sabato 22 maggio 2010

SUSANNA, frammento 67


Negli intervalli fra una seduta e l'altra di questa sorta di "storia infinita" slivellata al ribasso della quotidianità personale e generale, telefono, di tanto in tanto, alla "mia" Susanna. Lo faccio soltanto se, e quando, rimango solo in casa, per poter parlare liberamente. Sono, però, più le volte che non la trovo: il lavoro la porta in giro per lo Stivale. L'ho chiamata anche stasera, l'ho trovata (sarà stato, questo, il quinto o sesto tentativo della settimana), ed ho appena finito di conversare a lungo (Rina era alla messa del "Mese di maggio") con quel pezzo del mio passato remoto meglio incarnato e memorizzato. Ma i buchi neri dell'oblio sono pur sempre tanti, troppi: che pena non poter ritrovare integre e palpitanti scene e dettagli così coinvolgenti in quel presente vissuto. Anzi, vivente e scorrente, fiume di acque anfetaminiche rinnovantisi nei giorni dorati di quelle estati, roventi di clima e di passione. Dell'ultima, specialissimamente: mielata e ferita, intrisa di paure e difficoltà, ma anche feconda di guarigioni e riprese tensive di fisica resistenza e buona salute. Sempre che la magia del ricordare non faccia sconti e decontaminazioni troppo indulgenti.
Rifletto. No, niente "sconti". Che cosa ci siamo detti? Le solite notizie sulla salute, le figlie, i loro problemi, il lavoro col "suo" Marco, sempre in viaggio da una città all'altra. E qualche retromarcia verso il nostro passato intimo. Così, ricordando e alludendo, ho finito col rivelarle il mio segreto: questo tentativo tormentoso di romanzare quella sezione della mia vita che la vide perno gravitazionale del mio maggiore impegno affettivo. E ho stuzzicato la sua curiosità: mi sprona a finirlo "in tempo" perché lei possa leggerlo, ritrovarci quel passato a doppia faccia, di felicità e dolore, di piacere e tormento. Ho promesso, ma so che le mie Erinni non sono disposte a mollare la presa: come lasciarsi sfuggire sì ghiotta preda?

"Potevo o dovevo?" Così, ormai tanti anni or sono, Gulizza pensatore sfidava uno dei soliti pontefici del libero arbitrio, sgombrando le "vie del Signore" dei fantasmi ideologici che nutrono il "potevo". E io mi sento l'ultimo dei Mohicani a tentare un'estrema difesa del residuale "potevo" annidato nella "complessità": delle cause e sotto-cause, intrecciate alle pulsioni appetitive; delle occasioni e delle inibizioni, in dialettica competizione. Il tutto, sospeso a quella "categoria del possibile" che la frequentazione professionale del grande Nicola Abbagnano ha inoculato al mio neopallio, così poroso di selezionate disponibilità acquisitive. Ma più passano gli anni e meno rimane del terreno di coltura del "potevo", così spietatamente divorato dalle ripetute sconfitte dei miei proponimenti, delle mie sfide. E proprio questo sforzo è la cartina di tornasole delle mie virtù: questo guazzabuglio polifonico che non riesco a chiudere. Dopo decine di accigliati propositi finiti in tradimenti e compromessi. Amen (ancora una volta).
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Una foto di gruppo, io circondato dalle ragazze (più qualche ragazzo) della terza liceo classico, sezione (o corso) A, di Realpolia: ed eccomi proiettato ancora su quei primi anni Settanta che conobbero scontri quasi quotidiani di giovani accesi di passione e prepararono gli "anni di piombo" dell'eversione rossa e nera. E l'ancora più lugubre stagione dello stragismo dei misteri. Risento un po' le voci appassionate di quei lontani interventi giovanili. A ogni fattaccio nuovo, un dibattito-scontro (l'eufemismo di copertura è "conversazione") in classe (ma senza tracimare dentro le ore del programma storico e filosofico). La foto stava dentro un'agenda dell'epoca, la quale contiene appunti di vita scolastica e di politica: eccola sul tavolo, pronta a rinfrescare la memoria di quei fatti lontani, ripercorrendone in corsa i più eminenti (per impatto storico e costi umani). Dai memorabili scontri dimostranti-polizia del marzo 1968 (ancora il '68!) a Valle Giulia, alla strage milanese di Piazza Fontana del 12.12.'69; dalla cacciata degli studenti fascisti dall'università di Roma alla riscossa degli stessi e conseguenti ulteriori scontri col morto e tanti feriti; dall'infame delitto-errore del rogo di Primavalle (due fratelli del Msi bruciati in casa da scalmanati di Potere Operaio (si disse e si dice, da alcune "fonti"): 16. 04. 