venerdì 28 maggio 2010

SUSANNA Frammento 68


L’altro evento minore, ma di impatto paragonabile con la morte di Presley, fu l’uccisione di John Lennon, magna pars dei Beatles. A sparargli, in quel dicembre dell’ottanta (alle ore 22,50 del giorno 8, precisano le cronache) un pingue fan, che lo voleva tutto per sé. Uno squilibrato, si affrettarono a sentenziare media di mercato massivo e opinion makers di qualità accademica, più o meno versati in psicologia adleriana. Uno schizofrenico, che altro può essere un ragazzo che spara cinque colpi di pistola al suo idolo (muore, ancora la cronaca, 19 minuti dopo gli spari, alle 23,09). Al momento dell’ “insano gesto” Mark David Chapman aveva in tasca una copia del capolavoro di Salinger, “Il giovane Holden”. E non vedeva dissonanze fra il culto per quel romanzo con protagonista un giovane sbalestrato, anarcoide, millantatore e povero di riferimenti etici (anche se umanamente simpatico), e la militanza dichiarata in seno alla Chiesa evangelica (con annessa pratica di volontariato). A sentirlo, aveva voluto “punire Lennon”, che avrebbe tradito i suoi (e loro) ideali: proprio Lennon, il cantore della pace! Il ragazzo di “impertinente” coerenza, che aveva restituito a sua maestà Elisabetta II la nomina a baronetto.
Il contesto, insomma, denuncia una possibilità forte, quasi certezza: che nemmeno Chapman avesse coscienza chiara del vero movente del suo “colpo di testa” presunto schizofrenico. A Gulizza quel delitto sembrò l’ennesima conferma delle sue tesi: l’amore umano ha lontane radici antropofagiche. Cioè, si presenta (a una disamina radicale) come una diramazione, più o meno saldamanete sublimabile, del primum movens biologico, la fame, appunto. In quest’ottica, più che alla schizofrenia, il caso fa pensare a una fissazione paranoica. Così forte, da nascondersi allo stesso soggetto dietro motivazioni strampalate, ma funzionali alla spinta regressiva radicale. Ucciso da lui, l’eroe troppo amato era tutto suo: hanno un bell’agitarsi gli altri fans, nessuno di loro potrà scalfirne l’esclusivo possesso. Una specie d’incorporazione mistica.
E così dissi, con un prudente mix di serio e faceto, all’ex cuginetto sedicenne innamorato, in quel tempo medio degli anni sessanta, della “musica sacra” di quei baronetti. Al telefono, da Milano, egli commentò la notizia con memore dolore, ma ormai dall’alto del suo ruolo di biologo ben remunerato presso case farmaceutiche importanti (dico al plurale per il suo facile transitare dall’una all’altra secondo impeccabili calcoli di materiali vantaggi, di soldi e carriera).
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“Se c’è un Dio, il caos e la morte figureranno nel novero dei Suoi attributi, se non c’è, non cambia nulla, poiché il caos e la morte basteranno a se stessi fino alla consumazione dei secoli. Non ha importaza quello che si incensa, si è vittime della caducità e della dissoluzione, qualsiasi cosa si adori non si eviterà nulla, i buoni e i cattivi hanno un solo destino, un unico abisso accoglie i santi e i mostri, l’idea di giusto e ingiusto non è mai stata altro che un delirio, al quale ci appigliamo per ragioni di convenienza. In verità, l’origine delle idee religiose e morali è nell’uomo, cacciarla fuori dell’uomo è un nonsenso, l’uomo è un animale metafisico, il quale vorrebbe che l’universo esistesse solo per lui, ma l’universo lo ignora, e l’uomo si consola di questa indifferenza popolando lo spazio di dèi, dèi fatti a sua immagine. Sicché riusciamo a vivere accontentandoci di principi vuoti. Ma questi principi così belli e così consolanti cadono nel nulla quando ci si aprono gli occhi sulla morte e sul caos da cui viviamo avvolti, in costante pericolo. La fede non è che una vanità tra le altre e l’arte di ingannare l’uomo sulla natura del mondo”.
Albert Caraco, Breviario del caos
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Le sciagure come le proverbiali ciliegie: l’una tira l’altra. Anche nell’ectoplasma “notizia”. Quel 1980 fu pure l’anno di Ustica: cioè, dell’aereo abbattuto da misteriosi caccia killer in quelle acque troppo discrete, che non vollero rivelare mai i nomi di esecutori e mandanti dell’infamia-equivoco. Un altro dei nostri misteri, un’altra storia piena di indagini ricostruzioni tesi e antitesi, depistaggi manomissioni di tracciati radar inutilmente accusatori di presenze militari fuori posto. Fra le 81 vittime, una giovane madre, figlia di un compaesano: tornava da Palermo. Una bella donna, che accendeva ammirazione e rispetto. Lasciava una bimba di un paio d’anni. Nel ricordo, vedo il padre camminare per le nostre strade, dopo l’evento ferale, come un sonnambulo larvale(1).
Anno funereo, quant’altri mai in tempo di pace (peraltro, sempre relativa: a pezzi di calandario e lembi del mappamondo), quel 1980: stragi di natura e di uomini, quasi a gara a “chi” meglio sapesse mostrare il volto feroce della creazione increata: Ustica, Bologna, Irpinia,… E ancora omicidi del terrorismo politico, drogato di illusioni sulla forza trascinante di un semplicistico apostolato al sangue: altre priorità inquietavano il popolo dei lavoratori. Né la scelta di bersagli incomprensibili (che erano i più) aiutava a capire quella strategia tortuosamente obliqua.

Sul pianale retrattile del tavolo porta-computer giace da lungo tempo (né so più a qual fine) uno dei cartoncini illustrati e colorati che accompagnavano i Cd-Rom del quotidiano La Repubblica: vi leggo “Quel che accadde” in quell’anno. L’elezione di George Bush padre alla presidenza degli Stati Uniti. Nell’elenco del Caos-morte. L’esplosione su Lockerbie di un Jumbo della Pan Am per una bomba a bordo. Il tragico incidente di volo delle frecce tricolori a Ramstein. L’elezione di Occhetto a nuovo segretario del Pci. L’assegnazione di nove premi Oscar a “L’ultimo imperatore” di Bertolucci. Le olimpiadi di Seul. “E altro ancora”. Sotto, l’annuncio-sommario del 5° Cd-Rom, “Quell’anno accadde. Il crollo del muro di Berlino. La repressione dei moti di Tien An Men”: ancora sangue di giovani agnelli improvvisatisi arieti poco credibili. “I ‘veleni’ della Procura di Palermo con le lettere del ‘corvo’” (la bava del complesso “down with Falcone”) . “Lo scontro per il controllo della Mondadori” (Mammona oggi e sempre). “La condanna a morte di Salman Rushdie da parte degli integralisti islamici” (strano destino di una parola: integralisti, per dire assassini in nomine dei. “E altro ancora.”
In quell’ “altro”, dei due e degli altri Cd-Rom, ci stanno, in bella evidenza sulfurea, ottime guerre prodighe di sangue: Iran-Iraq (otto anni di macelli, con la geniale trovata di sminare i campi minati versandovi sopra la tenera carne di bambini iraniani: gloria, codesta, del grande ritorno religioso dopo la cacciata del fastoso tiranno regale), Afghanistan (Urss-talebani: super-assistiti, questi, dai criminali Usa e contorno), Congo, Etiopia, Sri Lanka, la già ricordata Prima guerra del Golfo, Bosnia, Serbia, Kosovo, Ruanda e via sommando: tanti nomi, altrettante carneficine gonfie di orrori umani troppo umani. E tanti bellissimi terremoti, pieni di morti e malmorti e feriti e mutilati, esibizioni indiscutibili della Provvidenza sismica, sempre in allerta di pronto intervento (per alleggerire il peso antropico sul corpo troppo sfruttato di “Gaia, il pianeta che vive”). E che dire dell’altro strumento riequilibratore escogitato dalla troppo inventiva Natura sprecona, le care collaudate epidemie di splendido pedigree, che hanno tentato e continuano a tentare un salasso tipo spagnola al cubo mediante quegli invisibili killer che sono batteri e virus, sempre pronti alle mutazioni peggiorative? Ebola, aviaria, mucca pazza… Per tacere dei nuovi successi del solito nobile cancro di plurimillenaria carriera, della paziente Sla, del recente (in termini di decenni) Aids. E via esaltando il progetto teo-cosmologico Id, che tanto inebria quei bambinoni incoscienti degli scienziati credenti e altri ossimori ciarlieri del sadismo ilare di madre natura sciupona.
Parlarne è tanto possibile quanto inutile: che cosa aggiungerebbe al quadro realistico del Mondo qualche altra guerra massacro genocidio, duttile impero-ubriaco-di-potenza, terrorismo islamico di risposta satanica, ma detta santa (santa contro il Grande Satana dell’Occidente cristiano!); e via ammucchiando nella rincorsa fra dilatata scrittura pigra e veloci eventi incalzanti? Ma com’è irridente questa “guerra di santi”, così tragicamente remota dalle beguzze di quartiere narrate dal nostro baffuto Verga, verista innocente.
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Un’ultima tentazione preme per ricevere ospitalità in queste stanze della memoria, complici tre circostanze: una vecchia lettera di zio Silvio che accenna al pericolo Mau Mau scrivendo a mio padre; una domanda in terza liceo di un ragazzo per avere più notizie su Jomo Keniatta e la rivoluzione keniota; la risposta ultrasintetica alla domanda fondata sul libro di testo e l’impegno con la classe a dedicare una lezione di storia al Kenia. A parte segnalo il propellente forse più decisivo: la coincidenza dell’anno di nascita del Kenia libero con l’anno della mia conoscenza di Susy e della sua classe. Che purtroppo coincide anche con la data nera dell’uccisione di John Kennedy.
Un sito internet mi soccorre. Tralascio la storia pre-coloniale del Kenya. La resistenza alle sopercherie coloniali comincia presto in Kenya: già nel 1922 esiste un movimento per una meno ingiusta distribuzione della terra, l’Associazione dei giovani Kikuyu. Nel marzo di quell’anno viene arrestato Harry Thuku, capo dell’Associzaione. La polizia inglese spara sulla folla che ne chiede la liberazione: esito, 21 morti fra i dimostranti. Più di cento, correggono i kikuyu. L’effetto moltiplicatore del martirio non si fece attendere: da quel tempo si infittirono i raduni politici contro i soprusi coloniali. Per esempio, il lavoro forzato e la “tassa sulle capanne”: una brillante idea civilizzatrice per estendere l’incendio rivoluzionario. Non si chiesero più migliori condizioni di lavoro e più equa distribuzione delle terre fertili: si cominciò a chiedere l’Uhururu, la libertà. Nel ’24 nasce il “Kikuyu Central Association” (KCA), che presto si allea ad altre formazioni di etnie diverse ma di convergente programma politico (per esempio, della tribù Luo, l’etnia più numerosa dopo i Kikuyiu. Il governo coloniale fa delle concessioni di parata (assemblee, e simili), ma ricomincia a sequestrare altre terre per la bella vita dei coloni. La Chiesa offre altre occasioni di scontri: condannando la circoncisione femminile, si macchia di interferenze inaccettabili per i “nativi”. Fertile terreno, la dissidenza, per la nascita di moti religiosi indipendenti che presto si accendono di nazionalismo politico. Dal 1935 le principali tribù formano delle associazioni patriottiche, che nel 1940 il governatorato inglese tenta di sciogliere arrestandone i capi (persino con l’accusa non dimostrata di complottare con il consolato italiano). Ancora una volta, l’effetto è contrario al desiderio. Il “consigliere” Eliud Mathu, il primo africano in quel Consiglio Legislativo del Kenya coloniale, fonda una più forte organizzazione politica, che nel 1946 assume il nome di Kenya African Union (KAU), e dove entrano tutte le etnie keniote, ma con netta prevalenza dei Kikuyu. Da questa etnia dominante viene fuori l’uomo che porterà il Kenya all’indipedùndenza, Jomo Kenyatta. In quegli anni il futuro “padre del Kenya” ha superato i cinquant’anni e conta un percorso esistenziale ricco di esperienze. Il figlio del pastore ha conseguito perfino una laurea (...)

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Devo interrompere quel racconto sintetico sul Kenia: lo riprenderò, spero, più tardi. Ora non posso. Non me la sento. Nell’ultima telefonata Susanna mi ha rivelato un segreto che gronda sangue e pus. Mi sforzo, ma non riesco a parlarne in quest’ultima agenda. L’enormità della cosa mi paralizza. Sto scrivendo questo accenno muto dopo qualche mese di rinvii. Anzi, di rimozione totale della scrittura romanzesca: quel che l’horror della politica tradotta in massacri bellici non ha prodotto lo ha fatto questa notizia: così abissalmente lontana da ogni mia capacità di sospettare e temere. Forse sto tentando di vincere il blocco. Ma non credo di farcela.
Mi stava ripetendo le brutte notizie più volte ascoltate: sulla figlia maggiore in ricaduta di anoressia. “Ma come? ─ dico  ancora! Ha una laurea, una specializzazione, un lavoro, è sposata con un giovane che l’adora: cosa le occorre per spegnere questo passato?” Susy ebbe uno dei suoi scatti di insofferente sorpresa: “Di che ti meravigli? E’ la malattia!” Già: ma che significa? Questo genere di malattie hanno pure un’eziologia, le si può affrontare con successo, anche se difficile e magari parziale; una volta individuate le cause si può rimuoverle. A poco a poco, con tenace pazienza e amorevole complicità materna. E azzardai un’ipotesi di spiegazione: “Forse, dissi, la ragazza non accetta, ancora oggi, che un padre possa rinunciare così facilmente a una figlia, e qui addirittura a due figlie? Forse l’abbandono le comunica un senso come di inadeguatezza, di insufficienza; perfino, in quell’affettività disturbata, di colpevolezza? Il retropensiero potrebbe essere: non ha saputo evitare, e poi vincere, l’ostilità o l’indifferenza del padre, non si sente abbastanza dotata per questo miracolo, per riconquistarlo, che ne so...” Ma Susy tagliò corto, in quell’ultima telefonata: “Macché padre e suo abbandono, ma quale inadeguatezza! Il suo cruccio è ben altro. Me lo ha rivelato quest’estate...”
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Io tremo ancora a quella torva rivelazione. E qui mi fermo. Incapace di telefonare, di nuovo, alla sventurata madre. Che cosa le potrei dire, quando tutte le parole inutili le ho dette già in quell’occasione? Mi accade un po’ come al sismografo che non riesce a registrare un evento sismico per accesso di choc: in questi casi, l’unica testimonianza che dell’evento l’apparecchio può fornire è la sua incapacità di fornirla, il suo guasto per eccesso di scontro.
L’immagine non è una mia fortunata illuminazione: l’ho trovata in un saggio di un filosofo francese, usata per dire l’indicibile della Shoah, ovvero l’incapacità del linguaggio (in qualunque sua forma e potenza) di esprimere adeguatamente quel culmine di ogni orrore, quel deragliare da ogni argine e limite della nostra natura giurassica. L’onesta denuncia del prestito mi salva dal furto, ma non da un brivido d’imbarazzo: usarla ancora per un orrore, sia pure, ma di proporzioni incomparabili con l’eccesso multipolare dell’Altro, non è una specie di abuso? Forse dovrei tagliare queste ultime righe. Forse le taglierò.

