venerdì 29 ottobre 2010

SERIETA’ DEI CASINI

Casini, come ognuno sa, è sostantivo di nobile tradizione: così erano chiamate, con spiccia sobrietà, le gloriose “Case di tolleranza”, cioè quelle dimore estrose che curavano (è il caso di dire) le primizie sessuali dei giovani maschi (la specificazione aggettivale non sorprenderà il lettore accorto, con i tempi che corrono!). Vi sostavano le “signorine” offerte al nobile compito di quella iniziazione e del suo immancabile seguito biografico. A guidare la Casa era una signora proprietaria dei locali (o anche soltanto affittuaria ben pagante). Le signorine, invece, ruotavano: c’era la famosa “quindicina”, ossia la permanenza media delle officianti nello stesso “sito”: 15 giorni. E quando arrivavano le bolognesi si scatenava un piccolo tripudio nella tribù degli aficionados: avevano fama, quelle fitting and fizzy girls, di eccezionale bravura in certa cinetica della caverna facciale (vulgo, cavo orale).
Ma Casini è anche il nome di un nostro politico di gradevole aspetto, ma afflitto da un morbo contagioso: il presenzialismo loquace. Tanta passione lo vede protagonista di puntuali commenti ai fatti politici del Paese. In tali exploits il Nostro usa spesso la parola “serietà” e i suoi derivati: serio, seria,... L’avverbio “spesso” significa che in una sola intervista ti può condannare a leggere quel “composto” magari dieci volte. Prendiamo quella riportata dal Corsera del 18 ottobre, che tuona al centro della prima pagina con un titolone perentorio: Casini: mai con questo Pd, il cui “occhiello” spiega: “Parla il leader Udc dopo i cortei della Fiom”. “Se seguono la piazza, alleanza impossibile”. L’incipit del servizio suona ancora parole del Casini: “Se l’idea dell’opposizione è quella di creare un’alternativa partendo da piazza San Giovanni, allora siamo fritti. L’Udc non si allea con il Pd se queste sono le loro posizioni”. Avere avuto militanti al seguito della grande sfilata della Fiom (la sezione metalmeccanici della Cgil) che ha riempito la famosa piazza non è stata una cosa seria, per Casini. E lui con le persone frivole non tratta. Ed ecco la prima entrata in scena della paroletta seduttiva (mal servita, tra l’altro, da una scarica di “che” pronome relativo) intenta a frugare nei due schieramenti avversari alla pesca della serietà: “Il Paese si rilancia mettendo insieme a governare le persone serie che nel Pd sanno che seguendo le piazze non si va da nessuna parte, e persone serie del Pdl che non ne possono più di dover sottostare ad un patto in cui è la Lega che dà le carte”. A pg. il seguito dell’intervista premia l’aggettivo magico dentro un titolone a pagina intera e virgolettato: “Appello ai moderati dei due fronti Portiamo al governo le persone serie”. Sotto il titolo in senso stretto, il “catenaccio” specifica: “Casini: niente alleanze con questo Pd, Enrico Letta, Pisanu, Fitto e Follini venite da me”. Incalzato, Casini spiega e chiarisce: salvato il “rispetto” per “le persone oneste” e i “lavoratori che hanno sfilato pacificamente”, è dovere di un leader moderato segnalare la contraddizione implicita nel partecipare a una manifestazione Fiom “proprio nel momento in cui l’esperienza dell’alleanza Lega-Pdl sta arrivando al capolinea, e la gente si sta accorgendo che Berlusconi è bravo a vincere le campagne elettorali ma non a governare”. Danno fastidio alla vibratile sensibilità del Casini “gli slogan e le idee di quella manifestazione” da “Anni 70”, nonché “i manifesti che indicavano come bersagli Bonanni e Marchionne” Né gli piace (a parte il “rispetto” cui noblesse oblige) Nichi Vendola, un amico, per carità, ma anche un estremista che osa accusare il Capitalismo (la maiuscola in conto Casini) “di avere depredato la gente”: si può essere più frivoli di così?, pensa Casini. Qualche speranzella, però, il Bello di casa ce l’ha ancora, visto che ha sentito “Bersani dire che imprenditori e lavoratori sono sulla stessa barca”. Ma una speranzella non è un atto di fede: Bersani non è serio abbastanza, dà “un colpo al cerchio e uno alla botte, posizione che non ha grande respiro”. Insomma, se la “sinistra moderata” vuol essere “parte costitutiva seria” (e dàgli!) dell’alternativa a Berlusconi, “non basta non partecipare al corteo della Fiom” (merito di cui si dà atto al leader Pd). Come non sufficit che Vendola sia “un interlocutore importante sulle regole”, perché “sul piano programmatico è ben lontano dalle stesse posizioni della sinistra europea come la conosciamo in Germania, Francia, Inghilterra”. Non resta a Pierferdi che auspicare una santa alleanza tra le “persone serie” invocate nel titolone. Se poi l’intervistatore gli fa notare che con la sua insistenza sulle “persone serie” il patron dell’Udc “si sta augurando una rottura nel Pd dopo quella avvenuta nel Pdl”, non senza sottolineare che questo “non è un bel modo per convincere Bersani a cambiare