domenica 8 febbraio 2009

Susanna frammento 12


26 luglio

Preparativi per la partenza. Domani si torna nella Calamagna, dove fare i bagni è più facile, meno faticoso e per nulla dispendioso. Con la “complicità” del medico, che ha ordinato aria di mare per il bambino, e qualche bagnetto, trascorreremo il resto dell’estate sul luogo di lavoro. I genitori ci hanno goduto abbastanza. Del resto, loro sono in buona compagnia, e impegnati in compiti seri. I miei, nel gestire il fidanzamento della figlia minore, la bella di casa. Il fidanzato è un bello anche lui: un paio d’anni più di lei, alto e ben fatto, biondo e con splendidi occhi azzurri. Lei, bella di tratti, aggiunge al resto due incomparabili occhi verdi. Se matrimonio sarà, ne verranno figli meravigliosi. Imprevisti genetici permettendo (e ferro toccando).

Altri occhi di gemma ci aspettano in Calamagna: due sono gatteschi di colore e aggressività di luce; due azzurrissimi e accompagnati da chiome bionde. Si tratta solo di alunne che frequentano la nostra casa per amicizia di famiglia. Niente di torbido. Le faccio esercitare in problemi di geometria. Sono, tra l’altro, compagne di classe.
Intanto con noi viene un nostro cugino, figlio del fratello minore di mio padre. E’ un ragazzo di sedici anni, Luciano, bello di faccia e di corpo, alto e snello. E vedi coincidenze del Caso, anche lui biondo con occhi azzurri: è il filone normanno della famiglia paterna che si perpetua, dal nonno e bisnonno ai nipoti e pronipoti. Io, purtroppo, come mio padre, apparteniamo alla corrente mediterranea. E forse mezzo araba: giù, dalla nonna paterna, al mio genitore, al fratello maggiore di lui, a me. Ma almeno mio padre è alto e di ossa larghe, io arrivo appena al metro e settanta. Eppure, mi basta per superare in statura gli zii fratelli di mio padre, il maggiore e il minore dei tre: sul metro e sessantacinque il primo, circa uno e sessantasette il secondo. C’è poi mio fratello che prende dalle due ascendenze: occhi verdi e capelli neri.
Immagino i movimenti che ci saranno attorno al cuginetto. Il quale è partito con noi senza la benedizione del fratello minore, Mauro, sacrificato dal padre a vantaggio del maggiore. E lasciato nella vecchia casa avita col muso lungo. Luciano è più bravo a scuola, e non nasconde quella certa aria di superiorità che non concorda con la migliore armonia fraterna. Per nulla afflitto dal malumore del fratello, egli gongola già al pensiero dell’imminente partenza. Vuole perfezionare, dice, il suo nuoto, che a Milano può coltivare poco. Il luogo che ci attende non potrebbe essere più propizio all’intenzione. Sarà, naturalmente, a carico nostro, in tutto e per tutto. Impegno che assolviamo volentieri. Anche Rina non ha proteso difficoltà di sorta e circostanza. Pur sapendo quanto sia ghiotto di dolci il vispo ragazzino latte-e-miele.