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PARTE TERZA

“Voglio scrivere il libro grande. Mi sento in vena. Voglio dire cose che forse nessuno ha dette mai. [...] Come ti ho detto, la speranza di fare un colpo consiste nel romanzo, e il romanzo che voglio scrivere è tale da fare colpo. Sarà, se riuscirò a finirlo, un libro terribile; dovrà fare l’effetto d’una bomba. [...] non ho altra volontà, ti assicuro, che di scrivere questo libro; ma le difficoltà sono diecimila volte più grandi di quelle della novella.”
Federico De Roberto, Lettere alla madre

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“Si scrive per rendere verosimile la realtà. Non so degli altri, ma io sono stato sempre colpito dalla inverosimiglianza della vita, m’è parso sempre che da un momento all’altro qualcuno dovesse dirmi: “Basta così, non è vero niente”. Allora io penso che bisogna scrivere per cercare di crederci, a questo impossibile e riuscito colpo di dadi; che si debba, se l’universo è una metastasi folle, un po’ fingere di mimarla, un po’ cercarvi un ordine che ci inganni e ci salvi. Questo mi pare il compito civico e umanitario dello scrittore, farsi copista e insieme legislatore del caos, guardiano della legge e insieme turbatore della quiete, un ladro del fuoco che porti tra gli uomini il segreto della cenere, un confessore degli infelici, una spia sacra, un dio sceso a morire per tutti”
Gesualdo Bufalino, Le ragioni dello scrivere, in Cere perse

