloscerà, e novant’anni saranno come dieci mesi o trenta settimane.
Verrà la morte, e non avrà i tuoi occhi. Verrà, e non avrà occhi. Non omnis moriar? E che resterà? Quattro fogli imbrattati, un vasto ronzio di maldicenze, un lembo di “corpo glorioso” in balia di mille zanne intinte nell’odio (della versione teologica, soprattutto). Una striscia di memoria bucherellata, che si scioglierà al calore dei giorni lungo le vie del cuore troppo facilmente saturabili delle “persone care”. E anche le persone care arriveranno..
Nihil admirari, nihil metuere, nihil cupere? L’apatia stoico-spinoziana, la compressione buddistica del desiderio (della plurima fame sempre in campo), l’“etica della conoscenza” (Jacques Monod): rinunciare a vivere, sterilizzarsi per non soffrire. Sciocchezze. In ogni caso, bisognerebbe avere in corpo altri nervi. Anche se un pizzico di sano buddismo non farebbe male. Ma soltanto un pizzico. Rapsodicamente, come Dio-Dna concede.
Spararsi? C’è il bambino. E c’è, via, anche la madre. Anzi, le madri: forse che la mia frena di meno? Ci sono le poche persone care. Scuse, alibi vili? Può darsi. Ma anche verità di rapsodiche strette alla gola e nodi di pianto.
Divertissiment pascaliano? Secundum quid. Divertirsi come de-vertere, distrarsi: dai pensieri gravi, dai massimi problemi, o patemi. Non resta altro: fra le inutili pseudo-soluzioni, questa, di stordire la coscienza morsa dalla verità zannuta, è la meno frivola. Tanto meno, quanto più frivola viene giudicata dal moralismo ciarliero. O dal pragmatismo frenetico dell’affarismo mammonico. Lavorare, fare concorsi, abbracciare delle convinzioni, fare finta di abbracciarle. E ciarlare, ciarlare. Il bello (brutto) è che ho scelto un mestiere nel quale la ciarla è (quasi) tutto.
Ma via, tregua: affidiamoci a quel quasi: c’è spazio per contrastarvi il Tentatore. “Ubriacatevi” – suggeriva un Intenditore –: “di vino, di poesia o di virtù…Per non sentire l’orribile peso del tempo che ci piega le spalle”. O qualcosa di simile (cercare il testo per raddrizzare la citazione? Vedremo).

venerdì 13 febbraio 2009

Susanna frammento 13


1 agosto, ore 0,15

Certo, una rosa di scelte si apre sempre al nostro debito verso la “dimensione del possibile” (linguaggio filosofico); ma resta inconfutato il fatto che tutte le scelte sono inscritte nel cerchio del nostro destino profondo. Ossia filtrate dalle strutture immutabili della nostra fisiologia molecolare. Immutabili, certo. Almeno fino a questa epoca della scienza pertinente e manipolante.
Ripeto vecchi errori, ripeto antiche “vigliaccherie”, ripeto remotissimi gesti atti rinunce (soprattutto) con una puntualità che sgomenta. Sono capacissimo di fantasticare occasioni felici, di lavorarci per crearmele, di riuscire a produrle e poi, al momento di coglierne il miele, me le lascio sfuggire. Non faccio un passo per raggiungere le promesse, per tradurne in gesti e azioni le pazienti lusinghe. Non riesco. Uno strano, improvviso blocco mi ferma. Mi prendono vili prostrazioni, esito, rimando, peso e soppeso eccessivamente i possibili effetti di ogni gesto. Finché l’occasione sfuma. E mi sento trillare intorno un fantomatico riso di scherno. Come se le cose, i miei libri, il tavolo, tutti gli oggetti della stanza, testimoni coinvolti delle mie fantasie, si animassero a produrre rimproveri, ironia, sarcasmo. Un’esperienza lacerante. A suo modo. Dopo, risalire la china dal capitombolo è impresa faticosa e di lunga durata. Così mi accade
nel lavoro, così nelle piccole vicende della vita quotidiana. Così, soprattutto, nelle parentesi “estetiche”: dove il fatto (anzi, il non-fatto) è più frustrante. Una specie di pulsione di fuga davanti a previsioni d’ostacoli difficili e di faticose conquiste. Insomma, paura di dolorosi insuccessi e penosi rifiuti.
Oggi? Ma non vale la pena parlarne. A che alimentare la tensione del rancore che ci divide? Noi, fratelli siamesi che si odiano. Uomo senza qualità scisso tra le qualità e l’uomo, questo e quelle incollate dall’impotenza. Impotentia operandi.
I fiori profumano, ma io non li colgo. O i petali che colsi nel breve tempo, già scivolato nelle fauci del Mostro onnivoro, sono aghi di rimpianti nella carne avvilita. Sono labbra protese, forse invano, sorsi nuovi che nell’arco declinante non hanno benedetto la gola riarsa. Insomma, pas suffisant ce que j’ai fait…
*
Chi ti contende a me? Che cosa da me ti allontana, gloria, successo, oblio della tragica oscenità del vivere? Tanti nemici, ma il nemico più forte e tenace sono io stesso, sono i miei nervi ignobili, i miei ormoni deboli, il mio Dna rinunciatario. Questa era l’occasione del buon successo. Me la sono lasciata scappare, scivolare tra le dita. Incapaci di stringere, vile che sono. Di stringere il duplice serto: del serio e del lieve. Dell’etico e dell’estetico.
Questo flusso (lento? veloce?) di giorni vuoti, ma aperti all’attesa; questa corsa d’ore bruciate nel sole e nel sale marino, saranno il mio prossimo e più acre rammarico. Masochista senza fulgori, mi lascio rodere da giorni senza balzi di possesso, senza paci d’acquisti.. La cattiva coscienza pompa un sangue vieppiù malato e la banalità m’imbroda nel vischio dell’inerzia irredenta. Forse (ma perché dico forse?) la materia di cui è tessuta la mia carne è, senza rimedio, la viltà. E allora è inutile, Caso, che protendi le tue concave mani ricolme di inviti. Sarò sempre colui che attende. Che attende ciò che non sa prendere. Che rimanda, rinvia, sposta a domani. Colui che sogna, ma ha paura dei sogni che scivolano verso la realtà. Uomo dell’eterno poi, del futuro che langue e sfuma…
Care presenze protese. A che pro? Non sono degno del vostro consenso. Dileguate pure verso migliori esiti: il vostro sorriso è sprecato con me.

*
Dieci lavori iniziati, nessun volume al mio attivo. E gli anni non sono più pochi. Perché questa incapacità di completare, di chiudere e concludere? Perché la parola fine mi si trasforma in sberleffo quando i miei lavori si avvicinano al compimento? Forse perché l’antica fame non è ancora abbastanza trasposta e sublimata? Voglio dire: la porzione destinata a quella metamorfosi non è ancora proporzionata alle ambizioni? Ma quanti che di me migliori non sembrano conciliano opposti e divergenti! A me non è sufficiente il corpo, e la stanchezza è la mia dimensione più vera. La mia forza erompe in getti magari impetuosi, ma ricade presto in pioggia di stenti. La tenacia, la costanza, l’assiduità, la continuità sono valori assenti dalla mia assiologia vitale.
Chissà quante altre volte ho spremuto identiche lagne su queste pagine rigate come sentieri interrotti. La Ripetizione, invece, questa sì, mi concerne. Fin troppo. Ma non quella kierkegaardiana, non la fedeltà, il collante del Dovere, la volontà-voluttà del compito. La mia è la ripetizione ignobile: la freudiana, coattiva ripetitività degradante. Amen.
*
Ora rivolgo un pensiero a te, Occasione perduta. E mi avvio al rifugio dell’antica vergogna. Le mie tre ore di sonno non posso permettermi di perderle (come perdo le buone chances). Meglio se saranno quattro, o cinque.. Il cuore geme sotto gli aculei della sua nevrosi nicotinizzata. Diamogli tregua. O farà le bizze.
Unico acquisto del giorno perso: un altro bagno. Sono andato sott’acqua, ho fatto il subacqueo, mi sono concesso a qualche scherzo di comitiva.. Soprattutto, sono stato un po’ lontano dalla spiaggia con una creatura che alimenta, ignara, i peggiori exploits dello squilibrio domestico. Ad majora. Dicesi il fiore dal gambo corto.
E “mosca” sui conversari marini, a distanza di sicurezza acustica dalla ghiaia affollata. A quando, quaderno, la stura a questo rodìo imbavagliato che brama tracimare contando e cantando? Lascio pagine bianche nei quaderni, con la speranza di riempirle quando che sia. Ma temo che scambi illusione con speranza. Domani, cioè fra qualche decennio, quando li riprenderò, insidiato da nostalgie e rimpianti, non saprò che cosa avrei voluto e potuto scrivere in quelle pagine immacolate. Folle di fatti, di parole, gesti saranno buio totale. Al più, e solo in parte, vaghe ombre di frammenti confusi.
Tuttavia, del dialogo marino di stamane posso annotare l’ispirazione innocente della controparte. Che malizia può tracimare da confidenze adolescenziali di un’alunna promossa ad amica di famiglia? La fanciulla confidava sogni e progetti, sentimenti puri di attesa e sospiri protesi a un futuro amoroso di leale normalità. Dove sarebbe lo scandalo, puntando a un menage regolato in riti e miti, ma di sostanza affettiva salda e profonda? Sì, lo so: Rina non approva queste confidenze fra professore e alunne, anche se condotte in purezza di amicizia. Esagera.