73), alla Legge Reale del '75 si contarono decine di zuffe cruente, di veri episodi di guerriglia urbana, con un totale di 69 vittime tra i due schieramenti (ma esclusi gli effetti collaterali: per esempio, genitori limati dalla pena per i figli uccisi, fino a morte anticipata). Nello stesso tempo le semplificazioni ideologiche si modificavano: i fascisti picchiati, anch'essi, dalla polizia, non sono più "strumenti dello Stato borghese", ma suoi nemici dell'altra frontiera, che lo accusano di essere debole o complice con i comunisti. La teoria degli opposti estremismi fu sbandierata dalle istituzioni con scarso esito di credibilità presso i fronti opposti. Ancora decenni dopo, Pino Rauti la giudica una furbata per confermare, con forte legittimazione anti-sovversione, il traballante potere democristiano. Né ci volle poco tempo (e pochi eventi) per farla accettare a una parte della sinistra istituzionale. Intanto gli eventi maturavano sul doppio binario delle esecuzioni brigatiste e delle stragi misteriose ma (per quel poco o tanto che s'è potuto provare) di più che sospetta matrice fascistico-istituzionale e massonico-piduista. Come dire, latamente (e basilarmente) "mammonica", con i soliti servizi segreti tutt'altro che "deviati", sui binari occulti, e ben previsti, della loro preminente funzione di deterrenza socio-politica in difesa del disordine capitalista (elevato e promosso, dal Potere policefalo, al rango di solo Ordine possibile e auspicabile). E vai con le già ricordate bombe di Brescia del '74 (abbiamo avuto occasione, io e Rina, di passeggiare su quella Piazza della Loggia vent'anni dopo l'eccidio: io a spiegarle la lapide), con quelle del treno Italicus dello stesso anno, con la molto più vasta e orribile strage di Bologna del 2 agosto 1980. E via tacendo.
La sanguinosa epopea delle Brigate rosse, e dei gruppi affini (Potere operaio, Prima linea, ...), non va dimenticato, è stata preceduta dalle prime spettacolari battute della "Strategia della tensione", programma eversivo di tutto rispetto, mirato all'intimidazione degli incauti che osavano sperare in un alleviamento delle sofferenze degli svantaggiati. O (detto meno drammaticamente) a condire un po' meglio la mensa operaia e quella a rischio disoccupazione, con relativa cassa integrazione). La data-emblema del gentile programmino "politico" è quella appena ricordata del 12. 12. '69, giorno della strage milanese alla Banca dell'Agricoltura, in Piazza Fontana: diciassette morti sfracellati dalla bomba e non ricordo quanti feriti. Sorvoliamo sul drammatico seguito: di depistaggi, false testimonianze, sparizione di eloquenti indizi, scelta del capro espiatorio: l'ignaro Valpreda, arrestato e "torchiato" in carcere; il povero Pinelli "suicidato" da una finestra del commissariato. Punita, quella scelta criminale, con vendetta incauta, assassinando il sospettato commissario Calabresi. Da ricordare ancora la lucida inchiesta di Camilla Cederna, lo scontro con Montanelli (sempre illuminato dallo Spirito Santo nelle sue ferree, anzi ferrigne, convinzioni di uomo d'ordine e soddisfatto borghese); e via saltando e cancellando, fino alla troppo tardiva condanna di Adriano Sofri e compagni, su denunce e confessioni non del tutto assimilabili all'oro colato. Sofri, da tempo giornalista-opinionista meritamente rispettato, si dichiara innocente e rifiuta di "fare domanda di grazia": per la contradizion che nol consente.
Ma L'omicidio Calabresi merita ancora qualche rigo: le commemorazioni del decennale e, ancor più, del ventennale hanno prodotto testimonianze e memorie che non lasciano dubbi su un fatto: il commissario non era nella stanza dalla cui finestra precipitò Pinelli. C'erano, bensì, cinque persone, cinque poliziotti, tra i quali un capo (forse il questore): non sarebbe stato naturale rivolgersi a loro per tentare di leggere nel criptato del presunto suicidio? Naturale e logico: ma in un Paese normale. Particolare rivelato dalla vedova: il marito Luigi (papà Gigi, per i figli) era in rapporti di amicizia con Pinelli. Tanto in amicizia che l'anarchico aveva regalato al commissario un ottimo libro, la vibrante, poetica, malinconica e lucida "Antologia di Spoon River". Retropensiero: "ma in un Paese normale" si verificano certe cose?
Però, non c'è proprio nulla da rinfacciare al Calabresi? Perché trattenere per ben tre giorni l' "amico" Pinelli? Perché, addirittura, puntare su di lui come maggiore sospettato? In tanta confidenza non c'era stato modo di capire l'animo non violento dell'anarchico? Si rischia di annebbiare anziché chiarire il clima che promosse le critiche a Calabresi. Certo, non si può pretendere che la moglie (allora in attesa del terzo figlio) o il primogenito (che certamente, prima o poi, scriverà del padre) siano in condizione di riconoscere almeno un grammo di responsabilità alla persona tanto amata. Ma la critica ha i suoi duri doveri. Perfino nel voler chiarire meglio la circostanza della "non presenza" del commissario. Perché lasciare l'amico nelle mani altrui (e siano pure mani fidate: quien sabe?)