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Chi avrà avuto la pazienza di seguirci fin qui avrà capito che qualcosa di storto ha scompigliato la logica dei tempi. Che l’ineluttabile unidirezionalità di quel mostro bulimico ha giocato a rimpiattino, a far finta di andare all’indietro, e poi di nuovo in avanti, e poi... Insomma, la solita manfrina del narrare che s’accapiglia col tempo. Ma non è di questo che voglio infastidirvi, ora: si tratta di banalità, anche se complicate (e complicabili, magari fino ai giochetti sofistici di Agostino di Ippona – con la sua pretesa del tempo come distensio animi, e giù giù fino al mago Heidegger – col suo tempo “estatico”. Anzi, fino all’ultra-mago e super-ontologo prof. Emanuele Severino, imperturbato trangugiatore del Tempo vorace e castratore iperloico del Divenire impossibile.
L’intrico fra narrare e vivere, il rapporto fra i fatti narrati e il tempo reale del narrare, di chi li narra, fermandosi, ritornando sui propri passi, intervenendo sul già scritto, cancellando aggiungendo modificando in mille e mille modi: niente di più affascinante. Per chi ha, giusto, tempo da perdere e non ha cose più sostanziali da dire. O ha l’impulso ludico ipertrofico (alla Borges, per esempio, con le sue “Fictiones”, alias “Biblioteca di Babele”), al punto di sacrificarle, le cose, al puro diletto “geometrico”. No, qui voglio dire soltanto che l’autore dei diari con mia relativa, ma pur sempre ampia, libertà trasferiti in questo tortuoso racconto ipernutrito, è stato individuato da tempo: era fra i due o tre che sospettavo. Una piccola ricerca mi ha messo in mano paese di residenza e numero di telefono veri. Ci siamo sentiti, incontrati, raccontati. E in uno dei nostri incontri in amarcord ha deciso di svelarmi il bollente segreto che non è riuscito a stendere sulle pagine delle sue agende-diario. Non ci riuscivo – mi diceva – e ogni tentativo di rompere l’incantesimo si arenava contro “un’onda di nausea: la sensazione di sporcare le mie pagine. Di sporcarle con qualcosa di non rimediabile: una contaminazione avvilente, come di una malattia schifosa, da esclusione sociale.” Una forma speciale di lebbra, di Aids, di contagio radioattivo. E chi più ne ha, più ne aggiunga: insomma, ascoltai un uomo in crisi di coscienza critica, “diminuito” rispetto al personaggio che si è andato rivelando (o costruendo) nelle sue pagine: a volte così coraggiose, così spregiudicate. Così au pair con la “vergogna radicale del mondo” (una sua espressione, che io, forse, ma devo controllare, ho cassato nel mio libero arbitrio rimescolante: per un suo intrinseco eccesso di “pessimismo”).
Non vi nascondo che qualcosa delle sue difficoltà, anzi molto, s’è comunicato alla mia intrepidezza. Che perciò divaga, la tira in lungo e va per le lunghe, esita a entrare in argomento. Ma poiché il tira e molla è durato abbastanza, vediamo se dal prossimo rigo riuscirò a immergermi (lascio la cacofonia: è così fit!) in quella liquida nausea. La sera delle confidenze estreme, Paolo Assaggi mi aveva portato al bar principale del mio paese di mare. Vi prendemmo un caffè al banco e lasciammo la piccola babilonia della gioventù cicalante ai tavolini sparsi sul lembo di piazza sequestrata dall’uso in concessione (fenomeno che ormai affligge tutti gli spazi abitati d’Italia). E lentamente scivolammo verso il tratto di spiaggia meno frequentato, lasciandoci alle spalle il lungomare affollato di brulicante varietà antropica (con la solita ghiotta porzione di belle donne e ragazze “ombelicate”).
Conversazione (in specimen). Lui: “Dobbiamo finire questa storia infinita. Ti dirò quello che non ho osato (non mi è stato permesso: scegli tu) scrivere sulle mie pagine private. Che pure non ignorano atrocità delle peggiori. Quando Susanna replicò alla mia ipotesi sull’anoressia ricorrente della figlia con quello scatto quasi aggressivo, aggiunse questo eccesso di lordura cosmica”.
Io. “Uhm! Cominciamo bene. E non ti nascondo che trovo irrituale questa riluttanza o ripugnaza in uno spirito libero come te.”
Lui: “Forse non sono poi così libero come credi, e come ho creduto io stesso. Non manca una copiosa casistica sull’auto-inganno nelle auto-analisi. Ma siamo al dunque.”
Si fermò. E mi parve che tirasse un sospiro troppo lungo. Anche lui cominciava a trovare esagerata questa sua reticenza, e un blocco così poco coerente con la propria abituale schiettezza. E riprese a confessare, cominciando a esplicitare: “Ripetevo a Susanna la mia ipotesi eziologica sulla malattia della figlia: che la ragazza, nella sua ipersensibilità, potrebbe essersi inconsapevolmente colpevolizzata per non avere avuto la forza attrattiva di impedire al padre l’abbandono. Susanna tagliò corto con rabbia: ‘Macché padre e inadeguatezza. Le ragazze soffrivano della presenza del padre, non dell’assenza. E se ne sono liberate con sollievo: le nostre liti, sempre più frequenti, erano una tortura per loro. Il problema (chiamamolo così) non è stato quel padre, ma un altro!’ ‘Un altro?’ ‘Sì, un altro’ Pensai a un parente acquisito, uno zio o che, a un suo abuso. Chiesi: ‘Chi, dunque?’ E qui esplose il super-botto: ‘Il MIO!’
“Ecco la bomba. Non ricordavo, di Susanna, un tale urlo, eppure gridava, ai suoi vent’anni. In allegria comunicativa o in tensione aggressiva. Nemmeno nei momenti di più viscerale rabbia contro professori o familiari ne era sgorgato uno uguale. Banale il mio patetico ‘Nooo!’ Che lei troncò, decisa: ‘Sì, invece, sì purtroppo! il nonno, capisci”. Al mio perplesso, sbalestrato, sconclusionato ‘in che senso?’ Susanna rispose urlando ancora, a condensare questo piccolo assoluto di nero catrame: ‘L’ha violentata’.”
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Il nonno, dunque. Ecco il mostro. Inescusabile, per la sensibilità di Paolo, peggio di un torturatore nazista e di un tagliagole talebano. Peggio di un pedofilo sadico. Un nonno Belzebù! Un Gilles de Retz in formato ridotto. Si può immaginare un orrore più sconvolgente? Di questo tenore erano le esternazioni del mio amico: diventato nonno, viveva una tenerezza ipersensibile verso la prima nipotina. Ma riprendiamo il racconto di Paolo.
Durante le periodiche permanenze dei genitori presso la figlia capitava che il padre rimanesse solo in casa con la nipotina maggiore: gli altri uscivano insieme, Susanna, la madre e la seconda delle sue figlie, a volte il fratellino Giacomino, e il caro nonno faceva insospettabile compagnia protettiva alla nipotina. Erano le occasioni dell’inconcepibile. Susanna aveva detto a Paolo che la cosa era durata anni. Era cominciata quando la bambina ne aveva nove, di anni. Paolo continuava ad annaspare raccontando. Aveva chiesto a Susanna se nell’idea di violenza si potesse raccogliere soltanto un genere di contatti, diciamo, epidermici, non invasivi, non... Insomma, un garbuglio di imbarazzo, che tentava di attenuare la bestialità del fatto, di non arrendersi all’evidenza di quell’urto. Susanna aveva replicato con un problematico, ripetitivo ‘e che ne so, che ne so’, ma poi aveva sbottato ammettendo, indirettamente, lo stupro pieno. Le rivelazioni di Claudia insistevano sulla violenza, e a parlare era una donna sposata, che si confida con la madre: come pensare che la giovane non distinguesse chiaramente fra stupro e violazioni meno drastiche? E forse quel “che ne so” di Susanna era il sintomo di un ripensamento contro quella confidenza eccessiva e il suo effetto su Paolo: un tardivo inutile pentimento del pudore che scopre un eccesso di azzardo nella sua stura liberatrice. Che, in ogni caso, durò poco. Stava confidando un purulento segreto, sia pure. Ma non al primo venuto (per usare una formula frusta). E nemmeno al suo non previsto compagno di recente acquisto occasionale. Lo aveva rivelato a un uomo che tanto aveva significato per lei, per la sua iniziazione al sesso (e sia pure dimezzato). Un personaggio di peso e dramma, nella sua realtà di studentessa e di amica. Amica di una moglie tradita per lei, e da lei. E che l’aveva trattata con l’affettuosa dedizione di una sorella maggiore. Non era il caso di pentirsi di quella confessione. Né di attenuare l’orrore. No, no: la figlia era stata inequivocabile: violenza con penetrazione. Ripetuta negli anni, ad ogni occasione di solitudine a due. Magari questa forma estrema sarà venuta dopo dei nove anni, dopo ma chissà quanto dopo. Anni? Come rigirare il coltello delle domande nella piaga di una madre squassata da quell’inezione di cicuta che corrode e uccide lentamente la parte più gelosa della complessità psichica materna?
La bambina, poi adolescente, poi donna, aveva tenuto dentro quel segreto fino all’estate precedente la telefonata, come dire per circa vent’anni. Lo sconcerto di Paolo lo faceva brancolare come un ubriaco che parli a vanvera. Fioccavano, in quell’ultima telefonata, domande oziose, domande maldestre, attente ad evitare quell’effetto seviziatore. Lasciando alla madre la scelta di dire e non dire. Un cenno alla possibile reazione difensiva della ragazzina cresciuta ne provocò una risposta irata: la figlia era “una cretina”, una debole incapace di difendersi. E poi, una bambina, una ragazza si fa presto a confonderla, a plagiarla. Come dubitare di un nonno che l’ha cresciuta insieme alla mamma, che tante prove d’amore impeccabile le aveva dato? Le avrà fatto credere a un gioco, un gioco un po’ speciale, ma innocente. E piacevole: non sono indispensabili gli ormoni per trovare nelle bambine tratti comportamentali tipiche della femminilità. Fino alle precoci curiosità sessuali. Confuse, vaghe, insomma innocenti, sia pure. Innocenti, certo, ma con l’innocente malizia di curiosità esplorativa che lo stesso pudore gradualmente inoculato, sviluppa. Non lo sapeva Paolo? Paolo lo sapeva in teoria, ma, frastornato e innervosito, sparava domande per colmare il vuoto che si apriva tra una frase e l’altra di quella sofferenza parlante. Domande un po’ a caso, ma, come già detto, attente a non accrescere sofferenza nella sventurata.
Aveva ricordato perfino il tentativo di quel padre verso la stessa Susanna. Un tuffo nel lontano passato. Un ritorno ardito, forse inopportuno, come certe domande. Per lui, che le confidava di avere descritto l’episodio nel suo diario, e per lei stessa, che egli aveva indotta a riviverlo. Un’occasione, tra l’altro, per Susanna, di ripetere lo sfogo, il grintoso quanto scombinato confronto con la fragile figlia: “Certo, che ci provò, il vigliacco, ma con me toccò duro, ero ben altra cosa, io: lo respinsi in così malo modo che gli tolsi per sempre la voglia di riprovarci. Mi sapevo difendere, io; lei no. Mia figlia è una debole, una stupida.” Che c’entrano qui le parole-insulti stupida, cretina, e simili qualifiche? – pensò Paolo, ma non lo disse bruscamente a Susanna. Ripeté considerazioni vaghe: ‘Chissà come l’avrà convinta, confusa, e indotta al silenzio da bambina. Crescendo, e prendendo coscienza dell’enormità della vergogna, era stata la ragazza stessa a imporsi quel segreto.
Altro che la kierkegaardiana “scheggia nella carne”, aveva pensato Paolo, sempre incline alla tentazione del rimemorare culto. Cosa poteva essere la ipotetica bestemmia paterna al terribile Geova, gli occhi rivolti a un cielo nemico, di fronte a questa ben più turpe bestemmia?
Ecco, dunque, il verminaio scoperto. La malattia, le ricadute, la scarsa o non sufficiente efficacia delle terapie affondano tumide radici in quel cancro antropico. Susanna non ha mantenuto il segreto: ha spiattellato a quasi tutti i componenti della vasta famiglia quel bubbone. E si è scontrata con sensibilità diverse dalla sua. La sorella Tina, la piccola, delle quattro, l’aveva pregata di non dire nulla al suo compagno; il fratello maggiore, fece la stessa preghiera per nascondere alla moglie quel puzzo di sentina. Con accenti diversi, ma uguale sostanza, lo seguirono gli altri due fratelli. Susanna non apprezzò questa delicatezza: per lei era soltanto ipocrisia, e non la tollerava. L’odio postumo per quel padre degenerato era tale che avrebbe scoperchiato la tomba per sputare addosso a quei luridi resti. Aveva distrutto tutte le fotografie con la sua faccia, e suggeriva agli altri, fratelli e sorelle, di fare altrettanto. Vorrebbe cancellare la presenza di lui perfino dalla sua memoria. Un cenno di Paolo alle probabili sofferenze della madre per gli inevitabili tradimenti di un tale satiro non aveva trovato comprensione pietosa in Susanna; anzi, infastidita indifferenza: ‘Affari loro’, aveva risposto. Quanto alle delicatezze rimuoventi di fratelli e sorelle, non era sicura che le avrebbe appagate: si sentiva più disposta a pubblicizzare al massimo il losco segreto che non a tacerlo a immeritata salvaguardia della memoria paterna. Così diceva in quella telefonata memorabile (naturalmente, col suo lessico e l’abituale forza “sintattica”).
Paolo ricordò le confidenze di Susanna dell’estate ’92, sulla salute del padre: un cancro alla prostata lo faceva soffrire atrocemente. Sarebbe morto qualche anno dopo.
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Nella sua angoscia, piombatale addosso sopra le non poche altre sventure, c’era quell’eccesso di accumulo che rende furioso un temperamento vivace. Avesse potuto azzerare la sua vita e il contesto familiare per farsene un altro lo avrebbe fatto. Anche a prezzo di nuove sofferenze, pur di non guazzare più in quel pantano irrespirabile. Un padre come quello appesta l’intera famiglia. Riandando in memoria nel passato più lontano e risalendolo, Susanna doveva averci visto una maledizione radicale, e la radice avvelenata era quel genitore, quel tenero padre tanto amato nell’infanzia e adolescenza. Un bell’uomo, da fare invidia alle donne meno fortunate del paese, con un volto maschio dai tratti regolari, neri baffetti tira-baci, un corpo muscoloso, la statura mediterranea, sulla media, ma bene armonizzata con l’insieme. Quale bambina non si è innamorata del padre? E quando, crescendo, se ne apprezzano i tratti fisici, quella specie particolare di innamoramento a volte lo si supera con difficoltà e strascichi di immaturità. Ma è pur esso un vero amore. Quando lo si scopre distorto da tanto oggetto, lo scompiglio riverbera su ogni sentimento emozione rapporto familiare. Ne viene inquinata ogni cosa ogni persona ogni relazione.
Al momento in cui scriviamo non siamo a conoscenza di altre “confidenze” incestuose dell’uomo all’interno della famiglia, e insomma sostanzialmente verso le altre figlie. Se ha fatto quel maldestro tentativo con Susanna, perché non potrebbe averlo fatto con qualcuna delle altre figlie? Susy era, incomparabilmente, la più bella fra le sorelle? Senza dubbio, ma le altre non erano certo da buttare: tutte carine, tutte belline, ciascuna a suo modo. Di viso e di figura: quale più alta e quale meno, ma tutte ben proporzionate, di belle gambe e curve sobriamente in carne, con ottimi seni di salda consistenza e contenuta opulenza: insomma appetibili non meno di Susy per la stragrande maggioranza dei maschi normali, non impelagati in delibazioni estetizzanti e sottostanti finezze.
Ci aveva provato con altre figlie? Ecco la domanda che al momento, ma forse per sempre, rimane senza risposta. Paolo non l’aveva rivolta a Susanna, naturalmente, ma se la rigirava in qualche angolo del cervello. A Susy, invece, aveva ricordato un altro episodio delle loro biografie incrociate: la scenata da Rinaldo in campo quando il marito di lei, ladro della lettera di Paolo alla moglie (già separata, e tuttavia ignara “sorvegliata speciale”), aveva telefonato alla famiglia di lei gonfio di scandalo e presunta sofferenza. Ricordava, Susy, quella levata di scudi, quella minaccia di chissà quale macello? La pagliacciata, in realtà, non arrivò a concretarsi nemmeno in una telefonata a Paolo con relativa richiesta di spiegazioni. A parole doveva fare una calata fino alla Sicania. Se la ricordava, Susy? Come no, la ricordava, sì, fin troppo bene. E la commentò: “Già, il moralista, il nobile difensore dell’onore familiare, della vergine figlia inviolata, che avrebbe volentieri violato lui. Il porco! Il pagliaccio infame”
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La conversazione fra Paolo e lo scrivente era durata fino alle soglie della notte. La bella notte marina, con tanto di luna quasi piena a sparpagliarsi sulla placida menzogna seduttiva di un mare incredibilmente dolce. Volgeva al termine, fra un sorso di té freddo e l’altro, una sigaretta dietro l’altra da parte mia, e un paio soltanto fumate dall’amico, con una sua domanda sulla probabile sofferenza di Susanna anche come figlia costretta a distruggere tanta parte della sua vita: un padre già adorato che si rivela un mostro. Non è certo la minore delle pene possibili nel copioso pozzo delle sofferenze previste per la specie sapiente.
A uno dei tanti lidi impiantati sull’immensa spiaggia ionica una vivace orchestrina intonava canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta. A un certo punto la Voce del complessino cantò “Guarda che luna” di Buscaglione, addirittura imitandone la vocalità con aderenza sorprendente. Paolo si concesse qualche minuto di amarcord: parlò dei tempi dell’università, quando si aspettavano in città le lezioni pomeridiane masticando panini più o meno imbottiti, bevendo, modicamente, birra e gettonando canzoni in voga nei juke-box allora onnipresenti. Rimemorò la serata in spiaggia con Rina, Susy, il fratello di Rina e i nipotini, e la gara di corsa a piedi nudi sul ciottolato della spiaggia. “Prustificò” altre sequenze, e quando la Voce attaccò “Che bella cosa sei” tacque, tutto concentrato nel confronto fra le parole della canzone e le sue lontane esperienze con Susy. Quelle altre canzoni le aveva scoltate dal giradischi insieme a lei e Rina, nella sua casa di Zefiria.
Il ricordo più tristemente incisivo puntò più in alto: fu la scomparsa “contemporanea” di due suoi idoli giovanili, mai rinnegati: Albert Camus e, appunto, Fred Buscaglione. Forse poco accomunava quei due teneri “mostri”, ma certo la fine tragica e identica, la giovane età, il fascino seduttivo, così diverso eppure ben comparabile nell’utopia della felicità tout malgré. Una vera mutilazione, in quell’inizio del Sessanta, per Paolo, che ne riempì il diario. E da allora cominciò le sue scritture camusiane, articoli e saggi, tutti pubblicati. Ma il libro, no: mancato. Per eccesso di ingordigia citatoria (vedi caso!). Restano una foresta di fogli, buoni ad alimentare brevi scritti e ricorrenti sfoghi. Ma anche tesi di laurea che un collega s’era impegnato a comporre per due distinte laureande in due distinti periodi separati da un paio d’anni. E avevano diviso a metà il compenso, col collega “tesiografo”. Consolante, quel ricordo: che almeno, in assenza del sognato libro, sia rimasta qualcosa di concreto da tanta fatica. Ma non è lecito fare tesi a pagamento? Certo che no: in teoria. In paratica, è un libero commercio del “così fan tutte”. Una versione, certo, meno hard del film dallo stesso titolo. Quanto a me, mai fatte tesi a pagamento. E nemmeno, ch’io sappia, Paolo. Questo coinvolgimento indiretto è l’unico caso. Il che non toglie che si possa scrivere un’intera tesi per una figlia, o una nipote.
Sia come sia, fra quei due idoli si stende Susanna: un nome, per un contesto ricco e longevo. “Che bella cosa sei quando ti guardo, Che bella cosa sei quando ti bacio…”
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I contatti telefonici fra Paolo e Susanna ripresero dopo un tempo più lungo del solito intervallo medio fra una chiamata e l’altra. In lui durava, spinoso e imbranante, l’imbarazzo di quel pesante segreto. Così lasciò cadere tante opportunità di telefonare: gli si era sviluppata una specie di paura, e non la chiamava. Rimaneva solo in casa ed era tentato di fare il suo numero, ma finiva sempre col rimandare: chissà, forse Rina tornerà più presto del previsto; forse verrà a trovarmi qualcuno dei figli, e dovrò interrompere bruscamente la conversazione; e poi, oggi non mi sento in forma. Eccetera: scuse e pretesti di grana grossa, insomma. Finalmente, una sera di medio autunno si decise a rompere i pretestuosi indugi. La chiamò e la solita nota cara voce arrochita gli rispose. Non ebbe bisogno del convenzionale “Sono io...”: la sua vocalità antica, chissà se poco o tanto modificata dai tempi della scuola, era ormai saldamente fissata nella risvegliata memoria di Susy.
In questa prima chiamata dopo la grande rivelazione altri particolari si aggiunsero alla composizione del caso, ma Paolo evitò di fare domande adesive al midollo sensibile della cosa. I nuovi particolari riguardano essenzialmente la reazione varia e mutevole dei familiari allo scandalo. E dunque qualche risposta piccata di Susy alle reticenze di fratelli e sorelle, nipoti e cognati.
E poi il solito florilegio di notizie sulla propria esistenza delusa, la sua collaborazione professionale con l’amico, gli incontri sempre più rari, la relazione ormai stanca, non si sa quanto logorata, benché protetta, in certa misura, dalla distanza fra gli incontri e dalla reciproca indipendenza biografica e logistica.
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Quanti anni trascorsero in questa routine lenta di rapsodici incontri telefonici? Non saprei precisare, ma non molti. Poi si verificò l’imprevedibile: un incontro “in carne e ossa” fra i due amanti incorporei. Paolo era in Calamagna per una breve vacanza estiva, ospiti, lui e Rina, del fratello di lei, nella grande casa di Letizia Marina. Una mattina Paolo, da solo, si recò a Zefiria. Aveva indossato il costume da bagno: avrebbe fatto il bagno nel mare zefirese? Non ne era certo, e si affidava al caso. Passeggiò lungo le vie segnate dal suo soggiorno lontano, quando abitava in quei luoghi. Non ritrovava più che le sole strade: l’abitativo era tutto sconvolto. Nella via Bengasi, la sua strada al tempo della “prima Susanna” l’area già occupata dalla casa e dall’annesso orto dell’avvocato Carolui ospitava, ora, un comunissimo palazzotto condominiale di ben sei piani, certamente in parte abusivi (e chissà come sanati in quell’ambiente di complicità diffuse fra costruttori, politici e mafiosi). Una permuta, certamente: quale, l’appartamento (o gli appartamenti: almeno due, suppongo) dell’avvocato? Era ancora in vita, lui? E la moglie? Di Rosanna si erano avute notizie: aveva fatto la carriera universitaria, e a quell’epoca era già professore aggregato di Storia moderna nell’ateneo zanglese. Ma dei genitori, Paolo non sapeva nulla. La casa dove abitava lui con la sua famigliola aveva subito modifiche anch’essa, ma era ancora riconoscibile: avevano, tra l’altro, murato l’ingresso sulla via Bengasi, che garantiva l’autonomia della parte terrana in locazione. Intatta era rimasta la casa vicina, sul fianco sinistro della “propria”, col suo florido giardinetto davanti alla costruzione abitabile: ma lei, la prosperosa signora che l’abitava, sempre fresca di parrucchiere, viveva ancora? Improbabile: avrebbe avuto più di novant’anni. La casa “giardinata” era soltanto terrana, e il figlio della simpatica signora era stato alunno di Paolo al suo primo anno di insegnamento statale da supplente annuale all’istituto commerciale di Siderato. Una foto riproduce Paolo al centro di un terzetto le cui ale sono il figlio della signora, Daniele Calvise, e un secondo suo alunno dello stesso istituto ma di altro corso: Carmelo La Grotta. Quest’ultimo era morto. Paolo aveva appreso la brutta notizia in circostanze impensabili, dalla gentile bocca di una sua nipote. Era, costei, in compagnia del padre anziano cardiopatico, fra la clientela in sala d’aspetto di un noto cardiologo liotrese: un barone universitario, direttore di un celebrato istituto di cardiologia di quella città, e in piena attività illegale, con visite, in quella metà degli anni Novanta, da 350.000 lire in libero nero seppia. Un esemplare caso di sanità insana. L’ex alunno, zio della fanciulla, era stato ucciso da un cancro ai polmoni. A soli quarantotto anni: fumava come il classico turco. Paolo, toccato nelle corde della sensibilità profonda, aveva iniziato un racconto su quell’incontro e le sue implicazioni emozionali. Pensava a quel suo sventurato studente, che tanta parte aveva avuto nella sua vita dei primi anni magnogreci, a quella giovane nipote nubile, sacrificata accanto al padre, che veniva da così lontano a versare terra di denaro sporco nelle bramose canne di quel Cerbero mascherato da medico e figlio ideale di un brutale Ippocrate capovolto. Pensava al ritorno di quella tenera coppia in un paesino sperduto fra le montagne della Limina, nel cuore della notte decembrina. Insomma, c’era abbastanza materiale per un racconto vibrato e sfaccettato. Che tuttavia, come molte cose del mio amico, è rimasto sospeso alle prime cartelle di video-scrittura. Magari, un giorno o l’altro, salterà fuori, invece, compiuto e rifinito: chi lo sa. Sono tante le carte lasciate in eredità da questo prodigo grafomane. Nonché campione dell’interrotto. E dell’abbozzo.
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Ma torniamo all’incontro zefirese. Paolo continuò il suo nostalgico giro dei posti più ricchi di memorie personali. Finché non decise di fare una capatina sulla spiaggia. Avanzando verso il lungomare rivedeva scene lontane: il primo incontro con Susy dopo sette anni di buia lontananza senza notizie; la volta che si trovarono in spiaggia, in quella spiaggia, lei con le sue bambine e Paolo con Rina e Giampiero. Poi “visualizzò” l’incontro del “nono anno” (ossia, del sedicesimo dalla maturità di lei): era avvenuto lì, subito “dentro” il lungomare dall’ingresso più centrale. Altri tempi, irrecuperabili e cristallizzati in scampoli mitici, del tutto, come dire?, improduttivi. E lui era ormai un quasi vecchio professore. Tutto sommato, perché negarsi un soffio di sentimentalismo? “A chi faccio male, a chi devo dare conto?” E avanzò verso quel tratto di spiaggia che li aveva visti insieme, completi di famiglia nella calda estate del remoto 1973.
Avanzando, ammiccava verso la probabile zona-meta di quell’anno. A un certo punto ebbe l’impressione che un fantasma della sua immaginazione si frapponesse tra l’occhio suo e la realtà: più o meno nel tratto memorizzato una donna in costume da bagno gli ricordava Susanna: s’era alzata avviandosi verso un locale ombrato presente su quel segmento di lungomare. Un cappello da sole la difendeva dalla furia canicolare e occhiali neri facevano lo stesso servizio per gli occhi. Che perciò non erano visibili. Tuttavia, più lui si avvicinava più la somiglianza lo sbalordiva. Somiglianza di corpo e movenze, innanzitutto, ché il viso era poco visibile. Certo, non era la fresca ragazza del trentennio precedente, e non era nemmeno la matura signora rossa incontrata al ministero del lavoro, e tuttavia ricordava l’una e l’altra. Fu incerto fino a un metro da lei, che da parte sua, non gli aveva badato: a che scopo guardare un vecchio probabilmente calvo, con un ridicolo berretto bianco sulla pelata? Lei approdò sul lungomare, salì sul marciapiede, si avvicinò al locale alberato, entrò. Paolo si guardò tutta la scena e attese che la donna del mistero uscisse dal bar con le sue bottiglie di aranciata e Coca Cola nelle mani.
La donna aveva avuto il tempo di percepire quella manfrina ambigua (galante? voyeuristica?) e rispose all’attenzione dell’anziano con sguardo di crucciata aria interrogativa. Pochi secondi di sbalordita incertezza, e avvenne il piccolo miracolo: professore, lei! Susanna, tu! E come mai, e che strano caso è questo, e che ci fate qui, e tu che ci fai. Non ho chiesto a Paolo di precisare la durata del cinguettio slogato che si snodò fra i due smarriti reduci del buono e del cattivo tempo antico. Basti ricordare che presto Paolo corresse Susy:  Ma come, mi dai del lei e del voi? E’ che per un momento Susanna era tornata l’alunna del magistrale, la quale, in pubblico, doveva dare del lei o del voi al professore. E poi: lui pareva solo, ma chi poteva sapere? Forse nelle vicinanze c’era Rina, che avrebbe potuto ascoltare e vedere. Non ricordava, Susanna, se Rina avesse accettato, in quegli anni, non più prossimi, del ritrovarsi e frequantarsi (sia pure nell’angusto possibile), il suo latino tu rivolto al marito.
Non c’era nessuno, con Paolo: Rina era andata a fare spese con la cognata nel paese montano di Letizia Jonica, e lui aveva fatto quel salto solitario a Zefiria in chiave tutta memoriale e sentimentale. Si trovava a Letizia Marina, ospite con Rina del fratello di lei e della cognatina ciarliera, patita di gossip (siamo già negli anni di questa voga: gossip, non pettegolezzi. Come fitness, non …). No, non c’erano figli né nipoti con loro. E lei, Susanna, come mai si trovava nell’ultimo posto al mondo in cui l’avrebbe immaginata? Anzi, nel paese dove aveva più volte ripetuto e giurato che non sarebbe più tornata? Ecco la spiegazione, pedestre, poco magica, e tuttavia dall’alone magico tutt’altro che aliena. C’era stato un lutto in famiglia: una sua zia, sorella della madre, era morta qualche giorno prima. Lei aveva un debito di riconoscenza con questa zia (che l’aveva allevata in buona parte) ed era venuta a raccoglierne gli ultimi fiati. Non la giudicassi per quella presenza in spiaggia: a che scopo fingere e recitare un lutto maggiore del reale? E poi, in paese a chi doveva dare conto, dopo trent’anni di salutare, duplice lontananza? Giudicarla? Era l’ultima cosa che l’euforico e frastornatissimo amico potesse pensare. Piuttosto, brancolava ancora nelle rosee nebbie della sorpresa per quelle coincidenze, previsionalmente così difficili, eppure benignamente calate nella realtà. E non aveva ancora dipanato quella matassa, non ne aveva colto altri fili più improbabili di un pure scarsissimamente probabile semplice incontro in quel luogo segnato.
Come mai Susy si trovava proprio in quel tratto di spiaggia, e non più a nord o più a sud? La risposta della donna gli accese nel sangue la sua parte di supplemento elettrico. Confida, Susanna: “Non so come, non so perché – trascrivo e riassumo da un taccuino tascabile di Paolo – stamattina, al risveglio, mi è venuta in mente la volta che siamo stati insieme in questa parte di spiaggia e poi in questo locale, noi tre soltanto, tu con Rina e io da sola, già separata (la prima fase) da quel gentiluomo di mio marito. Ricordi?” Le oziose domande (pur così dolci al palato di Memoria emotiva)! Se ricordava, lui? Paolo non aveva dimenticato nulla di significativo della loro vicenda. Solo dettagli di puro contorno. Almeno, così credeva lui. E così recitò alle orecchie di Susanna.
“Ricordo perfettamente (anche se, dopo ventitre anni, in forma condensata). Ricordo le tue confidenze a Rina, la mia ostentata finzione d’indifferenza al tuo fascino sempre in azione. Raccontavi le tue disavventure coniugali e i guai di salute tuoi e delle piccole.”
“Lasciamo stare il mio fascino, già allora ormai quasi spento...”
“E figuriamoci oggi, no? Invece non è vero. Non era vero allora, al tempo dell’incontro qui, quando la tua bellezza sfolgorava quasi intatta, malgrado le sofferenze subite. Non è del tutto vero neanche oggi, che sale con benigna fatica da un sottofondo di crudeli attentati clinici ed esistenziali, ma non ancora spenta, solo modificata, attenuata, se vuoi, ma non dirmi spenta.”
Ovviamente, l’appunto trascritto non fu versato brutalmente come qui appare nelle orecchie impreparate di Susy: parole e frasi più semplici dovettero precedere nell’oralità la civetteria di questa elaborazione litterata (destinata, forse, a ulteriori trattamenti). Rispose Susanna (più o meno).
“Sarà. Magari soltanto agli occhi tuoi. E se non tutta di verità, perlomeno sa di consolante galanteria. E’ stato, quello di ventitre anni fa in questo luogo, il primo incontro vero e sincero, dopo la burrasca dell’impatto in casa dei tuoi cognati.”
“Sì, ricordo, la freddezza punitiva, ma tanto sofferente, di Rina, la tua fuga nell’angolo del ballatoio sopra il giardinetto, le tue lacrime....”
“Oh bravo, vedo che hai fissato bene gli episodi della nostra storia.”
“Hai dimenticato che sto scrivendo il nostro romanzo? Ho preso nota di tutti i fatti importanti nei miei diari. E talvolta anche dei minimi. I più significativi li ho descritti abbastanza estesamente, anche se, spesso, in chiave cifrata.”
“Cifrata, come? Che vuol dire, esattamente?”
“Vuol dire, mascherata, schermata...”
“Fin qui ci arrivo, ma è un po’ generico, no?
“Preciso. Più frequentemente, la verità veniva tradotta e nascosta in ironiche frasi filosofiche per un gioco di sorridente polemica anti-metafisica. Come puoi capire, l’intento principale era di sfuggire alla corretta interpretazione di Rina, nel caso una mia distrazione le avesse consentito l’accesso ai miei diari.”
No, Susanna non l’aveva dimenticato, l’impegno del romanzo. Anzi gli suggeriva di affrettarsi a concluderlo, o magari soltanto una prima parte, se gli veniva troppo lungo (come lui aveva accennato in una delle loro telefonate): per avere più probabilità di leggerlo – diceva. Visto quel che fumava, non si sentiva sicura di poter toccare l’età dei genitori. Il suggerimento era saltato fuori nella penultima telefonata, e ora Susanna lo ripeteva, convinta che fosse la prima volta a dirlo.
Dunque, le era venuta in visione quella “serena chiacchierata”. Non sapeva come e perché. Forse, azzardò, aveva fatto un sogno sull’argomento, e non lo ricordava. A una certa età capita di dimenticare facilmente i sogni. Ora che veniva indotta a pensarci, ma sì, una sensazione vaga di avere bazzicato in sogno quei personaggi fluttuava nella sua “memoria sbrindellata”. E così era venuta intenzionalmente in quel duplice luogo, la spiaggia e il locale, per riprovare, in qualche modo, quel momento di serenità nella ricostruita amicizia, dopo i sette anni di “buio totale e freddo”. Naturalmente, molte cose erano cambiate “da quel tempo ormai mitico”. Non c’era più nessuno dei vecchi proprietari, probabilmente morti, e non era lo stesso neppure quel tratto di spiaggia. Il locale, poi, s’era ingrandito e abbellito. Come, del resto, tutto il lungomare, prolungato nella parte asfaltata e concluso con un delizioso boschetto di varia flora, ma soprattutto pini, confortato di invitanti sedili in legno, e qualche tavolo contornato di sedie per eventuali veloci picnic.
La silfide Coincidenza, mentre lei parlava, aveva lavorato nella mente di Paolo attizzandovi altre emozioni. Anche lui era venuto in quel segmento di spiaggia e in quel locale spinto dallo stesso ricordo. Che lui preferiva chiamare “reviviscenza proustiana”, così intensi e vividi erano quegli sgorghi emozionali e così chiare certe loro improvvise immagini. Ne schizzò via un inciso stranamente alieno: “Ecco perché gioco al lotto, qualche volta, e anche al super-enalotto. Questo nostro incontro aveva più o meno le stesse probabilità di un terno al lotto o di un “cinque più” al super-enalotto”. Già, le stesse. Più o meno.
Dopo avere incollato questa coda allotria al tenero amarcord sentimentale, Paolo avvertì un senso di disagio (così scrive nel taccuino tascabile). Come di una stonatura. Ma, dice, l’inclusione scivolò innocua su un sorriso di commento un po’ ironico di Susy. Che volle ricordare: “Mi pare che ai nostri tempi, non giocavi, e consideravi debolezze popolari, o – come dicevi? ah, sì – piccolo-borghesi questi inseguimenti della fortuna.”
“Sai come accade, si diventa più indulgenti verso le debolezze umane, con gli anni in crescita sul groppone (o groppino che sia). Basta non lasciarsi travolgere e agire sempre con misura. Allora non c’è vergogna a sfidare sua maestà, anzi divinità, il Caso, regolatore inappellabile di tante vicende umane.”
Come era sfacciatamente manifesto in quella incredibile coincidenza a più risvolti: un lutto porta Susy a Zefiria, Paolo si trova in Calemagna; Susy è venuta da sola a Zefiria, il suo Marco rimasto a Milano, vincolato al lavoro; Paolo si sente spinto a un vagabondaggio memoriale e scende solo a Zefiria; Susy viene in spiaggia; un sogno la orienta sul tratto di lungomare, di fronte al locale del 1973; Paolo ricorda pure lui quell’incontro di ventitre anni prima, e sceglie lo stesso segmento di spiaggia e lungomare. Ce ne vuole, a radunare un simile bouquet di coincidenze parziali e raggiungere quell’improbabile totale.
Paolo non seppe evitare domande sui rapporti tra lei e quel lui: stentava a mettere insieme i due nomi, quel gemmato “Susanna” accanto a quel “Marco” predone gli disturbava la peristalsi. Né convinse Susanna che fossero domande “neutre”. Lui, prevedibilmente, si augurava, per un verso, che quei rapporti si esaurissero e Susy (ma sì, meglio la contrazione, così odorosa di ghiotte susine) rimanesse di nuovo libera, ma per un altro verso, temeva l’evento come una disgrazia per lei: cosa avrebbe fatto senza quel lavoro e quel “sussidio”? Egli non poteva aiutarla in nessun modo concreto: le sue magre finanze di pensionato erano affidate, da sempre, alle sagge mani di Rina, vocazionalmente incline al risparmio oculato; e la sua “mensilità personale”, calcolata per spese modeste (benzina, qualche giornale e libro di prezzo economico, un caffé al giorno, e simili ) poteva farla oscillare entro margini stretti: ad evitare scontri stressanti e interrogatori snervanti da parte della saggia (e implacabile) amministratrice domestica. E poi, Susy avrebbe accettato quell’aiuto? Domanda oziosa: era sicuro che no. Non in quelle condizioni. In altre (ben altre!), forse sì. Anzi, certamente: perché “forse”?