31 agosto, ore 23 e 40’

Ti restano venti minuti, mese delle mie attese. Fra poco le lancette si saranno sovrapposte, e, come le pagine di un libro che si chiude, premerò l’una sull’altra le ali estive della mia irrequietezza sprecona. L’autunno incalza: sentori di vecchie routines filtrano tra i batuffoli sporchi delle ultime nubi agostane. Il lavoro al servizio dello Stato mi riprende. Mi merita. L’irrequietezza sprecona sarà meno sciupona: una bella fetta d’energie e di tempo del mio totale astenico sarà assorbita dal lavoro professionale. Il meno contestabile al tribunale di Rina.
Oggi ho rivisto vecchi colleghi, graziose colleghe, giovani volti nuovi. E anche rospi di colleghe.
*
Ma oggi ho “rivisto” soprattutto te, grazia delle grazie, fiore di luce, spina nel cuore. E succhiando il miele della tua bocca ho incontrato i miei anni lontani, le notti agostali dei miei giorni iridati. Ho immerso la mia madeleine nel tè delle tue labbra e la folla dei ricordi s’è sciolta in nuova linfa di vita col tremore del mio cuore-corpo.
Ho chiesto al Mistero, con l’animo di un tempo, come avvenga che tanto convergere di linee, colori, angoli morbidi e delicate masse; che così sciolta danza di molecole e atomi e quanti di luce stringa l’esito inverosimile di tanta perfezione. Che meraviglia se un tempo più felicemente ignaro poté erigere troni d’Olimpo a siffatte vittorie della Forma sulla Materia? Dea: chi più di te? E se questa Presenza tanto mi tiene che ogni sibilla svanisce nel piccolo registro dei miei calcoli strani, non ho diritto, quaderno, di dire: miracolo?
Esagero? Certo. Ma in difetto, non in eccesso. Se, infatti, un gesto si potesse giustificare in questa chance, dovrebbe portare l’indice in croce sulle labbra. Quali cose dire, insomma, che non sia spreco, scacco, offesa alla verità? Sciocco: dove trovo il coraggio di stroncare quei candidi impotenti che tentano poesia cianciando d’infinito, d’eterno, di cieli immacolati? Quando l’essere sorride da tanta armonia e seduce con siffatte armi di perentorio fascino è quasi più sciocco non essere sciocchi.
Salve, o Sconosciuta troppo nota: altra realtà mi reclama, con grida di bimbo. Ci rivedremo? Congiungeremo ancora i nostri pneuma? Ah, non poterti sorbire d’un solo lungo sorso, ambrosia infinita, insieme con le grida dei bimbi e la pena dell’impotentia dicendi. E il resto ch’è pietà tacere!
*
Rileggo. Una ferita salta agli occhi: una breccia nella corazza ermetica. Devo rafforzare la vigilanza: come escludere che un’incursione della mia mezza arancia possa risolversi in una decrittazione drammatica? Un’incursione indotta dalla mia ricorrente disattenzione. Dovrei cancellare l’indizio. Ma come? Stracciare il foglio intero e sostituirlo con la solita manfrina della chiave e della cifra. Così com’è, il testo non è di ardua lettura nemmeno per un occhio meno sveglio del legittimo partner dei miei. Quella perfezione, quel miracolo, quella grazia: sono indicazioni troppo vicine al quotidiano domestico perché se ne possa equivocare decisamente il senso. E trasferirlo, magari, a qualche remota conoscenza estranea al suo campo visivo. Tanto meno potrebbe riferire a se stessa sì calda euforia celebrativa. Si sa bella, è vero, e non ignora che l’ovvio riconoscimento altrui non mi è estraneo, troppo le rimbalza da ogni sguardo di maschio
(e anche di femmina); ma quanta distanza da questa normalità percettiva a quell’esaltazione vulcanica! No, non andrebbe mai a ficcarsi in pensieri così bislacchi.
Allora: stracciare e sostituire (magari col silenzio appena “soffiato” di brezzoline allusive)? Oppure lasciare e rischiare? Impervio dilemma. Se consideri che la spinta maggiore preme per una scrittura a cieli aperti! E che con sudata fatica freno quella pompa.
Intanto lascio tutto com’è. Del resto, ho la sensazione che non sia precisamente la prima volta che qualche fessurina si sia aperta nella stoffa della cortina protettiva. Sarà quel che sarà. Ma prometto più immanente vigilanza.
Mi accorgo solo ora che sono passati venti giorni dall’ultima pagina. E cinque pagine bianche separano quella da questa. Ancora sarei in grado di riferire i principali eventi di questa doppia decade; ma fra qualche mese, sarà tutto perduto. Spero di riuscire a fissarne qualche scampolo nei prossimi giorni.

(Fogli, codesti ultimi, strappati al quaderno e rintanati fra pagine metafisiche di un grasso volume filosofico: la Logica di Hegel. Collocato sulla mensola più alta della libreria svedese: altezza giusta per la sua (di Hegel, intendo) imponenza. E ritirati fuori, i fogli, dopo tanti anni, per questa trasposizione in video-scrittura)

7 settembre

Oggi, a scuola discussione “teologica”. Il collega di latino mi provoca, incrociandomi nel corridoio: “Allora, filosofo, sempre in rotta con gli dèi? Sempre convinto del tuo baldanzoso ateismo?” Preso alla sprovvista, non ho dato una risposta brillante. “Certo, letterato: più che mai. Hai scoperto qualche verità capace di annullare l’evidenza?” S’era accesa la miccia. L’imprevisto dialogo non poteva che continuare con il solito ping-pong di questi casi. Lui: “Non ho bisogno di scoprire nuove verità per confermarmi l’impossibilità logico-ontologica di qualsivoglia ateismo.” Io: “Quasi t’invidio la beata simplicitas di questa sicumera paradossale. Direi che c’è perfino una certa bellezza nella sua improntitudine logica: la stessa che si coglie nelle stramberie logiche dei bambini.” Lui: “Andiamo sul pesante?” Io: “Direi sul leggero, piuttosto, atteso il calibro degli argomenti sottesi. E poi, non vedi che parlo
sorridendo.” Lui: “Un sorriso che sprizza ironia.” Io: “E’ solo cordialità amicale.” Lui: “Sarà, ma non traspare.” Io: “S’è opacizzata strada facendo. Ma torniamo al fatto, cioè agli argomenti.” “Torniamoci” Ed ecco l’effetto; una lezione di psicologia e di psico-ontologia. Probabilmente un po’ prolissa. E certo inutile.
“L’impossibilità logica dove starebbe? In questo, suppongo (ma in real-
tà, ne sono certo): c’è il mondo? Dunque Qualcuno lo ha creato. Questo Qualcuno è Dio. Semplice, no? Troppo: nell’ora di psicologia io insegno alle vergini menti delle nostre allieve che questo “sillogismo” è soltanto un modesto esempio di artificialismo, malattia infantile del causalismo. Leggi, almeno, Piaget e apprenderai che uno dei parametri della mentalità infantile è proprio l’artificialismo: il considerare le cose naturali come prodotti para-umani, dunque effetti delle azioni di un artefice. Che, naturalmente, viene immaginato, alla grossa, come una replica amplificata dell’unico modello a nostra conoscenza, l’uomo, l’homo faber, produttore di mirabilia. Il vulnus logico sta in questa assimilazione del mondo a una “cosa”. Ora il mondo non è una cosa, ma la totalità delle “cose”. E degli eventi: naturali e antropici. Né questa totalità è esauribile in qualsiasi modo dalle risorse cognitive umane. Un po’ perché
fisica e astrofisica, punte avanzate della scienza di frontiera, scoprono sempre nuove realtà e possibilità di relazioni fra le seminote realtà esplorate. Un po’ perché la “definizione” di una cosa è, ancora oggi, impossibile: nessuna cosa è conosciuta “assolutamente”, nessuna conoscenza umana, scientifica o fattualmente empirica, è esaustiva. Non sappiamo, insomma, dove comincia e dove finisce una “cosa”. Come dire: bisogna aver risolto l’ultimo problema della fisica subnucleare per potere azzardare l’ipotesi di una conoscenza esaustiva. Così stando le cose, ogni oggetto, ogni sostanza, ogni evento rimanda alla totalità degli oggetti, delle cose, degli eventi. Pretendere di accoppiare una Causa efficiente a tanto Effetto è una libertà delirante. Ma anche senza apparato epistemologico, anche accontentandoci della nozione empirica e prefilosofica di conoscenza, resta in piedi l’obbiezione che il mondo non può essere
assimilato a una cosa, a nessuna cosa. Pure usando il vichiano verum ipsum factum, e ammettendo di conoscere (soltanto) ciò che facciamo (produciamo), la combinazione ‘mondo-Dio’ scoppia. Già l’acuto Hume respingeva l’assimilazione del mondo a una cosa, di cui si possa, perciò, pretendere la causa produttiva. La quale, poi, si scontra con altri “vizi” (o vezzi) della mentalità infantile: magismo, pampsichismo, antropomorfismo.”
Lui: “Basta, basta, per carità. Troppa grazia, troppa sottigliezza filosofica. Io mi attengo a cose più semplici, e mi accontento della bella tradizione tomistica: il mondo c’è, implica una Causa prima. Con quel che segue.” Io: “Chi si contenta gode, e personalmente ripeto che il mondo è grande.” Pensiero completato mentalmente con una degna coda: “e pieno di stronzi logici.” Né lui desiste: “Del resto, sono convinto che tu non pensi seriamente, cioè profondamente, con tutto te stesso quello che dici.” Io: “Vero, lo penso comicamente e superficialmente.”

9 settembre

Oggi la tentazione s’è introdotta anche nelle classi. Una delle ragazze più reattive, amica della famiglia del collega bigotto, è stata da costui informata della conversazione di ieri l’altro. E la pimpante donzella, di seconda classe, ha pensato bene di accendere in aula un fuocherello dialettico sullo spinoso tema. Ci sono cascato. Era una trappola? Forse la girl non era preparata in filosofia e ha distratto l’impegno docente su quella conversazione. Ad ogni modo, ho ripetuto le argomentazioni di quel giorno, anzi integrandole con l’altro volto della mia resistenza alla Grande Menzogna. Il volto della verità nuda contro l’idolatria chiamata religione. Ben altro che cose “puramente” logiche, dicevo alle silenti allieve protese al mio verbo: “I miei argomenti contro la superstizione, pardon fede, guardano all’abisso di crudeltà del mondo malriuscito. Il quale, se un sospiro di serietà argomentativa residuasse nel repulisti mentale
dell’atteggiamento fideistico, imporrebbe di supporre un Autore smisuratamente sadico. Ma, si sa, l’atto di fede spazza via ogni consequenziarità logica. Compresa quella stessa che invoca per quel tanto che gli serve a inventarsi un Creatore. Come negare, altrimenti, l’assioma che assegna alla causa ‘almeno tanta perfezione quanta ce n’è nell’effetto’? Dunque: tanta perfezione nel mondo, altrettanta, o di più, nella Causa. E siccome il mondo fa schifo, non foss’altro per la quotidiana strage e sevizie d’innocenti (intendo, cuccioli e bambini), non resta, a fil di logica, che attribuire alla presunta Causa le belle qualità del mondo, anzi amplificate ad infinitum. E a chi mi accusa di ignorare le cose belle del creato, le tante cose belle e buone che pure non làtitano in questa insidenza taroccata, rispondo con nauseata impazienza, che respingo ogni sofisma falsamente equilibratore. Gli intervalli di benessere e piacere fra una
sventura e l’altra non bastano a fare quell’equilibrio. Come obliterare, poi, il fatto, terribilmente esteso, che spesso il piacere coincide con la violenza torturante di vittime impotenti? Né si può invocare una brutale aritmetica in siffatti argomenti. Ricordo Ivan Karamazov: “Se il mio ingresso in paradiso deve costare lo strazio anche di un solo bambino, restituisco il biglietto e dico: No, grazie” (cito a memoria). Poi accompagno Ivan col suo maggiore interprete, Albert Camus. Ma senza ignorare neanche la débâcle del timido Dostoevskij, la sua vita segnata dal trauma della finta esecuzione, la sua resa. Una stranezza che merita l’ingresso-premio fra i mirabilia del credere: dopo un’argomentazione nobilmente sottile, anzi semplice, in Ivan, quel voltafaccia, quel buttare tutto alle ortiche per bere, col minore dei fratelli Karamazov, l’elisir dopante del Ciononostante, è un prodigio della non-logica fedele. O, in altri e più
radicali accenti, della devastazione di “timore e tremore” che il plagio consumato dall’educazione religiosa infantile produce nelle menti degli adulti pensanti e credenti. Pochissini ne risalgono fuori, e non senza dolori.