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Forse sarà una divagazione solo "metafisicamente" pertinente: quel finale tragico chiude un anno di movimentazione folta e varia (radicata nel fermento multipolare del "mitico '68")(1), al centro del quale si schiude un altro evento destinato alla storia, ma di segno opposto al sangue innocente di Piazza Fontana: si vuol dire Woodstock. Ossia il raduno di 500.000 mila giovani dei due (o tre) sessi per godere un concerto Rock in nome della pace dell'amore della solidarietà con i sofferenti. Slogans: "Tre giorni di pace, amore e musica". O, in versione più realistica: "Tre giorni di sesso, droga e Rock' n' roll". Così i "figli dei fiori", i beatnik, la generazione del pacifismo ribelle (Mettete dei fiori nei vostri cannoni!) volle mostrare un'alternativa di vita che i Keruac i Corso i Ferlinghetti e seguito avevano esemplato in altri modi, variamente dinamici emozionali poetici. E tutti unanimi nel contestare il mammonico filisteismo del ceto borghese e l'annesso edonismo imbrigliato. I marpioni del verbo capitalista lasciarono fare, ben sapendo che col tempo quella festa scombinata avrebbe prodotto gadget e memorie monumentali a ingrasso del loro business. Che forse da tempo non si parla di erigere un maestoso museo-memorial a quell'enfatico evento che volle stamparsi come emblema generazionale sul volto della storia? E sarà l'occasione buona per risarcire il piccolo villaggio di Bethel, sulla cui collina da pascolo si svolse, in effetti, il raduno che da Woodstock prese il nome. Il luogo programmato era stato negato dalle autorità e i convenuti ripiegarono sul pascolo di un possidente del posto, che concesse la collina delle sue mucche. Il futuro memorial si chiamerà Museum at Bethel Woods, e "non sarà la celebrazione dei figli dei fiori" (promettono gli interessati), né un "Hippies Museum", ma un monumento ai decisivi anni Sessanta, dei quali l'happening musicale è stato tanto significativa parte. Come il movimento per i diritti civili, le rivolte nei ghetti neri nei complicati e contradditori Usa, i delitti politici, le comunità del libero amore, più o meno misticheggianti (e magari mistificheggianti), la piaga sempre più purulenta del Vietnam martirizzato, la contestazione globale dell'american way of life, tutta business e dollari e guerre funzionali a quel verbo supremo infiocchettato di scampoli democratici. Sì, furono tre giorni e tre notti (dal 15 al 17 agosto) di canti balli sesso droga. Insomma, "gioia di vivere", come avrebbe detto il barbuto "Ibsen antimaiuscolaro" (titolo di un mio saggio ospitato dal non facile Gulizza nella sua rivista). Sul palco si alternarono Jimi Hendrix, i Santana, Joan Baez, Janis Joplin, i Grateful Dead. L'anno dopo un doppio album e un film-documentario vincitore dell'Oscar celebrarono l'avvenimento epocale. Assenti i morti di droga, come Jimi Hendrix, ucciso da overdose l'anno dopo quel trionfo.
Oggi è possibile godere filmati a colori suoni e testi di quell'evento nei mille siti della Rete: che suona come un altro eccesso nel tempo degli eccessi. Ut semper, Crono mescola eventi di senso opposto, e di contraddittoria realtà carnale: qui lieta festa e là cupa strage, il gemito dell'orgasmo ad ovest e l'urlo del dolore impazzito ad est. Ma com'è difficile coniugare questi compresenti, sorta di ossimori di un Saturno divertito e sadico. Banalità riflessive? Forse. Ma se si fosse capaci di meditarvi sopra seriamente quante scemenze metafisiche sarebbero risparmiate a questa umanità di sonnambuli ipercinetici!
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Tra gli omicidi politici consumati negli scontri fra studenti, i nove accaduti nell'arco degli anni 1975-83 danno la misura dell'irrigidimento distruttivo, da guerra civile strisciante, di quella contrapposizione. A destra si scialava in simbolismi nordici e teutonici: Odino, Thor... La primavera del '75 si ricorda come un periodo lugubre di morti ammazzati: a marzo fu ucciso a colpi di spranga un ragazzo di 19 anni e gli scalmanati della sinistra extra allietarono i loro cortei con frasi di puro delirio, tipo: "Tutti i fascisti come Ramelli / con una riga rossa tra i capelli". La risposta nera al delitto Ramelli fu l'uccisione, il 16 aprile, del diciassette Claudio Varalli, fulminato da colpi di pistola. Il corteo del giorno dopo vede la morte di un altro ragazzo di sinistra, Giannino Ribecchi, "travolto da una camionetta dei carabinieri" A maggio, in piazza San Babila, viene trafitto da coltellate assassine Alberto Brasili. Il 5 giugno conflitto a fuoco intorno alla cascina Spiotta dove è custodito l'industriale Gancia sequestrato dalle Br. Muoiono l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso e Mara Cagol, cofondatrice delle Br.