rotta”, Casini svicola, scivola, come un’anguilla bagnata nelle mani del pescatore. E, scivolando, cade nel ridicolo éclatant: “Io mi auguro che il Pd scelga, come mi auguravo che il Pdl scegliesse, non che si spaccasse”. L’ingenuo! Suggerisce ad ogni battuta la rottura e nega di augurarsela! Ma la serietà del Casini non si profila soltanto in queste puerilità, è più tosta, e scocca ben altre frecce dal suo arco polemico. Serietà alla Casini significa un bel po’ delle seguenti postulazioni: non è lecito attribuire disastri al Capitalismo; non si devono dare dispiaceri ai signori padroni; le trattative lavoro-patronato devono ripetere ad infinitum il modello Pomigliano; Marchionne è un galantuomo, e nessuno si deve permettere di criticarlo (o peggio, mandarlo al diavolo, magari con la scusa della... presunta somiglianza fisica); il collateralismo partito-sindacato è una sorta di incesto politico; le periodiche, e puntuali crisi finanziarie sono dovute esclusivamente all’ingorda ingenuità di pochissimi speculatori; anche soltanto evocare lo sciopero generale è una bestemmia politico-sociale (forse anche religiosa? dove se ne va la mitezza evangelica?). Nell’attesa di eventuali ulteriori implicazioni, proviamo a sbucciare le suddette. Il capitalismo “casinaro” diventa una res sacra, una specie di nuova Ecclesia governata da un’originale e sottintesa nuova Bibbia: tali i toni del j’accuse udc(inico) contro i suoi contestatori. I padroni sono perfusi della sacralità del Pensiero unico maiuscolato: sacri anch’essi. Bisogna chiedere con grata umiltà quando ci si rivolge alla loro paterna disponibilità. Fermo restando che se essi non concedono quanto è appetito dai postulanti, ciò non rivela una qualsiasi loro insensibilità verso i sottoposti (quale fitness in questo malinconico aggettivo!), ma soltanto un’impossibilità oggettiva. E dunque è dovere dei lavoratori accettare le eventuali briciole concesse dal padrone come il massimo che egli possa fare in quel dato tempo e in quelle condizioni economico-sociali. Pomigliano non ha dato quanto richiesto dai lavoratori, ma pur tra mugugni di taluni e parolacce in pectore, si è accettato quell’accordo come l’unica soluzione possibile nel contesto della santa globalizzazione. Non dimentichino, gli operai e i signori leader sindacali, che un capo aziendale deve garantire profitti all’azienda, costi quel che costi. Se non riesce a farlo in patria, fila all’estero, Serbia, Romania o Cina che sia: c’è per nulla l’altra santità, la faccia globale del nuovo liberismo?
Esageriamo? Non credo: la serietà sventolata come sacro vessillo dal genero del miliardario Caltagirone cela quelle implicitezze. La moderazione dei moderati alla Casini è un pungolo che ferisce, con la punta rivolta verso i lavoratori. Come tutti i dogmatici, il Casini chiude gli occhi davanti alle evidenze oppositive: le crisi finanziarie, e dunque economiche e sociali (spesso drammatiche fino all’epidemia di suicidi: lo sa Casini, quante vittime da disperazione ha già fatto l’ancora non cancellata attuale crisi?) sono state, e saranno, una costante della storia capitalistica: a scatenare l’ingordigia caca-crisi (se mi si scusa l’energica cacofonia) è la natura stessa del capitalismo, ben riassunta nel motto settecentesco enrichissez-vous, arricchitevi, ma i signori dogmatici del liberismo sono come i credenti religiosi: tutta la storia infame della non benedetta umanità nega i postulati di qualsiasi religione che supponga un Dio giusto e misericordioso, e altrettanto recita la Natura con le sue mille schifose malattie e i non meno torvi disastri ambientali, ma non per questo il numero dei credenti scema (tanto meno quello dei fanatici assassini di certe fedi intolleranti e militanti, Islam in testa). Ogni disposizione emozionale fideistica pratica la serietà casiniana. Un campione frenetico di siffatto liberismo è l’ex direttore del Corsera, Piero Ostellino, che scatta a sua difesa ad ogni stormir di fronde avverse: l’ultima sua discesa in campo è un intervento apologetico su quel giornale (del 20. 10) come risposta al suo amico Guido Rossi: lo ringraziamo per l’esplicitezza del titolo: Perché la crisi finanziaria non è una crisi del capitalismo. Gli argomenti sviluppati in questa difesa sono i soliti: li abbiamo criticati in altre occasioni. Quanto alla psicologia dei grandi manager, l’ha esposta spavaldamente proprio quel Marchionne sopra non lodato nella trasmissione Che tempo che fa, spiegando a Fazio come qualmente l’Italia sia, per la Fiat, una sorta di palla al piede. Ecco un titolone del Corsera del 25. 