Fuori dell’aula, ancora echi della discussione. Nella sala professori, mentre sorbivamo il rituale caffè della ricreazione, seduti sulle poltroncine dell’angolo salottino, entrò il preside Timarco, noto massone, e riprese la chiacchierata di cui aveva avuto notizia: lui, uomo di modeste pretese, si accontenta, dice, del Grande Architetto dell’Universo. Non ebbi la pazienza di ripetere gli argomenti humiani, ma lo indirizzai a quella meta. Il cipiglioso appariva un po’ disturbato dal timore che la mia franchezza nelle classi potesse turbare le tenere menti delle giovinette (e relative famiglie, notoriamente molto cattoliche e ligie ai morbidi diktat della sacra Curia). Lo rassicurai sulla maturità delle fanciulle e sulla mia prudenza: alla fine di ogni esposizione io mi faccio un dovere di precisare, sempre, che rispetto i credenti in buona fede e di innocente modestia. Quelli che non pretendono dimostrare dio e i suoi attributi, malmenando
fatti misfatti e logica.
La chiacchierata non durò oltre, anche per il salutare intervento della campanella che annuncia la fine della ricreazione e il cambio d’ora. Andai in classe meno scontento del solito. Le mie ragazze sono più ricettive e reattive di certi colleghi catafratti. E di certi presidi soddisfatti.

15 settembre

Altri otto giorni vuoti di testimonianze.
E dire che di tanto in tanto mi prefiggo il volenteroso latino del nulla dies sine linea! Com’è vero: sono più ricco di buone intenzioni io che il lastrico di Belzebù.
Ma devo correggere, pro domo mea. Non è che in tutti questi giorni diaristicamente sgombri io me ne sia rimasto con le mani in mano. No, qualche lavoretto l’ho pur fatto, qualche articolo l’ho bene scritto. E pubblicato. Il che, d’altra parte, non viene a dire che abbia rispettato il sine linea. Tra bagni di mare, passeggiate, tempo col bambino, e altri impegni domestici, alcuni giorni sono scivolati via senza “linea”. Ma, nell’insieme, non mi potrei lamentare troppo..
Certo, ora seguono i giorni del riflusso: l’alta tensione doveva scaricarsi. Una settimana piena, e un più veloce smarrirsi del tempo farcito; ora, un più lento snodarsi di ore meno dense, meno popolate. Niente più ponti notturni tra due giorni, niente acerbi mattini grondanti stelle sopra lo scampanare dei galli, nelle pianure di questi silenzi magnogreci.
Ho reso benino: due lunghe recensioni in cinque o sei di queste notti laboriose; uno scroscio fitto, ma nervoso, di tasti picchiati sul sonno immeritato dei miei vicini. Per un totale di tutto rispetto: trentacinque cartelle spazio due. Una recensione fa a pezzi il libro (si fa per dire) di tal Carmelo Donato, L’Uomo integrale, dedicato al suo maestro (e mio professore) Vitangelo La Strada. Una buona occasione per chiarire tagliando i ponti con quel passato coatto. Chiarire quanto il mio pensiero sia lontano da quell’orgia impudica di purezze platonizzanti; quanto il mio sentire la mia cultura la mia fisiologia siano aliene da quel bolso pasticcio ontologico e integralismo cattolico, teoreticamente platonico-agostianiano e anselmian-rosminiano; pragmaticamente e politicamente, ultrademocristiano. Mi sono abbuffato di essere e trascendenza, per anni: la mia penna e la mia Olivetti hanno fatto le sataniche vendette. E ho intenzione di continuare, dopo
la grigia parentesi di preparazione per la prova orale del concorso a cattedra. Alla quale sono stato ammesso con un buon 28/30.
Un esito inatteso, quel ventotto, che mi impegna. Avevo consegnato uno svolgimento folto di sostanza ma non molto elaborato, in brutta copia (ah, le mie lungaggini!), e antimetafisico ad oltranza. Presidente della Commissione è il prof. Pietro Prini, ex allievo, dicono, di Michele Federico Sciacca, altro insigne campione dello spiritualismo ipercattolico, e, soprattutto, gran maneggione benissimo ammanicato con le loro santità vaticane. Certo, Prini è migliore del suo maestro (se è vero che Sciacca lo sia stato), come cervello, come cultura, come penna. Ma è pur sempre un cattolico, un metafisico. Considerata questa convergenza di potenze inassimilabili a qualsiasi istanza laica, il risultato della prova scritta sa di mistero. Che cosa può essere accaduto? Che Prini sia di mentalità aperta, che il suo indubbio gusto letterario abbia fatto premio sulla polarità metafisica del suo pensiero, valutando con responsabile onestà un testo
letterariamente non spregevole? Che non sia stato lui a valutare i temi? Mistero. Gaudioso, per fortuna. Vedremo agli orali. Non ho intenzione di fare il Capitan Fracassa del laicismo ateo, ma certo non accarezzerò nel senso del pelo la metafisica e il suo baluardo genetico, la Gione (come scriverebbe l’impagabile Stendhal). Vedremo, sì, ma voglio resistere al mio tendenziale pessimismo. E’ vero: le autorità accademiche clericali e le potenze vaticane vigilano a oltranzistica difesa delle ostie consacrate e dei conti in banca, contro la minaccia dell’Anticristo cosacco alle frontiere; ma non posso credere né che tutti i potenti cattolici siano di mente chiusa e ottusa come certe mie conoscenze; né che il merito non riesca a sbrecciare anche le corazze dogmatiche più livorose, sia pure appena quel tanto che basti a superare un concorso a cattedre di filosofia. Nessuna sottovalutazione dei rischi, né rimozione di fatti e misfatti documentati,
ma un po’ di fiducia nel Caso e nel contesto (dove un brivido di coscienza culturale, qualche volta, può prevalere sull’odio teologico e relativi indotti pratici).
Certo, io non ho fatto nulla per spianare la strada alla buona sorte: pensa, quaderno, che un paio d’anni fa ho scritto un beffardo elzeviro contro lo Sciacca multipotente. E non è uscito su un foglietto locale, ma sulla Gazzetta dello stretto, quotidiano semiregionale (copre la Sicania orientale) e biregionale (inonda la Calamagna), erraticamente presente anche a Roma e in altre città italiane. Ti chiedi come sia stato possibile? Come mai un giornale clerico-moderato e mezzo reazionario abbia sopportato di ospitare quel compiaciuto sberleffo al Pensiero Dominante? Dimentichi la presenza del laicissimo Mimì Ciaccò, responsabile delle pagine culturali di quel quotidiano, amico mio, di Gulizza, di Rama. E del Pensiero.
Ripensando al 28/30 e alla “brutta copia”: no, non credo sia merito di un sostituto. “Somiglia” tanto al Prini (autore, tra l’altro, di quel gradevole agile e informato volumetto su L’esistenzialismo).