Zefiria, 28 luglio

Eccoci di nuovo in Calamagna. Viaggio tranquillo, ospiti in macchina del cognato. Alla partenza dalla Sicania, Mauro, il cuginetto sacrificato, ha finto di dormire: troppo cocente il dolore dell’esclusione per aver voglia di salutarci. Soprattutto, il fratello preferito e il padre responsabile di quella preferenza.
Tutto secondo previsione: questa mattina, al mare, il cuginetto era al centro di occhiuti interessi femminili. Le due alunne che frequentano la mia casa e qualche loro compagna di classe lo hanno accolto con luccicante entusiasmo nella loro comitiva marina. Né lui ha avuto difficoltà a inserirsi. Più brillante, negli occhi azzurri allagati di luce, l’interesse della piccola Lella (piccola di statura, ma giusta di forme nei suoi sedici anni). Ci sarà, probabilmente, un breve idillio stagionale senza conseguenze. Il nostro Giampiero dava segni di gelosia: abituato a occupare il centro di quell’attenzione giocosa, oggi ha avvertito una differenza non gradita: quelle due ragazze, non s’erano sempre dedicate a lui, quasi esclusivamente?
A casa, in attesa del pranzo, Luciano ascolta musica dal nostro registratore. Va matto per i Beatles. Rina, per provocarlo, gli dice che non li apprezza, e lui, tra il serio e il faceto, ribatte che quella “è musica sacra”. L’iperbole stuzzica la mia curiosità, e finisco con l’ascoltare anch’io quella “rivoluzione” musicale. Più in là, magari, ti dirò che cosa ne penso, quaderno. Per il momento, ascolto. Posso solo anticipare che non mi respinge. Dovrò riascoltarne i vari brani per sintonizzarmi meglio. Giampiero guarda il cugino che chiude gli occhi in estasi di ascolto mistico. Chissà che impressione gli fa. Di tanto in tanto lo scuote, stravaccato com’è sulla sdraio della prima stanza, e lo costringe a fargli attenzione. Allora l’adolescente gioca col bambino, e gli chiede pure se quella musica gli piace. Giampiero non si sbilancia: forse preferisce altro genere di suoni. Però non dice che non gli piace. Luciano lo incalza,
gli assicura che quella musica è bellissima. Ma lascialo crescere, Lucianello, dagli il tempo di arrivare ai Beatles per vie e sensazioni social-naturali  gli diciamo, stando al tono giocoso. E ora andiamo che il pranzo già fuma sulla mensa. Vuoi sentire i tuoi idoli anche mentre mangiamo? Non dice di no, anzi luccica nei begli occhi di cauta implorazione. E vabbé, si può. Ma riduciamo un po’ il volume. Giampiero si adegua alle novità: non protesta e ascolta pure lui la strana musica che rallegra il cugino.

Zefiria, Martedì, 3 agosto. Ore 16

Dentro una corrente d’aria che mi fruga piacevolmente i piedi, nudi sotto l’intreccio di cuoio dei sandali; appoggiato a un tavolo in formica, che macchia di rosso l’atmosfera giallina della stanza quasi vuota; seduto su una sedia di metallo e plastica, con la spalliera ancora avvolta nel suo cellophane. Questi occupanti lustri conferiscono un sentore e quasi una promessa di nuovo all’attesa di questo spazio vuoto. Un tavolinetto a cestello sopra un treppiedi verniciato di nero sta in uno dei quattro angoli. Che silenzio.
Ma ecco che l’erede strilla. Non permette che si dorma. Le ha prese dalla madre. Accade, di tanto in tanto. Malgrado Rina sia poco incline all’uso pedagogico delle mani. Ma, si sa, è sempre questione di soglie: ognuno di noi ha le sue, e quando il disturbo supera quella personale, scatta la reazione. Ora magari Rina ha il nodo alla gola, ma non è pentita del suo alt … manuale. No, piccolo guastafeste, non verrò a consolarti, stavolta.

Volevo distillare qualche goccia di questo nuovo corso emotivo. Casa nuova, paese di residenza nuovo; nuovi spazi, un nuovo ritmo del tempo. Casa nuova, nel senso di diversa dalla precedente, ché, in realtà, la casa è abbastanza vecchiotta. Piano terra, il primo essendo abitato dai proprietari, due anziani coniugi con annessa nipote sui vent’anni di non spregevole apparenza. Tre stanze più cucina e cortiletto. Come sistemazione provvisoria, è un progresso rispetto alla precedente, di Siderato: più spazio, maggiori possibilità di isolamento lavorativo, con una stanzetta tutta per me, in cui mi posso chiudere a chiave; comoda camera. Speriamo di trovarci bene, anche col vicinato e i padroni di casa.

Il bisogno del nuovo ha, nel mio caso, ragioni poco ostensibili e giustificazioni sottili. Scarsamente coerenti con deontologia professionale e conseguenti obblighi sociali. Ma tant’è. Ho perfino tentato di resistere alle sollecitazioni contingenti. Ma invano. Come diceva Oscar Wilde? Il modo migliore di vincere le passioni è abbandonarvisi. O pressappoco.. Adelante, dunque. Ma, lo so, con juicio. E ora che t’aspetti, quaderno, che te le spiattelli, quelle ragioni? Con juicio: non l’ho appena detto?
Presenze vaghe, già in linea di volo, riaffiorano sulla pista delle attese cronometranti. Molteplici aperture, sulla misura del nuovo alloggio, si agitano in vieti capricci di immaginazione. Tentano di esigere in contanti di fatti e contatti le cambiali in bianco della fantasia. A tanto ostano alcune ipoteche: da una parte, condizioni particolari dei soggetti – carente disponibilità esplorativa o paralisi di controlli familiari forti; dall’altra, barriera magnetica di polarità coniugale; e titubanze personali, di ambigua connotazione multipla (etica, caratteriale, sociale…).
Tutto questo interagisce con le incerte voglie e le fatue velleità del “serio”. Che guarda, con occhi appannati, all’ancòra non presente, ma facilmente surrogabile tavolo di lavoro; ai mucchi di volumi sparsi sui quattro angoli dell’aerata stanza destinata al ruolo di studio (ma con appendici fantasticate di eventuali espansioni estetiche); ai molti quaderni, mortificati tra sbadigli di libri scontenti. Reagisce, volevo dire, in senso eminentemente negativo e disgregatore. Ancora una volta. Ma tant’è. Un “tant’è” più disforico che euforico.