10: “L’Italia un peso per la Fiat”. E le ispirate parole del supermanager: “La Fiat ha fatto due miliardi di utile nei primi nove mesi 2010 e nemmeno un euro viene dall’Italia [...] Se potessimo tagliare l’Italia faremmo di più”. Ecco, insomma, un chiaro caso di serietà casiniana. Soltanto, un po’ più sincero, e perciò più cinico e provocatoriamente brutale. Ma questa è l’essenza del capitalismo schietto: monetizzare la vita, elevare il profitto al vertice di un’assiologia mammonica. Ai deboli, agli operai, briciole, e salate di fatica eccessiva. Il Marchionne è ancora disponibile per un’ulteriore pennellata al delizioso quadretto: ha stracciato l’accordo di Melfi riducendo di 30 minuti le pause, insiste nell’imporre il modello Pomigliano, perfino peggiorato, alle altre fabbriche. E via celebrando Mammona Pantocrator. Le reazioni? Tolte quelle della Fiom, vibrate e oneste, il resto è acqua tiepida (Bonanni) o spudorata condivisione. Ecco i fuochi pirotecnici del vicepresidente di Confindustria, dal cognome-omen, Bombassei: “Ho sentito cose del tutto condivisibili. Marchionne avrebbe potuto dirne molte di più”. Ancora: “Le questioni che la Fiat ha posto a Pomigliano d’Arco rappresentano una svolta per l’intero Paese. Non penso tanto alla questione dei dieci minuti di pausa, non è su quel terreno che si gioca la questione dei diritti. Penso piuttosto che Pomigliano sia l’occasione per sconfiggere una cultura, quella dell’antagonismo nei luoghi di lavoro”. Capìta l’antifona? Gli operai si rassegnino: niente antagonismi, solo accettazione dei diktat padronali. Sennò come convincere gli investitori stranieri “a scommettere sull’Italia” ed evitare che le nostre aziende “fuggano all’estero”? Insomma, sgobbare di più e ...mangiare di meno. E che sia la politica a fare eventuale beneficenza per i minus edentes.
Alla serietà casiniana, naturalmente, sarebbe troppo facile associare quella della stragrande maggioranza dei nostri politici moderati. Per esempio, la serietà guerriera del Fioroni, che scatta su un metaforico “attenti” di battaglia per dichiarare papale papale un ghe pensi mi di marca arcoriana: insomma, s’impegna a vigilare perché il Pd non cada in tentazione: Fioroni: impedirò che il partito scivoli a sinistra! (Corsera, 19. 10). Questo enfatico fiore di cattolico panciuto predica la tolleranza (francescana?) a chi tenta di salvare lavoro e famiglia, magari fino a provare con lo sciopero generale (torva bestemmia da anni settanta, secondo la serietà bacata dei signor Casini e assimilati!). Un mese fa il signor Beppe promosse un “movimento” dentro il Pd per compattare i cattolici doc del partito, allarmati da certe sensibilità di sapore “eretico-sinistroide”. L’iniziativa suscitò un largo coro di commenti negativi nell’ibrido partito: vi si avvertiva, fondatamente, il cattivo fiato della potenziale scissione. Ma il campione si difendeva con verbosa energia: “Io provengo da quel grande partito popolare di massa che era la Dc: per noi i documenti politici che proponevano soluzioni, indirizzi e una linea erano il pane quotidiano della partecipazione democratica. Non ho memoria di documenti politici che, anche in periodi più caldi di quello attuale, siano stati oggetto nell’allora Democrazia cristiana di anatemi, scomuniche e censure”. Oratoria vibrante di passione missionaria, come si vede, che ha un suo culmine nel passo seguente, dove si punta il dito contro i censori interni: “Un ragionamento politico che mette in movimento idee, aperto al contributo di tutti, può minare l’unità solamente in chi ha l’ossessione del pensiero unico o in chi non riesce a superare l’idea che il partito è la sua maggioranza [...] Non si può venire aggrediti e linciati per un documento di proposta politica. Non c’è un partito al mondo che non riterrebbe la nostra iniziativa un arricchimento e un contributo”. Tanta eloquenza per un’esile sostanza: aiutiamo i deboli, ma non diamo dispiaceri a Sua Santità e sacro Seguito!
Il peggio di questa trovata è che ha come primo motore l’ex segretario Pd, Veltroni, un altro moderato: onesto, in verità, ma poco accorto. Anche se da un po’ di tempo sta frenando la pulsione politicamente suicida. Ed evita di fare visite di cordoglio ai segretari di Cisl e Uil. A consolare Bonanni degli aggressivi striscioni Fiom ci ha pensato Fioroni, andando a trovarlo “con gli ex popolari della corrente dei 75 per dare la sua solidarietà” a tanta vittima. La quale, in realtà, non ha risparmiato insulti verso Epifani e “compagni”. Ancora Fioroni: “evitiamo che i moderati scappino dal Partito democratico. Il rischio oggettivamente, c’è, però saremo noi a garantire che non vi sarà nessuna riedizione del Pci”. E non s’illuda, Casini, pensando che il Pd possa “fare la gamba di sinistra, mentre a fare il centro ci pensano lui e il suo partito”. Domanda dell’intervistatore: “Dica la verità, Fioroni, lei adesso sta parlando a nuora perché suocera, ossia Bersani, intenda”. Risposta tosta: “Logico”
Se il Pd è agitato, il Pdl non sta fermo. Grandi manovre sono in corso per fargli una cura ricostituente: abolizione delle “quote” (nate dall’infelice matrimonio d’interesse con An), rivitalizzo dei coordinatori, eccetera.