16 settembre, ore 13

In attesa del pranzo, che oggi tarda un po’ per plausibili ragioni domestiche. Rina, perciò, in cucina, il piccolo dai vicini in via d’imparentamento.
Le date salienti di questa breve “campagna di tasti” sono: 2, 4, 7 settembre. Giorni ricolmi, di quasi compiuto appagamento (dove il “quasi” allude a certe difficoltà, peraltro superate, anche se con qualche sofferenza). E notti felici, di tranquillità e di lena.
Canto dell’Imbavagliato. Frastornato dall’ESSERE metafisicissimo e superastratto dei La Strada e dei Donato, l’istinto di sopravvivenza è corso ai ripari evocando i diritti della corporeità innervata. Così l’Assoluto ha sorriso alla gioia contrastata delle fisiologie operanti. Eccitate dall’antimetafisica, le mie estensioni tattili hanno sfiorato carezzato premuto la superficie nascosta dell’ente dirimente; e le mie labbra hanno stretto succhiato e mordicchiato la bocca stupita e tremante dell’Idea mediatrice donante. La quale, secondo il Verbo lastradiano (che la rincorre lungo i secoli fino ad Agostino) sarebbe la condizione di tutta la nostra conoscenza, e il sicuro ponte verso la Trascendenza divina. Nella qui presente fattispecie, la gloriosa fondatrice ontologica si presenta modestamente metamorfosata e restituita ai sensi in palpitante tridimensionalità di fibre striate mucose e tegumenti epidermici. E’ appunto in questa figura
fenomenica che essa ha risposto come liberata prigioniera assetata di nettare. La vendetta ontologica ha intrecciato ghirlande di audaci prodezze tattili nell’ombra spessa del meta-fisico, e l’ultima chance, benché contesa da uno sbarramento moltiplicato, ha spinto le avanguardie prensili fino alla soglia del santuario lunare. Il bosco sacro di questa antica Eleusi istologica premette contro l’ardire tremante di estremità cautamente decise all’experiri mistico. La convulsione secundum quid religiosa (direbbe La Strada) avvertì il calore cribroso della flora celata. Tante volte, in questi giorni di tentazione onto-gnoseologica, la vibrazione dell’essere ha intonato l’inno della verità incarnata. Ontologia e istologia rinnovano remote trasmutazioni pseudo-ovidiane, e l’una diventa l’altra in convinta identificazione cinetica. L’Idea mediatrice media nella corporeità trascendentale il contatto con l’Assoluto, ma non concede la
risoluzione mistica. Il cuore dell’essere è ancora (lo sarà per sempre?) mistero fitto. Di tenebra odorosa e fame inceppata. In fondo, è giusto: se l’essere è trascendenza, bisogna pure che celi il suo volto bagnato. Ma l’umana ansia di conoscenza attende vogliosa, e tesse trine di speranze difficili. L’Idea donante forse un giorno donerà. Magari solo una parte del mistico cibo, ma noi, vagabondi dell’essere, siamo gente parca. Ci contenteremo. E saremmo appagati anche da un solo sentiero che ci fosse aperto negli intrichi neri del sacro bosco concettuale. Forse, perfino, l’Idea concederà che una morbida appendice prensile dell’ente irrorato scivoli nelle viscere oscure dell’essere tentato. Forse, però, è sperare troppo, sognare l’impossibile? Si tratta di concetti difficili, che l’ambivalenza rende scivolosi.
Considerate la vostra semenza / nati non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza. La nostra (pluralis modestiae) brama di conoscenza non varcherà le Colonne d’Ercole con la barca naturale e l’incastro fisio-ontologico mancherà la sua Sirena, ma il dimidiato sàpere non mancherà di sapore. Esiste per niente il pentadattilo? Intanto, pazienza, diario sbilenco: Claritas è rischio. Inde, come diceva il volenteroso Cartesio, larvatus prodeo.
*
Il Mondo intona altri canti di gloria alla verità dell’essere: una nuova guerra, l’India contro il Pakistan. Il Pakistan contro l’India. Ciascuna delle due parti fornita di ottime ragioni per distruggere l’altra. S’intende, a insindacabile giudizio dei loro governanti, più o meno democratici gli uni, più o meno dispotici gli altri. I banchetti antropofagici in grande stile riprendono in un’altra mensa del mondo la mattanza sostitutiva dell’ingestione materiale. Eserciti che avanzano per tentare una buona macelleria risolutiva. Balza sotto i fari della ribalta planetaria il solito drappello di ingredienti: jets in sfrecciante cinematica distruttiva, carri armati lenti e determinati alla stessa vocazione, bombardamenti di campi militari e di città sguarnite di militari, paracadutisti in pioggia angelica di biblica memoria. E poi: oscuramenti, mobilitazione generale, riunioni all’ONU (presidio di pace mondiale generosamente tradita),
discorsi, minacce, moniti. Ancora: U Thant, di quel Presidio segretario troppo spesso inascoltato e disatteso; Paolo VI, papa e pastore di popoli, anche più snobbato del primo. Che tuttavia andrà a parlare a quella magna Assemblea. E vi dirà sublimi parole di Pace. Destinate al non ascolto come tutte le precedenti visite e prediche d’alta ispirazione. Almeno fino a quando una pingue successione di pazienti massacri non avrà dato soddisfazione alla fame disinceppata di homo necans e argomenti alle due superpotenze per imporre l’alt con “proposte che non si possono rifiutare.”
Le pietanze variano, ma il pranzo è sempre quello: un cannibalismo filogenetico appena trasposto e fermato alla soglia dell’ultimo stadio.. Con frequenti eccezioni, che esauriscono l’intero percorso. Si avvertono echi di consonanze più o meno camuffate, eppure spesso abbastanza trasparenti, sol che si sappia, e insomma si voglia, spingere lo sguardo fino in fondo. Fino al fondo d’ogni semeiotica biologica. Ma per arrivarci bisogna bucare le robuste maschere culturali nate e prodotte a sviare sguardi e tentazioni di verità nuda. Eppure, come consuonano certi canti di lambiccati concetti, anche separati da secoli e millenni: Eraclito e Pitagorici, Anassimandro e Hobbes, Hegel e tutto l’idealismo dialettico, giù giù fino a Darwin e al citotrofismo gulizzano, cantano la stessa canzone, la stessa verità effettuale denudata: la guerra, a priori ontologico del mondo antropico. Con variazioni inessenziali e complicazioni sofistiche, quella verità
cruda viene offerta alla vigilanza occhiuta di Homo clericus e di homo religiosus-metaphisicus; ma questo plurimo Uomo culturale distoglie i molti occhi dal volto troppo brutto della verità disorpellata e continua, imperturbato, a distillare Verità di sogno, auto-inganni droganti, moltiplicatori di effetti nefasti. Anche quando la realtà preme fino a farsi riconoscere, l’uomo verbale la copre del Verbum e osanna lo Spirito: Volksgeist, Weltgeist, Vernunft, Io trascendentale, Io assoluto, Atto puro, e perfino Atto in atto, a scongiurare la reductio dell’Atto al fatto, a salvaguardare l’inoggettivabilità dell’Atto come azione insonne e Autoctisi (autoproduzione e auto-superamento): “Di collo in collo...”, canta l’Ottimista di Castelvetrano. A gloria del Verbum e dei suoi verba volant.
Almeno ci fosse un Responsabile cui schizzare un metaforico sputo in faccia con tutta la forza di una disperazione nutrita di millenni, d’una esasperazione che torce le viscere. Solo di tanto in tanto, lo so. Ma in certi momenti le strizza abbastanza. Purtroppo, non c’è. Il Responsabile, voglio dire. E semmai è. E’ tutti noi, è tutte le cose, è talmente l’imprendibile Tutto impersonale e inafferrabile, che ogni tentazione di fabularlo personalizzandolo non può che ricadere nelle ombre vaporose dell’arbitrario religioso, del mitico immaginare consolatorio. Ingannevolmente consolatorio, peraltro, e in realtà secretore doc di catalizzatori della distruttività sorgiva delle nostre cellule giurassiche.

Le cinque del pomeriggio. Attendiamo notizie e novità. Nella constatazione che l’altro fronte, il martoriato Vietnam, è scivolato in secondo piano. Anche le catastrofi e le tragedie subiscono la logica spietata dell’universale trofismo e dell’assuefazione e sazietà competente.
Quel mélange, mon dieu! Et quelle corbeille sans merci! Gli eventi e le creature del mondo, intendo. Meglio dirlo in ordine inverso: le creature in primis. Gli eventi sono, significativamente, i loro eventi. I nostri, in testa.

Ore 8 di sera. Sotto il quaderno sul quale scrivo sta Il Giorno di oggi con questi titoli a tutta pagina: La guerra si aggrava. Paolo VI ieri ha detto: “Faremo quanto è in nostro potere perché cessi subito l’impiego delle armi”. Più giù, a titoli di scatola: Il Papa all’ONU il 4 ottobre.
La guerra si aggrava: secondo sua interna necessità bio-antropica. Poi si fermerà, e conteremo i morti. Quello che non potremo “contare” è il modo del morire: quel modo moltiplicato in mille varianti di strazi e in qualche grappolo di fortune individuali. Parodia della “bella morte”: morire d’un colpo, d’un buon colpo centrato. Che spenga vita e coscienza in un solo attimo felice. Non dimentichiamo i feriti, la loro varietà in gravità, i mutilati, i grandi invalidi.
Intanto i Beatles vengono promossi baronetti da sua maestà la Regina d’Albione. E il reale Fisco democratico ringrazia. Devo telefonare al cuginetto Luciano per... congratularmi.