Il “vecchio”, sotto il nuovo, è sempre quel cruccio, quello scontento che ambisce, con progressivo vigore, al ruolo di sostanza stabile del mio ménage. “Incomunicabilità” è la dignità lessicale aggiornata dei miei rapporti in interiore domo. Estranea al “meglio di me”, l’altra metà del mondo, nella particella che mi compete, produce intoppi, provoca sprechi di tempo, ostacola in ogni modo a lei accessibile il mio lavoro intellettuale (creativo, si suole, ma non mi piace, dire). Il che genera voglia di ritorsioni, aspirazioni a cantucci riservati, assenza di scrupoli. Alibi, insomma. Per qualche evasione di non ingombrante peso. Ma chissà quante volte avrò scritto queste lagne in questi quaderni che mi accompagnano da lustri. Bisogna precisare che “quel cruccio” non è tutto “il vecchio”. L’altro, però, al momento deve tacere.
Sogno di alternative più “eudemonistiche”? Meno edonistiche? Ma no. Le solite fughe. Le solite frustrazioni di un orgoglio mal riposto, peggio orientato. Ancora frusti alibi a una viltà midollare, che è la verità quotidiana della strutturale astenia. I miei conati sono getti discontinui, sgorghi di breve corso e parchi esiti, che svaporano prima di raccogliersi in durature correnti di forze produttive. Così, almeno, accade spesso. Finora, nessun lavoro di lunga durata ha conosciuto il traguardo. Ecco che cosa mi punge. E di brutto.
Questa modica febbre del nuovo può essere, anzi, un sintomo di quella irreversibilità. Non bastano vent’anni a insegnare che i mutamenti esterni non mutano l’interno. O lo mutano poco. Troppo poco per acquisti del tipo sopra imputato. La rassegnazione è una virtù difficile, checché ne dicano i patiti dell’ideale. Rassegnarsi, poi, a consumare una vita che è l’agonia molteplice di gusti e aspirazioni, desideri e ambizioni, è rassegnazione del tipo più impervio. Gli affioramenti dispeptici che escono, di tanto in tanto (media, due, tre al mese) sulla stampa, con la qualifica di articoli critici, elzeviri, mini-saggi, ed eventuale altra nomenclatura, sono, forse, l’ultima insidia della mia nemica costituzionale: insinuano, ancora, e lusingano, che un giorno o l’altro verrà fuori il libro.
Ma come? Ma quando? Se tutto è come prima: ostile ai severi traguardi. Naturalmente, qui si allude al libro organico, monotematico: un saggio su Camus, per esempio. O la ripresa con sviluppata conclusione del saggio su Abbagnano. Come ho già promesso al degnissimo autore. Un volume di scritti brevi, o politici o letterari o filosofici potrei farlo, il materiale ci sarebbe: ma non questo genere di (finti) libri mi tenta.
Animo: la vita quotidiana dell’egoismo biologico sa ancora ascoltare i diritti della carne. Che è giovane e teme il digiuno. E soprattutto di invecchiare nel prevalente digiuno. Animo, sì. Primum vivere, deinde philosophari.
E allora venite, vezzosi volti delle antiche e nuove fantasie: vi attende l’avidità discreta del fallimento fatto corpo in regime astenico-sussultorio.