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Dopo l'uccisione del giovane Valerio Verbano in casa propria, al rientro da una delle consuete sortite di lavoro indagativo, fioccarono le rivendicazioni da destra e da sinistra estrema. Molte furono fasulle e fuorvianti. La migliore per tasso di imbecillità spaccona suona: "Il martello di Thor ha colpito ancora".
Il crimine Verbano rimane uno dei tanti enigmi non risolti della stagione infernale. Diecine di deposizioni, rivelazioni di pentiti, spunti e suggerimenti precisi (verso la destra estrema dei Nar e di Terza Posizione) sono stati degradati da certa magistratura a semplici ipotesi prive di riscontri. Lo stesso Memoriale scritto dal non rassegnato padre di Valerio, il tenace Sardo, è scomparso (è stato fatto sparire). L'episodio, ricostruito con ricca varietà di testimonianze, nel programma "Rai Educational. La Storia siamo noi" rimane a tutt'oggi l'ennesimo mistero annegato del gioco perverso delle complicità in omissioni deviazioni protezioni losche dettate dalla distorta Ragion di Stato (e da inconfessabili ragioni molto private e personali). Chi non si arrende ancora è la madre, Carla Verbano, che, dopo la morte del marito Sardo (impegnatissimo, per anni, a indagare in ogni modo e direzione per far luce sugli esecutori e i mandanti di quel vile agguato) ne continua l'opera, scrivendo, perfino, a un personaggio dell'eversione fascista in carcere: che lo sciagurato, dopo lunghi anni, si lasci commuovere dal dolore di una madre e dica quel che sa per consolarla almeno nella conoscenza di quegli assassini mascherati che in quel lontano giorno del funesto febbraio '80 irruppero in casa, legarono e imbavagliarono lei e il marito e attesero il figlio per sparargli alle spalle mentre si difendeva a colpi di judo. E conoscere anche i mandanti e il movente di quella spietata esecuzione. Forse - scrive la povera vedova - la confessione potrebbe giovare anche al prigioniero, alla sua difficile serenità. Il fiore dell'illusione ama il terreno del dolore.
I funerali per Valerio furono un evento mediatico di cronaca drammatica: diecimila persone dietro il feretro, parte delle quali giovani delle formazioni di sinistra armati di pistola. Ma anche di destra, tanto per confondere le acque e scaricare su formazioni marxi-leniniste il delitto scomodo. Potevano mancare gli scontri? Non mancarono, e polizia e carabinieri ebbero il loro daffare per frenare, rintuzzare, sparpagliare le masse contrapposte, decisissime a farsi male. Ma non sempre con l'auspicabile misura che compete ai tutori della dialettica pacifica: la tentazione del menare a volte è irresistibile.
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I libri di storia si aggiornavano, a gara l'un contro l'altro, per una composita spinta che mescolava interesse culturale e logica di mercato. Il terzo volume del corso liceale giungeva ormai agli eventi dei primi anni Novanta. E io mi sforzavo di raggiungere quelle tragiche soglie, a confermare la beffarda smentita tragica di tutti i bei sogni irenici, regolarmente pullulanti a valle di ogni conflitto vastamente generalizzato: dalla prima Guerra mondiale in poi. Non avendo l'obbligo di narrare serialmente i singoli accadimenti, lasciati all'acquisizione personale degli studenti (secondo le indicazioni di una scelta metodologica operante nel liceo realpoliese), mi restava tempo per un'interpretazione polarizzata, ma aperta alle eventuali, e sollecitate, riflessioni studentesche più o meno divergenti. Le guerre palestinesi godevano di una fervida attenzione filoaraba presso le mie classi, e io me ne compiacevo, badando, nello stesso tempo, a fermare la simpatia al di qua dello strisciante antisemitismo (specie di origine nostalgico-fascistoide). La prima Guerra del Golfo mobilitò, addirittura, gran parte del liceo in manifestazioni pubbliche con fiaccolate e discorsi di condanna. Naturalmente, a muoversi eravamo le figure più reattive di orientamento laico-popolare. Ma c'era anche un nucleo, ambosessi, di cattolici comunisti (l'ossimoro mi intrigava come loico, ma senza turbamenti sul piano pratico-militante). Buona, dietro i docenti, la partecipazione studentesca. Rivedo la non amplissima piazza centrale di Realpolia, emblematicamente abbracciata da due imponenti chiesone barocche e fronteggiata dal non meno barocco Palazzo comunale riempirsi di giovani e ragazze con le fiaccole pacifiste nel pugno convinto, e cartelloni in esplicito rifiuto della guerra incombente e poi consumata con le solite stragi e copiosi strazi, da nuove micidialità hi-tech della "distruttività umana". Nell'imbrunire che scendeva alla sera, uno spettacolo tanto suggestivo quanto triste, allo specchio della coscienza di una garantita inutilità pratica. Suggestione e tristezza non di rado vanno a braccetto.