Mentre il grande Capo si esercita nel suo gioco vocazionale: prendere a calci spettacolari logica coerenza credibilità...Vìstosi bocciato dal Colle il famigerato Lodo Alfano – nuova edizione (viziato da una cantonata contro l’articolo 90 della Costituzione), spara questa sintetica barzelletta: “A questo punto, si ritiri il lodo, che io non ho mai chiesto né voluto” . Repubblica it si acciglia: suggerisce di non ridere a questa “sfida” del premier, perché sottende un pensierino poco amabile. Questo: dico quel che mi pare, tanto gli italiani sono cretini (o, almeno, una gran parte). Noi ci ridiamo, invece, ma con il già “trilustrico” amaro in bocca. Né si ferma, l’amabile barzellettiere: nel giro di pochi giorni ne ha sparate una decina. Ne ricordiamo ancora un paio. Nel settimanale televisivo Report Milena Gabanelli rivela la storia delle ville acquistate da Berlusconi ai tropici, compresa quella, imponente, nell’isola tropicale di Antigua, intrecciando rapporti poco ortodossi con società e banche (la banca Arner, già sottoposta a ispezione da Bankitalia, per sospetto riciclaggio). La conduttrice ha mostrato fior di documenti, ma lo staff dell’inner cercle (la cerchia intima) del conducator arcoriano è scattata combatta a difesa del padre spirituale. L’avvocato Ghedini-ghigno ha chiesto alla Rai di non mandare in onda Report (mancava il contraddittorio!), il nuovo ministro Paolo Romani ha definito la trasmissione “una puntata francamente odiosa”. E zitti sugli altri sproloqui del coro.
Intanto scoppia la nuova guerra della spazzatura a Napoli e dintorni. Scontri, incendi, toni di sfida, feriti, e, aspettando il morto, l’immancabile sparata di padron Silvio: “In dieci giorni, problema risolto”. Testuale: “Dieci giorni per tornare alla normalità”. C’è per nulla Bertolaso superman? Dieci piccoli giorni, e l’inghippo di anni e decenni sarà sciolto. Intanto sulla stampa corrono titoli come questi del Corsera: Le bombe lungo la strada verso la discarica. Nella notte ancora scontri, cinque fermati. Il questore: è una guerriglia organizzata. “La protesta delle donne che fermano i camion inginocchiandosi. Occupati i municipi di Boscoreale e Terzigno” (20. 10). Rifiuti, i sindaci non firmano. Bertolaso: lo Stato va avanti. “Applicheremo le misure unilateralmente”. Ancora scontri e feriti, sequestrato esplosivo. Il vescovo di Nola. “Non basta congelare la discarica” Insomma, siamo in pieno fermento: da un momento all’altro può emergere il peggio. Cioè, l’eredità di decenni di malgoverno regionale e municipale, di complicità camorristiche, di lassismo criminale.
E qui ci fermiamo, con un pensiero amaro sulla qualità dei nostri politici (le minoranze ammodo non riscattano le masse corrotte o incapaci (non si fermano le scoperte del malaffare): da Lonardi a Scajola, di nuovo in ballo, all’insospettabile Maroni, non c’è che l’imbarazzo della scelta per pescare indagati e sospettati di irregolarità varie.
Allora la nausea ti salta alla gola e magari ti suggerisce un confronto non favorevole ai nostri moderati sazi: c’era più serietà nei casini con la minuscola che ora in quelli con la maiuscola. Quegli ambienti disprezzati (dall’ipocrisia corrente) davano quel che promettevano, senza frodi e vane lusinghe: la serietà dei nostri moderati politici incrementa disoccupazione e cassa integrazione (che, di corto respiro com’è, non risolve il disagio delle famiglie”). Il tutto, mentre continua indisturbata la pacchia dei grossi compensi per deputati e senatori, grandi manager e divi delle tivvù (e perfino dei barbieri del Quirinale). Né si toccano le Camere pletoriche, né lo spasso delle infinite macchine blu, né gli sprechi provocatori delle inutili Province e delle ingorde Regioni. Ma il propagandista della serietà, l’ineffabile Casini, non trova di meglio che attaccare per l’ennesima volta Di Pietro con accuse bizzarre e sognare nuovi governi senza elezioni. Decisamente, c’era più serietà nella “c” minuscola.
