venerdì 13 febbraio 2009

Susanna frammento 13


1 agosto, ore 0,15

Certo, una rosa di scelte si apre sempre al nostro debito verso la “dimensione del possibile” (linguaggio filosofico); ma resta inconfutato il fatto che tutte le scelte sono inscritte nel cerchio del nostro destino profondo. Ossia filtrate dalle strutture immutabili della nostra fisiologia molecolare. Immutabili, certo. Almeno fino a questa epoca della scienza pertinente e manipolante.
Ripeto vecchi errori, ripeto antiche “vigliaccherie”, ripeto remotissimi gesti atti rinunce (soprattutto) con una puntualità che sgomenta. Sono capacissimo di fantasticare occasioni felici, di lavorarci per crearmele, di riuscire a produrle e poi, al momento di coglierne il miele, me le lascio sfuggire. Non faccio un passo per raggiungere le promesse, per tradurne in gesti e azioni le pazienti lusinghe. Non riesco. Uno strano, improvviso blocco mi ferma. Mi prendono vili prostrazioni, esito, rimando, peso e soppeso eccessivamente i possibili effetti di ogni gesto. Finché l’occasione sfuma. E mi sento trillare intorno un fantomatico riso di scherno. Come se le cose, i miei libri, il tavolo, tutti gli oggetti della stanza, testimoni coinvolti delle mie fantasie, si animassero a produrre rimproveri, ironia, sarcasmo. Un’esperienza lacerante. A suo modo. Dopo, risalire la china dal capitombolo è impresa faticosa e di lunga durata. Così mi accade
nel lavoro, così nelle piccole vicende della vita quotidiana. Così, soprattutto, nelle parentesi “estetiche”: dove il fatto (anzi, il non-fatto) è più frustrante. Una specie di pulsione di fuga davanti a previsioni d’ostacoli difficili e di faticose conquiste. Insomma, paura di dolorosi insuccessi e penosi rifiuti.
Oggi? Ma non vale la pena parlarne. A che alimentare la tensione del rancore che ci divide? Noi, fratelli siamesi che si odiano. Uomo senza qualità scisso tra le qualità e l’uomo, questo e quelle incollate dall’impotenza. Impotentia operandi.
I fiori profumano, ma io non li colgo. O i petali che colsi nel breve tempo, già scivolato nelle fauci del Mostro onnivoro, sono aghi di rimpianti nella carne avvilita. Sono labbra protese, forse invano, sorsi nuovi che nell’arco declinante non hanno benedetto la gola riarsa. Insomma, pas suffisant ce que j’ai fait…
*
Chi ti contende a me? Che cosa da me ti allontana, gloria, successo, oblio della tragica oscenità del vivere? Tanti nemici, ma il nemico più forte e tenace sono io stesso, sono i miei nervi ignobili, i miei ormoni deboli, il mio Dna rinunciatario. Questa era l’occasione del buon successo. Me la sono lasciata scappare, scivolare tra le dita. Incapaci di stringere, vile che sono. Di stringere il duplice serto: del serio e del lieve. Dell’etico e dell’estetico.
Questo flusso (lento? veloce?) di giorni vuoti, ma aperti all’attesa; questa corsa d’ore bruciate nel sole e nel sale marino, saranno il mio prossimo e più acre rammarico. Masochista senza fulgori, mi lascio rodere da giorni senza balzi di possesso, senza paci d’acquisti.. La cattiva coscienza pompa un sangue vieppiù malato e la banalità m’imbroda nel vischio dell’inerzia irredenta. Forse (ma perché dico forse?) la materia di cui è tessuta la mia carne è, senza rimedio, la viltà. E allora è inutile, Caso, che protendi le tue concave mani ricolme di inviti. Sarò sempre colui che attende. Che attende ciò che non sa prendere. Che rimanda, rinvia, sposta a domani. Colui che sogna, ma ha paura dei sogni che scivolano verso la realtà. Uomo dell’eterno poi, del futuro che langue e sfuma…
Care presenze protese. A che pro? Non sono degno del vostro consenso. Dileguate pure verso migliori esiti: il vostro sorriso è sprecato con me.