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(1)Una rivelazione tardiva del solito Cossiga, miniera di segreti pudendi (e di qualche azzardo ermeneutico), riattizza il fuoco dell’interesse e le fiamme della polemica tornano a lingueggiare intorno a Ustica. Eccolo qui il segreto svelato, bello e rotondo: l’obiettivo di quel “trambusto” era Gheddafi. Il quale, non essendo stupido, aveva provveduto a una trappola per i suoi sbrigativi cacciatori. E ne andò di mezzo quel folto di ignari innocenti: una geniale trappola, insomma, che sbaglia volpe e fa un atroce macello di agnelli. Come dire: l’ennesimo test del cinismo politico.

sabato 22 maggio 2010

SUSANNA, frammento 67


Negli intervalli fra una seduta e l'altra di questa sorta di "storia infinita" slivellata al ribasso della quotidianità personale e generale, telefono, di tanto in tanto, alla "mia" Susanna. Lo faccio soltanto se, e quando, rimango solo in casa, per poter parlare liberamente. Sono, però, più le volte che non la trovo: il lavoro la porta in giro per lo Stivale. L'ho chiamata anche stasera, l'ho trovata (sarà stato, questo, il quinto o sesto tentativo della settimana), ed ho appena finito di conversare a lungo (Rina era alla messa del "Mese di maggio") con quel pezzo del mio passato remoto meglio incarnato e memorizzato. Ma i buchi neri dell'oblio sono pur sempre tanti, troppi: che pena non poter ritrovare integre e palpitanti scene e dettagli così coinvolgenti in quel presente vissuto. Anzi, vivente e scorrente, fiume di acque anfetaminiche rinnovantisi nei giorni dorati di quelle estati, roventi di clima e di passione. Dell'ultima, specialissimamente: mielata e ferita, intrisa di paure e difficoltà, ma anche feconda di guarigioni e riprese tensive di fisica resistenza e buona salute. Sempre che la magia del ricordare non faccia sconti e decontaminazioni troppo indulgenti.
Rifletto. No, niente "sconti". Che cosa ci siamo detti? Le solite notizie sulla salute, le figlie, i loro problemi, il lavoro col "suo" Marco, sempre in viaggio da una città all'altra. E qualche retromarcia verso il nostro passato intimo. Così, ricordando e alludendo, ho finito col rivelarle il mio segreto: questo tentativo tormentoso di romanzare quella sezione della mia vita che la vide perno gravitazionale del mio maggiore impegno affettivo. E ho stuzzicato la sua curiosità: mi sprona a finirlo "in tempo" perché lei possa leggerlo, ritrovarci quel passato a doppia faccia, di felicità e dolore, di piacere e tormento. Ho promesso, ma so che le mie Erinni non sono disposte a mollare la presa: come lasciarsi sfuggire sì ghiotta preda?