CASO ELUANA: TEST DELLA PANDEMIA INGUARIBILE


Guerre feroci e guerriglie accanite fanno strame di esseri umani in piena salute nelle zone calde del pianeta (Sri Langa, Sudan, Congo...); è di ieri la strage di bambini nella Striscia di Gaza (oltre 300), dove il moribondo Olmert minaccia una nuova “risposta sproporzionata” agli innocui razzi dei soliti “hamasiani”; la crisi economica dilaga a colpi di licenziamenti, cassa integrazione, fallimenti di già prospere aziende; una selezione severa premia Paesi come la civilissima “Svezia dei primati” (scuola, ricerca, sanità, solidarietà, tecnologia, integrazione) e respinge sempre più indietro nazioni cialtrone, come l’ibrida Italia attossicata, preda di maggioranze politiche incapaci e corrotte, di manager ingordi (negli Usa Obama ha ridotto i loro superstipendi, da noi ancora niente) con libertà di rovinare aziende; l’Italia delle duecento scuole inutilizzate (a vantaggio di lauti affitti privati) e degli ospedali lasciati alla gioia dei vandali oppure sotto-utilizzati; l’Italia delle mafie inestirpabili, sempre combattute e mai sconfitte: quanta materia di riflessione per l’itala gente dalle molte vite! La quale invece si scalda con febbre da delirio per il caso Eluana e si spacca in due partiti fieramente contrapposti:l’uno impegnato, in nome della sacralità della vita, a “salvare la povera ragazza” dalla criminale sentenza di morte pronunciata dall’alto giure senza pietà; l’altro a proteggere il diritto alla buona morte liberatrice contro il sadico prolungamento dello stato di coma irreversibile. Questa, in chiave di non allegra ironia, è l’impostazione corretta del caso: l’equidistanza fra i due schieramenti contrapposti è una scelta pilatesca. Qui è in atto un’occhiuta campagna di violenta disinformazione fideistico-ideologica, una guerra alla razionalità scientifica, uno scontro irriducibile fra spirito laico e pregiudizio con-fessionale. Non è una novità e non c’è da stupirsi: la violenza, infatti, è connaturata alla mentalità ideologica, ed ha maggiore virulenza nella sua versione religiosa. L’inverificabile fideistico è destinato allo scontro col sapere verificabile, cioé scientifico: si tratti di fisica astronomia o biologia. In quest’ultimo ambito lo stridore si accentua, perché ogni successo della biologia (massime oggi, con la genetica e la biologia molecolare) è spazio sottratto alla narrativa religiosa. Esito che arroventa l’incompatibilità tra fede e ragione, e induce l’istituzione religiosa a
mobilitare masse di fedeli contro una presunta empietà dello Stato laico. Il quale, purtroppo, in Italia non ha mai avuto vita facile: trovarsi in casa la mecca del cattolicesimo non è un privilegio esentasse: si paga. Esosamente: vedi i mille privilegi economici della Chiesa. Che tuttavia non se ne appaga: pretende anche di orientarne buona parte della politica.. Principalmente quella che concerne diritti civili e valori morali: rapporti di coppia, aborto, fecondazione assistita, libertà di tagliare il filo biologico della sofferenza sterile, sia direttamente sia per delega a genitori e compagni.
E siamo al Caso Eluana, che mobilita il peggio dell’emotività marziale contro ogni evidenza umana e scientifica: un’ostinazione impietosa dietro maschere di untuosa pietà, una prepotenza coriacea sulle coscienze presentata come appassionata “difesa della vita” là dove la vita autentica, la vita senziente e pensante, non è più nemmeno un ricordo. Con quali argomenti, con quali armi teoriche e logiche? Soltanto con gli effetti inscritti nell’atteggiamento ideologico: negare fatti e verità di scienza, inventarsi realtà di pura fantasia. Eluana è stata “in coma irreversibile” per ben 17 anni; in così lungo trascorrer d’anni, nessun segno di risveglio, sensibilità zero, un costante deperimento organico con piaghe, disinfeltrimento istologico, rotture di epidermide facciale, rimpicciolimento del corpo. Ebbene, come reagisce il fanatico, con o senza abito talare? Negando l’evidenza e blaterando di eutanasia e di omicidio, inventandosi strazianti sofferenze come effetti della disalimentazione, elevando alla dignità di vera vita quello stato di pura inerzialità vegetativa assistita. L’esperto dice: è un puro tronco meccanico, incapace, da sé, di inghiottire, respirare, digerire: non più una persona umana, e nemmeno un organismo animale, soltanto un residuo cui non spetterebbe più neppure il nome. Ma l’ostinazione di fede continua a chiamarla Eluana. E dice assurdamente che la si è uccisa. Quando la notizia dello spegnimento totale è uscita dalla Casa di riposo "La Quiete" si è rischiato uno scontro muscolare tra le opposte “tifoserie”, tra il gruppo radicale e associati, che inneggiano alla raggiunta liberazione da un incubo, e i pasdaran della presunta Vita, sempre e dovunque servanda. Partono gli urli contro i presunti assassini e complottardi, e fioriscono piante avvelenate dall’odio teologico contro la verità: si parla di complotti, di veleni, e
comunque di assassinio.
La capacità di devastazione mentale indotta dal fanatismo ideologico emerge da tutta la vicenda e sfolgora di sinistro splendore in tutti i campioni urlanti, ma conosce anche dei picchi di straordinaria impudenza: fino al tragicomico di pura ottusità. Sia tra i politici che fra medici “di fede”. Fra i primi, due “capi” di spessore, il solito Gasparri e Quagliarello. L’incantevole Gasparri sottolinea con matita blu “le firme messe e quelle non messe”, insomma attacca il Quirinale. E si becca una reprimenda dal suo principale, Gianfranco Fini, presidente della Camera: “Gasparri è un irresponsabile, che non ha imparato a tacere”. Schiaffetto sterile, perché l’impareggiabile insiste e resiste: è convinto che Eluana sia stata uccisa e lo dice e accusa. Cioè, blatera a ripetizione. Quagliarello, appena finito il minuto di raccoglimento, squarcia la solennità silente di Palazzo Madama sparando senza mezzi termini l’accusa di omicidio. Che svolazza sotto il cielo solenne dell’Aula come un pipistrello dai molteplici approdi: gli assassini sono tanti: politici senza firma, medici da complotto, che hanno scorciato la durata di Eluana (donde un esame tossicologico e una scrupolosa autopsia sui resti del Resto di Eluana). Gente di carattere, questi talebani della Vita intoccabile. Nell’edizione speciale di “Porta a Porta”, la battagliera sottosegretaria Roccella dava sulla voce al medico rianimatore (cioè a un tecnico) incaricato del caso: lei, ingozzata di frettolose schegge concettuali, giurava sulla sensibilità d’Eluana, sulla possibilità del risveglio (miracoloso?) e altro veleno dolcificato al miele di rose. Ci sono poi i giannizzeri laici del sacro Palazzo, pronti a dar la vita (di stoffa) per la Causa. Un solo esempio, ma sublime: l’avvocato Taormina non se la prende con i medici omicidi e i politici senza firma, attacca direttamente l’unico eminente
responsabile del delitto orrendo: il padre, Beppino Englaro. Lo denuncerà per omicidio volontario. E che diamine: grosse bisogna spararle se si vuole rientrare da vincente nel gran carnevale dei media e relativi talk show, dopo tanto digiuno.
Insomma, non si finirebbe più neanche a voler introdurre in questo sfogo solo un millesimo dei possibili esempi di cattiva coscienza, ignoranza presuntuosa, velenosa arroganza, postulati di pura fede, minacce di catastrofi morali: un campionario grottesco d’irrazionalità pronta a tutto. Fra gli altri, il cardinale Ruini sentenzia sulla sentenza della Cassazione: “profondamente e tragicamente sbagliata”. Il suo collega Antonelli precisa e discrimina: “Eluana è in stato vegetativo, ma non è un vegetale, è una persona dormiente che conserva tutta la sua dignità”. Si direbbe che basti poco per essere persona, nella logica della Chiesa, se viene supposta dignità in un tronco privo di sensazioni emozioni pensieri.
Ma esposto a tutte le manipolazioni "cosificanti" che l'igiene espulsiva comporta.
Beppino Englaro invitò invano ministri senatori e dispensatori di sentenze gratuite a guardare il residuo vegetativo di Eluana: qualcuno avrebbe certamente cambiato parere sulla dignità e altro bene supposto. Ma i big del conflitto ideo-politico, i Berlusconi, i Sacconi, i Gasparri, i Quagliarello, e simile milizia se ne guardarono bene. L’unico, forse, che l’ha vista, pur militando nel Pdl, ma essendo, anzitutto, un amico di Beppino, ne ha riportato impressioni decisive: “Se qualcuno l’avesse vista prima, Eluana – dichiara il senatore Giuseppe Saro – non si sarebbe ar-rivati a questo punto, a questo scontro politico assurdo [...]l’ho vista e sono rimasto sconvolto. Ero abituato alle foto da ragazza, ma ormai non era più così”.. Per pudore, Saro non racconta quel “non più così”: lo stesso pudore ha impedito a Beppino di mostrare foto dell’Eluana residuale: “Vedendo le foto di Eluana com’è oggi, tante persone starebbero finalmente in silenzio”, aveva detto. Ma aggiungendo: “non lo farò mai”. Perché? Non certo per ottusa ostinazione polemica: era un impegno preso con la figlia. Lei, reduce da una visita a un amico in coma vegetativo, aveva strappato a un padre ben lontano dal temere un tale destino, la promessa di non mostrare a nessuno il suo corpo umiliato in caso di simile incidente-orrore; e di non prolungarne inutilmente la durata sterile di risultati. Promesse mantenute da una persona seria e dignitosa fino all’eroismo (“Un eroe civile”, è stato detto). Quanto diversa dai vari attori della tragicommedia: Berlusconi, Gasparri (intenti a ribadire le accuse a Napolitano), Formigoni (miseramente ripetitivo, ad "Annozero" del 12 febbraio, nella sua incollatura dogmatica all'inesistente biologico), Irene Pivetti (star dalle molte vite, e tutte impelagate nel discutibile: oggi culminante nel ridicolo fisiologico dell'Eluana uccisa; il ministro pluripunte
(Lavoro, Welfare, Salute), e simile produzione di irragionevolezza ciarlante. Sacconi, addirittura, appare come un miracolato dalla triste vicenda: vi ha trovato, infatti, la sua piccola Damasco: “Ho agito da laico, ma oggi sono un credente”. Evviva. Insiste, purtroppo,dopo avere assorbito un “discorso bellissimo” del Capo, per una legge sul testamento biologico di poco promettenti aperture laiche (ce l’ha, infatti, col “nichilismo tardo-sessantottino, di cui Berlusconi rappresenta l’antitesi”). Nell'elenco del delirio irreale stanno comodi tutti i cardinali, i fanatici dell’ "Avvenire", di "Famiglia cristiana" e dell’ "Osservatore romano", i tremuli ex margheritini (Rutelli, Fioroni, Gentiloni, Marini, per tacere della Binetti e di cotali teodem e neocon all’ostia italiana), il ghigante Belpietro, l'incompiuto Giordano (direttore del sublime "Giornale"); quella versione italiota dell’ "incredibile Hulk" dell'ipocrisia ateo-devota (eh sì,l'Italia gode anche di questi primati inventivi)che è Giuliano Ferrara; e tutta la livida compagnia torquemadariana che vive di fantasmi e odia a morte chi non li condivide. E giunge fino alla bestemmia del grido “Englaro boia!”. Invano chiederesti a costoro dove abbiano letto questa presunta sacralità della vita: nelle stragi della ricorrente peste bubbonica che ha scandito i secoli? Nei novecenteschi massacri dell’Aids? Nelle ecatombi dei terremoti? Nella danza prolifica dei tsunami inghiott-paesi? Insomma, nella sovrana indifferenza di madre Natura matrigna (aggiungi "La ginestra" di Leopardi, quel severo scrigno di verità scorticate)? O nei vari Vajont, nelle bombe di Hiroshima e Nagasaki, nei “sacri macelli” delle guerre di religione fra cattolici e riformati? Nelle torture e nei roghi dell’Inquisizione e nello sterminio delle cosiddette streghe? O magari nella storia del popolo ebraico, con la tragica invenzione della Terra promessa, promotrice di allegri genocidi? Non si finirebbe con un grosso volume a voler ricordare tutte le smentite delle teoriche implicazioni religiose. Ma il fanatico rimuove e chiude occhi e orecchie a tutto quanto disturba la sua comoda fede consolatrice.
Il conflitto in atto non è che l’ennesimo rinforzo alla convinzione che i guai prodotti dal fanatismo religioso (tentazione costante del credente medio) superano incomparabilmente gli stretti benefici personali, frutto di rimozioni e deformazioni dell’arido vero. Come dire che la nostra (pluralis modestiae) visione del futuro antropico non guadagna in ottimismo dal contributo di questi continui scontri fra spirito laico e dogmatica religiosa. Quello, fermo nel riconoscere ogni uomo padrone della propria vita, questa inamovibile dalle sue posizioni di prepotenza impositiva in nome della fantomatica sacralità.

domenica 8 febbraio 2009

Susanna frammento 12


26 luglio

Preparativi per la partenza. Domani si torna nella Calamagna, dove fare i bagni è più facile, meno faticoso e per nulla dispendioso. Con la “complicità” del medico, che ha ordinato aria di mare per il bambino, e qualche bagnetto, trascorreremo il resto dell’estate sul luogo di lavoro. I genitori ci hanno goduto abbastanza. Del resto, loro sono in buona compagnia, e impegnati in compiti seri. I miei, nel gestire il fidanzamento della figlia minore, la bella di casa. Il fidanzato è un bello anche lui: un paio d’anni più di lei, alto e ben fatto, biondo e con splendidi occhi azzurri. Lei, bella di tratti, aggiunge al resto due incomparabili occhi verdi. Se matrimonio sarà, ne verranno figli meravigliosi. Imprevisti genetici permettendo (e ferro toccando).

Altri occhi di gemma ci aspettano in Calamagna: due sono gatteschi di colore e aggressività di luce; due azzurrissimi e accompagnati da chiome bionde. Si tratta solo di alunne che frequentano la nostra casa per amicizia di famiglia. Niente di torbido. Le faccio esercitare in problemi di geometria. Sono, tra l’altro, compagne di classe.
Intanto con noi viene un nostro cugino, figlio del fratello minore di mio padre. E’ un ragazzo di sedici anni, Luciano, bello di faccia e di corpo, alto e snello. E vedi coincidenze del Caso, anche lui biondo con occhi azzurri: è il filone normanno della famiglia paterna che si perpetua, dal nonno e bisnonno ai nipoti e pronipoti. Io, purtroppo, come mio padre, apparteniamo alla corrente mediterranea. E forse mezzo araba: giù, dalla nonna paterna, al mio genitore, al fratello maggiore di lui, a me. Ma almeno mio padre è alto e di ossa larghe, io arrivo appena al metro e settanta. Eppure, mi basta per superare in statura gli zii fratelli di mio padre, il maggiore e il minore dei tre: sul metro e sessantacinque il primo, circa uno e sessantasette il secondo. C’è poi mio fratello che prende dalle due ascendenze: occhi verdi e capelli neri.
Immagino i movimenti che ci saranno attorno al cuginetto. Il quale è partito con noi senza la benedizione del fratello minore, Mauro, sacrificato dal padre a vantaggio del maggiore. E lasciato nella vecchia casa avita col muso lungo. Luciano è più bravo a scuola, e non nasconde quella certa aria di superiorità che non concorda con la migliore armonia fraterna. Per nulla afflitto dal malumore del fratello, egli gongola già al pensiero dell’imminente partenza. Vuole perfezionare, dice, il suo nuoto, che a Milano può coltivare poco. Il luogo che ci attende non potrebbe essere più propizio all’intenzione. Sarà, naturalmente, a carico nostro, in tutto e per tutto. Impegno che assolviamo volentieri. Anche Rina non ha proteso difficoltà di sorta e circostanza. Pur sapendo quanto sia ghiotto di dolci il vispo ragazzino latte-e-miele.