*
Dieci lavori iniziati, nessun volume al mio attivo. E gli anni non sono più pochi. Perché questa incapacità di completare, di chiudere e concludere? Perché la parola fine mi si trasforma in sberleffo quando i miei lavori si avvicinano al compimento? Forse perché l’antica fame non è ancora abbastanza trasposta e sublimata? Voglio dire: la porzione destinata a quella metamorfosi non è ancora proporzionata alle ambizioni? Ma quanti che di me migliori non sembrano conciliano opposti e divergenti! A me non è sufficiente il corpo, e la stanchezza è la mia dimensione più vera. La mia forza erompe in getti magari impetuosi, ma ricade presto in pioggia di stenti. La tenacia, la costanza, l’assiduità, la continuità sono valori assenti dalla mia assiologia vitale.
Chissà quante altre volte ho spremuto identiche lagne su queste pagine rigate come sentieri interrotti. La Ripetizione, invece, questa sì, mi concerne. Fin troppo. Ma non quella kierkegaardiana, non la fedeltà, il collante del Dovere, la volontà-voluttà del compito. La mia è la ripetizione ignobile: la freudiana, coattiva ripetitività degradante. Amen.
*
Ora rivolgo un pensiero a te, Occasione perduta. E mi avvio al rifugio dell’antica vergogna. Le mie tre ore di sonno non posso permettermi di perderle (come perdo le buone chances). Meglio se saranno quattro, o cinque.. Il cuore geme sotto gli aculei della sua nevrosi nicotinizzata. Diamogli tregua. O farà le bizze.
Unico acquisto del giorno perso: un altro bagno. Sono andato sott’acqua, ho fatto il subacqueo, mi sono concesso a qualche scherzo di comitiva.. Soprattutto, sono stato un po’ lontano dalla spiaggia con una creatura che alimenta, ignara, i peggiori exploits dello squilibrio domestico. Ad majora. Dicesi il fiore dal gambo corto.
E “mosca” sui conversari marini, a distanza di sicurezza acustica dalla ghiaia affollata. A quando, quaderno, la stura a questo rodìo imbavagliato che brama tracimare contando e cantando? Lascio pagine bianche nei quaderni, con la speranza di riempirle quando che sia. Ma temo che scambi illusione con speranza. Domani, cioè fra qualche decennio, quando li riprenderò, insidiato da nostalgie e rimpianti, non saprò che cosa avrei voluto e potuto scrivere in quelle pagine immacolate. Folle di fatti, di parole, gesti saranno buio totale. Al più, e solo in parte, vaghe ombre di frammenti confusi.
Tuttavia, del dialogo marino di stamane posso annotare l’ispirazione innocente della controparte. Che malizia può tracimare da confidenze adolescenziali di un’alunna promossa ad amica di famiglia? La fanciulla confidava sogni e progetti, sentimenti puri di attesa e sospiri protesi a un futuro amoroso di leale normalità. Dove sarebbe lo scandalo, puntando a un menage regolato in riti e miti, ma di sostanza affettiva salda e profonda? Sì, lo so: Rina non approva queste confidenze fra professore e alunne, anche se condotte in purezza di amicizia. Esagera.

31 agosto, ore 23 e 40’