"Potevo o dovevo?" Così, ormai tanti anni or sono, Gulizza pensatore sfidava uno dei soliti pontefici del libero arbitrio, sgombrando le "vie del Signore" dei fantasmi ideologici che nutrono il "potevo". E io mi sento l'ultimo dei Mohicani a tentare un'estrema difesa del residuale "potevo" annidato nella "complessità": delle cause e sotto-cause, intrecciate alle pulsioni appetitive; delle occasioni e delle inibizioni, in dialettica competizione. Il tutto, sospeso a quella "categoria del possibile" che la frequentazione professionale del grande Nicola Abbagnano ha inoculato al mio neopallio, così poroso di selezionate disponibilità acquisitive. Ma più passano gli anni e meno rimane del terreno di coltura del "potevo", così spietatamente divorato dalle ripetute sconfitte dei miei proponimenti, delle mie sfide. E proprio questo sforzo è la cartina di tornasole delle mie virtù: questo guazzabuglio polifonico che non riesco a chiudere. Dopo decine di accigliati propositi finiti in tradimenti e compromessi. Amen (ancora una volta).
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Una foto di gruppo, io circondato dalle ragazze (più qualche ragazzo) della terza liceo classico, sezione (o corso) A, di Realpolia: ed eccomi proiettato ancora su quei primi anni Settanta che conobbero scontri quasi quotidiani di giovani accesi di passione e prepararono gli "anni di piombo" dell'eversione rossa e nera. E l'ancora più lugubre stagione dello stragismo dei misteri. Risento un po' le voci appassionate di quei lontani interventi giovanili. A ogni fattaccio nuovo, un dibattito-scontro (l'eufemismo di copertura è "conversazione") in classe (ma senza tracimare dentro le ore del programma storico e filosofico). La foto stava dentro un'agenda dell'epoca, la quale contiene appunti di vita scolastica e di politica: eccola sul tavolo, pronta a rinfrescare la memoria di quei fatti lontani, ripercorrendone in corsa i più eminenti (per impatto storico e costi umani). Dai memorabili scontri dimostranti-polizia del marzo 1968 (ancora il '68!) a Valle Giulia, alla strage milanese di Piazza Fontana del 12.12.'69; dalla cacciata degli studenti fascisti dall'università di Roma alla riscossa degli stessi e conseguenti ulteriori scontri col morto e tanti feriti; dall'infame delitto-errore del rogo di Primavalle (due fratelli del Msi bruciati in casa da scalmanati di Potere Operaio (si disse e si dice, da alcune "fonti"): 16. 04. 73), alla Legge Reale del '75 si contarono decine di zuffe cruente, di veri episodi di guerriglia urbana, con un totale di 69 vittime tra i due schieramenti (ma esclusi gli effetti collaterali: per esempio, genitori limati dalla pena per i figli uccisi, fino a morte anticipata). Nello stesso tempo le semplificazioni ideologiche si modificavano: i fascisti picchiati, anch'essi, dalla polizia, non sono più "strumenti dello Stato borghese", ma suoi nemici dell'altra frontiera, che lo accusano di essere debole o complice con i comunisti. La teoria degli opposti estremismi fu sbandierata dalle istituzioni con scarso esito di credibilità presso i fronti opposti. Ancora decenni dopo, Pino Rauti la giudica una furbata per confermare, con forte legittimazione anti-sovversione, il traballante potere democristiano. Né ci volle poco tempo (e pochi eventi) per farla accettare a una parte della sinistra istituzionale. Intanto gli eventi maturavano sul doppio binario delle esecuzioni brigatiste e delle stragi misteriose ma (per quel poco o tanto che s'è potuto provare) di più che sospetta matrice fascistico-istituzionale e massonico-piduista. Come dire, latamente (e basilarmente) "mammonica", con i soliti servizi segreti tutt'altro che "deviati", sui binari occulti, e ben previsti, della loro preminente funzione di deterrenza socio-politica in difesa del disordine capitalista (elevato e promosso, dal Potere policefalo, al rango di solo Ordine possibile e auspicabile). E vai con le già ricordate bombe di Brescia del '74 (abbiamo avuto occasione, io e Rina, di passeggiare su quella Piazza della Loggia vent'anni dopo l'eccidio: io a spiegarle la lapide), con quelle del treno Italicus dello stesso anno, con la molto più vasta e orribile strage di Bologna del 2 agosto 1980. E via tacendo.
La sanguinosa epopea delle Brigate rosse, e dei gruppi affini (Potere operaio, Prima linea, ...), non va dimenticato, è stata preceduta dalle prime spettacolari battute della "Strategia della tensione", programma eversivo di tutto rispetto, mirato all'intimidazione degli incauti che osavano sperare in un alleviamento delle sofferenze degli svantaggiati. O (detto meno drammaticamente) a condire un po' meglio la mensa operaia e quella a rischio disoccupazione, con relativa cassa integrazione). La data-emblema del gentile programmino "politico" è quella appena ricordata del 12. 12. '69, giorno della strage milanese alla Banca dell'Agricoltura, in Piazza Fontana: diciassette morti sfracellati dalla bomba e non ricordo quanti feriti. Sorvoliamo sul drammatico seguito: di depistaggi, false testimonianze, sparizione di eloquenti indizi, scelta del capro espiatorio: l'ignaro Valpreda, arrestato e "torchiato" in carcere; il povero Pinelli "suicidato" da una finestra del commissariato. Punita, quella scelta criminale, con vendetta incauta, assassinando il sospettato commissario Calabresi. Da ricordare ancora la lucida inchiesta di Camilla Cederna, lo scontro con Montanelli (sempre illuminato dallo Spirito Santo nelle sue ferree, anzi ferrigne, convinzioni di uomo d'ordine e soddisfatto borghese); e via saltando e cancellando, fino alla troppo tardiva condanna di Adriano Sofri e compagni, su denunce e confessioni non del tutto assimilabili all'oro colato. Sofri, da tempo giornalista-opinionista meritamente rispettato, si dichiara innocente e rifiuta di "fare domanda di grazia": per la contradizion che nol consente.
Ma L'omicidio Calabresi merita ancora qualche rigo: le commemorazioni del decennale e, ancor più, del ventennale hanno prodotto testimonianze e memorie che non lasciano dubbi su un fatto: il commissario non era nella stanza dalla cui finestra precipitò Pinelli. C'erano, bensì, cinque persone, cinque poliziotti, tra i quali un capo (forse il questore): non sarebbe stato naturale rivolgersi a loro per tentare di leggere nel criptato del presunto suicidio? Naturale e logico: ma in un Paese normale. Particolare rivelato dalla vedova: il marito Luigi (papà Gigi, per i figli) era in rapporti di amicizia con Pinelli. Tanto in amicizia che l'anarchico aveva regalato al commissario un ottimo libro, la vibrante, poetica, malinconica e lucida "Antologia di Spoon River". Retropensiero: "ma in un Paese normale" si verificano certe cose?
Però, non c'è proprio nulla da rinfacciare al Calabresi? Perché trattenere per ben tre giorni l' "amico" Pinelli? Perché, addirittura, puntare su di lui come maggiore sospettato? In tanta confidenza non c'era stato modo di capire l'animo non violento dell'anarchico? Si rischia di annebbiare anziché chiarire il clima che promosse le critiche a Calabresi. Certo, non si può pretendere che la moglie (allora in attesa del terzo figlio) o il primogenito (che certamente, prima o poi, scriverà del padre) siano in condizione di riconoscere almeno un grammo di responsabilità alla persona tanto amata. Ma la critica ha i suoi duri doveri. Perfino nel voler chiarire meglio la circostanza della "non presenza" del commissario. Perché lasciare l'amico nelle mani altrui (e siano pure mani fidate: quien sabe?)
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Forse sarà una divagazione solo "metafisicamente" pertinente: quel finale tragico chiude un anno di movimentazione folta e varia (radicata nel fermento multipolare del "mitico '68")(1), al centro del quale si schiude un altro evento destinato alla storia, ma di segno opposto al sangue innocente di Piazza Fontana: si vuol dire Woodstock. Ossia il raduno di 500.000 mila giovani dei due (o tre) sessi per godere un concerto Rock in nome della pace dell'amore della solidarietà con i sofferenti. Slogans: "Tre giorni di pace, amore e musica". O, in versione più realistica: "Tre giorni di sesso, droga e Rock' n' roll". Così i "figli dei fiori", i beatnik, la generazione del pacifismo ribelle (Mettete dei fiori nei vostri cannoni!) volle mostrare un'alternativa di vita che i Keruac i Corso i Ferlinghetti e seguito avevano esemplato in altri modi, variamente dinamici emozionali poetici. E tutti unanimi nel contestare il mammonico filisteismo del ceto borghese e l'annesso edonismo imbrigliato. I marpioni del verbo capitalista lasciarono fare, ben sapendo che col tempo quella festa scombinata avrebbe prodotto gadget e memorie monumentali a ingrasso del loro business. Che forse da tempo non si parla di erigere un maestoso museo-memorial a quell'enfatico evento che volle stamparsi come emblema generazionale sul volto della storia? E sarà l'occasione buona per risarcire il piccolo villaggio di Bethel, sulla cui collina da pascolo si svolse, in effetti, il raduno che da Woodstock prese il nome. Il luogo programmato era stato negato dalle autorità e i convenuti ripiegarono sul pascolo di un possidente del posto, che concesse la collina delle sue mucche. Il futuro memorial si chiamerà Museum at Bethel Woods, e "non sarà la celebrazione dei figli dei fiori" (promettono gli interessati), né un "Hippies Museum", ma un monumento ai decisivi anni Sessanta, dei quali l'happening musicale è stato tanto significativa parte. Come il movimento per i diritti civili, le rivolte nei ghetti neri nei complicati e contradditori Usa, i delitti politici, le comunità del libero amore, più o meno misticheggianti (e magari mistificheggianti), la piaga sempre più purulenta del Vietnam martirizzato, la contestazione globale dell'american way of life, tutta business e dollari e guerre funzionali a quel verbo supremo infiocchettato di scampoli democratici. Sì, furono tre giorni e tre notti (dal 15 al 17 agosto) di canti balli sesso droga. Insomma, "gioia di vivere", come avrebbe detto il barbuto "Ibsen antimaiuscolaro" (titolo di un mio saggio ospitato dal non facile Gulizza nella sua rivista). Sul palco si alternarono Jimi Hendrix, i Santana, Joan Baez, Janis Joplin, i Grateful Dead. L'anno dopo un doppio album e un film-documentario vincitore dell'Oscar celebrarono l'avvenimento epocale. Assenti i morti di droga, come Jimi Hendrix, ucciso da overdose l'anno dopo quel trionfo.
Oggi è possibile godere filmati a colori suoni e testi di quell'evento nei mille siti della Rete: che suona come un altro eccesso nel tempo degli eccessi. Ut semper, Crono mescola eventi di senso opposto, e di contraddittoria realtà carnale: qui lieta festa e là cupa strage, il gemito dell'orgasmo ad ovest e l'urlo del dolore impazzito ad est. Ma com'è difficile coniugare questi compresenti, sorta di ossimori di un Saturno divertito e sadico. Banalità riflessive? Forse. Ma se si fosse capaci di meditarvi sopra seriamente quante scemenze metafisiche sarebbero risparmiate a questa umanità di sonnambuli ipercinetici!
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Tra gli omicidi politici consumati negli scontri fra studenti, i nove accaduti nell'arco degli anni 1975-83 danno la misura dell'irrigidimento distruttivo, da guerra civile strisciante, di quella contrapposizione. A destra si scialava in simbolismi nordici e teutonici: Odino, Thor... La primavera del '75 si ricorda come un periodo lugubre di morti ammazzati: a marzo fu ucciso a colpi di spranga un ragazzo di 19 anni e gli scalmanati della sinistra extra allietarono i loro cortei con frasi di puro delirio, tipo: "Tutti i fascisti come Ramelli / con una riga rossa tra i capelli". La risposta nera al delitto Ramelli fu l'uccisione, il 16 aprile, del diciassette Claudio Varalli, fulminato da colpi di pistola. Il corteo del giorno dopo vede la morte di un altro ragazzo di sinistra, Giannino Ribecchi, "travolto da una camionetta dei carabinieri" A maggio, in piazza San Babila, viene trafitto da coltellate assassine Alberto Brasili. Il 5 giugno conflitto a fuoco intorno alla cascina Spiotta dove è custodito l'industriale Gancia sequestrato dalle Br. Muoiono l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso e Mara Cagol, cofondatrice delle Br.
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Dopo l'uccisione del giovane Valerio Verbano in casa propria, al rientro da una delle consuete sortite di lavoro indagativo, fioccarono le rivendicazioni da destra e da sinistra estrema. Molte furono fasulle e fuorvianti. La migliore per tasso di imbecillità spaccona suona: "Il martello di Thor ha colpito ancora".
Il crimine Verbano rimane uno dei tanti enigmi non risolti della stagione infernale. Diecine di deposizioni, rivelazioni di pentiti, spunti e suggerimenti precisi (verso la destra estrema dei Nar e di Terza Posizione) sono stati degradati da certa magistratura a semplici ipotesi prive di riscontri. Lo stesso Memoriale scritto dal non rassegnato padre di Valerio, il tenace Sardo, è scomparso (è stato fatto sparire). L'episodio, ricostruito con ricca varietà di testimonianze, nel programma "Rai Educational. La Storia siamo noi" rimane a tutt'oggi l'ennesimo mistero annegato del gioco perverso delle complicità in omissioni deviazioni protezioni losche dettate dalla distorta Ragion di Stato (e da inconfessabili ragioni molto private e personali). Chi non si arrende ancora è la madre, Carla Verbano, che, dopo la morte del marito Sardo (impegnatissimo, per anni, a indagare in ogni modo e direzione per far luce sugli esecutori e i mandanti di quel vile agguato) ne continua l'opera, scrivendo, perfino, a un personaggio dell'eversione fascista in carcere: che lo sciagurato, dopo lunghi anni, si lasci commuovere dal dolore di una madre e dica quel che sa per consolarla almeno nella conoscenza di quegli assassini mascherati che in quel lontano giorno del funesto febbraio '80 irruppero in casa, legarono e imbavagliarono lei e il marito e attesero il figlio per sparargli alle spalle mentre si difendeva a colpi di judo. E conoscere anche i mandanti e il movente di quella spietata esecuzione. Forse - scrive la povera vedova - la confessione potrebbe giovare anche al prigioniero, alla sua difficile serenità. Il fiore dell'illusione ama il terreno del dolore.
I funerali per Valerio furono un evento mediatico di cronaca drammatica: diecimila persone dietro il feretro, parte delle quali giovani delle formazioni di sinistra armati di pistola. Ma anche di destra, tanto per confondere le acque e scaricare su formazioni marxi-leniniste il delitto scomodo. Potevano mancare gli scontri? Non mancarono, e polizia e carabinieri ebbero il loro daffare per frenare, rintuzzare, sparpagliare le masse contrapposte, decisissime a farsi male. Ma non sempre con l'auspicabile misura che compete ai tutori della dialettica pacifica: la tentazione del menare a volte è irresistibile.
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I libri di storia si aggiornavano, a gara l'un contro l'altro, per una composita spinta che mescolava interesse culturale e logica di mercato. Il terzo volume del corso liceale giungeva ormai agli eventi dei primi anni Novanta. E io mi sforzavo di raggiungere quelle tragiche soglie, a confermare la beffarda smentita tragica di tutti i bei sogni irenici, regolarmente pullulanti a valle di ogni conflitto vastamente generalizzato: dalla prima Guerra mondiale in poi. Non avendo l'obbligo di narrare serialmente i singoli accadimenti, lasciati all'acquisizione personale degli studenti (secondo le indicazioni di una scelta metodologica operante nel liceo realpoliese), mi restava tempo per un'interpretazione polarizzata, ma aperta alle eventuali, e sollecitate, riflessioni studentesche più o meno divergenti. Le guerre palestinesi godevano di una fervida attenzione filoaraba presso le mie classi, e io me ne compiacevo, badando, nello stesso tempo, a fermare la simpatia al di qua dello strisciante antisemitismo (specie di origine nostalgico-fascistoide). La prima Guerra del Golfo mobilitò, addirittura, gran parte del liceo in manifestazioni pubbliche con fiaccolate e discorsi di condanna. Naturalmente, a muoversi eravamo le figure più reattive di orientamento laico-popolare. Ma c'era anche un nucleo, ambosessi, di cattolici comunisti (l'ossimoro mi intrigava come loico, ma senza turbamenti sul piano pratico-militante). Buona, dietro i docenti, la partecipazione studentesca. Rivedo la non amplissima piazza centrale di Realpolia, emblematicamente abbracciata da due imponenti chiesone barocche e fronteggiata dal non meno barocco Palazzo comunale riempirsi di giovani e ragazze con le fiaccole pacifiste nel pugno convinto, e cartelloni in esplicito rifiuto della guerra incombente e poi consumata con le solite stragi e copiosi strazi, da nuove micidialità hi-tech della "distruttività umana". Nell'imbrunire che scendeva alla sera, uno spettacolo tanto suggestivo quanto triste, allo specchio della coscienza di una garantita inutilità pratica. Suggestione e tristezza non di rado vanno a braccetto.
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Ma ritorniamo agli annia Settanta e seguito. Dopo la violenta contestazione di Lama e gli inclusi incidenti, il ministro degli Interni Cossiga ordinò la chiusura a tempo indeterminato della Sapienza: era il 6 marzo (1977), quando i blindati del Gran Sardo abbatterono quei cancelli e cacciarono con poco garbo gli occupanti rossi. Cinque giorni dopo, l'11 marzo, la "sfida" fra studenti e forze dell'ordine si trasferì a Bologna: campo di battaglia, ancora l'università, questo presunto tempio del sapere alto, chiamato a un ruolo così poco istituzionale. Durante gli scontri un carabiniere colpì a morte Francesco Lorusso, studente di "Lotta Continua". L'indomani, 12 marzo, Roma conobbe quella che fu giudicata la manifestazione più violenta di tutto il '77: un bilancio pesante fece contare varie decine di feriti, più o meno gravi. Due mesi dopo, il 12 maggio, nel corso degli scontri fra parlamentari radicali e polizia, venne uccisa, in Roma, la diciannovenne Giorgiana Masi. Dopo due giorni, il 14 maggio, a Milano scorre la manifestazione di protesta per quella morte infausta. Potevano mancare gli scontri fra giovani dell'Autonomia e polizia? E nemmeno il morto mancò all'appello: questa volta fu un uomo dello Stato "democratico" a fare da ostia al Moloch, l'agente Antonio Custrà, 25 anni. Inutile ricordare la diversità di "trattamento" fra questa morte e le altre. O versare sul piatto della memoria ciarliera le maniere forti usate da quei tutori dell'Ordine sui corpi di quei giovanotti e giovanette dentro le caserme. Evento, ahimé, cocciutamente replicante nella storia recente. Anni dopo, Cossiga si confesserà "pentito" di quelle maniere forti: col senno di poi, disse che "oggi" non avrebbe mandato i blindati a riconquistare le università e le piazze. Perché? perché (dichiarò) avere tolto la piazza ai giovani dell'Autonomia li spinse nella clandestinità armata delle Br e di Prima Linea. Quanto alle maniere forti, il senatore a vita confidò a un giornalista che i comunisti concordavano con lui, anzi sollecitavano il pugno di ferro. E lui li accontentava di buon grado, anche se distinguendo (a suo dire) in questi termini: "se sono operai, giratevi dall'altra parte; se sono studenti, picchiate tosto e giusto." Disposizioni (pensosamente democratiche) del ministro alle forze di polizia sul campo. Un leader comunista avrebbe detto a Cossiga: "Ora che avete qualche terrorista in carcere perché non gli date una strizzatina?" Sarà pura verità? Cossiga si discolpa: gli agenti in borghese con la pistola? C'erano, ma non furono una sua responsabilità: quando lo seppe, egli chiese scusa al Parlamento e "destituì il questore", responsabile di quell'abuso. Che gentiluomo.
Il 23 settembre a Bologna ci fu il convegno del "Movimento del '77": Kossiga (non solo la K, ma pure le due s sfrecciate alla nazista) disse che fu l'ultima "festa" dell'Autonomia: al raduno erano presenti in centomila, secondo le cronache meno faziose. Ancora lui: "Poi demmo l'ultima spazzolata, e l'Autonomia finì". I cortei furono proibiti per un mese e mezzo e cominciarono i morti ammazzati. Sistematicamente. Ah, l'impagabile Cossiga! Di quante cose si è pentito, e si pentirà ancora - da qui ai cento anni di vita che gli auguriamo. Si pentirà anche della morte di Moro? Farà uno show con una brigatista del commando assassino e dirà: "Io l'ho ucciso più di lei!" Veri pentimenti?
Gli riuscirebbe più ruvido, ad ogni modo, quello sulle bugie dette in occasione dello "scandalo Donat Cattin". Di che cosa si tratta? Presto detto (in estrema sintesi). Quando Patrizio Peci, brigatista, si fa pentito e collaboratore di giustizia, nella fiumara di confessioni immette anche una notizia-bomba: Marco Donat Cattin, figlio dell'ex ministro e allora vicesegretario della Dc, è militante di Prima Linea (Pl), il gruppo terrorista più impegnato nella lotta armata. Non solo, vi occupa un ruolo di primo livello. Non solo: fa parte dei gruppi di fuoco e ha sparato, anche lui, al giudice Emilio Alessandrini, "giustiziato" da Pl il 29 gennaio del '79. Peci garantisce la notizia come emersa da fonte sicura. Cossiga, allora Presidente del Consiglio, informa il padre. E poi? Secondo la versione "ufficiale" del premier (davanti alla successiva Commissione d'Inchiesta), egli avrebbe consigliato a Donat Cattin padre di indurre il figlio a costituirsi. Secondo la deposizione di un altro pentito di Prima Linea, Fabrizio Sandalo, avrebbe dato un opposto consiglio: scappare in Francia, in clandestinità. Naturalmente, Cossiga ha mantenuto la sua versione in tutti questi anni. E altre cose ha raccontato. Per esempio, che il cugino Enrico Berlinguer gli avrebbe proposto una specie di baratto: Cossiga non intralcia la giustizia nel caso Donat Cattin e altro (per esempio, la sottrazione, al coraggioso giudice Alessandrini, così allergico ai favoritismi istituzionali, dell'inchiesta sul ruolo dei Servizi segreti nella strage di Piazza Fontana e la protezione di Freda e Ventura accusati di quell'alba dei prossimi orrori) e il Pci avrebbe rinunciato a raccogliere le firme per la Commissione d'inchiesta. Cossiga avrebbe detto: "io e tu siamo uomini di partito, non puoi fare simili proposte." Che suonerebbe, tra l'altro, come una tacita ammissione di responsabilità nell'affaire in questione. Quanti misteri ancora vergini nella storia degli orrori italiani! Che nemmeno il film della von Trotta, "Gli anni di piombo", potrà intaccare più che in qualche scalfitura ipotetica.
Chiari sono soltanto alcuni fatti e il valore etico-politico del loro verificarsi: che senso ha, per esempio, uccidere per ritorsione l'innocente fratello di Patrizio Peci per punire il traditore? Chi decise quell'infamia non si rendeva conto di precipitare nella logica mafiosa della vendetta trasversale. Certo machiavellismo spiccio non contempla mezzi non giustificabili col fine.