Zefiria, 28 luglio

Eccoci di nuovo in Calamagna. Viaggio tranquillo, ospiti in macchina del cognato. Alla partenza dalla Sicania, Mauro, il cuginetto sacrificato, ha finto di dormire: troppo cocente il dolore dell’esclusione per aver voglia di salutarci. Soprattutto, il fratello preferito e il padre responsabile di quella preferenza.
Tutto secondo previsione: questa mattina, al mare, il cuginetto era al centro di occhiuti interessi femminili. Le due alunne che frequentano la mia casa e qualche loro compagna di classe lo hanno accolto con luccicante entusiasmo nella loro comitiva marina. Né lui ha avuto difficoltà a inserirsi. Più brillante, negli occhi azzurri allagati di luce, l’interesse della piccola Lella (piccola di statura, ma giusta di forme nei suoi sedici anni). Ci sarà, probabilmente, un breve idillio stagionale senza conseguenze. Il nostro Giampiero dava segni di gelosia: abituato a occupare il centro di quell’attenzione giocosa, oggi ha avvertito una differenza non gradita: quelle due ragazze, non s’erano sempre dedicate a lui, quasi esclusivamente?
A casa, in attesa del pranzo, Luciano ascolta musica dal nostro registratore. Va matto per i Beatles. Rina, per provocarlo, gli dice che non li apprezza, e lui, tra il serio e il faceto, ribatte che quella “è musica sacra”. L’iperbole stuzzica la mia curiosità, e finisco con l’ascoltare anch’io quella “rivoluzione” musicale. Più in là, magari, ti dirò che cosa ne penso, quaderno. Per il momento, ascolto. Posso solo anticipare che non mi respinge. Dovrò riascoltarne i vari brani per sintonizzarmi meglio. Giampiero guarda il cugino che chiude gli occhi in estasi di ascolto mistico. Chissà che impressione gli fa. Di tanto in tanto lo scuote, stravaccato com’è sulla sdraio della prima stanza, e lo costringe a fargli attenzione. Allora l’adolescente gioca col bambino, e gli chiede pure se quella musica gli piace. Giampiero non si sbilancia: forse preferisce altro genere di suoni. Però non dice che non gli piace. Luciano lo incalza,
gli assicura che quella musica è bellissima. Ma lascialo crescere, Lucianello, dagli il tempo di arrivare ai Beatles per vie e sensazioni social-naturali  gli diciamo, stando al tono giocoso. E ora andiamo che il pranzo già fuma sulla mensa. Vuoi sentire i tuoi idoli anche mentre mangiamo? Non dice di no, anzi luccica nei begli occhi di cauta implorazione. E vabbé, si può. Ma riduciamo un po’ il volume. Giampiero si adegua alle novità: non protesta e ascolta pure lui la strana musica che rallegra il cugino.

Zefiria, Martedì, 3 agosto. Ore 16

Dentro una corrente d’aria che mi fruga piacevolmente i piedi, nudi sotto l’intreccio di cuoio dei sandali; appoggiato a un tavolo in formica, che macchia di rosso l’atmosfera giallina della stanza quasi vuota; seduto su una sedia di metallo e plastica, con la spalliera ancora avvolta nel suo cellophane. Questi occupanti lustri conferiscono un sentore e quasi una promessa di nuovo all’attesa di questo spazio vuoto. Un tavolinetto a cestello sopra un treppiedi verniciato di nero sta in uno dei quattro angoli. Che silenzio.
Ma ecco che l’erede strilla. Non permette che si dorma. Le ha prese dalla madre. Accade, di tanto in tanto. Malgrado Rina sia poco incline all’uso pedagogico delle mani. Ma, si sa, è sempre questione di soglie: ognuno di noi ha le sue, e quando il disturbo supera quella personale, scatta la reazione. Ora magari Rina ha il nodo alla gola, ma non è pentita del suo alt … manuale. No, piccolo guastafeste, non verrò a consolarti, stavolta.

Volevo distillare qualche goccia di questo nuovo corso emotivo. Casa nuova, paese di residenza nuovo; nuovi spazi, un nuovo ritmo del tempo. Casa nuova, nel senso di diversa dalla precedente, ché, in realtà, la casa è abbastanza vecchiotta. Piano terra, il primo essendo abitato dai proprietari, due anziani coniugi con annessa nipote sui vent’anni di non spregevole apparenza. Tre stanze più cucina e cortiletto. Come sistemazione provvisoria, è un progresso rispetto alla precedente, di Siderato: più spazio, maggiori possibilità di isolamento lavorativo, con una stanzetta tutta per me, in cui mi posso chiudere a chiave; comoda camera. Speriamo di trovarci bene, anche col vicinato e i padroni di casa.

Il bisogno del nuovo ha, nel mio caso, ragioni poco ostensibili e giustificazioni sottili. Scarsamente coerenti con deontologia professionale e conseguenti obblighi sociali. Ma tant’è. Ho perfino tentato di resistere alle sollecitazioni contingenti. Ma invano. Come diceva Oscar Wilde? Il modo migliore di vincere le passioni è abbandonarvisi. O pressappoco.. Adelante, dunque. Ma, lo so, con juicio. E ora che t’aspetti, quaderno, che te le spiattelli, quelle ragioni? Con juicio: non l’ho appena detto?
Presenze vaghe, già in linea di volo, riaffiorano sulla pista delle attese cronometranti. Molteplici aperture, sulla misura del nuovo alloggio, si agitano in vieti capricci di immaginazione. Tentano di esigere in contanti di fatti e contatti le cambiali in bianco della fantasia. A tanto ostano alcune ipoteche: da una parte, condizioni particolari dei soggetti – carente disponibilità esplorativa o paralisi di controlli familiari forti; dall’altra, barriera magnetica di polarità coniugale; e titubanze personali, di ambigua connotazione multipla (etica, caratteriale, sociale…).
Tutto questo interagisce con le incerte voglie e le fatue velleità del “serio”. Che guarda, con occhi appannati, all’ancòra non presente, ma facilmente surrogabile tavolo di lavoro; ai mucchi di volumi sparsi sui quattro angoli dell’aerata stanza destinata al ruolo di studio (ma con appendici fantasticate di eventuali espansioni estetiche); ai molti quaderni, mortificati tra sbadigli di libri scontenti. Reagisce, volevo dire, in senso eminentemente negativo e disgregatore. Ancora una volta. Ma tant’è. Un “tant’è” più disforico che euforico.

Il “vecchio”, sotto il nuovo, è sempre quel cruccio, quello scontento che ambisce, con progressivo vigore, al ruolo di sostanza stabile del mio ménage. “Incomunicabilità” è la dignità lessicale aggiornata dei miei rapporti in interiore domo. Estranea al “meglio di me”, l’altra metà del mondo, nella particella che mi compete, produce intoppi, provoca sprechi di tempo, ostacola in ogni modo a lei accessibile il mio lavoro intellettuale (creativo, si suole, ma non mi piace, dire). Il che genera voglia di ritorsioni, aspirazioni a cantucci riservati, assenza di scrupoli. Alibi, insomma. Per qualche evasione di non ingombrante peso. Ma chissà quante volte avrò scritto queste lagne in questi quaderni che mi accompagnano da lustri. Bisogna precisare che “quel cruccio” non è tutto “il vecchio”. L’altro, però, al momento deve tacere.
Sogno di alternative più “eudemonistiche”? Meno edonistiche? Ma no. Le solite fughe. Le solite frustrazioni di un orgoglio mal riposto, peggio orientato. Ancora frusti alibi a una viltà midollare, che è la verità quotidiana della strutturale astenia. I miei conati sono getti discontinui, sgorghi di breve corso e parchi esiti, che svaporano prima di raccogliersi in durature correnti di forze produttive. Così, almeno, accade spesso. Finora, nessun lavoro di lunga durata ha conosciuto il traguardo. Ecco che cosa mi punge. E di brutto.
Questa modica febbre del nuovo può essere, anzi, un sintomo di quella irreversibilità. Non bastano vent’anni a insegnare che i mutamenti esterni non mutano l’interno. O lo mutano poco. Troppo poco per acquisti del tipo sopra imputato. La rassegnazione è una virtù difficile, checché ne dicano i patiti dell’ideale. Rassegnarsi, poi, a consumare una vita che è l’agonia molteplice di gusti e aspirazioni, desideri e ambizioni, è rassegnazione del tipo più impervio. Gli affioramenti dispeptici che escono, di tanto in tanto (media, due, tre al mese) sulla stampa, con la qualifica di articoli critici, elzeviri, mini-saggi, ed eventuale altra nomenclatura, sono, forse, l’ultima insidia della mia nemica costituzionale: insinuano, ancora, e lusingano, che un giorno o l’altro verrà fuori il libro.
Ma come? Ma quando? Se tutto è come prima: ostile ai severi traguardi. Naturalmente, qui si allude al libro organico, monotematico: un saggio su Camus, per esempio. O la ripresa con sviluppata conclusione del saggio su Abbagnano. Come ho già promesso al degnissimo autore. Un volume di scritti brevi, o politici o letterari o filosofici potrei farlo, il materiale ci sarebbe: ma non questo genere di (finti) libri mi tenta.
Animo: la vita quotidiana dell’egoismo biologico sa ancora ascoltare i diritti della carne. Che è giovane e teme il digiuno. E soprattutto di invecchiare nel prevalente digiuno. Animo, sì. Primum vivere, deinde philosophari.
E allora venite, vezzosi volti delle antiche e nuove fantasie: vi attende l’avidità discreta del fallimento fatto corpo in regime astenico-sussultorio.