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Ma ritorniamo agli annia Settanta e seguito. Dopo la violenta contestazione di Lama e gli inclusi incidenti, il ministro degli Interni Cossiga ordinò la chiusura a tempo indeterminato della Sapienza: era il 6 marzo (1977), quando i blindati del Gran Sardo abbatterono quei cancelli e cacciarono con poco garbo gli occupanti rossi. Cinque giorni dopo, l'11 marzo, la "sfida" fra studenti e forze dell'ordine si trasferì a Bologna: campo di battaglia, ancora l'università, questo presunto tempio del sapere alto, chiamato a un ruolo così poco istituzionale. Durante gli scontri un carabiniere colpì a morte Francesco Lorusso, studente di "Lotta Continua". L'indomani, 12 marzo, Roma conobbe quella che fu giudicata la manifestazione più violenta di tutto il '77: un bilancio pesante fece contare varie decine di feriti, più o meno gravi. Due mesi dopo, il 12 maggio, nel corso degli scontri fra parlamentari radicali e polizia, venne uccisa, in Roma, la diciannovenne Giorgiana Masi. Dopo due giorni, il 14 maggio, a Milano scorre la manifestazione di protesta per quella morte infausta. Potevano mancare gli scontri fra giovani dell'Autonomia e polizia? E nemmeno il morto mancò all'appello: questa volta fu un uomo dello Stato "democratico" a fare da ostia al Moloch, l'agente Antonio Custrà, 25 anni. Inutile ricordare la diversità di "trattamento" fra questa morte e le altre. O versare sul piatto della memoria ciarliera le maniere forti usate da quei tutori dell'Ordine sui corpi di quei giovanotti e giovanette dentro le caserme. Evento, ahimé, cocciutamente replicante nella storia recente. Anni dopo, Cossiga si confesserà "pentito" di quelle maniere forti: col senno di poi, disse che "oggi" non avrebbe mandato i blindati a riconquistare le università e le piazze. Perché? perché (dichiarò) avere tolto la piazza ai giovani dell'Autonomia li spinse nella clandestinità armata delle Br e di Prima Linea. Quanto alle maniere forti, il senatore a vita confidò a un giornalista che i comunisti concordavano con lui, anzi sollecitavano il pugno di ferro. E lui li accontentava di buon grado, anche se distinguendo (a suo dire) in questi termini: "se sono operai, giratevi dall'altra parte; se sono studenti, picchiate tosto e giusto." Disposizioni (pensosamente democratiche) del ministro alle forze di polizia sul campo. Un leader comunista avrebbe detto a Cossiga: "Ora che avete qualche terrorista in carcere perché non gli date una strizzatina?" Sarà pura verità? Cossiga si discolpa: gli agenti in borghese con la pistola? C'erano, ma non furono una sua responsabilità: quando lo seppe, egli chiese scusa al Parlamento e "destituì il questore", responsabile di quell'abuso. Che gentiluomo.
Il 23 settembre a Bologna ci fu il convegno del "Movimento del '77": Kossiga (non solo la K, ma pure le due s sfrecciate alla nazista) disse che fu l'ultima "festa" dell'Autonomia: al raduno erano presenti in centomila, secondo le cronache meno faziose. Ancora lui: "Poi demmo l'ultima spazzolata, e l'Autonomia finì". I cortei furono proibiti per un mese e mezzo e cominciarono i morti ammazzati. Sistematicamente. Ah, l'impagabile Cossiga! Di quante cose si è pentito, e si pentirà ancora - da qui ai cento anni di vita che gli auguriamo. Si pentirà anche della morte di Moro? Farà uno show con una brigatista del commando assassino e dirà: "Io l'ho ucciso più di lei!" Veri pentimenti?