Ti restano venti minuti, mese delle mie attese. Fra poco le lancette si saranno sovrapposte, e, come le pagine di un libro che si chiude, premerò l’una sull’altra le ali estive della mia irrequietezza sprecona. L’autunno incalza: sentori di vecchie routines filtrano tra i batuffoli sporchi delle ultime nubi agostane. Il lavoro al servizio dello Stato mi riprende. Mi merita. L’irrequietezza sprecona sarà meno sciupona: una bella fetta d’energie e di tempo del mio totale astenico sarà assorbita dal lavoro professionale. Il meno contestabile al tribunale di Rina.
Oggi ho rivisto vecchi colleghi, graziose colleghe, giovani volti nuovi. E anche rospi di colleghe.
*
Ma oggi ho “rivisto” soprattutto te, grazia delle grazie, fiore di luce, spina nel cuore. E succhiando il miele della tua bocca ho incontrato i miei anni lontani, le notti agostali dei miei giorni iridati. Ho immerso la mia madeleine nel tè delle tue labbra e la folla dei ricordi s’è sciolta in nuova linfa di vita col tremore del mio cuore-corpo.
Ho chiesto al Mistero, con l’animo di un tempo, come avvenga che tanto convergere di linee, colori, angoli morbidi e delicate masse; che così sciolta danza di molecole e atomi e quanti di luce stringa l’esito inverosimile di tanta perfezione. Che meraviglia se un tempo più felicemente ignaro poté erigere troni d’Olimpo a siffatte vittorie della Forma sulla Materia? Dea: chi più di te? E se questa Presenza tanto mi tiene che ogni sibilla svanisce nel piccolo registro dei miei calcoli strani, non ho diritto, quaderno, di dire: miracolo?
Esagero? Certo. Ma in difetto, non in eccesso. Se, infatti, un gesto si potesse giustificare in questa chance, dovrebbe portare l’indice in croce sulle labbra. Quali cose dire, insomma, che non sia spreco, scacco, offesa alla verità? Sciocco: dove trovo il coraggio di stroncare quei candidi impotenti che tentano poesia cianciando d’infinito, d’eterno, di cieli immacolati? Quando l’essere sorride da tanta armonia e seduce con siffatte armi di perentorio fascino è quasi più sciocco non essere sciocchi.
Salve, o Sconosciuta troppo nota: altra realtà mi reclama, con grida di bimbo. Ci rivedremo? Congiungeremo ancora i nostri pneuma? Ah, non poterti sorbire d’un solo lungo sorso, ambrosia infinita, insieme con le grida dei bimbi e la pena dell’impotentia dicendi. E il resto ch’è pietà tacere!
*
Rileggo. Una ferita salta agli occhi: una breccia nella corazza ermetica. Devo rafforzare la vigilanza: come escludere che un’incursione della mia mezza arancia possa risolversi in una decrittazione drammatica? Un’incursione indotta dalla mia ricorrente disattenzione. Dovrei cancellare l’indizio. Ma come? Stracciare il foglio intero e sostituirlo con la solita manfrina della chiave e della cifra. Così com’è, il testo non è di ardua lettura nemmeno per un occhio meno sveglio del legittimo partner dei miei. Quella perfezione, quel miracolo, quella grazia: sono indicazioni troppo vicine al quotidiano domestico perché se ne possa equivocare decisamente il senso. E trasferirlo, magari, a qualche remota conoscenza estranea al suo campo visivo. Tanto meno potrebbe riferire a se stessa sì calda euforia celebrativa. Si sa bella, è vero, e non ignora che l’ovvio riconoscimento altrui non mi è estraneo, troppo le rimbalza da ogni sguardo di maschio
(e anche di femmina); ma quanta distanza da questa normalità percettiva a quell’esaltazione vulcanica! No, non andrebbe mai a ficcarsi in pensieri così bislacchi.
Allora: stracciare e sostituire (magari col silenzio appena “soffiato” di brezzoline allusive)? Oppure lasciare e rischiare? Impervio dilemma. Se consideri che la spinta maggiore preme per una scrittura a cieli aperti! E che con sudata fatica freno quella pompa.
Intanto lascio tutto com’è. Del resto, ho la sensazione che non sia precisamente la prima volta che qualche fessurina si sia aperta nella stoffa della cortina protettiva. Sarà quel che sarà. Ma prometto più immanente vigilanza.
Mi accorgo solo ora che sono passati venti giorni dall’ultima pagina. E cinque pagine bianche separano quella da questa. Ancora sarei in grado di riferire i principali eventi di questa doppia decade; ma fra qualche mese, sarà tutto perduto. Spero di riuscire a fissarne qualche scampolo nei prossimi giorni.

(Fogli, codesti ultimi, strappati al quaderno e rintanati fra pagine metafisiche di un grasso volume filosofico: la Logica di Hegel. Collocato sulla mensola più alta della libreria svedese: altezza giusta per la sua (di Hegel, intendo) imponenza. E ritirati fuori, i fogli, dopo tanti anni, per questa trasposizione in video-scrittura)