4 Agosto, ore 16,30

Dovrei credere che le stelle accettino di farsi luce di mistiche lucciole ai mortali stanchi sognanti scampoli di vita nel chiuso delle rigide scatole mute dette stanze? Già. Ma quand’anche: come dimenticare la lunga catena degli spasmi preliminari? Quante attese, questa volta? Quante torsioni di viscere sopra il vuoto beffardo dell’échec?
Perché parlo così? Ma t’ho già detto, quaderno curioso, che il faut marcher avec prudence. Se non capisce il cifrario, può darsi che filtri indenne. Fruga dappertutto, la mia seconda anima: poco le sfugge. Ma qui conto di crearle qualche barriera di arduo superamento.
Mancherebbero, dunque, appena venti giri della spera piccola? No, non me la fai. Non ci casco, non ci credo. Che meriti posso sventolare davanti ai ceffi degli Oscuri per cavarne grazia di compensi epicurei? No, non ci casco.
E come potrei, se tutto il lavoro di questa estate si riduce a tre articolucci abborracciati? Neanche la clemenza di Giove potrebbe indulgere alla stenta pochezza. Animo, Yorick, si alza il sipario: puoi dare corso ai contorcimenti rituali. E porta pazienza, eventuale lettore del duemila: poi espliciterò. Promesso.

Stesso giorno, ore 20

Il previsto ha reclamato la sua porzione di realtà. Alla luce si parano innanzi schermi molteplici. Scontro di tempi in convergenza di coibenti: la corrente non passa, la tensione cresce.
In altre parole? Ma quali, caro il mio quaderno, se ti ho detto che da tempo il tuo destino espressivo si chiama cifra? L’Ossessione vigila, in sembiante crucciato, sotto le rose della grazia contesa dal sospetto. Temo, addirittura, l’ermeneutica esatta del sotterfugio. Sono inseguito, frugato, fin nelle pieghe più fitte e lontane del mio imbroglio psicofisico. Sta attento l’Inquisitore in sembianze di fata: a gesti, parole, sospiri e sillabe. Rapsodicamente, ma non senza fiuto né sterile di risultati, svolge una sua personale fruizione indagatoria della mia casualità mimico-verbale. Mi sento vigilato da una casalinga Psicopatologia della vita quotidiana. Ossequi, doctor Freud.
*
Indizio sopraggiunto a distanza di anni: l’ermetica allusione del testo è rivolta alla fortuita compresenza delle due fatine compagne di classe per le lezioni-esercitazioni di matematica (problemi di geometria, essenzialmente). I rapporti amichevoli fra noi e le loro famiglie sono un ex abrupto per te, quaderno? Sì, ma per ora non intendo ricostruirne il processo genetico. Ti confesso soltanto che la strategia delle due compagne in competizione mirava a un inserimento affettivo di crescente intimità nel nostro piccolo mondo domestico. La loro carriera scolastica poteva venire condizionata al meglio da un buon rapporto con il capo istituzionale del piccolo mondo moderno. E loro facevano a gara nel farsi accettare da moglie e figliolino.
*
I miei sogni? Eccone un residuo: vecchi incontri, coerenze mai perdute. I tuoi precedenti, residuo, datano anni lontani e vicini. Il resto? Vanità, vanità. Mi scrisse una volta l’amico Gulizza: “Sei più ricco di buone intenzioni tu che il lastrico dell’inferno”. Deliziosa immagine: v’è dentro tutta la mia miseria.
E questo inutile chiacchiericcio? Anch’esso: miseria. Gli anni salgono, quaderno: che raccolto preparo alla prole che cresce? Ambizioni universitarie, ambizioni letterarie: sogni, sempre sogni. Bolle di sapone al sole.. Le iridescenze mostrano sequenze simili: lavori cominciati, incoraggiamenti autorevoli, conati di corto respiro, rinunce. E conseguenti frustrazioni (così poco igieniche!).
Che nausea. Né il tono cambia: scrivevo così dieci anni fa. Non ero sposato, non avevo figli, non avevo laurea, non stipendio di sua maestà lo Stato: ora che ho tutto questo sono lo stesso. Un fallito. Il dubbio è: intero e rifinito, o parziale e semilavorato? Posso usare entrambe le versioni: la prima, in riferimento alle ambizioni-sogni maggiori; la seconda, alle aspirazioni meno velleitarie. Perché saprebbe di burla una diagnosi più catastrofica: qualcosina ho pur fatto, in campo culturale, intendo. E non voglio straziarmi fino al masochismo estremo.