4 Agosto, ore 16,30

Dovrei credere che le stelle accettino di farsi luce di mistiche lucciole ai mortali stanchi sognanti scampoli di vita nel chiuso delle rigide scatole mute dette stanze? Già. Ma quand’anche: come dimenticare la lunga catena degli spasmi preliminari? Quante attese, questa volta? Quante torsioni di viscere sopra il vuoto beffardo dell’échec?
Perché parlo così? Ma t’ho già detto, quaderno curioso, che il faut marcher avec prudence. Se non capisce il cifrario, può darsi che filtri indenne. Fruga dappertutto, la mia seconda anima: poco le sfugge. Ma qui conto di crearle qualche barriera di arduo superamento.
Mancherebbero, dunque, appena venti giri della spera piccola? No, non me la fai. Non ci casco, non ci credo. Che meriti posso sventolare davanti ai ceffi degli Oscuri per cavarne grazia di compensi epicurei? No, non ci casco.
E come potrei, se tutto il lavoro di questa estate si riduce a tre articolucci abborracciati? Neanche la clemenza di Giove potrebbe indulgere alla stenta pochezza. Animo, Yorick, si alza il sipario: puoi dare corso ai contorcimenti rituali. E porta pazienza, eventuale lettore del duemila: poi espliciterò. Promesso.

Stesso giorno, ore 20

Il previsto ha reclamato la sua porzione di realtà. Alla luce si parano innanzi schermi molteplici. Scontro di tempi in convergenza di coibenti: la corrente non passa, la tensione cresce.
In altre parole? Ma quali, caro il mio quaderno, se ti ho detto che da tempo il tuo destino espressivo si chiama cifra? L’Ossessione vigila, in sembiante crucciato, sotto le rose della grazia contesa dal sospetto. Temo, addirittura, l’ermeneutica esatta del sotterfugio. Sono inseguito, frugato, fin nelle pieghe più fitte e lontane del mio imbroglio psicofisico. Sta attento l’Inquisitore in sembianze di fata: a gesti, parole, sospiri e sillabe. Rapsodicamente, ma non senza fiuto né sterile di risultati, svolge una sua personale fruizione indagatoria della mia casualità mimico-verbale. Mi sento vigilato da una casalinga Psicopatologia della vita quotidiana. Ossequi, doctor Freud.
*
Indizio sopraggiunto a distanza di anni: l’ermetica allusione del testo è rivolta alla fortuita compresenza delle due fatine compagne di classe per le lezioni-esercitazioni di matematica (problemi di geometria, essenzialmente). I rapporti amichevoli fra noi e le loro famiglie sono un ex abrupto per te, quaderno? Sì, ma per ora non intendo ricostruirne il processo genetico. Ti confesso soltanto che la strategia delle due compagne in competizione mirava a un inserimento affettivo di crescente intimità nel nostro piccolo mondo domestico. La loro carriera scolastica poteva venire condizionata al meglio da un buon rapporto con il capo istituzionale del piccolo mondo moderno. E loro facevano a gara nel farsi accettare da moglie e figliolino.
*
I miei sogni? Eccone un residuo: vecchi incontri, coerenze mai perdute. I tuoi precedenti, residuo, datano anni lontani e vicini. Il resto? Vanità, vanità. Mi scrisse una volta l’amico Gulizza: “Sei più ricco di buone intenzioni tu che il lastrico dell’inferno”. Deliziosa immagine: v’è dentro tutta la mia miseria.
E questo inutile chiacchiericcio? Anch’esso: miseria. Gli anni salgono, quaderno: che raccolto preparo alla prole che cresce? Ambizioni universitarie, ambizioni letterarie: sogni, sempre sogni. Bolle di sapone al sole.. Le iridescenze mostrano sequenze simili: lavori cominciati, incoraggiamenti autorevoli, conati di corto respiro, rinunce. E conseguenti frustrazioni (così poco igieniche!).
Che nausea. Né il tono cambia: scrivevo così dieci anni fa. Non ero sposato, non avevo figli, non avevo laurea, non stipendio di sua maestà lo Stato: ora che ho tutto questo sono lo stesso. Un fallito. Il dubbio è: intero e rifinito, o parziale e semilavorato? Posso usare entrambe le versioni: la prima, in riferimento alle ambizioni-sogni maggiori; la seconda, alle aspirazioni meno velleitarie. Perché saprebbe di burla una diagnosi più catastrofica: qualcosina ho pur fatto, in campo culturale, intendo. E non voglio straziarmi fino al masochismo estremo.

9 agosto, sera

Un fallito che stenta ricami di antica fattura alla gioia difficile del fallimento. Parole parole parole. Sembra proprio che siano il mio destino. A volte mi pare che la mia stessa carne sia impastata di parole. Troppi nervi, dice un personaggio di Sartre. Troppi nervi, in verità: mi affliggono.. A tempi alterni, e colpi di variabile intensità debilitante. A volte sono un roveto nella gabbietta cardiaca, altre volte s’impigliano in qualche tratto dell’intestino grasso.
Anche se non sono ancora ridotto alla liofilizzazione verbal-cartacea denunciata (e goduta, esorcisticamente) nell’autobiografia sartriana Le parole.
*
Grande giornata, oggi: alla redazione del Gazzettino trovo i miei articoli pubblicati nel numero di questa settimana. E altre cosette eccitanti: una garbatissima lettera di Marcello Venturoli, l’autore del molto autobiografico romanzo Lo Sprecadonne, l’ultimo libro da me recensito; e un ritaglio dell’“Eco della stampa”. Si tratta di una pagina della rivista Talenti, che riporta una violenta lettera di protesta scritta (sgorgata, piuttosto, ab imo vulnerato corde) da una signora romana contro il sottoscritto, colpevole di avere stroncato il colonnello poeta Gaetano D’Ambrogio.
La signora Alina Magistrati dice di averne mandata copia “a tutti i giornali e le riviste d’Italia”. Pensa un po’, quaderno, che razza di fatica (e pubblicità gratuita). E solo per contestarmi il diritto di critica: quale affetto o amore doveva legare la signora al poeta D’Ambrogio. Il quale, apprendo dall’ “Eco”, è morto in questi giorni. Un autorevole amico mi ha detto, celiando: ti sta sulla coscienza. La battuta, per scherzosa che fosse, non mancava di un suo brivido. Mi ha scosso. Non che io mi senta così in peso da poter provocare un infarto alle mie “vittime” letterarie, ma ci sono rimasto male lo stesso. Non è piacevole scoprire di aver colpito un uomo così vicino alla pace eterna.
Un rodio mi tarla il pensiero: davvero si potrebbe escludere che la stroncatura abbia influito in qualche modo su questa drastica conclusione? Le vie del Signore, si sa, sono infinite. E capricciose. Non era, comunque, un giovanotto: da anni in pensione, doveva aver varcato, e non da poco, la soglia dei settanta. Proprio, non riesco a smaltire il disagio. Quasi quasi me la prendo col mio maestro di stroncature, Gulizza, ispiratore vagamente diabolico. Ma certo i versi del colonnello erano (sono) una provocazione anche per il sadismo più misericordioso e caritatevole: un misto di carduccianesimo spiritualizzato e di secondo romanticismo revenant, affidati a un lessico “alto” e arcaizzante. Il tutto, in una béchamel di religiosità diffusa.
Il direttore della rivista ha così commentato la lettera della signora, a sua volta “poetessa” (e presunta amante del defunto): “Solo ora apprendo con dolore la triste notizia della morte del caro Gaetano D’Ambrogio, poco conosciuto, forse, dall’Assaggi. Noi esseri mortali, purtroppo, siamo abituati, caro Lo Frate, a dire di quello e di quell’altro senza renderci conto di ciò che scriviamo; non per niente facciamo sentenze, e in questo caso direi: lasciamole ai Posteri!”. Un pezzullo degno della lettera. E chi sarà questo Lo Frate? Sodali dello stesso cenacolo, probabilmente. Ecco una delle piaghe più infestanti dell’Italia scrivente: i poeti (e soprattutto le poetesse) a produzione auto-gestita. Per fortuna incruenta (dovrei aggiungere: salvo imprevisti?).
Alla signora Alina io ho risposto, tempo fa, sul Gazzettino, la cui sede redazionale in Siderato aveva ricevuto la lettera direttamente dalla mittente.. Una “lettera al direttore” che ha fatto un “glorioso” giro fra i non eccelsi campioni paesani dell’intellighentzia calamagnese. Molte congratulazioni da letterati e lettori abituali di giornali e giornalini: colleghi, amici, librai, giornalai. Categorie non sempre ben distinte: qualche libraio è anche collega e idem qualche giornalaio: in genere, tramite fratelli e altri parenti, cui sono associati nell’impresa, ma senza figurare. Nella lunga risposta sono stato paziente e ironico, fintamente problematico ma convinto difensore dei miei giudizi. E del mio diritto alla libera critica (come del suo alla critica della critica).
*
L’altro settore mi fa registrare movimenti sismici di qualche rilievo. Gli astri hanno mandato qualche raggio fino a questo covo di speranze clandestine, sicché io…ho lavorato un po’. Poco, pochissimo, se vogliamo; ma anche quanto basta a negarmi l’autorizzazione a procedere contro la malasorte. Almeno per una settimana. Era il meno che potessi aspettarmi dal mio sacrificio: il trasferimento mirava a più serene possibilità di lavoro creativo (di varia ispirazione).
Ma la mia fame guarda a nuove altezze, quaderno. Il pericolo della sterilità minaccia sempre, incombente. E punta l’arco contro la mia consistenza di uomo e di studioso. Del resto, senza il brivido del rischio, quali chances si sono mai offerte alla modesta avidità nervosa del mio corpicino proteso agli assaggi? Ora, ahilui, anche con un’incipiente e già lievemente visibile pancetta!
Al centro di piccoli gorghi drammatici, mi sono sentito perfino preda contesa di pretendenti molteplici: chi vuole i miei articoli qua e chi li vuole là. Vorremmo accontentare tutte le direzioni, io e le mie risorse non esorbitanti. Ma certo il Nemico vigila. Dico, non solo il Nemico baudelairiano, Crono mangia-speranze, ma l’altro, anche, quello interno alla mia situazione anagrafico-sentimentale e sociale. Che tempestività, che prontezza nel rompere i sottintesi! Prontezza e vigilanza di tutti i giorni e di tutte le ore, comprese le più generose. Ah, mia “seconda anima”! Capisci a che cosa alludo, quaderno? E a che person?
Il cuore, poi: picchia e punge. Mi sembra di avere l’antico roveto, ridesto e di nuovo virulento.
Ma tu, ultima sintesi delle mie maldestre alchimie, sei davvero quella formula che dici? I miei alambicchi potevano distillare tanta e così originale ambrosia? E tu, asteroide delle mie sere agostane, quanta (ignara?) menzogna mescoli al tuo sincero impegno di controllare l’intera gamma delle mie risorse?
Ancora un tu, per chiudere in bellezza: Giampiero, nodo dei miei viluppi, acqua fresca di questa arsura moltiplicata, ti meritavo io? Piccolo miracolo scorrazzante per la casa e il mio paterno corpo commosso, a te soprattutto vorrei dare di più. Di più. Di tempo, protezione, futuro. Sicurezza…
Ma, donde questo ghigno improvviso? Forse dal futuro? Chi mi ride in faccia dall’ombra?