7 settembre

Oggi, a scuola discussione “teologica”. Il collega di latino mi provoca, incrociandomi nel corridoio: “Allora, filosofo, sempre in rotta con gli dèi? Sempre convinto del tuo baldanzoso ateismo?” Preso alla sprovvista, non ho dato una risposta brillante. “Certo, letterato: più che mai. Hai scoperto qualche verità capace di annullare l’evidenza?” S’era accesa la miccia. L’imprevisto dialogo non poteva che continuare con il solito ping-pong di questi casi. Lui: “Non ho bisogno di scoprire nuove verità per confermarmi l’impossibilità logico-ontologica di qualsivoglia ateismo.” Io: “Quasi t’invidio la beata simplicitas di questa sicumera paradossale. Direi che c’è perfino una certa bellezza nella sua improntitudine logica: la stessa che si coglie nelle stramberie logiche dei bambini.” Lui: “Andiamo sul pesante?” Io: “Direi sul leggero, piuttosto, atteso il calibro degli argomenti sottesi. E poi, non vedi che parlo
sorridendo.” Lui: “Un sorriso che sprizza ironia.” Io: “E’ solo cordialità amicale.” Lui: “Sarà, ma non traspare.” Io: “S’è opacizzata strada facendo. Ma torniamo al fatto, cioè agli argomenti.” “Torniamoci” Ed ecco l’effetto; una lezione di psicologia e di psico-ontologia. Probabilmente un po’ prolissa. E certo inutile.
“L’impossibilità logica dove starebbe? In questo, suppongo (ma in real-
tà, ne sono certo): c’è il mondo? Dunque Qualcuno lo ha creato. Questo Qualcuno è Dio. Semplice, no? Troppo: nell’ora di psicologia io insegno alle vergini menti delle nostre allieve che questo “sillogismo” è soltanto un modesto esempio di artificialismo, malattia infantile del causalismo. Leggi, almeno, Piaget e apprenderai che uno dei parametri della mentalità infantile è proprio l’artificialismo: il considerare le cose naturali come prodotti para-umani, dunque effetti delle azioni di un artefice. Che, naturalmente, viene immaginato, alla grossa, come una replica amplificata dell’unico modello a nostra conoscenza, l’uomo, l’homo faber, produttore di mirabilia. Il vulnus logico sta in questa assimilazione del mondo a una “cosa”. Ora il mondo non è una cosa, ma la totalità delle “cose”. E degli eventi: naturali e antropici. Né questa totalità è esauribile in qualsiasi modo dalle risorse cognitive umane. Un po’ perché
fisica e astrofisica, punte avanzate della scienza di frontiera, scoprono sempre nuove realtà e possibilità di relazioni fra le seminote realtà esplorate. Un po’ perché la “definizione” di una cosa è, ancora oggi, impossibile: nessuna cosa è conosciuta “assolutamente”, nessuna conoscenza umana, scientifica o fattualmente empirica, è esaustiva. Non sappiamo, insomma, dove comincia e dove finisce una “cosa”. Come dire: bisogna aver risolto l’ultimo problema della fisica subnucleare per potere azzardare l’ipotesi di una conoscenza esaustiva. Così stando le cose, ogni oggetto, ogni sostanza, ogni evento rimanda alla totalità degli oggetti, delle cose, degli eventi. Pretendere di accoppiare una Causa efficiente a tanto Effetto è una libertà delirante. Ma anche senza apparato epistemologico, anche accontentandoci della nozione empirica e prefilosofica di conoscenza, resta in piedi l’obbiezione che il mondo non può essere
assimilato a una cosa, a nessuna cosa. Pure usando il vichiano verum ipsum factum, e ammettendo di conoscere (soltanto) ciò che facciamo (produciamo), la combinazione ‘mondo-Dio’ scoppia. Già l’acuto Hume respingeva l’assimilazione del mondo a una cosa, di cui si possa, perciò, pretendere la causa produttiva. La quale, poi, si scontra con altri “vizi” (o vezzi) della mentalità infantile: magismo, pampsichismo, antropomorfismo.”
Lui: “Basta, basta, per carità. Troppa grazia, troppa sottigliezza filosofica. Io mi attengo a cose più semplici, e mi accontento della bella tradizione tomistica: il mondo c’è, implica una Causa prima. Con quel che segue.” Io: “Chi si contenta gode, e personalmente ripeto che il mondo è grande.” Pensiero completato mentalmente con una degna coda: “e pieno di stronzi logici.” Né lui desiste: “Del resto, sono convinto che tu non pensi seriamente, cioè profondamente, con tutto te stesso quello che dici.” Io: “Vero, lo penso comicamente e superficialmente.”