Gli riuscirebbe più ruvido, ad ogni modo, quello sulle bugie dette in occasione dello "scandalo Donat Cattin". Di che cosa si tratta? Presto detto (in estrema sintesi). Quando Patrizio Peci, brigatista, si fa pentito e collaboratore di giustizia, nella fiumara di confessioni immette anche una notizia-bomba: Marco Donat Cattin, figlio dell'ex ministro e allora vicesegretario della Dc, è militante di Prima Linea (Pl), il gruppo terrorista più impegnato nella lotta armata. Non solo, vi occupa un ruolo di primo livello. Non solo: fa parte dei gruppi di fuoco e ha sparato, anche lui, al giudice Emilio Alessandrini, "giustiziato" da Pl il 29 gennaio del '79. Peci garantisce la notizia come emersa da fonte sicura. Cossiga, allora Presidente del Consiglio, informa il padre. E poi? Secondo la versione "ufficiale" del premier (davanti alla successiva Commissione d'Inchiesta), egli avrebbe consigliato a Donat Cattin padre di indurre il figlio a costituirsi. Secondo la deposizione di un altro pentito di Prima Linea, Fabrizio Sandalo, avrebbe dato un opposto consiglio: scappare in Francia, in clandestinità. Naturalmente, Cossiga ha mantenuto la sua versione in tutti questi anni. E altre cose ha raccontato. Per esempio, che il cugino Enrico Berlinguer gli avrebbe proposto una specie di baratto: Cossiga non intralcia la giustizia nel caso Donat Cattin e altro (per esempio, la sottrazione, al coraggioso giudice Alessandrini, così allergico ai favoritismi istituzionali, dell'inchiesta sul ruolo dei Servizi segreti nella strage di Piazza Fontana e la protezione di Freda e Ventura accusati di quell'alba dei prossimi orrori) e il Pci avrebbe rinunciato a raccogliere le firme per la Commissione d'inchiesta. Cossiga avrebbe detto: "io e tu siamo uomini di partito, non puoi fare simili proposte." Che suonerebbe, tra l'altro, come una tacita ammissione di responsabilità nell'affaire in questione. Quanti misteri ancora vergini nella storia degli orrori italiani! Che nemmeno il film della von Trotta, "Gli anni di piombo", potrà intaccare più che in qualche scalfitura ipotetica.
Chiari sono soltanto alcuni fatti e il valore etico-politico del loro verificarsi: che senso ha, per esempio, uccidere per ritorsione l'innocente fratello di Patrizio Peci per punire il traditore? Chi decise quell'infamia non si rendeva conto di precipitare nella logica mafiosa della vendetta trasversale. Certo machiavellismo spiccio non contempla mezzi non giustificabili col fine.

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Vogliamo chiudere l'amaro amarcord con due eventi minori, eppure di risonanza planetaria? L'anno delle piazze italiane infiammate fu anche quello che si portò via un mito del Rock: Elvis Presley. Bruciato dagli eccessi a 42 anni. Grandi manifestazioni di sentito cordoglio fra i fans, lunga presenza rimembrante nei media audiovisivi, un contributo eccellente al perfezionamento della deificazione in corso. Dopo vent'anni dalla morte il culto è più che mai verde e in espansione. Vi sono giovani ed ex giovani (di oggi e di ieri) che non credono alla sua morte: si sarà nascosto, qualche misteriosa potenza più o meno metafisica lo ha sottratto temporaneamente al godimento dei suoi cultori, un giorno o l'altro riapparirà: homo religiosus è ricco di fantasia. E cretineria.
L'agenda-diario del '77 segna in rosso il 17 agosto: la pagina riporta in sintesi le notizie televisive e un sospiro di commento. "Oggi Elvis Presley avrebbe dovuto tenere un concerto, ma la morte lo ha preceduto. Ieri lo ha trovato esanime la nuova compagna, Ginger Alden, nel bagno della splendida casa di Graceland, in Memphis. Trasportato al Baptist Memorial' Hospital, non si riuscì a salvarlo. La morte fu dichiarata alle 3,30 pm. La diagnosi, arresto per aritmia cardiaca."
Aggiunte degli anni Novanta
L'inventore del rock'n roll fu un eclettico genialoide, mescolando vari sound, dal cuntry al gospel, dal R&B al pop, riuscì a creare una sonorità personalissima, che conquistò tutta una generazione e qualcosa di più. Gli anni Cinquanta furono di pieno successo, fino al '58, quando venne chiamato alle armi. Mandato in Germania, vi conobbe Priscilla Beaulieu, figlia del suo colonnello, che sposò al suo ritorno a casa. Anche da militare suonò e cantò in gloria. Ma l'anno della chiamata militare fu anche quello della più grande tragedia della sua vita: la morte dell'amatissima madre Gladys, a soli 42 anni. Un trauma che 'ebbe su Elvis effetti devastanti, dai quali forse non si è più ripreso'. Conobbe la depressione e le cure, non sempre opportune, anzi via via più imbrogliate, fra sedativi e anfetamine, alcol ed endorfine. Altro durissimo colpo fu per Elvis l'abbandono della moglie, impaurita dall'intrusione soffocante della Memphis' Mafia nella vita del marito. Codesta mafia era in realtà "una impenetrabile barriera di parenti, amici e guardie del corpo [...] che lo proteggeva, ma gli impediva, tuttavia, di avere rapporti con l'esterno". Conobbe eclissi relative e rinnovate aurore. Riuscì a fronteggiare l'offensiva dei nuovi protagonisti del sound trascinatore: Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Bruce Springsteen...Ma il pieno degli anni migliori fu ripartito fra Elvis, "re del Rock" certo, ma ora meno fulgente, con le new entry dell'idolatria musicale, quali i citati Beatles, i Rolling Stones, i Beach Boys. Tanto che il suo manager ne incrementò l'impegno cinematografico (arrivò a interpretare 29 film in otto anni): una full immersion di stampo prettamente, o quasi, mercantile.