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Vogliamo chiudere l'amaro amarcord con due eventi minori, eppure di risonanza planetaria? L'anno delle piazze italiane infiammate fu anche quello che si portò via un mito del Rock: Elvis Presley. Bruciato dagli eccessi a 42 anni. Grandi manifestazioni di sentito cordoglio fra i fans, lunga presenza rimembrante nei media audiovisivi, un contributo eccellente al perfezionamento della deificazione in corso. Dopo vent'anni dalla morte il culto è più che mai verde e in espansione. Vi sono giovani ed ex giovani (di oggi e di ieri) che non credono alla sua morte: si sarà nascosto, qualche misteriosa potenza più o meno metafisica lo ha sottratto temporaneamente al godimento dei suoi cultori, un giorno o l'altro riapparirà: homo religiosus è ricco di fantasia. E cretineria.
L'agenda-diario del '77 segna in rosso il 17 agosto: la pagina riporta in sintesi le notizie televisive e un sospiro di commento. "Oggi Elvis Presley avrebbe dovuto tenere un concerto, ma la morte lo ha preceduto. Ieri lo ha trovato esanime la nuova compagna, Ginger Alden, nel bagno della splendida casa di Graceland, in Memphis. Trasportato al Baptist Memorial' Hospital, non si riuscì a salvarlo. La morte fu dichiarata alle 3,30 pm. La diagnosi, arresto per aritmia cardiaca."
Aggiunte degli anni Novanta
L'inventore del rock'n roll fu un eclettico genialoide, mescolando vari sound, dal cuntry al gospel, dal R&B al pop, riuscì a creare una sonorità personalissima, che conquistò tutta una generazione e qualcosa di più. Gli anni Cinquanta furono di pieno successo, fino al '58, quando venne chiamato alle armi. Mandato in Germania, vi conobbe Priscilla Beaulieu, figlia del suo colonnello, che sposò al suo ritorno a casa. Anche da militare suonò e cantò in gloria. Ma l'anno della chiamata militare fu anche quello della più grande tragedia della sua vita: la morte dell'amatissima madre Gladys, a soli 42 anni. Un trauma che 'ebbe su Elvis effetti devastanti, dai quali forse non si è più ripreso'. Conobbe la depressione e le cure, non sempre opportune, anzi via via più imbrogliate, fra sedativi e anfetamine, alcol ed endorfine. Altro durissimo colpo fu per Elvis l'abbandono della moglie, impaurita dall'intrusione soffocante della Memphis' Mafia nella vita del marito. Codesta mafia era in realtà "una impenetrabile barriera di parenti, amici e guardie del corpo [...] che lo proteggeva, ma gli impediva, tuttavia, di avere rapporti con l'esterno". Conobbe eclissi relative e rinnovate aurore. Riuscì a fronteggiare l'offensiva dei nuovi protagonisti del sound trascinatore: Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Bruce Springsteen...Ma il pieno degli anni migliori fu ripartito fra Elvis, "re del Rock" certo, ma ora meno fulgente, con le new entry dell'idolatria musicale, quali i citati Beatles, i Rolling Stones, i Beach Boys. Tanto che il suo manager ne incrementò l'impegno cinematografico (arrivò a interpretare 29 film in otto anni): una full immersion di stampo prettamente, o quasi, mercantile.
Un notista della Rai ha riferito la meraviglia di un critico televisivo per la canzone di Elvis "Love me tender", così distante dalla frenetica forza eversiva del rock, così tenera, così struggente: Love me tender, love me sweet; never let me go. You have made may life complete, and I love you so. Come può avere scritto questa delicata melodia dell'amore puro Elvis the Pelvis, Elvis il folle, 'Il delinquente del rock' (così fu tradotto in italiano il titolo del film di Richard Thorpe, Jailhouse Rock, 1957)? Meraviglia impropria, se l'eclettismo di Elvis non escludeva la tenerezza (che era ben radicata nel suo Dna di ex timido e mammone), come non esorcizzava forza e durezza, impegno e spregiudicatezza (più ostentazione professionale che motu proprio genetico). Gli anni di due altri film con Elvis (l'eclettico era anche un versatile: gli piaceva fare l'attore), "Viva Las Vegas" ("del grande Gorge Sidney") e "Frankie e Johnny" (di Frederick de Cordova, interpretato insieme a Donna Douglas) coincidono con quelli del sorgere e del tramontare del mio idillio con Susanna. Ma con al centro del secondo, lo svampare della passione lungo la primavera e mezza estate.
Ascoltai la canzone tenera di Elvis insieme con Susy, in una delle sue visite dopo gli esami di maturità. Più di una volta, insieme ad altre composizioni, e l'ultima dovette essere il giorno della mia "lite" con Rina, quando lei rifiutò di cenare. Ho appena asciugato gli occhi di uno sgorgo modesto quanto incontenibile. Rivedo Susy distesa sulla sdraio. E dopo il pieno d'incanto, il derelitto vuoto: la grande Assenza. Altro incrocio di date: l'anno del raggiunto settennio susynico buio fu lo stesso del primo show televisivo trasmesso, via satellite, da Honolulu, con un Elvis ancora in forma. Questo Aloha From Hawaii ebbe un pubblico di oltre un miliardo di spettatori, divisi per quaranta paesi. Ne venne fuori un derivato che fu il "primo disco quadrifonico" a diventare un million seller. Titolo, "Aloha From Hawaii Via Satellite".Una rubrica televisiva ha recentemente sottolineato, fra le cause certe della prematura scomparsa, gli eccessi alimentari: Elvis non mangiava sfilatini, ma "sfilatoni, con mezzo chilo di pancetta fritta dentro". E la cosa era fin troppo evidente nella sformata pinguedine degli ultimi tempi. Che egli malamente tentava di contrastare con cure dimagranti controproducenti. Una sotterranea tentazione autodistruttiva, forse, in un condensato di vitalismo selvaggio ma sfinito fino al gesto-sfida, al capriccio, fino a quella trasvolata atlantica per andare a bere un caffè a Parigi e ritornare a casa in giornata. Ne aveva fatta di strada, dentro quel corpo saldo, il thanato-verme.

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(1) Un altro dimenticato documento di "magica presa" emerge dal casual della già segnalata foresta di carta stampata acquartierata in spazi fuori mano: si tratta di una bella iniziativa del rotocalco "Panorama" costruita in occasione del ventennale "mitico", titolata "Storia dei giovani. Prima, durante e dopo il sessantotto", articolata in quattro "supplementi" ai primi 4 numeri di quell'anno. Le quattro unità sono compilazioni autonome, raccoglibili (e quindi rinuite) entro uno svampante raccoglitore di plastica rossa denso di foto "mitiche", ridisegnate sulle due facce e nel risvolto (da Carlo Marx a Brigitte Bardot, da Ho Chi Min a Marilyn, dai Beatles a Martin Luther King, dal Che a James Dean ecc. Titoli degli inserti: 1. I ruggenti anni Sessanta; 2. La vita privata nel Sessantotto; 3. Cronache dell'anno fatale; 4. Dall'altra parte delle barricate. Ciascuno dei titoli sormonta un "catenaccio": 1."Antenati, maestri, maestrini, profeti armati e disarmati"; 2. "Odi, amori, canzoni, mode, trasgressioni", 3."Prima e dopo il maggio fatale"; 4. "IL Sessantotto raccontato per la prima volta da padri delusi, poliziotti offesi, intellettuali sbeffeggiati". I volumetti straripano di foto (in bianco e nero, a colori), di scene collettive e di singoli personaggi. Molti anche i disegni, specie le caricature. Non vi langue il nudo osé né la provocazione a base, appunto, di emancipazione battegliera e dissacrante. Illustra la quarta "pagina" di non-copertina e altri spazi l'effervescente Chiappori col suo sghignazzante "Up vent'anni dopo" (ma ci sono anche vignette di altri umoristi). Notevoli anche le caricature disegnate accanto alle foto dei personaggi più o meno mitici tratteggiati nelle brevi presentazioni. Quanto agli autori dei "pezzI", inutile dire che ci sono tutti (i "sopravvissuti"). Ed è una vera goduria confrontare quei rivoluzionari stentorei di slogan e urli col loro presente (di vent'anni dopo, o di trenta: a ridosso dei quali stiamo annotando). Dei più si può cantare un "quanto mutatus ab illo!". Oppure, da incendiario a pompiere: ironico, o sdegnto, o indulgente: a scelta. Eccoli, alcuni di quei nomi: E. Galli della Loggia ("E l'Italia cambiò"), Furio Colombo ("Ma che musica compagno") Fernanda Pivano ("E l'America andò in fumo"), Chiara Valentini ("All'Est è subito dissenso"), Giordano Bruno Guerri ("Terzo mondo amado mio"), Maria Luisa Agnese "L'età del benessere"), Intervista con Stefania Sandrelli ("Ho vissuto ogni minuto"), intervista con E. Sanguineti ("Macché profeti, solo vitalisti"); Carlo Rossella ("Maestri no, maestrini sì"); Giampiero Mughini ("No, non era goliardia"; Giancarlo Zizola ("In nome di Dio cominciò così"). Volume 2°. G. Mughini ("Vita nuova, e subito"); Aldo Piro, ("Miss ciclostile"); intervista con Francesco Alberoni ("Ci volevamo tanto bene"); Natalia Aspesi ("In che status eravamo"; Myriam De Cesco ("Papà, vieni alla guerra?"); C. Augias ("Guarda come vesto"); Intervsita con Marco Bellocchio ("La Cina è sul set"); G. Manfredi ("Sessantotto nel juke box"); Grazia Cherchi ("Dimmi cosa leggi"); Omar Calabrese ("Fatti sentire, compagno"; Intervista con Elvio Fachinelli ("La protesta sul lettino". Del volume 3°, segnaliamo solo pochi titoli: Salvatore Veca ("E' successo un 68"); "Sarò il tuo leader": ritratti di Viale, Bobbio, Rieser, De Rossi, Capanna, Pero, Cafiero, Toscano, Brandirali, Manconi, Bassetti, Mosca, Levi, Rostagno, Sorbi, Boato, Curcio, Israel, Cacciari, Cazzaniga, Piperno, Scalzone, Petruccioli, Stame e Meldolesi, Mordenti, Russo. G. Mughini, ("A Parigi, a Parigi"). "I giorni della violenza":"sei eventi drammatici ricordati da Sergio Petruccioli, Fabrizio Cicchitto, Pietro Marzotto, Giovanni Spadolini, Emanuele Macaluso, Sergio Bernardini. Mario Capanna, "Violenti noi? ma no...". Intervista con Lucio Colletti, " E fui subito contro". E ci fermiamo qui. Magari con un flash su certi "capovolti": vedi un Cicchitto "arcorizzato" fino al caricaturale. Un Rossella, se possibile ancora più integrato nel peggio del borghesismo monetarizzante e, anche lui, "certosino" silviano, ma trionfante come direttore di quel "Panorama" che lo onorò ribelle (anche se secundum quid). E che dire di Liguori? Di Mughini? Di Boato? Ma basta così. Ci piace chiudere la nota con un ritorno a Rostagno, qui dipinto nel suo camaleontismo spiazzante. Ecco un passo del "ritratto": "Lui è Mauro Rostagno, 47 anni, il più estroso dei protagonisti del Sessantotto. Non si è mai negato capovolgimenti di giudizi e di comportamenti, e men che meno scelte audaci." Fino a organizzare "una festa di 'svendita del Sessantotto', con una messa all'asta di cimeli dell'epoca, come i libretti rossi di Mao". O finire, a tempo, fra i seguaci di Bhagwan Rajneesh, vestire arancione chiamarsi Sanatano. A tempo, si diceva, per poi passare alla comunità terapeutica per drogati, fare la seconda figlia, chiudere la ricca e agitata esistenza a Trapani, quanto tragicamente, ahimé sappiamo. Il profilo di quel panorama finisce con questa lapide. "Lo si dà sempre per felice. E resta un tipo imprevedibile".