9 settembre

Oggi la tentazione s’è introdotta anche nelle classi. Una delle ragazze più reattive, amica della famiglia del collega bigotto, è stata da costui informata della conversazione di ieri l’altro. E la pimpante donzella, di seconda classe, ha pensato bene di accendere in aula un fuocherello dialettico sullo spinoso tema. Ci sono cascato. Era una trappola? Forse la girl non era preparata in filosofia e ha distratto l’impegno docente su quella conversazione. Ad ogni modo, ho ripetuto le argomentazioni di quel giorno, anzi integrandole con l’altro volto della mia resistenza alla Grande Menzogna. Il volto della verità nuda contro l’idolatria chiamata religione. Ben altro che cose “puramente” logiche, dicevo alle silenti allieve protese al mio verbo: “I miei argomenti contro la superstizione, pardon fede, guardano all’abisso di crudeltà del mondo malriuscito. Il quale, se un sospiro di serietà argomentativa residuasse nel repulisti mentale
dell’atteggiamento fideistico, imporrebbe di supporre un Autore smisuratamente sadico. Ma, si sa, l’atto di fede spazza via ogni consequenziarità logica. Compresa quella stessa che invoca per quel tanto che gli serve a inventarsi un Creatore. Come negare, altrimenti, l’assioma che assegna alla causa ‘almeno tanta perfezione quanta ce n’è nell’effetto’? Dunque: tanta perfezione nel mondo, altrettanta, o di più, nella Causa. E siccome il mondo fa schifo, non foss’altro per la quotidiana strage e sevizie d’innocenti (intendo, cuccioli e bambini), non resta, a fil di logica, che attribuire alla presunta Causa le belle qualità del mondo, anzi amplificate ad infinitum. E a chi mi accusa di ignorare le cose belle del creato, le tante cose belle e buone che pure non làtitano in questa insidenza taroccata, rispondo con nauseata impazienza, che respingo ogni sofisma falsamente equilibratore. Gli intervalli di benessere e piacere fra una
sventura e l’altra non bastano a fare quell’equilibrio. Come obliterare, poi, il fatto, terribilmente esteso, che spesso il piacere coincide con la violenza torturante di vittime impotenti? Né si può invocare una brutale aritmetica in siffatti argomenti. Ricordo Ivan Karamazov: “Se il mio ingresso in paradiso deve costare lo strazio anche di un solo bambino, restituisco il biglietto e dico: No, grazie” (cito a memoria). Poi accompagno Ivan col suo maggiore interprete, Albert Camus. Ma senza ignorare neanche la débâcle del timido Dostoevskij, la sua vita segnata dal trauma della finta esecuzione, la sua resa. Una stranezza che merita l’ingresso-premio fra i mirabilia del credere: dopo un’argomentazione nobilmente sottile, anzi semplice, in Ivan, quel voltafaccia, quel buttare tutto alle ortiche per bere, col minore dei fratelli Karamazov, l’elisir dopante del Ciononostante, è un prodigio della non-logica fedele. O, in altri e più
radicali accenti, della devastazione di “timore e tremore” che il plagio consumato dall’educazione religiosa infantile produce nelle menti degli adulti pensanti e credenti. Pochissini ne risalgono fuori, e non senza dolori.

Fuori dell’aula, ancora echi della discussione. Nella sala professori, mentre sorbivamo il rituale caffè della ricreazione, seduti sulle poltroncine dell’angolo salottino, entrò il preside Timarco, noto massone, e riprese la chiacchierata di cui aveva avuto notizia: lui, uomo di modeste pretese, si accontenta, dice, del Grande Architetto dell’Universo. Non ebbi la pazienza di ripetere gli argomenti humiani, ma lo indirizzai a quella meta. Il cipiglioso appariva un po’ disturbato dal timore che la mia franchezza nelle classi potesse turbare le tenere menti delle giovinette (e relative famiglie, notoriamente molto cattoliche e ligie ai morbidi diktat della sacra Curia). Lo rassicurai sulla maturità delle fanciulle e sulla mia prudenza: alla fine di ogni esposizione io mi faccio un dovere di precisare, sempre, che rispetto i credenti in buona fede e di innocente modestia. Quelli che non pretendono dimostrare dio e i suoi attributi, malmenando
fatti misfatti e logica.
La chiacchierata non durò oltre, anche per il salutare intervento della campanella che annuncia la fine della ricreazione e il cambio d’ora. Andai in classe meno scontento del solito. Le mie ragazze sono più ricettive e reattive di certi colleghi catafratti. E di certi presidi soddisfatti.