9 agosto, sera

Un fallito che stenta ricami di antica fattura alla gioia difficile del fallimento. Parole parole parole. Sembra proprio che siano il mio destino. A volte mi pare che la mia stessa carne sia impastata di parole. Troppi nervi, dice un personaggio di Sartre. Troppi nervi, in verità: mi affliggono.. A tempi alterni, e colpi di variabile intensità debilitante. A volte sono un roveto nella gabbietta cardiaca, altre volte s’impigliano in qualche tratto dell’intestino grasso.
Anche se non sono ancora ridotto alla liofilizzazione verbal-cartacea denunciata (e goduta, esorcisticamente) nell’autobiografia sartriana Le parole.
*
Grande giornata, oggi: alla redazione del Gazzettino trovo i miei articoli pubblicati nel numero di questa settimana. E altre cosette eccitanti: una garbatissima lettera di Marcello Venturoli, l’autore del molto autobiografico romanzo Lo Sprecadonne, l’ultimo libro da me recensito; e un ritaglio dell’“Eco della stampa”. Si tratta di una pagina della rivista Talenti, che riporta una violenta lettera di protesta scritta (sgorgata, piuttosto, ab imo vulnerato corde) da una signora romana contro il sottoscritto, colpevole di avere stroncato il colonnello poeta Gaetano D’Ambrogio.
La signora Alina Magistrati dice di averne mandata copia “a tutti i giornali e le riviste d’Italia”. Pensa un po’, quaderno, che razza di fatica (e pubblicità gratuita). E solo per contestarmi il diritto di critica: quale affetto o amore doveva legare la signora al poeta D’Ambrogio. Il quale, apprendo dall’ “Eco”, è morto in questi giorni. Un autorevole amico mi ha detto, celiando: ti sta sulla coscienza. La battuta, per scherzosa che fosse, non mancava di un suo brivido. Mi ha scosso. Non che io mi senta così in peso da poter provocare un infarto alle mie “vittime” letterarie, ma ci sono rimasto male lo stesso. Non è piacevole scoprire di aver colpito un uomo così vicino alla pace eterna.
Un rodio mi tarla il pensiero: davvero si potrebbe escludere che la stroncatura abbia influito in qualche modo su questa drastica conclusione? Le vie del Signore, si sa, sono infinite. E capricciose. Non era, comunque, un giovanotto: da anni in pensione, doveva aver varcato, e non da poco, la soglia dei settanta. Proprio, non riesco a smaltire il disagio. Quasi quasi me la prendo col mio maestro di stroncature, Gulizza, ispiratore vagamente diabolico. Ma certo i versi del colonnello erano (sono) una provocazione anche per il sadismo più misericordioso e caritatevole: un misto di carduccianesimo spiritualizzato e di secondo romanticismo revenant, affidati a un lessico “alto” e arcaizzante. Il tutto, in una béchamel di religiosità diffusa.
Il direttore della rivista ha così commentato la lettera della signora, a sua volta “poetessa” (e presunta amante del defunto): “Solo ora apprendo con dolore la triste notizia della morte del caro Gaetano D’Ambrogio, poco conosciuto, forse, dall’Assaggi. Noi esseri mortali, purtroppo, siamo abituati, caro Lo Frate, a dire di quello e di quell’altro senza renderci conto di ciò che scriviamo; non per niente facciamo sentenze, e in questo caso direi: lasciamole ai Posteri!”. Un pezzullo degno della lettera. E chi sarà questo Lo Frate? Sodali dello stesso cenacolo, probabilmente. Ecco una delle piaghe più infestanti dell’Italia scrivente: i poeti (e soprattutto le poetesse) a produzione auto-gestita. Per fortuna incruenta (dovrei aggiungere: salvo imprevisti?).