10 agosto, ore una

Cioè, ancora piena notte. Indi, noterelle in fuga verso il letto. Dove continuerò a intrecciare corone di immagini attorno ai desideri frustrati e agli appetiti ancora vibranti. Non senza aver tentato di propiziarmi una porzione decente di sonno mediante un introibo di lettura leggera. Sempre che Rina sia già scivolata nell’innocenza morfeica, e io non la disturbi, con la lampada da comodino accesa. Capita, e non se ne mostra entusiasta quando capita: brontola e mugugna, tagliandomi i tempi. E mi riesce ancora quasi incomprensibile il contrasto tra il suo viso dolce e questa reattiva intolleranza brontolona. Lo sento come una specie di ossimoro fisiologico.

10 agosto, sera

Il marchent devant moi, ces yeux pleins de lumière / Qu’un Ange trés savant a sans doute aimantés / Ils marchent, ces divins frères qui sont mes frères / secouant dans mes yeux leurs feux diamantés
Baudelaire, Les fleurs du mal
*
Prono al loro potere, lascio che il desiderio danzi la sua delusione sublimata al cospetto del mare, che ammicca di schiuma. La spiaggia s’allunga, pigramente, sotto la febbre di un sole crudele; il mare, languidamente lento, morde distratto il ciottolame estroso, di forme e caratura. Un prato di ombrelloni tinge di bizze cromatiche l’aria di fuoco appena temperata da un sospiro di brezza. Sotto la tenue difesa, una serra di carni nude si offre al dio implacato.
Nella mia aiuola, il fiore bruno dal gambo lungo dardeggia les yeux luminosi sotto un cipiglio crucciato. Il fiore dorato dal gambo corto contende l’espace du mon coeur all’assalto pacato del gambo lungo. Possiede e usa armi non meno incisive. Les yeux jaunes et les yeux azurs intrecciano danze sul tappeto dell’anima, e l’anima vibra, memore di antiche ebbrezze che il Nemico, nel complicato presente, le vieta. I miei anni sono quasi la somma dei due addendi pleines d’attraits, che fanno pace e guerra sul mio corpo di battaglia. Ma chair vibra rastremata nelle sue contrade più segrete.
Ahimè, la grazia dell’abbandono è merito di altre date, e tuttavia chi cambierebbe la presente tristezza dall’aspra voluttà inquinata con le figure trascorse dei miei “trionfi” d’un tempo?
*
Il fiore dal gambo lungo, maintenant, è in gara con le lancette. Vinceranno ancora loro, e perciò l’Insidia invincibile che incombe legittima sull’affaire? Insomma, tarderà tanto da incrociare il meno desiderabile risveglio pomeridiano? L’Enigma, ora, abest. Presumibilmente, in braccio, ancora, al medium Orfeo. E farà in modo che il gambo breve intersechi la traiettoria del suo bramato presente concorrente? O mancherà del tutto, il bramato, alle vibrazioni dolenti di questi nervi futilmente logorati?
Ore cinco de la tarde: l’ora di Ignazio e della rossa arena. Che c’entrano come i cavoli a merenda. Ma qualche volta si mangiano cavoli anche a merenda. Il mal di stomaco, probabilmente, avrà il suo pessimo ruolo.

Ore 0,10 Tra riflessi di luce elettrica e sbuffate di vento consolatore, dopo oscena canicola diurna, rimemoro l’ultimo avatar del mio élan vital. Le chances non sono state quante la gola dell’immaginazione aveva ipotizzato, ma quel tanto di fatica che sono riuscito a mettere all’attivo mi consola un po’ dello spreco di lunghi mesi.
Anima mia, perché fuggi? Il tuo ruolo è quello segnato dal respiro profondo del nostro essere. Se l’io-corpo non concede di più, piangere sul non fatto è ancora spreco. Faccio quel che posso, farò quel che vorrai. O Despota. Leggere scrivere progettare sognare. Y querer. O, alternativamente, flirtare. La misura è avara? Anima mia, non puntare all’impossibile, ma esaurisci il campo del possibile. Del tuo possibile. L’ha detto un uomo più grande di te. Altri ammonisce: bisogna adattare la fame del corpo-mente alle risorse assegnate dal Despota: l’Ananke bi-spiralato, invisibile e onnipotente, che tutto pone e dispone. La mia durata non sarà lunga: quel tanto che la riempie gradevolmente sia benedetto. E si paghi pure lo scotto (se non sarà eccessivo). Amen.

Problema. Se mentre l’edoné scuote le mie fibre di rapinosa febbre migliaia di miei simili crepano nei lunghi tormenti, e l’attimo dell’orgasmo combacia con lo spasimo atroce dei morenti, che posso farci? Mi dispiace, certo. Ma a ben calcolare, dedicando solo una manciata di secondi di commozione astemia ad ogni sciagura che s’abbatte tutti i santi e maledetti giorni sul mondo, non ce ne resterebbero per “bere al calice della vita”. Sic stantis rebus, se sciagura è da considerare anche la morte individuale, comunque subita e raggiunta (ma specialmente se in eccesso di sofferenza e in avaro difetto di tempo biografico), non resta che il prosaico alibi sincero: lontano dagli occhi…
E magari mi imbarazzerebbe dirlo ad altri, ma così è. Non gongolo a pensarlo perfino in questa solitudine di notte e silenzio. Ma che posso fare e farci? O non fare. Non ho inventato io il bel gioco. A dirla tutta, sensibilità nativa e formazione congruente, di cultura ed etica, hanno disturbato più volte i miei momenti estetici. Ma la forza dell’astinenza non è stata prevista nel mio corredo cromosomico. Ancora: che farci? Ricordi, mio doppio? “Ma se un montone dicesse a un lupo affamato: ‘Tu manchi al bene morale se mi mangi e Dio ti punirà’; il lupo gli risponderebbe: “Intanto io faccio il mio bene fisico, e v’è tutta l’apparenza che a Dio è indifferente che io ti mangi o no”. O giù di lì. Il mio mangiare, poi, è sì modesto! Anche monsieur Voltaire gli sarebbe indulgente.
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Stasera il telegiornale ci ha detto degli ultimi morti di ieri nel Vietnam, e di una sciagura negli Stati uniti. Nel Vietnam, questa (ennesima) versione terrena del mitico inferno, si continua a morire in malo modo, tra bombe, napalm, fosforo giallo, e altre diavolerie inventate dalla divina Libertà liberatrice. Negli Usa, è esplosa una rampa sotterranea per missili: 55 morti, finora. A beneficiare dell’incidente, lo Stato del Kansas. Con un po’ di cinismo, si sarebbe tentati di pensare a una cieca (anzi occhiuta) Nemesi. L’immaginazione fa sforzi lodevoli per darsi la visione di tanta sofferenza, ma il polso del sangue la distrae presto verso presenze percettive più immediate e corporee. Massime se sono appetibili.
Sangue e strazi, piacere ed ebbrezza: la miscela è vecchia quanto il baraccone fenomenico. E vale tutte le ricette del tempo. E tu, mon cœur heureux, n’oublie pas que j’ai baisé ses lèvres trop desirés. Après quoi, j’ai lui dit, je suis prêt au dernièr voyage. Ma non è vero: Ich möchte, anzi, hundert Yahre zu leben. Non fosse che to remember this magic moment.
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I galli cantano già. La magica voce fende la notte muta in controcanto col tonfo solitario di qualche passo contadino troppo pesante. La notte avanza verso il mattino con improvvisa fretta. Ronza una mosca intorno alla lampada che pende sopra il tavolo. Ronzano le mie orecchie, di stanchezza fisica. E un po’ anche di irritazione. Perché? Intrusioni del Super-io, o senso di inadeguatezza? Di un vuoto non riempito, per mancanza di decisione, di audacia? Che pretendo? Domani è un altro giorno. Inutile? Non più di questo, già scivolato nel pozzo nero. Il pozzo senza fondo del caro Nulla eguagliatore. Non più o non meno: vanitas vanitatum…
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Ahi, per la via / odo non lunge il solitario canto/ dell’artigian, che riede a tarda notte, / dopo i sollazzi, al suo povero ostello;/ e fieramente mi si stringe il core,/ a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia […]

Caro Giacomino. Anche la mia personalissima “sera del dì di festa” è passata, dissolta nel buio del Grande Imbuto. Dove va a finire “ogni umano accidente” (compresi quegli accidenti colossali che sono gli eoni della Storia, con il loro immane carico di strazi e glorie al sangue). Ma non sto tentando di paragonarmi a te: né per commercio di muse né, tanto meno, per destino di sofferenza: troppo più grandi del mio corrispettivo, per osare confronti men che osceni. Ma lasciati usare “come ditta il core”, e ringraziarti dal suo imo.
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Gli ombrelloni variopinti attendono sulle spiagge sconfinate di queste plaghe marine: domani, forse, un altro bagno. In fiorita compagnia di tenere carni rosolate dal truce sole di questi cieli africani. Inutile? Finché fame preme, no: non c’è inutile davanti agli appetiti ridesti. Che la notte filosofeggi a dirne l’omnia vanitas, si può concedere: contesti diversi, differenti valutazioni. Purché un velo di sorriso stemperi d’ironia la tentazione assolutizzante.
Il fiore dal gambo lungo e il fiore dal gambo corto hanno reclinato il capo in grembo a Morfeo? Quasi certamente sì. Il pensiero del pedagogus, un leggero spolverio di immagini del maître nel più recente passato ha accompagnato il lene spegnersi della memoria nel sonno riequilibratore? E chissà, chissà che nei loro sonni contemporanei a questa veglia non ci sia anche il non indifferente Lehrer, così presente nei domìni del sole diurno. Chissà. Care pupille.
O forse il fiore dal gambo lungo protende ancora i petali alla notte stellata nel boudoir dell’immaginazione conquistata. Non sarà stato certo il primo Kuss in assoluto, ma il primo del suo genere, sì. Come dichiara lo stesso fiore di poche parole. Non tutti i giorni ein Lehrer kusst eine Schulerin in piena reciprocità di corpo e di mente.
Buona notte, fiori (e sassi) di tutto il creato: vado a frequentare quelle strane creature e quei luoghi orrendi, ma a volte belli, che il proiettore del libero flusso disegna sullo schermo del riposo. Ma che sia riposo, soprattutto. E già so che passerà ancora tanto filo di Crono prima che mi sia concesso il sonno restauratore. Quando si oltrepassa la mezzanotte accade sempre così. O quasi. Un certo eretismo mentale stenta a scomporsi.