15 settembre

Altri otto giorni vuoti di testimonianze.
E dire che di tanto in tanto mi prefiggo il volenteroso latino del nulla dies sine linea! Com’è vero: sono più ricco di buone intenzioni io che il lastrico di Belzebù.
Ma devo correggere, pro domo mea. Non è che in tutti questi giorni diaristicamente sgombri io me ne sia rimasto con le mani in mano. No, qualche lavoretto l’ho pur fatto, qualche articolo l’ho bene scritto. E pubblicato. Il che, d’altra parte, non viene a dire che abbia rispettato il sine linea. Tra bagni di mare, passeggiate, tempo col bambino, e altri impegni domestici, alcuni giorni sono scivolati via senza “linea”. Ma, nell’insieme, non mi potrei lamentare troppo..
Certo, ora seguono i giorni del riflusso: l’alta tensione doveva scaricarsi. Una settimana piena, e un più veloce smarrirsi del tempo farcito; ora, un più lento snodarsi di ore meno dense, meno popolate. Niente più ponti notturni tra due giorni, niente acerbi mattini grondanti stelle sopra lo scampanare dei galli, nelle pianure di questi silenzi magnogreci.
Ho reso benino: due lunghe recensioni in cinque o sei di queste notti laboriose; uno scroscio fitto, ma nervoso, di tasti picchiati sul sonno immeritato dei miei vicini. Per un totale di tutto rispetto: trentacinque cartelle spazio due. Una recensione fa a pezzi il libro (si fa per dire) di tal Carmelo Donato, L’Uomo integrale, dedicato al suo maestro (e mio professore) Vitangelo La Strada. Una buona occasione per chiarire tagliando i ponti con quel passato coatto. Chiarire quanto il mio pensiero sia lontano da quell’orgia impudica di purezze platonizzanti; quanto il mio sentire la mia cultura la mia fisiologia siano aliene da quel bolso pasticcio ontologico e integralismo cattolico, teoreticamente platonico-agostianiano e anselmian-rosminiano; pragmaticamente e politicamente, ultrademocristiano. Mi sono abbuffato di essere e trascendenza, per anni: la mia penna e la mia Olivetti hanno fatto le sataniche vendette. E ho intenzione di continuare, dopo
la grigia parentesi di preparazione per la prova orale del concorso a cattedra. Alla quale sono stato ammesso con un buon 28/30.
Un esito inatteso, quel ventotto, che mi impegna. Avevo consegnato uno svolgimento folto di sostanza ma non molto elaborato, in brutta copia (ah, le mie lungaggini!), e antimetafisico ad oltranza. Presidente della Commissione è il prof. Pietro Prini, ex allievo, dicono, di Michele Federico Sciacca, altro insigne campione dello spiritualismo ipercattolico, e, soprattutto, gran maneggione benissimo ammanicato con le loro santità vaticane. Certo, Prini è migliore del suo maestro (se è vero che Sciacca lo sia stato), come cervello, come cultura, come penna. Ma è pur sempre un cattolico, un metafisico. Considerata questa convergenza di potenze inassimilabili a qualsiasi istanza laica, il risultato della prova scritta sa di mistero. Che cosa può essere accaduto? Che Prini sia di mentalità aperta, che il suo indubbio gusto letterario abbia fatto premio sulla polarità metafisica del suo pensiero, valutando con responsabile onestà un testo
letterariamente non spregevole? Che non sia stato lui a valutare i temi? Mistero. Gaudioso, per fortuna. Vedremo agli orali. Non ho intenzione di fare il Capitan Fracassa del laicismo ateo, ma certo non accarezzerò nel senso del pelo la metafisica e il suo baluardo genetico, la Gione (come scriverebbe l’impagabile Stendhal). Vedremo, sì, ma voglio resistere al mio tendenziale pessimismo. E’ vero: le autorità accademiche clericali e le potenze vaticane vigilano a oltranzistica difesa delle ostie consacrate e dei conti in banca, contro la minaccia dell’Anticristo cosacco alle frontiere; ma non posso credere né che tutti i potenti cattolici siano di mente chiusa e ottusa come certe mie conoscenze; né che il merito non riesca a sbrecciare anche le corazze dogmatiche più livorose, sia pure appena quel tanto che basti a superare un concorso a cattedre di filosofia. Nessuna sottovalutazione dei rischi, né rimozione di fatti e misfatti documentati,
ma un po’ di fiducia nel Caso e nel contesto (dove un brivido di coscienza culturale, qualche volta, può prevalere sull’odio teologico e relativi indotti pratici).
Certo, io non ho fatto nulla per spianare la strada alla buona sorte: pensa, quaderno, che un paio d’anni fa ho scritto un beffardo elzeviro contro lo Sciacca multipotente. E non è uscito su un foglietto locale, ma sulla Gazzetta dello stretto, quotidiano semiregionale (copre la Sicania orientale) e biregionale (inonda la Calamagna), erraticamente presente anche a Roma e in altre città italiane. Ti chiedi come sia stato possibile? Come mai un giornale clerico-moderato e mezzo reazionario abbia sopportato di ospitare quel compiaciuto sberleffo al Pensiero Dominante? Dimentichi la presenza del laicissimo Mimì Ciaccò, responsabile delle pagine culturali di quel quotidiano, amico mio, di Gulizza, di Rama. E del Pensiero.
Ripensando al 28/30 e alla “brutta copia”: no, non credo sia merito di un sostituto. “Somiglia” tanto al Prini (autore, tra l’altro, di quel gradevole agile e informato volumetto su L’esistenzialismo).