Pasquale Licciardello

martedì 12 ottobre 2010

Barzellette d'autore


Ci mette in imbarazzo. Si finisce col dubitare dell’uso clinico di questi nostri sfoghi lirici promossi, per pura costrizione tecnica, all’ambizione di articoli politici. Qualcuno dei miei tre lettori sta pensando al premier, cioè all’Uomo che l’ironia sadica del Destino ci ha imposto a sconto dei nostri peccati? Ci ha azzeccato: parliamo proprio di lui, non sappiamo più se detestarlo in blocco, criticarlo politicamente dettagliando, o addirittura ammirarlo. Ma sì, ammirarne la coriacea instancabilità, la faccia tosta a prova di bomba (politico-giudiziaria), l’indomabile attitudine clownesca. Ha appena chiuso un’avventura “bellica” spossante e subito ricomincia a combattere, sparando raffiche di barzellette al cianuro e bordate di accuse lunari alla magistratura, o (come dice lui) a quella sua parte che da tre lustri squalifica come comunista e persecutrice. Di che cosa? Ma della sua specchiata coscienza, naturalmente: di politico e premier di storica rilevanza. E, perché no? anche contribuente da favola: la figliola annunciava giorni fa che la sua famiglia paga al Fisco 2 milioni e mezzo di euro. L’anno? No, e nemmeno al mese: al giorno (sic). Ed eccoci costretti dal suo genio multiforme a sciupare il nostro tempo gustandone battutacce e mirabilia accusatorie.
Cominciamo dalle barzellette in senso stretto. Un ebreo racconta a un familiare...Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria...E quanto era in moneta attuale? Tremila euro...Al mese? No, al giorno... Ah, però...Be’, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace...Scusa un’ultima domanda...tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita? Fine della storiella. Ma non del clamore che n’è seguito. Che dura ancora mentre ne scriviamo. E che non sempre è calibrato sulla “fisiologia” del faceto “narratore”. Troppo serio, per esempio, quello dell’ex presidente delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto, che prende la barzelletta come indice della scarsa coscienza etico-storica degl’italiani: “Non siamo riusciti a trasmettere all’opinione pubblica la gravità dell’olocausto e delle persecuzioni che abbiamo subito [...]Gran parte degli Italiani crede che di fronte all’Olocausto gli ebrei fossero in condizione di mettersi al sicuro”. Non senza integrare con questa (peraltro, opportuna) smentita: “Purtroppo a questa visione falsata hanno contribuito i numeri gonfiati degli ebrei salvati per iniziativa di Pio XII, che in realtà furono una percentuale molto modesta”. Bastava dire che la barzelletta è l’autopresentazione di un bellimbusto privo di sensibilità empatica. Cioè, un uomo per il quale non c’è nulla di “sacro”, d’intoccabile. Insomma, d’indisponibile per le barzellette.
L’altra delle quali torna a punzecchiare un suo dilettevole bersaglio, Rosy Bindi (vedi eroismo del barzellettiere!): Durante una serata danzante un cavaliere va dalla ragazza scelta per ballare: lei si presenta con il nome di un fiore al femminile, l’uomo risponde con il nome del fiore al maschile e si balla. Quindi un uomo si avvicina a una ragazza, “Margherita”. E lui “Margherito”. Poi un altro si avvicina a un’altra ragazza, “Rosa” e lui “Roso”/ Un altro va verso Rosy Bindi, un po’ coperta nell’ombra, lei dice “Orchidea” e si tira in avanti, lui la guarda e dice “Orcodio” (ma La Stampa, da cui, trascriviamo, vela la bestemmia sotto tre puntini). Reazione (un po’ sprecona!) della Bindi: il Premier deve “chiedere scusa a tutti i credenti di questo Paese, alla Chiesa e alla stampa cattolica”. La quale non se lo fa dire, e attacca l’incauto sfottente: Famiglia cristiana, dal suo sito, è la più colorita: “Dal Cavaliere arriva uno dei più chiari esempi di quel ‘cristianesimo alla carta’ o ‘cristianesimo usa e getta’”. E, cristianamente, smaschera lo spudorato: un politico “intriso di sentimenti cattolici quando si tratta di chiedere voti, ma sostanzialmente estraneo al sentire cattolico in ogni altro momento”. Ma la molto apostolica ministra Gelmini garantisce: “Il Pdl è il partito più sensibile ai valori cattolici”.