lunedì 10 maggio 2010

SUSANNA, frammento 66


Ci congediamo da Rostagno con questo flash indiretto e occasionale di autoesposizione (caratteriale, prima che morale per acquisizione culturale). Un passo tanto più congruente, nel contesto, in quanto coinvolge l’argomento centrale di questa coda sul caso Moro. Premesso che Rostagno, Curcio e Palmieri abitarono per qualche tempo una precaria casaccia pericolante rifiutata da tutti e priva del minmo comfort, ecco il giudizio del cofondatore di “Lotta continua” sull’amico finito nella lotta armata e sulle Br che la praticarono per tragica illusione: “Renato è una persona dolcissima. Io non capisco come oggi un ragazzo che aveva quel modo di innamorarsi di Margherita, quel modo di stare con gli amici, di scherzare, un’umanità profonda, amore per la natura, per i deboli, possa arrivare a dire che l’esecuzione di Aldo Moro è ‘il più alto atto di umanità in una società divisa in classi’. Le B.R. vivono in una bolla di sapone, sono un delirio perfetto. In questa bolla di sapone nessuno stimolo esterno può penetrare, ma lì dentro c’è solo una parte di loro, della loro esperienza, del loro cervello e hanno rimosso tutto il resto. Sono diventati dei tecnocrati della rivoluzione. ‘Abbattere la società divisa in classi’ non credo sia la cosa più importante della vita. Assolutamente. Certo una società divisa in classi giustifica lo scontro delle classi, ma non capisco cosa abbia a che fare questo con la soppressione fisica di un corpo, con i suoi desideri, i suoi bisogni. Io mi ritrovo fratello di Moro. Non fratello nella sua attività repressiva, nel suo delirio di potere, nella sua formazione culturale, ma nella paura della morte, nel senso profondo della voglia di vivere [...]. La sua soppressione è un tentativo di sopprimere anche me che non sono democristiano e non sono oppressore. Bah”
Questo strano giovane vitalista dice di temere la morte e si va a ficcare in una situazione che la morte, non che scansarla, la chiama, la provoca, la “prenota”: nella coerenza barbarica del bersaglio polemico stuzzicato. Si coglie un fiato di retorica buonista in quell’associazione del “moi” personale con l’identità, sia pure soltanto umana, del politico Moro assassinato dalle Br. Nè manca, quel soffio, nella semplificazione che immagina il Vietnam liberato dalla ferocia genocida degli Stati Uniti come “un gulag”, il comunismo della “repressione” cecoslovacca come “un’altra forma di dominio”, il marxismo come “un’altra ideologia totale”; e via semplificando. Dove difetta un equilibrato senso della realtà effettuale. E la conseguente attitudine al confronto tra un “prima” e un “dopo”. Che nei casi in questione non deporrebbe per la preferibilità del “prima”. Quale “prima”, nel Vietnam artificiosamente diviso, ingannato, demolito bruciato avvelenato dalle porcherie americane (come abbiamo già ricordato avanti). Forse il candido Mauro pretendeva che Hanoi ricevesse su tappeti infiorati i vari Quisling miliardari e torturatori di Saigon–Gomorra? Quanto alla Cecoslovacchia, come sottrarla alla “logica di Yalta”? Ma anche qui rimandiamo a quanto già scritto in queste pagine.
Naturalmente il parziale dissenso non spegne la simpatia che ispira questo scavezzacollo complicato e contraddittorio (capace di provocare tanto allegre scazzottate goliardiche quanto successi universitari da trenta e lode). Anzi, ne riproduciamo un passo sul ’68, completo di annessi e connessi, personali e (soprattutto) pubblici e collettivi. Eccolo. “Il ’68 è l’anno che mi fa incontrare Silvia, una ragazza bellissima di origine cecoslovacca, e di lingua tedesca. Per tutto il tempo che siamo stati insieme abbiamo fatto la fame più nera e siamo stati insieme un po’ di anni. Senza averlo mai deciso. / Il ’68 lo chiami ‘sessantotto’ perché è un fenomeno sociale che percorre milioni di persone. Però il ‘sessantotto’ lo puoi avere ogni giorno, lo puoi avere quando ti innamori. I movimenti sono come gli innamoramenti, dice Alberoni. Ripensare al ’68, al Vietnam, è una cosa pazzesca, un delirio, pensare a cosa ha significato il Vietnam come elemento di liberazione delle coscienze e cos’è il Vietnam oggi: un ‘gulag’. Ancora una volta ha prevalso il terrore socialista, un’altra forma di dominio. Il comunismo al potere è altrettanto terrificante dell’imperialismo. La Cecoslovacchia, i carri armati russi, Ian Palach, il cavaliere solitario contro il Moloch. Non me ne importa nulla se tu porti o no l’ideologia del lavoro, se sei Carlo Marx. Se arrivi con i carri armati e mi schiacci sei un nemico. Il marxismo è un’altra ideologia totale. Basta guardare la faccia di gente come Breznev che hanno stampato sopra tutto il delirio, la brutalità, la ferocia del potere allo stato puro”. Un’analisi frettolosa, anzi una non-analisi a motrice emotiva, impulsiva. Per esempio, quegli “schiacciamenti” non ci furono affatto. Che poi l’ideologia in quanto tale sia esposta alla tentazione totalitaria, è una possibilità inscritta nella “natura umana”. Qualsiasi ideologia: un modello insuperato di quella tentazione realizzata resta la Chiesa cattolica, dai terrori medievali e controriformistici dell’Inquisizione alle tentazioni ripulite, sia pure, dalle sataniche sevizie corporali ma ancora oggi petulanti e barbare. “Dai terrori medievali”, dicevo: in verità, ho fatto, così, un involontario sconto al fanatismo torturatore e assassino del proto-cristianesimo. Basti pensare al caso Ipazia, la filosofessa neoplatonica: uccisa fra atrocissimi tormenti dalla blebaglia cristiana aizzata dal vescovo Cirillo (fatto santo, poi, dalla generosa Chiesa dai facili altari). Né quanto accennato sulla Chiesa oblitera l’universalità del fenomeno religioso in fatto di violenza fanatica. O di sacrifici umani. Le ideologie sono le scimmie della religione: vivaio di “maiuscole” (diceva Gulizza, che le faceva uscire tutte dalla “pancia della D”, iniziale di Dio. Di qui, il dovere di giudicare dai comportamenti effettivi del caso per caso. E della distinzione contestuale: un imperativo, sine qua non justitia.

Su Praga, nel contesto storico, è ancora valida, e molto istruttiva, la polemica (peraltro garbata) fra due intellettuali, due famosi scrittori: “Günter Grass e Pavel Kohout, Dialogo con Praga” (De Donato Editore, Dissensi 23, 1969). Si tratta di uno scambio epistolare serrato, che mette in campo tesi e malintesi pacatamente, lontano dal veleno ideologico. Una sorta di “botta e risposta”, ben calibrata, senza mutrie e rigidezze, dove i malintesi vengono chiariti e le divergenze ridimensionate con vantaggio della verità effettuale e del fair play. Che è come dire: una visione di contestualità e confronti rigorosi fra vantaggi e sacrifici, rinunce personali e acquisti collettivi, spirito di sacrificio individuale e garanzie sociali. E soprattutto, un inchino alla forza perentoria della Necessità: magari dolente, a volte, per i prezzi severi che può imporre alla contabilità umanistica del successo e della vittoria. Beni, peraltro, mai garantiti erga futurum (1).
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Ma ritorniamo al Rostagno vitalissimo e contraddittorio, che è capace di stupirci ancora. “Nel ’68 avevo già dato gli esami e tutti con trenta e lode. La mia tesi verteva sullo sciopero generale, con una parte storica e una teorica. La parte teorica riguardava il dibattito all’interno della socialdemocrazia tedesca [...] Devo dire che non me ne fregava niente della tesi, infatti mi sono laureato nel ’70. Era il regalo che facevo a mia madre, ormai moribonda”. Una madre sensibile e moderna, che approvava l’impegno politico del figlio: “era una mia tifosa, ha conservato tutti i ritagli del ’68. Era contenta che mi battessi per i poveri, per i giusti”. Si può deludere una tale mamma? Il bravo figliuolo decide di laurearsi. Ma sorge un alt grosso come un macigno su quella strada così teneramente filiale: “La notte prima fui sequestrato dai ragazzi della università, da quelli di Lotta Continua, che mi tennero sveglio dicendomi che non dovevo laurearmi. Dicevano: ‘Tu, proprio tu ti laurei! Dai un esempio di disfattismo politico’. Io non avevo il coraggio di dire che mi volevo laureare perché così facevo contenta mia madre. Non era politico. / La mattina dopo è stato uno show. Italo ha fatto pagare il biglietto d’ingresso a tutti. Ne parlarono i giornali: Rostagno che tornava a Trento; c’era tutto il corpo accademico schierato, le autorità cittadine. La sala era piena. Si respirava la classica atmosfera mondana. Fra i professori c’erano Bobbio, Alberoni, Andreatta. Il relatore si alza e bla bla bla. ‘La parola al redattore’. E io seduto. Non mi alzo. Panico, tensione, silenzio. Lentamente il professore ripete. Niente. Io vedevo mio padre e mia madre che mi guardavano allibiti. Poi dai banchi della commissione hanno cominciato a dire: ‘Proprio lei che ha sempre sostenuto la politicità dell’università, della cultura, adesso ha un’occasione per dimostrarlo e sta zitto’. Bassa provocazione che raccolsi interamente. E cominciai. ‘Di questa tesi non potete discutere. Dello sciopero possono parlare solo gli operai, quelli che lo fanno, non voi che siete ciechi e che state seduti a tavolino’. Una tirata da bassa demagogia, da ridere. Poi ho tirato fuori un’immagine di Sartre: ‘Per voi la cultura è una gigantesca mangiata e cagata, la cultura è un gigantesco processo defecatorio di cui non resta nulla. Vivete in una città e non conoscete nulla della gente che vi abita, non vi accorgete delle stagioni, non passate mai il vostro tempo in un prato. Siete diventati dei funzionari. Cosa volete capire del mondo’. E via di questo passo. Risultato: 110 e lode e bacio accademico”. A volte i macigni si spostano. O si scavalcano!
Mentre estraggo dalla matrice del sensato pessimismo la timida speranza che la pulsazione frizzante di queste citazioni ne possa riscattare l’ingombro, riporto ancora qualche passo sul momento creativo della discesa in campo diretta: “Sono venuto via da Trento e mi sono trasferito a Milano con amici con i quali ero d’accordo nel modo di pensare la politica. A Milano abbiamo fondato Lotta Continua. Ho fatto la mia prima esperienza come direttore del giornale ‘Lotta Continua’ quando ancora era un quindicinale e conduceva la campagna di smascheramento della ‘strage di Stato’. La direzione del giornale l’ho tenuta per sette, otto numeri e ho avuto occasione di fare delle amicizie molto belle, per esempio con Pier Paolo Pasolini, Marco Pannella, Marco Ferreri, con il quale avevamo deciso di fare un film per finanziare L.C. perché le sottoscrizioni non bastavano. A questo film, che non si è mai fatto, avrebbe dovuto partecipare Vanessa Redgrave”. Peccato. Questo folletto irrequieto fa politica a modo suo: volantinaggio in condizioni crono-climatiche di sofferenza (“sveglia la mattina presto per arrivare alla fabbrica alle 5 [...] nella nebbia, nel freddo con gli operai che scendono dalle valli, che cercano di dare pizzicotti alle ragazze e che chiedono ‘che ci fate, chi vi paga’”), concerti rock e pop, qualche bicchierino termogeno, il giornale che ospita recensioni musicali. E così via, di passo svelto e di corse senz’altro. “L’immagine che ho avuto io, nel partito, nel ‘movimento’ e nella sinistra in generale è quella di uno che in quegli anni di assatanamento marxista, di operaismo sfrenato, parlava di Jimy Hendrix, di droga, di religione. Io ho vissuto tutti questi anni come un delirio, un innamoramento prima di me stesso e degli altri, poi della classe operaia fino ad arrivare alla paranoia più totale”. Evviva la sincerità. Che continua con il foglio di battaglia “Re Nudo”, la campagna contro il caro-concerti, qualche scontrarello con la figura d’obbligo di certe ‘recite’: “Si può dire che è proprio grazie al mio amore per la musica e ad un concerto dei Led Zeppelin finito con uno scontro con la polizia, che conosco Chicca e – violini sullo sfondo – faremo insieme Maddalena”. Cioè, l’amatissima figlia, così presto orfanizzata dall’eroica (altri dirà imprudente ) irrequietezza paterna.