16 settembre, ore 13

In attesa del pranzo, che oggi tarda un po’ per plausibili ragioni domestiche. Rina, perciò, in cucina, il piccolo dai vicini in via d’imparentamento.
Le date salienti di questa breve “campagna di tasti” sono: 2, 4, 7 settembre. Giorni ricolmi, di quasi compiuto appagamento (dove il “quasi” allude a certe difficoltà, peraltro superate, anche se con qualche sofferenza). E notti felici, di tranquillità e di lena.
Canto dell’Imbavagliato. Frastornato dall’ESSERE metafisicissimo e superastratto dei La Strada e dei Donato, l’istinto di sopravvivenza è corso ai ripari evocando i diritti della corporeità innervata. Così l’Assoluto ha sorriso alla gioia contrastata delle fisiologie operanti. Eccitate dall’antimetafisica, le mie estensioni tattili hanno sfiorato carezzato premuto la superficie nascosta dell’ente dirimente; e le mie labbra hanno stretto succhiato e mordicchiato la bocca stupita e tremante dell’Idea mediatrice donante. La quale, secondo il Verbo lastradiano (che la rincorre lungo i secoli fino ad Agostino) sarebbe la condizione di tutta la nostra conoscenza, e il sicuro ponte verso la Trascendenza divina. Nella qui presente fattispecie, la gloriosa fondatrice ontologica si presenta modestamente metamorfosata e restituita ai sensi in palpitante tridimensionalità di fibre striate mucose e tegumenti epidermici. E’ appunto in questa figura
fenomenica che essa ha risposto come liberata prigioniera assetata di nettare. La vendetta ontologica ha intrecciato ghirlande di audaci prodezze tattili nell’ombra spessa del meta-fisico, e l’ultima chance, benché contesa da uno sbarramento moltiplicato, ha spinto le avanguardie prensili fino alla soglia del santuario lunare. Il bosco sacro di questa antica Eleusi istologica premette contro l’ardire tremante di estremità cautamente decise all’experiri mistico. La convulsione secundum quid religiosa (direbbe La Strada) avvertì il calore cribroso della flora celata. Tante volte, in questi giorni di tentazione onto-gnoseologica, la vibrazione dell’essere ha intonato l’inno della verità incarnata. Ontologia e istologia rinnovano remote trasmutazioni pseudo-ovidiane, e l’una diventa l’altra in convinta identificazione cinetica. L’Idea mediatrice media nella corporeità trascendentale il contatto con l’Assoluto, ma non concede la
risoluzione mistica. Il cuore dell’essere è ancora (lo sarà per sempre?) mistero fitto. Di tenebra odorosa e fame inceppata. In fondo, è giusto: se l’essere è trascendenza, bisogna pure che celi il suo volto bagnato. Ma l’umana ansia di conoscenza attende vogliosa, e tesse trine di speranze difficili. L’Idea donante forse un giorno donerà. Magari solo una parte del mistico cibo, ma noi, vagabondi dell’essere, siamo gente parca. Ci contenteremo. E saremmo appagati anche da un solo sentiero che ci fosse aperto negli intrichi neri del sacro bosco concettuale. Forse, perfino, l’Idea concederà che una morbida appendice prensile dell’ente irrorato scivoli nelle viscere oscure dell’essere tentato. Forse, però, è sperare troppo, sognare l’impossibile? Si tratta di concetti difficili, che l’ambivalenza rende scivolosi.
Considerate la vostra semenza / nati non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza. La nostra (pluralis modestiae) brama di conoscenza non varcherà le Colonne d’Ercole con la barca naturale e l’incastro fisio-ontologico mancherà la sua Sirena, ma il dimidiato sàpere non mancherà di sapore. Esiste per niente il pentadattilo? Intanto, pazienza, diario sbilenco: Claritas è rischio. Inde, come diceva il volenteroso Cartesio, larvatus prodeo.
*
Il Mondo intona altri canti di gloria alla verità dell’essere: una nuova guerra, l’India contro il Pakistan. Il Pakistan contro l’India. Ciascuna delle due parti fornita di ottime ragioni per distruggere l’altra. S’intende, a insindacabile giudizio dei loro governanti, più o meno democratici gli uni, più o meno dispotici gli altri. I banchetti antropofagici in grande stile riprendono in un’altra mensa del mondo la mattanza sostitutiva dell’ingestione materiale. Eserciti che avanzano per tentare una buona macelleria risolutiva. Balza sotto i fari della ribalta planetaria il solito drappello di ingredienti: jets in sfrecciante cinematica distruttiva, carri armati lenti e determinati alla stessa vocazione, bombardamenti di campi militari e di città sguarnite di militari, paracadutisti in pioggia angelica di biblica memoria. E poi: oscuramenti, mobilitazione generale, riunioni all’ONU (presidio di pace mondiale generosamente tradita),
discorsi, minacce, moniti. Ancora: U Thant, di quel Presidio segretario troppo spesso inascoltato e disatteso; Paolo VI, papa e pastore di popoli, anche più snobbato del primo. Che tuttavia andrà a parlare a quella magna Assemblea. E vi dirà sublimi parole di Pace. Destinate al non ascolto come tutte le precedenti visite e prediche d’alta ispirazione. Almeno fino a quando una pingue successione di pazienti massacri non avrà dato soddisfazione alla fame disinceppata di homo necans e argomenti alle due superpotenze per imporre l’alt con “proposte che non si possono rifiutare.”
Le pietanze variano, ma il pranzo è sempre quello: un cannibalismo filogenetico appena trasposto e fermato alla soglia dell’ultimo stadio.. Con frequenti eccezioni, che esauriscono l’intero percorso. Si avvertono echi di consonanze più o meno camuffate, eppure spesso abbastanza trasparenti, sol che si sappia, e insomma si voglia, spingere lo sguardo fino in fondo. Fino al fondo d’ogni semeiotica biologica. Ma per arrivarci bisogna bucare le robuste maschere culturali nate e prodotte a sviare sguardi e tentazioni di verità nuda. Eppure, come consuonano certi canti di lambiccati concetti, anche separati da secoli e millenni: Eraclito e Pitagorici, Anassimandro e Hobbes, Hegel e tutto l’idealismo dialettico, giù giù fino a Darwin e al citotrofismo gulizzano, cantano la stessa canzone, la stessa verità effettuale denudata: la guerra, a priori ontologico del mondo antropico. Con variazioni inessenziali e complicazioni sofistiche, quella verità
cruda viene offerta alla vigilanza occhiuta di Homo clericus e di homo religiosus-metaphisicus; ma questo plurimo Uomo culturale distoglie i molti occhi dal volto troppo brutto della verità disorpellata e continua, imperturbato, a distillare Verità di sogno, auto-inganni droganti, moltiplicatori di effetti nefasti. Anche quando la realtà preme fino a farsi riconoscere, l’uomo verbale la copre del Verbum e osanna lo Spirito: Volksgeist, Weltgeist, Vernunft, Io trascendentale, Io assoluto, Atto puro, e perfino Atto in atto, a scongiurare la reductio dell’Atto al fatto, a salvaguardare l’inoggettivabilità dell’Atto come azione insonne e Autoctisi (autoproduzione e auto-superamento): “Di collo in collo...”, canta l’Ottimista di Castelvetrano. A gloria del Verbum e dei suoi verba volant.
Almeno ci fosse un Responsabile cui schizzare un metaforico sputo in faccia con tutta la forza di una disperazione nutrita di millenni, d’una esasperazione che torce le viscere. Solo di tanto in tanto, lo so. Ma in certi momenti le strizza abbastanza. Purtroppo, non c’è. Il Responsabile, voglio dire. E semmai è. E’ tutti noi, è tutte le cose, è talmente l’imprendibile Tutto impersonale e inafferrabile, che ogni tentazione di fabularlo personalizzandolo non può che ricadere nelle ombre vaporose dell’arbitrario religioso, del mitico immaginare consolatorio. Ingannevolmente consolatorio, peraltro, e in realtà secretore doc di catalizzatori della distruttività sorgiva delle nostre cellule giurassiche.