Alla signora Alina io ho risposto, tempo fa, sul Gazzettino, la cui sede redazionale in Siderato aveva ricevuto la lettera direttamente dalla mittente.. Una “lettera al direttore” che ha fatto un “glorioso” giro fra i non eccelsi campioni paesani dell’intellighentzia calamagnese. Molte congratulazioni da letterati e lettori abituali di giornali e giornalini: colleghi, amici, librai, giornalai. Categorie non sempre ben distinte: qualche libraio è anche collega e idem qualche giornalaio: in genere, tramite fratelli e altri parenti, cui sono associati nell’impresa, ma senza figurare. Nella lunga risposta sono stato paziente e ironico, fintamente problematico ma convinto difensore dei miei giudizi. E del mio diritto alla libera critica (come del suo alla critica della critica).
*
L’altro settore mi fa registrare movimenti sismici di qualche rilievo. Gli astri hanno mandato qualche raggio fino a questo covo di speranze clandestine, sicché io…ho lavorato un po’. Poco, pochissimo, se vogliamo; ma anche quanto basta a negarmi l’autorizzazione a procedere contro la malasorte. Almeno per una settimana. Era il meno che potessi aspettarmi dal mio sacrificio: il trasferimento mirava a più serene possibilità di lavoro creativo (di varia ispirazione).
Ma la mia fame guarda a nuove altezze, quaderno. Il pericolo della sterilità minaccia sempre, incombente. E punta l’arco contro la mia consistenza di uomo e di studioso. Del resto, senza il brivido del rischio, quali chances si sono mai offerte alla modesta avidità nervosa del mio corpicino proteso agli assaggi? Ora, ahilui, anche con un’incipiente e già lievemente visibile pancetta!
Al centro di piccoli gorghi drammatici, mi sono sentito perfino preda contesa di pretendenti molteplici: chi vuole i miei articoli qua e chi li vuole là. Vorremmo accontentare tutte le direzioni, io e le mie risorse non esorbitanti. Ma certo il Nemico vigila. Dico, non solo il Nemico baudelairiano, Crono mangia-speranze, ma l’altro, anche, quello interno alla mia situazione anagrafico-sentimentale e sociale. Che tempestività, che prontezza nel rompere i sottintesi! Prontezza e vigilanza di tutti i giorni e di tutte le ore, comprese le più generose. Ah, mia “seconda anima”! Capisci a che cosa alludo, quaderno? E a che person?
Il cuore, poi: picchia e punge. Mi sembra di avere l’antico roveto, ridesto e di nuovo virulento.
Ma tu, ultima sintesi delle mie maldestre alchimie, sei davvero quella formula che dici? I miei alambicchi potevano distillare tanta e così originale ambrosia? E tu, asteroide delle mie sere agostane, quanta (ignara?) menzogna mescoli al tuo sincero impegno di controllare l’intera gamma delle mie risorse?
Ancora un tu, per chiudere in bellezza: Giampiero, nodo dei miei viluppi, acqua fresca di questa arsura moltiplicata, ti meritavo io? Piccolo miracolo scorrazzante per la casa e il mio paterno corpo commosso, a te soprattutto vorrei dare di più. Di più. Di tempo, protezione, futuro. Sicurezza…
Ma, donde questo ghigno improvviso? Forse dal futuro? Chi mi ride in faccia dall’ombra?