Postilla. A leggere le reazioni si godono meglio le barzellette incaute. Questo “sentire cattolico”, per esempio, mi fa ricordare l’accoglienza festosa di Benedetto XVI all’incontro con Berlusconi a ridosso degli scandali delle escort e contesto. “Oh Presidente, che gioia!”. Il ricordo vuol dire: niente paura, in partibus infidelium, il voto cattolico non mancherà alle prossime elezioni. Il Paperon dei paperoni sa bene come (e quanto) farsi perdonare dalla santa madre Chiesa: questione di borsa e sborsamenti. Tutto qui. Quanto alla verità effettuale del “sentire cattolico”, basti ricordare le pesanti offese rivolte al premio Nobel Sagrafedo in occasione della sua morte per misurare quella sensibilità evangelica. Insomma, è un po’ barzelletta anche il “sentire cattolico”
Altre critiche di quella stampa. L’Osservatore Romano commenta così la sortita del premier “alcune battute del capo del governo [...] offendono indistintamente il sentimento dei credenti e la memoria sacra dei sei milioni di vittime della Shoah”. L’Avvenire, quotidiano dei vescovi, parla di “insopportabile bestemmia”, di “consunti stereotipi sugli ebrei”; e aggiunge: “c’è una cultura della battuta ad ogni costo che ha preso piede e fa brutta la nostra politica. E su questo tanti dovrebbero tornare a riflettere”, massime se si è “uomo delle istituzioni”, e addirittura “capo del governo”. Su costoro “grava inesorabile un più alto dovere di sobrietà e di rispetto per ciò che si rappresenta, per i sentimenti dei cittadini e per Colui che non va nominato invano”. Sembra l’annuncio di una svolta storica, e infatti la Repubblica ci spara sopra un titolo-azzardo: La bestemmia di Stato ha rotto l’incantesimo. Ma noi rinviamo il lettore alla nostra previsione sul voto cattolico e la borsa “certosina”. Non senza aggiungere una noterella sulla militanza dei media cartacei: su queste e simili esternazioni dei fogli cattolici il quotidiano di Scalfari stende titoloni cubitali: “Offesi i credenti e la Shoah” il Vaticano contro Berlusconi. E il giornale dei vescovi: “ci mancava la bestemmia”. Cui fa eco l’analisi di G. Zizola, strombettante come sopra. La stessa pagina del titolone ospita, un articolino che dovrebbe accendere qualche dubbio su quella presunta rottura: breve testo, e soprattutto piccolo titolo: Fisichella “assolve” il Cavaliere. La Bindi: “Così giustifica la blasfemia”. Secondo l’alto prelato le parole del premier “vanno contestualizzate”. Indi, non esageriamo con lo sdegno e le condanne! Comprensibile la reazione stizzita della Bindi: “Sarò all’antica, ma mi amareggia profondamente e mi turba constatare che per un pastore della mia Chiesa ci sarebbero occasioni e circostanze nelle quali è possibile derogare anche dal secondo comandamento”. Insomma, “barzellette” dall’uno all’altro campo. Lo sono, in certo modo, anche gli sfoghi di certe suscettibilità religiose, cattoliche o ebree che siano. Non diciamo la reazione alla storiella infame sulla Shoah, ma quando si arriva al solito clamore (con richieste di espulsione eccetera) per un Ciarrapico che insulta Fini chiedendogli se ha già “calzato” la biblica kippah, be’ siamo all’eccesso “barzellettistico”. Lo è di meno la cecità pelosa degli stessi clamanti per quel berretto sui crimini di Israele contro le popolazioni civili palestinesi, osando paragonare certi missili buoni a fare qualche buco nei muri al “terra bruciata” di Gaza e relative mutilazioni di bambini da “fosforo bianco” e altre diavolerie di provenienza alleata (leggi Usa).
E torniamo all’imputato major: come reagisce? Secondo il suo stile: scandalo? “E’ soltanto una risata, e lo scandalo, semmai, è di chi la pubblicizza”. Dunque? “Lo scandalo? E’ soltanto un pretesto per attacchi strumentali e ipocriti”. Il solito ribaltamento dei ruoli: il colpevole diventa vittima. Ma le barzellette migliori sono le involontarie, cioè i nuovi complimenti alla magistratura: dove, secondo il Cavaliere, si anniderebbe una vera e propria “associazione a delinquere”. E basta così? Macché: il Cavaliere dalla trista figura sogna “una commissione d’inchiesta” per snidare quella maligna congreca, estirpare quel bubbone infetto. Il progettino in nuce ispira i tg meno faziosi della domenica, e il Corsera del lunedì ride con questo titolo sulle sparate del plurindagato furens: “Inchiesta parlamentare sui pm. La sfida di Berlusconi”. E il bersaglio come risponde? Con signorile pacatezza: “Così accresce la tensione”. O, anche, con lapidaria sobrietà: “Non ci faremo intimidire”. Tutto qui. Qualche consigliori (pardon, consigliere) del Principe boccia la barzelletta: pretesa non prevista dalla Costituzione. E noi la cambieremo, replica con uno dei suoi “pezzi forti”. Ci vuole tempo? Vedremo. Mutevole come un galletto di latta segna-vento, l’inesauribile dice e disdice, afferma e nega a distanza di ore. Il tre ottobre minacciava: i finiani devono essere fedeli (al programma) “ogni giorno o subito al voto”. Il 6 il Corsera stendeva sull’intera pg.5 questo dietro-front del Cavaliere: Richiamo di Berlusconi: basta parlare di urne. Oggi, 7, la Repubblica apre con questo titolone virgolettato (sono parole del Berlù). “No al voto, temo governo tecnico”. L’incipit dell’articolo è l’ennesima barzelletta (del genere: “io? quando mai”). Eccolo: “Elezioni? Mai minacciate, sono sempre stato convinto che fossero un guaio.” Notate quegli avverbi: “mai”, “sempre”. Una vera passione. “Un guaio”: cioè, una minaccia capace di ispirare “un esecutivo tecnico”. E per tentare di zittire Bossi, che continua a gracchiare sul “voto a primavera”, promette mirabilia. Torniamo a leggere nel titolone: Berlusconi: oggi il federalismo, tra due settimane riforma della giustizia. Esternazione che compete validamente con le barzellette strictu sensu. E trascina il premier in un circolo completo. Il Corsera del 12 settembre riassumeva in un titolo perentorio, che è una citazione testuale del Cavaliere tutto-macchie: “Il presidente della Camera? Spero che ritorni in ginocchio” Il “catenaccio” del titolo è la traduzione di un tentativo sonoro di Bossi: Bossi: io sarei andato al voto, ma Silvio e il Colle non vogliono. L’occhiello, più sintetico, è anche più colorito: “Il Senatur evoca Fini e mostra il dito medio. Nel testo l’argomento digitale è conclusione mimica di un sintetico approccio verbale: “Fini dice che la Padania non esiste? Tié! Noi esistiamo e di solito vinciamo le elezioni.” Naturalmente, è quel “Tié” che alza il dito. E poi ci lamentiamo dello scarso umorismo dei nostri politici.