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L’anno culmine del novennio ospita ancora tanti orrori, che lo sbadiglio di una discrezione stanca consiglia di sottacere: ma come soffocare nel silenzio quello che più mi bruciò e che più da vicino mi s’intreccia con i fatti personali qui serviti? Si vuol dire l’assassinio del generale Dalla Chiesa, da cento giorni appena prefetto della mefitica Palermo (inutilmente onusta di storia e cultura). E mette conto narrare qui il contrasto sconvolgente con l’innocenza vacanziera del contesto in cui appresi la notizia. Come ho già accennato, mi trovavo in Calamagna in quel settembre, a trascorrere, con la famiglia, una non lunga vacanza marina dopo la fatica degli esami di maturità che mi avevano impegnato nel liceo classico zefirese. Abitavamo nella “casetta verticale” degli ex padroni di casa, a Siderato, il mio “paese della memoria”. Erano stati gli stessi proprietari a offrircela gratis per quella vacanza. La mattina del 4 settembre ero fuori casa per la solita passeggiata protolucana, e passavo, rincasando dal lungomare, in una di quelle viuzze a fondo naturale che portano dalle strade principali alla spiaggia. Da una di quelle porticine di povera casa terrana si affaccia una popolana di mezza età gridando. “Hanno ammazzato il generale Dalla Chiesa”. Lo stava dicendo a me, unico passante in quel momento. Quasi gridando, come per togliersi un peso troppo grande dal cuore colpito. Ne ebbi un colpo da trauma: “Ma cosa dice, signora? Impossibile!” “L’ha detto or ora la televisione, ne sta ancora parlando.” “E quando…?” “E’ successo ieri sera, a Palermo, un agguato di mafia, hanno detto”. Continuai a sperare in un malinteso: una popolana d’età poteva aver capito male, saltato qualche parola, equivocata una frase, chi lo sa. Assurdamente confuso, annaspavo tra dubbi e speranza. Il fatto è che non mi ci raccapezzavo: a quel punto eravamo? A quel grado di infermità degenerativa avevano portato l’Italia? Il martello di quel crudele choc batteva sul cervello smarrito: per me Dalla Chiesa doveva rappresentare il baluardo inespugnabile della lotta contro il drago mafioso. Una specie di punto fermo nel riscatto dello Stato fellone. Ed eccolo lì, cadavere crivellato di colpi, insieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, dentro una macchina non blindata, colpi come tante bestemmie contro ogni residuale correttezza etica umana logica (vorrei dire), come definitive lacerazioni delle estreme speranze. Ancora una volta il tradimento e la viltà mammonica avevano fatto lega per massacrare ostacoli istituzionali in carne umana e spegnere le coinvolte illusioni della guaribilità. Dopo quel delitto, mi aspettavo di tutto e di peggio nella nostra malcucita Italia unificata. E prevedevo come confermato teatro delle nuove sciagure la bella Sicania, che “caliga, non per Tifeo ma per nascente solfo”: sì, di natura e di lupara. Come puntualmente accadde.
Mi trovavo nel “luogo” per eccellenza, quello che mi aveva fatto incontrare Susanna al compimento del novennio nero: come è sadica la vita a intrecciare cose tanto divaricate, distanti, contrapposte. Reciprocamente repellenti.
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Trascrivo una lunga citazione dalla mia agenda di quell’anno. Quasi una sosta di recupero dal debordare delle emozioni risvegliate.

“Era una succursale intima della via di Poitiers: vi incontrò il grande M.A., l’illustre B. il profondo C., l’eloquente Z., l’immenso Y., i vecchi tenori del centro sinistra, i paladini della destra, i burgravi del giusto-mezzo, gli eterni burattini della commedia. Fu sbalordito dal loro orribile linguaggio, dalle loro piccinerie, dai loro rancori, dalla loro malafede: era tutta gente che aveva votato la Costituzione e ora si dava da fare per demolirla; e si agitavano molto, lanciavano dei manifesti, dei libelli, delle biografie, quella di Fumichon, fatta da Hussonnet, era un capolavoro. Nonancourt si occupava della propaganda nelle campagne, il signor di Grémonville coltivava il clero, Martinon cercava di conquistare i giovani borghesi. Ognuno secondo, i propri mezzi, si diede da fare, perfino Cisy, proprio lui. Pensando adesso alle cose serie, tutto il giorno faceva giri in calesse per il partito. /Il signor Dambreuse, come un barometro, rappresentava sempre l’ultima variante. Non si poteva parlare di Lamartine senza che lui citasse il motto di un uomo del popolo:’Basta con la cetra!’ Cavaignac ai suoi occhi non era ormai altro che un traditore. Il Presidente, che lui aveva ammirato per tre mesi, cominciava a scadere nella sua stima (non gli trovava ‘l’energia necessaria’); e siccome gli occorreva sempre un salvatore, la sua riconoscenza, dopo l’incidente del Conservatorio, andava a Changarnier: ‘Grazie a Dio, Changarnier...Speriamo che Changarnier...Oh! non c’è niente da temere, fintanto che Changarnier...’ / Veniva esaltato soprattutto il signor Thiers per il suo libro contro il socialismo, nel quale si era palesato tanto pensatore che scrittore. Si facevano grandi risate su Pierre Leroux, che citava alla Camera passi di filosofi. Si facevano delle battute sulla coda falansteriana. Si ansava ad applaudire la ‘Fiera delle Idee’, e si paragonavano gli autori ad Aristofane. Frédéric ci andò, come tutti. /Le chiacchiere politiche e la buona tavola intorpidivano il suo senso morale. Per quanto mediocri gli apparissero quei personaggi, era fiero di conoscerli e intimamente aspirava alla considerazione dei borghesi. Un’amante come la signora Dambreuse gli avrebbe dato prestigio”
GUSTAVE FLAUBERT, L’educazione sentimentale, traduzione di Lalla Romano, l’Unità-Einaudi, 1996, pp.502-03.
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L’inadeguatezza della politica in generale non è scoperta recente: fior di narratori e intellettuali l’hanno denunciata in romanzi drammi saggi storici. Per limitarci a tempi meno remoti, e a un tema ancora palpitante di umori e furori: dal romanzo di Pirandello, I vecchi e i giovani alla spietata vivisezione del de Roberto nell’incompiuto e travagliatissimo Imperio, dalle inchieste di Jacini Villari Nitti ecc. al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e alla Disunità d’Italia di Giorgio Bocca, una tradizione di critica più o meno radicale al Risorgimento, ai tradimenti della classe politica, alle brutalità della nuova dominazione spacciata per liberazione, ai residui fascisti, si è alimentata senza interruzioni. Fino ad enfatizzarsi nel “separatismo rivoluzionario” (di ispirazione socialista) di uno studioso calamagnese, autore di un pamphlet di successo, esplicito fin da titolo: 1861: nascita di una colonia. Il saggio, ben documentato, sviscera tutte le magagne della conquista sabauda e dei suoi complici vecchi e nuovi (compresa la “sinistra nazionale”) e lancia, per il Meridione vessato, quell’utopia tanto appassionata quanto in stridula e dolente frizione con le realtà politiche in atto. Quante chiaccherate sull’argomento con l’amico Nicola Zitara, autore appassionato quanto ben documentato del libro (peraltro, tanto appagante come difusione e risonanza, quanto magro di esiti economici!)

Del De Roberto trovo nell’agenda-diario 1992 trascritta una pagina, a suo tempo segnalata a Gulizza per l’ispirazione trofologica, e fatta leggere in classe nel liceo di Realpolia. Eccola.
“La maggior parte delle nazioni e dell’intero genere umano non pensavano ad altro fuorché alla fame da saziare, nel modo più agevole e pronto. Quella stessa cieca potenza che aveva messo l’istinto della vita in ogni uomo, aveva anche dato ad alcuni, a pochissimi, l’appetito di qualche idea; ma l’efficacia delle idee sulle cose, che all’anima ingenua era parsa grande, ora pareva meno che nulla all’anima disingannata. Iniziando la sua carriera egli aveva creduto di dedicare tutte le sue forze al bene pubblico, d’esercitare quotidianamente un apostolato. Quell’opera che egli aveva creduto provvida e nobile, era stata giudicata iniqua ed impura dai suoi avversari. Perché credere che la ragione e la verità erano state dalla sua parte, e non da quella degli altri? Nessuna missione egli aveva esercitato: s’era dato al giornalismo dopo essersi accorto che l’arte non era pane per i suoi denti; e al giornalismo ed all’arte s’era dato per poter vivere fuori del paese natale, libero dal giogo dei parenti, sulla via della gloria e della ricchezza. Questo era stato il suo vero ed unico scopo, travestito e decorato col nome di missione sociale! // E che valeva tutto ciò che egli aveva detto e scritto, gli altri al pari di lui, i più valenti, i sommi? //Le parole umane se ne andavano col vento, gli stessi scritti si cancellavano e si disperdevano; quelli che parevano immortali duravano un poco di più; ma l’oblio li aspettava del pari, dopo secoli invece che anni; ma anni e secoli e millenni non erano altro che momenti dell’eternità.”

Questa sensazione di inutilità e d’impotenza ti prende alla gola ad ogni constatazione della vanità pratica di ogni documentata denuncia, invettiva, perorazione. Può capitare, è capitato, capiterà che interi libri siano pieni di fatti con tanto di nomi cifre circostanze del malaffare nazionale in politica economia giustizia, e che questi libri vadano a ruba, diventino best seller, inebriino media e folle plaudenti alla denuncia e inveienti contro i bersagli indicati nelle pagine surriscaldate. Ma più in là non si vada, non si sia andati, dopo gli anni di piombo e la stagione di mani pulite finita nel ciclico ritorno del peggio. E i libri di denuncia vengono assorbiti dal mercato, neutralizzati come parte e propellente della sua anima nera, come sardonica conferma che un “oltre” non c’è, non ci può essere, non ci sarà. Il Mercato, il “santo Mercato” ne esce confermato giustificato esaltato.
Ma sarà sempre così? Non sarebbe “logico”: ci saranno nuove crisi economiche e finanziarie, si supereranno, i soliti “vinti” ne pagheranno il costo più drammatico, e tutto il meccano, ora telematico, riprenderà la sua corsa ad infinitum. Ma se la storia mostra (insegna?) qualcosa di incontestabile è che prima o poi una crisi di dimensioni ciclopiche creerà la massa critica per l’innesco della reazione a catena: ci saranno tanti poveri, tanti milioni di disperati e arrabbiati che l’esito rivoluzionario, o almeno insurrezionale, non sarà evitato. Et altro non ci appulcro.
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(1) Malintesi a parte, e relativi chiarimenti, bastano anche una o due delle risposte di Kohout a Grass a illuminare la “scena” della preziosa conversazione epistolare. “Quello che io definisco il Suo errore mi sembra essere parte integrante di una grande finzione cui è sottoposta più o meno tutta la Sua società. Presa nel giro ingannevole delle proprie crisi, che scaturiscono dalla sua stessa essenza, questa società cerca di farsi coraggio e di sentirsi sicura facendo notare come anche la società concorrente (cioè il socialismo) ristagni in se stessa e non abbia risolto il problema dell’esistenza dell’umanità. In questo ‘canto di consolazione’ si ripetono strofe vecchie di cinquant’anni ed altre che risalgono a data recentissima,. Mi permetto di citare le più importanti e di discuterle brevemente. // 1° strofa: “Il contenuto umanistico dell’appello di Marx è stato soffocato nel sangue dalla Rivoluzione di Ottobre, una delle più crudeli della storia”. / La Sua società seria, pulita e soddisfatta (lo dico senza ironia), riesce, se non altro ad essere fiera di sé quando può confrontare il suo standard di vita con il nostro. Dunque, la Sua vecchia e solida società ha per così dire dimenticato che è nata dal bagno di sangue della Rivoluzione Francese. Qualunque sia la nostra disposizione alla violenza (e noi due ne abbiamo apparentemente in egual misura) dobbiamo riconoscere che lo sviluppo della società è sottoposto a leggi inesorabili come quelle della fisica. La violenza della rivoluzione corrisponde esattamente alla violenza della reazione. / la Cecoslovacchiaa è passata al socialismo nel 1948, due anni e mezzo dopo la partenza dei soldati sovieticici, nostri alleati, senza sparare un colpo, e ciò non per la straordinaria nobiltà di animo dei rivoluzionari, ma per la momentanea debolezza della borghesia ceca. Il partito comunista ha sfruttato il momento favorevole. Per vincere, la Rivoluzione d’Ottobre dovette lottare contro una forza secolare, che aveva perso sì la capacità di governare, ma non quella di uccidere. I mezzi della rivoluzione dovettero essere adeguati a quelli della reazione e ciò sia nell’anno 1917 sia nell’anno 1789. L’alternativa storica era, in un caso e nell’altro, la disfatta.
‘II strofa. Lo stalinismo ha deformato la rivoluzione socialista in una dittatura di tipo hitleriano’. // I primi ventotto anni della storia della rivoluzione sovietica si possono suddividere in due sole fasi; stato di occupazione e stato di guerra. Dopo il 1917 la nota parola d’ordine: ‘Buttateli a mare!’ costituì non di rado il contenuto più importante della politica estera di molti paesi europei. La rivoluzione russa doveva venir soffocata, e questa è una circostanza poco propizia allo spiegamento della democrazia rivoluzionaria. Anzi, come il soldato prussiano ed austriaco costrinsero Parigi a trovare il suo Robespierre, così l’Europa borghese e fascista ha costretto la Russia sovietica a trovare il suo Stalin. Oggi Stalin sembra esistere sotto due aspetti diversi: quello di Dio e quello del diavolo. Secondo me, i documenti, che anche nel mondo moderno ci arrivano nelle bottiglie come messaggi affidati al caso (e non solo dall’Oriente, vedi la morte di Kennedy), ci mostreranno alla fine tratti più precisi del volto di questa tragica figura che ha colpito a morte la rivoluzione salvandola al tempo stesso dalla morte”. In questo apparente paradosso, o bisticcio ossimorico, pulsa la fiamma “rastremata” al massimo di una verità storica e biologica tante, troppe volte esibita e confermata dagli eventi e dai millenni, e altrettante snobbata, disattesa, respinta da troppi “umanisti” non rassegnati al suo costoso rigore. Neanche quando la storia è il loro mestiere. Quale verità ? L’abbiamo ripetuta tante volte in queste pagine (un po’, a volte parecchio, casual) che ci riesce difficile esplicitarla ancora. Ma non è forse evidente anche nelle parole di Kohout?. Ripigliamone, dunque, la prosa ancora per qualche minuto. “La battaglia di Stalingrado, che Stalin ha organizzato come Robespierre Valmy, ha avuto certo effetti più durevoli dei suoi delitti. Paragonare Stalin a Hitler è un’assurdità d’effetto. Non perché quest’ultimo sia stato sconfitto, ma perché Stalin non ha scardinato le fondamenta della rivoluzione, neppure quando ha perseguitato politicamente i suoi esponenti, non ha cioè messo in discussione la proprietà collettiva del capitale e dei mezzi di produzione. L’umanista può ribattere appassionatamente che ciò è troppo poco. E infatti non è una consolazione per i morti e neanche per i superstiti. Ma un uomo spassionato non può non rendersi conto che proprio questo fatto ha deciso la guerra e ha reso possibile all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, già quattro anni dopo la morte di Stalin, di iniziare la conquista non solo dello spazio cosmico ma soprattutto di quello della libertà umana, l’unico in cui possa venir realizzato lo scopo della Rivoluzione d’Ottobre”. E qui ci fermiamo: dovrebbe essere chiaro il senso del discorso di Kohout. Come lo sarebbe, se sviluppato anch’esso in queste pagine e note, quello di Grass. con le sue precisazioni, a volte un po’ troppo attente ai prezzi pagati per certi esiti di sicuro prestigio e di più soddisfacente rispetto dei bisogni vitali primari.