10 agosto, ore una

Cioè, ancora piena notte. Indi, noterelle in fuga verso il letto. Dove continuerò a intrecciare corone di immagini attorno ai desideri frustrati e agli appetiti ancora vibranti. Non senza aver tentato di propiziarmi una porzione decente di sonno mediante un introibo di lettura leggera. Sempre che Rina sia già scivolata nell’innocenza morfeica, e io non la disturbi, con la lampada da comodino accesa. Capita, e non se ne mostra entusiasta quando capita: brontola e mugugna, tagliandomi i tempi. E mi riesce ancora quasi incomprensibile il contrasto tra il suo viso dolce e questa reattiva intolleranza brontolona. Lo sento come una specie di ossimoro fisiologico.

10 agosto, sera

Il marchent devant moi, ces yeux pleins de lumière / Qu’un Ange trés savant a sans doute aimantés / Ils marchent, ces divins frères qui sont mes frères / secouant dans mes yeux leurs feux diamantés
Baudelaire, Les fleurs du mal
*
Prono al loro potere, lascio che il desiderio danzi la sua delusione sublimata al cospetto del mare, che ammicca di schiuma. La spiaggia s’allunga, pigramente, sotto la febbre di un sole crudele; il mare, languidamente lento, morde distratto il ciottolame estroso, di forme e caratura. Un prato di ombrelloni tinge di bizze cromatiche l’aria di fuoco appena temperata da un sospiro di brezza. Sotto la tenue difesa, una serra di carni nude si offre al dio implacato.
Nella mia aiuola, il fiore bruno dal gambo lungo dardeggia les yeux luminosi sotto un cipiglio crucciato. Il fiore dorato dal gambo corto contende l’espace du mon coeur all’assalto pacato del gambo lungo. Possiede e usa armi non meno incisive. Les yeux jaunes et les yeux azurs intrecciano danze sul tappeto dell’anima, e l’anima vibra, memore di antiche ebbrezze che il Nemico, nel complicato presente, le vieta. I miei anni sono quasi la somma dei due addendi pleines d’attraits, che fanno pace e guerra sul mio corpo di battaglia. Ma chair vibra rastremata nelle sue contrade più segrete.
Ahimè, la grazia dell’abbandono è merito di altre date, e tuttavia chi cambierebbe la presente tristezza dall’aspra voluttà inquinata con le figure trascorse dei miei “trionfi” d’un tempo?
*
Il fiore dal gambo lungo, maintenant, è in gara con le lancette. Vinceranno ancora loro, e perciò l’Insidia invincibile che incombe legittima sull’affaire? Insomma, tarderà tanto da incrociare il meno desiderabile risveglio pomeridiano? L’Enigma, ora, abest. Presumibilmente, in braccio, ancora, al medium Orfeo. E farà in modo che il gambo breve intersechi la traiettoria del suo bramato presente concorrente? O mancherà del tutto, il bramato, alle vibrazioni dolenti di questi nervi futilmente logorati?
Ore cinco de la tarde: l’ora di Ignazio e della rossa arena. Che c’entrano come i cavoli a merenda. Ma qualche volta si mangiano cavoli anche a merenda. Il mal di stomaco, probabilmente, avrà il suo pessimo ruolo.

Ore 0,10 Tra riflessi di luce elettrica e sbuffate di vento consolatore, dopo oscena canicola diurna, rimemoro l’ultimo avatar del mio élan vital. Le chances non sono state quante la gola dell’immaginazione aveva ipotizzato, ma quel tanto di fatica che sono riuscito a mettere all’attivo mi consola un po’ dello spreco di lunghi mesi.
Anima mia, perché fuggi? Il tuo ruolo è quello segnato dal respiro profondo del nostro essere. Se l’io-corpo non concede di più, piangere sul non fatto è ancora spreco. Faccio quel che posso, farò quel che vorrai. O Despota. Leggere scrivere progettare sognare. Y querer. O, alternativamente, flirtare. La misura è avara? Anima mia, non puntare all’impossibile, ma esaurisci il campo del possibile. Del tuo possibile. L’ha detto un uomo più grande di te. Altri ammonisce: bisogna adattare la fame del corpo-mente alle risorse assegnate dal Despota: l’Ananke bi-spiralato, invisibile e onnipotente, che tutto pone e dispone. La mia durata non sarà lunga: quel tanto che la riempie gradevolmente sia benedetto. E si paghi pure lo scotto (se non sarà eccessivo). Amen.