Ma torniamo al presente. L’azione convergente di consiglieri e “calcolatori” (“ho fatto bene a regalare a Silvio un pallottoliere [...] si vede che è servito. Lo vedo improvvisamente tornato in sé”: così Casini), spinge il Giove tonante di pochi giorni fa a questa amara resa al Fato (che, come insegnavano i nostri padri, conta più degli dei): “Basta, con Fini dobbiamo trattare”. Resa condita da questo sospiro, unico residuo esponibile dell’odio attizzato dalla passione istituzionale del Presidente della Camera: “Sono deluso, l’ho trattato per sedici anni come un figlioccio, ora lui mi ripaga così”. Come un figlioccio: voce dal sen fuggita, che evoca il Padrino. Ma forse domani lo Smemorato a gettoni alterni la rinnegherà. Non nel senso che se ne scusa (come è stato costretto a fare Ciarrapico con gli incontentabili ebrei italiani), ma nel senso che negherà di averla pronunciata: altrimenti che barzellettiere sarebbe?
Appena ieri (6. 10) abbiamo visto un Cavaliere in versione “tuona e sbraita”. Ecco titolo e incipit di un articolo del Corsera: “Si accorgeranno presto che non sono finito”: “L’umore è esposto ai rovesci della politica, come il suo governo, ma nonostante tutto sembri congiurare contro di lui, Berlusconi è convinto di portare a termine il ‘progetto’” (Verderami). Ed ecco le parole del premier clamans, anzi le nuove barzellette involontarie: “non mi curo se mi danno del ‘nonnetto’, se dicono che mi sono imbolsito, che sono finito. Se ne accorgeranno presto. Io non me ne andrò fino a quando non avrò dato vita al più grande ricambio generazionale della storia”. Da far tremare le vene e i polsi: che ci voglia trasformare tutti in 50 milioni di robottini arcoriani? Meno male che sono vecchio, e non farà in tempo, con me. Intanto comincia col rabbonire Santa Madre Chiesa (le maiuscole sono in conto Cavaliere) accelerando sul “piano per la vita”, come dire l’agenda vaticana che pretende di strozzare ogni “pretesa laicista”, ovvero ogni traccia di sana civiltà: indi, “campagna contro la RU486, aiuti alle nascite sacralmente corrette, norme restrittive sulla biopolitica, accanimento terapeutico, eccetera. I ministri Fazio (Salute) e Sacconi (Welfare) sono mobilitati. E Tremonti deve lasciarsi spremere qualche soldino per aiutare le famiglie cattoliche a fare figli. Nonché mandarli nelle scuole private cattoliche (come ha fatto Formigoni nella “sua” Lombardia. A proposito, il governatore purissimo è inguaiato per certi brogli elettorali). L’accelerazione serve anche a prevenire slittamenti clamorosi verso il Pierferdi nazionale. E seminare zizzania nel campo di Agramante, cioè dentro il composito Pd che ospita nel suo ventre molle la componente cattolica, sempre rognosa per eccesso di sensibilità vaticana.
Tutto si può dire della nostra vita pubblica, tranne che ci faccia sbadigliare di noia (o di sonno): non si finisce di gustare un evento che subito un altro viene a galla a fargli concorrenza. Nel caso si tratta ancora del Premier, della sua più recente invenzione (mai dire “ultima”, con lui!): i team elettorali(stici). Squadre di ragazzi ambosessi da sguinzagliare sul territorio a fare pubblicità alla santa Causa. Né finisce qui l’inventiva del fantasioso Consiglio dei consiglianti: c’è di mezzo anche un libro. Non è un lapsus: un vero libro. Per fare cosa? Indovinate. Sì, come avete pensato: a far radiosa luce sulle conquiste del regime, pardon del miracolo certosino. Che tradotto in italiano significa: a fare un elenco delle opere realizzate dal governo silvanico. Insomma, un altro bouquet di ghiottonerie barzellettistiche. Perché, come sa la componente non drogata del popolo italiano, quel tale elenco sarà un mostro di millanterie e di strampalate amplificazioni di piccoli risultati, presto sopraffatti e in gran parte cancellati dal ritorno del “rimosso”.