Un notista della Rai ha riferito la meraviglia di un critico televisivo per la canzone di Elvis "Love me tender", così distante dalla frenetica forza eversiva del rock, così tenera, così struggente: Love me tender, love me sweet; never let me go. You have made may life complete, and I love you so. Come può avere scritto questa delicata melodia dell'amore puro Elvis the Pelvis, Elvis il folle, 'Il delinquente del rock' (così fu tradotto in italiano il titolo del film di Richard Thorpe, Jailhouse Rock, 1957)? Meraviglia impropria, se l'eclettismo di Elvis non escludeva la tenerezza (che era ben radicata nel suo Dna di ex timido e mammone), come non esorcizzava forza e durezza, impegno e spregiudicatezza (più ostentazione professionale che motu proprio genetico). Gli anni di due altri film con Elvis (l'eclettico era anche un versatile: gli piaceva fare l'attore), "Viva Las Vegas" ("del grande Gorge Sidney") e "Frankie e Johnny" (di Frederick de Cordova, interpretato insieme a Donna Douglas) coincidono con quelli del sorgere e del tramontare del mio idillio con Susanna. Ma con al centro del secondo, lo svampare della passione lungo la primavera e mezza estate.
Ascoltai la canzone tenera di Elvis insieme con Susy, in una delle sue visite dopo gli esami di maturità. Più di una volta, insieme ad altre composizioni, e l'ultima dovette essere il giorno della mia "lite" con Rina, quando lei rifiutò di cenare. Ho appena asciugato gli occhi di uno sgorgo modesto quanto incontenibile. Rivedo Susy distesa sulla sdraio. E dopo il pieno d'incanto, il derelitto vuoto: la grande Assenza. Altro incrocio di date: l'anno del raggiunto settennio susynico buio fu lo stesso del primo show televisivo trasmesso, via satellite, da Honolulu, con un Elvis ancora in forma. Questo Aloha From Hawaii ebbe un pubblico di oltre un miliardo di spettatori, divisi per quaranta paesi. Ne venne fuori un derivato che fu il "primo disco quadrifonico" a diventare un million seller. Titolo, "Aloha From Hawaii Via Satellite".Una rubrica televisiva ha recentemente sottolineato, fra le cause certe della prematura scomparsa, gli eccessi alimentari: Elvis non mangiava sfilatini, ma "sfilatoni, con mezzo chilo di pancetta fritta dentro". E la cosa era fin troppo evidente nella sformata pinguedine degli ultimi tempi. Che egli malamente tentava di contrastare con cure dimagranti controproducenti. Una sotterranea tentazione autodistruttiva, forse, in un condensato di vitalismo selvaggio ma sfinito fino al gesto-sfida, al capriccio, fino a quella trasvolata atlantica per andare a bere un caffè a Parigi e ritornare a casa in giornata. Ne aveva fatta di strada, dentro quel corpo saldo, il thanato-verme.