Problema. Se mentre l’edoné scuote le mie fibre di rapinosa febbre migliaia di miei simili crepano nei lunghi tormenti, e l’attimo dell’orgasmo combacia con lo spasimo atroce dei morenti, che posso farci? Mi dispiace, certo. Ma a ben calcolare, dedicando solo una manciata di secondi di commozione astemia ad ogni sciagura che s’abbatte tutti i santi e maledetti giorni sul mondo, non ce ne resterebbero per “bere al calice della vita”. Sic stantis rebus, se sciagura è da considerare anche la morte individuale, comunque subita e raggiunta (ma specialmente se in eccesso di sofferenza e in avaro difetto di tempo biografico), non resta che il prosaico alibi sincero: lontano dagli occhi…
E magari mi imbarazzerebbe dirlo ad altri, ma così è. Non gongolo a pensarlo perfino in questa solitudine di notte e silenzio. Ma che posso fare e farci? O non fare. Non ho inventato io il bel gioco. A dirla tutta, sensibilità nativa e formazione congruente, di cultura ed etica, hanno disturbato più volte i miei momenti estetici. Ma la forza dell’astinenza non è stata prevista nel mio corredo cromosomico. Ancora: che farci? Ricordi, mio doppio? “Ma se un montone dicesse a un lupo affamato: ‘Tu manchi al bene morale se mi mangi e Dio ti punirà’; il lupo gli risponderebbe: “Intanto io faccio il mio bene fisico, e v’è tutta l’apparenza che a Dio è indifferente che io ti mangi o no”. O giù di lì. Il mio mangiare, poi, è sì modesto! Anche monsieur Voltaire gli sarebbe indulgente.
*
Stasera il telegiornale ci ha detto degli ultimi morti di ieri nel Vietnam, e di una sciagura negli Stati uniti. Nel Vietnam, questa (ennesima) versione terrena del mitico inferno, si continua a morire in malo modo, tra bombe, napalm, fosforo giallo, e altre diavolerie inventate dalla divina Libertà liberatrice. Negli Usa, è esplosa una rampa sotterranea per missili: 55 morti, finora. A beneficiare dell’incidente, lo Stato del Kansas. Con un po’ di cinismo, si sarebbe tentati di pensare a una cieca (anzi occhiuta) Nemesi. L’immaginazione fa sforzi lodevoli per darsi la visione di tanta sofferenza, ma il polso del sangue la distrae presto verso presenze percettive più immediate e corporee. Massime se sono appetibili.
Sangue e strazi, piacere ed ebbrezza: la miscela è vecchia quanto il baraccone fenomenico. E vale tutte le ricette del tempo. E tu, mon cœur heureux, n’oublie pas que j’ai baisé ses lèvres trop desirés. Après quoi, j’ai lui dit, je suis prêt au dernièr voyage. Ma non è vero: Ich möchte, anzi, hundert Yahre zu leben. Non fosse che to remember this magic moment.
*
I galli cantano già. La magica voce fende la notte muta in controcanto col tonfo solitario di qualche passo contadino troppo pesante. La notte avanza verso il mattino con improvvisa fretta. Ronza una mosca intorno alla lampada che pende sopra il tavolo. Ronzano le mie orecchie, di stanchezza fisica. E un po’ anche di irritazione. Perché? Intrusioni del Super-io, o senso di inadeguatezza? Di un vuoto non riempito, per mancanza di decisione, di audacia? Che pretendo? Domani è un altro giorno. Inutile? Non più di questo, già scivolato nel pozzo nero. Il pozzo senza fondo del caro Nulla eguagliatore. Non più o non meno: vanitas vanitatum…
*
Ahi, per la via / odo non lunge il solitario canto/ dell’artigian, che riede a tarda notte, / dopo i sollazzi, al suo povero ostello;/ e fieramente mi si stringe il core,/ a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia […]

Caro Giacomino. Anche la mia personalissima “sera del dì di festa” è passata, dissolta nel buio del Grande Imbuto. Dove va a finire “ogni umano accidente” (compresi quegli accidenti colossali che sono gli eoni della Storia, con il loro immane carico di strazi e glorie al sangue). Ma non sto tentando di paragonarmi a te: né per commercio di muse né, tanto meno, per destino di sofferenza: troppo più grandi del mio corrispettivo, per osare confronti men che osceni. Ma lasciati usare “come ditta il core”, e ringraziarti dal suo imo.
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Gli ombrelloni variopinti attendono sulle spiagge sconfinate di queste plaghe marine: domani, forse, un altro bagno. In fiorita compagnia di tenere carni rosolate dal truce sole di questi cieli africani. Inutile? Finché fame preme, no: non c’è inutile davanti agli appetiti ridesti. Che la notte filosofeggi a dirne l’omnia vanitas, si può concedere: contesti diversi, differenti valutazioni. Purché un velo di sorriso stemperi d’ironia la tentazione assolutizzante.
Il fiore dal gambo lungo e il fiore dal gambo corto hanno reclinato il capo in grembo a Morfeo? Quasi certamente sì. Il pensiero del pedagogus, un leggero spolverio di immagini del maître nel più recente passato ha accompagnato il lene spegnersi della memoria nel sonno riequilibratore? E chissà, chissà che nei loro sonni contemporanei a questa veglia non ci sia anche il non indifferente Lehrer, così presente nei domìni del sole diurno. Chissà. Care pupille.
O forse il fiore dal gambo lungo protende ancora i petali alla notte stellata nel boudoir dell’immaginazione conquistata. Non sarà stato certo il primo Kuss in assoluto, ma il primo del suo genere, sì. Come dichiara lo stesso fiore di poche parole. Non tutti i giorni ein Lehrer kusst eine Schulerin in piena reciprocità di corpo e di mente.
Buona notte, fiori (e sassi) di tutto il creato: vado a frequentare quelle strane creature e quei luoghi orrendi, ma a volte belli, che il proiettore del libero flusso disegna sullo schermo del riposo. Ma che sia riposo, soprattutto. E già so che passerà ancora tanto filo di Crono prima che mi sia concesso il sonno restauratore. Quando si oltrepassa la mezzanotte accade sempre così. O quasi. Un certo eretismo mentale stenta a scomporsi.

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