Ecco un altro stop all’invio telematico di questo excursus: “Dossier contro Emma Marcegaglia” Indagati direttore e vice del “Giornale” (Corsera, 8. 10) . E uno dei tanti commenti (Flavia Perina, Il secolo d’Italia): “Quel che è ipotizzato contro la Marcegaglia, cioè una campagna di denigrazione attraverso dossier, il Giornale lo ha già fatto nei confronti di Boffo e di Fini. Evidentemente qualcuno perde il pelo ma non il vizio”. Evidentemente. E queste non sono barzellette, ma pura e distillata verità machiavellicamente effettuale. Le barzellette vengono dalle “esternazioni” dei vari produttori di quel Mondo bacato. La Russa avverte la magistratura: “sappia che non deve dare l’impressione di una censura preventiva, una sorta di condizionamento della libera stampa”. La quale, sottintende Mefisto, deve essere libera fino alla calunnia e al ricatto, quando sono ben mascherate. La barzelletta di Bondi vince tutte le altre uscite da quelle bocche al tossico: “Si tratta di decidere se vogliamo vivere in un Paese civile oppure in una società in cui vengono violate le leggi da chi dovrebbe farle rispettare”. Sottinteso, la magistratura, la solita persecutrice, secondo quel testone curiale, dell’immacolato Idolo e del suo mondo sacralizzato dai troppi Bondi. Cicchitto è sempre quello che pretende di saperne più degli altri complici. “E’ evidente che i telefoni e i telefonini del Giornale e dei suoi redattori erano controllati da tempo”. Peccato che l’evidenza lampeggi da tutt’altra parte, e fa le boccacce alla malafede dei “censori” arcoriani: l’affaire nasce da un sms del vice direttore (Porro) di quel Giornale all’amico Rinaldo Arpisella, “strettissimo collaboratore della Marcegaglia”: vi si annuncia un servizio sulla famiglia Marcegaglia. Segue uno scambio di telefonate che convincono Arpisella di un rischio dossier per la sua “padrona”. La quale va dal procuratore, collegando la minaccia alla sua critica al governo, al quale aveva detto “che stava finendo la pazienza degli industriali”. La signora telefona, anche, a Fedele Confalonieri, che le assicura di fermare la “macchina”. Ma prega anche la signora di “cambiare atteggiamento” verso l’augusta fatica del premier. Mentre il gentiluomo Sallusti querela (sic) il pm di Napoli, Lepore, “per diffamazione”. Le ultimissime prima di spedire sono: la pubblicazione del dossier da parte dell’eroico Feltri (quattro pagine del Giornale!), la figuraccia di don Fedele, la fermezza della presidente di Confindustria: Marcegaglia: vado avanti e non mi faccio intimidire (La Stampa, 9.10), la decisione dei pm, che “ascolteranno Confalonieri come testimone” (senza mollare, intanto, sulle altre misure in corso).
Ecco, dunque, il mondo reale di codesta filibusta politico-giornalistica, che pretende punire i suoi avversari a furia di agguati proditori e montature vigliacche. E che spesso rimane scornata, come nel caso Di Pietro, che si pretendeva sospendere dalla Camera perché parla chiaro, e accusa il premier di “stuprare” la democrazia. Fallita l’offensiva in Aula contro di lui, il Tonino conferma: “Non rinnego una parola. Tornerò a fare un’opposizione ferma e risoluta in aula e ricorrerò a tutte le parole che il vocabolario mi mette a disposizione. Chi utilizza le istituzioni per farsi gli affari propri che altro è se non uno stupratore di democrazia?” Parole fieramente limpide, che non piacciono neppure ad alleati e concorrenti in opposizione politica.
Ma vogliamo chiudere con un’ultima manciata di barzellette involontarie di gentile fattura: l’esibizione della Santanché ad Annozero. Un vero spettacolo: una scolaretta che ripete cavolate colossali memorizzate alla scuola della disinformazione vocazionale. Un caso per metà da ridere per l’altra da meditare sull’insensibilità coriacea di certe figure. Un momento di quella trasmissione: un gruppo di giovani giornalisti calabresi intervistati dal collaboratore di Santoro rivelano le minacce mafiose cui sono fatti segno, con argomenti orali e simbolici, per scoraggiarne i servizi su drangheta e collusioni politiche. Sono ragazzi che rischiano la vita, decisi a non mollare. Tutta la reazione della gentildonna Santanchè fu un diluvio di sparate bugiarde su “questo governo che ha fatto più di qualsiasi altro contro le mafie” e giù cifre di torbida fantasia ripetitiva. Neanche un sospiro, mezza parola di solidarietà per quei candidati a non improbabile morte violenta. E uno guarda quella bocca inesausta, ammira quel labbro sporgente, e pensa a un suo più coerente destino, a un uso più giocoso e innocente.