Le cinque del pomeriggio. Attendiamo notizie e novità. Nella constatazione che l’altro fronte, il martoriato Vietnam, è scivolato in secondo piano. Anche le catastrofi e le tragedie subiscono la logica spietata dell’universale trofismo e dell’assuefazione e sazietà competente.
Quel mélange, mon dieu! Et quelle corbeille sans merci! Gli eventi e le creature del mondo, intendo. Meglio dirlo in ordine inverso: le creature in primis. Gli eventi sono, significativamente, i loro eventi. I nostri, in testa.

Ore 8 di sera. Sotto il quaderno sul quale scrivo sta Il Giorno di oggi con questi titoli a tutta pagina: La guerra si aggrava. Paolo VI ieri ha detto: “Faremo quanto è in nostro potere perché cessi subito l’impiego delle armi”. Più giù, a titoli di scatola: Il Papa all’ONU il 4 ottobre.
La guerra si aggrava: secondo sua interna necessità bio-antropica. Poi si fermerà, e conteremo i morti. Quello che non potremo “contare” è il modo del morire: quel modo moltiplicato in mille varianti di strazi e in qualche grappolo di fortune individuali. Parodia della “bella morte”: morire d’un colpo, d’un buon colpo centrato. Che spenga vita e coscienza in un solo attimo felice. Non dimentichiamo i feriti, la loro varietà in gravità, i mutilati, i grandi invalidi.
Intanto i Beatles vengono promossi baronetti da sua maestà la Regina d’Albione. E il reale Fisco democratico ringrazia. Devo telefonare al cuginetto Luciano per... congratularmi.

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