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(1) Un altro dimenticato documento di "magica presa" emerge dal casual della già segnalata foresta di carta stampata acquartierata in spazi fuori mano: si tratta di una bella iniziativa del rotocalco "Panorama" costruita in occasione del ventennale "mitico", titolata "Storia dei giovani. Prima, durante e dopo il sessantotto", articolata in quattro "supplementi" ai primi 4 numeri di quell'anno. Le quattro unità sono compilazioni autonome, raccoglibili (e quindi rinuite) entro uno svampante raccoglitore di plastica rossa denso di foto "mitiche", ridisegnate sulle due facce e nel risvolto (da Carlo Marx a Brigitte Bardot, da Ho Chi Min a Marilyn, dai Beatles a Martin Luther King, dal Che a James Dean ecc. Titoli degli inserti: 1. I ruggenti anni Sessanta; 2. La vita privata nel Sessantotto; 3. Cronache dell'anno fatale; 4. Dall'altra parte delle barricate. Ciascuno dei titoli sormonta un "catenaccio": 1."Antenati, maestri, maestrini, profeti armati e disarmati"; 2. "Odi, amori, canzoni, mode, trasgressioni", 3."Prima e dopo il maggio fatale"; 4. "IL Sessantotto raccontato per la prima volta da padri delusi, poliziotti offesi, intellettuali sbeffeggiati". I volumetti straripano di foto (in bianco e nero, a colori), di scene collettive e di singoli personaggi. Molti anche i disegni, specie le caricature. Non vi langue il nudo osé né la provocazione a base, appunto, di emancipazione battegliera e dissacrante. Illustra la quarta "pagina" di non-copertina e altri spazi l'effervescente Chiappori col suo sghignazzante "Up vent'anni dopo" (ma ci sono anche vignette di altri umoristi). Notevoli anche le caricature disegnate accanto alle foto dei personaggi più o meno mitici tratteggiati nelle brevi presentazioni. Quanto agli autori dei "pezzI", inutile dire che ci sono tutti (i "sopravvissuti"). Ed è una vera goduria confrontare quei rivoluzionari stentorei di slogan e urli col loro presente (di vent'anni dopo, o di trenta: a ridosso dei quali stiamo annotando). Dei più si può cantare un "quanto mutatus ab illo!". Oppure, da incendiario a pompiere: ironico, o sdegnto, o indulgente: a scelta. Eccoli, alcuni di quei nomi: E. Galli della Loggia ("E l'Italia cambiò"), Furio Colombo ("Ma che musica compagno") Fernanda Pivano ("E l'America andò in fumo"), Chiara Valentini ("All'Est è subito dissenso"), Giordano Bruno Guerri ("Terzo mondo amado mio"), Maria Luisa Agnese "L'età del benessere"), Intervista con Stefania Sandrelli ("Ho vissuto ogni minuto"), intervista con E. Sanguineti ("Macché profeti, solo vitalisti"); Carlo Rossella ("Maestri no, maestrini sì"); Giampiero Mughini ("No, non era goliardia"; Giancarlo Zizola ("In nome di Dio cominciò così"). Volume 2°. G. Mughini ("Vita nuova, e subito"); Aldo Piro, ("Miss ciclostile"); intervista con Francesco Alberoni ("Ci volevamo tanto bene"); Natalia Aspesi ("In che status eravamo"; Myriam De Cesco ("Papà, vieni alla guerra?"); C. Augias ("Guarda come vesto"); Intervsita con Marco Bellocchio ("La Cina è sul set"); G. Manfredi ("Sessantotto nel juke box"); Grazia Cherchi ("Dimmi cosa leggi"); Omar Calabrese ("Fatti sentire, compagno"; Intervista con Elvio Fachinelli ("La protesta sul lettino". Del volume 3°, segnaliamo solo pochi titoli: Salvatore Veca ("E' successo un 68"); "Sarò il tuo leader": ritratti di Viale, Bobbio, Rieser, De Rossi, Capanna, Pero, Cafiero, Toscano, Brandirali, Manconi, Bassetti, Mosca, Levi, Rostagno, Sorbi, Boato, Curcio, Israel, Cacciari, Cazzaniga, Piperno, Scalzone, Petruccioli, Stame e Meldolesi, Mordenti, Russo. G. Mughini, ("A Parigi, a Parigi"). "I giorni della violenza":"sei eventi drammatici ricordati da Sergio Petruccioli, Fabrizio Cicchitto, Pietro Marzotto, Giovanni Spadolini, Emanuele Macaluso, Sergio Bernardini. Mario Capanna, "Violenti noi? ma no...". Intervista con Lucio Colletti, " E fui subito contro". E ci fermiamo qui. Magari con un flash su certi "capovolti": vedi un Cicchitto "arcorizzato" fino al caricaturale. Un Rossella, se possibile ancora più integrato nel peggio del borghesismo monetarizzante e, anche lui, "certosino" silviano, ma trionfante come direttore di quel "Panorama" che lo onorò ribelle (anche se secundum quid). E che dire di Liguori? Di Mughini? Di Boato? Ma basta così. Ci piace chiudere la nota con un ritorno a Rostagno, qui dipinto nel suo camaleontismo spiazzante. Ecco un passo del "ritratto": "Lui è Mauro Rostagno, 47 anni, il più estroso dei protagonisti del Sessantotto. Non si è mai negato capovolgimenti di giudizi e di comportamenti, e men che meno scelte audaci." Fino a organizzare "una festa di 'svendita del Sessantotto', con una messa all'asta di cimeli dell'epoca, come i libretti rossi di Mao". O finire, a tempo, fra i seguaci di Bhagwan Rajneesh, vestire arancione chiamarsi Sanatano. A tempo, si diceva, per poi passare alla comunità terapeutica per drogati, fare la seconda figlia, chiudere la ricca e agitata esistenza a Trapani, quanto tragicamente, ahimé sappiamo. Il profilo di quel panorama finisce con questa lapide. "Lo si dà sempre per felice. E resta un tipo imprevedibile".

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