martedì 4 maggio 2010

SUSANNA, Frammento 65


Rileggendomi, altri flash dell’hard-disk mnestico balzano dal fondo del pozzo: mi dicono che mi sono lasciato dietro un paio di fatti tutt’altro che leggeri, a questa bilancia pur sommaria e di parziali assaggi: l’anno primo dal compiuto settennio, nonché inizio del novennio (l’improbabile lettore del 2050 ricordi che stiamo alludendo al black-out susynico), ci fu (12 maggio) il referendum contro la quasi neonata legge che aveva introdotto anche in Italia il divorzio. Quella legge, con tutte le sue cautele, era un significativo passo di allontanamento dalla poco civile violenza coattiva impiantata sul dogma, ma riusciva intollerabile a quella versione totalitaria della religione evangelica che si identifica con il vaticanesimo intollerante e la rigida tradizione cratofila. Fu la prima sonora sconfitta della Dc: i no all’abolizione della legge sommersero l’arroganza della Gerarchia e della Dc più ligia. Fanfani, che fu l’animatore battagliero e testardo di quella crociata, ne venne travolto. E da lì cominciò il suo declino.
Il 28 maggio dello stesso anno esplosero le bombe di Piazza della Loggia, a Brescia. Una vicinanza di tempi che fece pensare e sospettare: questa ripresa della strategia della tensione si poté leggere come una risposta intimidatoria a quella parte di popolo burlato come sovrano, che una battaglia vinta non è garanzia di guerra vittoriosa: la guerra-crociata sarebbe continuata. Non si montasse la testa, il popolo sovrano: chi ripropone il binomio “Trono e Altare”, non è disposto alla resa civile. Né lo turbano le maschere democratico-repubblicane di quella accoppiata, quasi sempre vincente nella sanguinaria e limacciosa storia umana. A parte episodi minori, quel tale anno vide anche la strage del treno Italicus. A pochi mesi da Piazza della Loggia.
Un evento dietro l’altro, a martellare sui bronzi dell’avvertimento “olimpico”: i criminali dèi di quell’Olimpo nuvoloso non mollano, e suonano il no paseran! E forse in questa logica esplosiva rientra anche quell’omicido che a due anni del compiuto settennio si consuma nella notte fra le feste di Ognisaanti e dei Morti sul terreno accidentato dell’Idroscalo ostiense. La versione vincente del delitto strettamente privato e personale fu contestata: a mostrarla inattendibile la meccanica feroce ed eccessiva dell’evento (dopo micidiali bastonate, lo scempio dell’Alfa che passa e ripassa sopra il corpo martoriato del Poeta). E continua a essere insidiata da nuovi esami e nuove testimonianze. Pino Pelosi (l’autore giudiziario del delitto, condannato a 9 anni di carcere) non era al suo primo e unico incontro col Poeta regista: negli anni, poco a poco, sono venute fuori altre verità. Si conoscevano, l’ex ragazzo di vita ricorda gesti e tic di Pasolini (il modo di togliersi gli occhiali, la voce “soave”, e simili dettagli poco selvatici). E alla fine di un lungo percorso “assistito” confessa: non è stato lui a uccidere Pasolini, anzi egli tentò di difenderlo; ma tre energumeni, piombati su quel terreno fatale dentro una Fiat targata Ct, mentre massacravano Pier Paolo gridando “sporco comunista”, intimavano al Pelosi di non reagire e di tacere la verità, pena rappresaglie mortali anche sulla famiglia. Pelosi fu costretto ad accollarsi il delitto per difendere da quelle minacce se stesso e i familiari. Questa è la più recente versione, mentre tutto un vario fermento intorno al caso e ai suoi personaggi prepara film, musical, pezzi di teatro. E nuovi libri. Si chiede anche la revisione del processo, troppo comodamente chiuso trent’anni fa. No, il caso Pasolini “non è chiuso”. Con buona pace del cugino, e biografo, Nico Naldini, che ha sempre negato il movente politico(1).
Il quale potrebbe nascondere, se non la sua radice, la sua improvvisa urgenza operativa, nell’uscita sugli itali schermi di quell’estremo processo degradante al nazi-fascismo che fu il film “Salò, o le 120 giornate di Sodoma”.
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Non sono passati molti anni dal ventennale di quel 17 febbraio 1977 che segnò l’inizio vero della mattanza brigatista: una data incisa nel marmo della storia italiana da un fatto eclatante, la cacciata del leader sindacale Luciano Lama dall’università romana La Sapienza. Nelle danze verbali di vario estro dello scialo mediatico non ricordo di avere colto una sola voce autorevole su quel sintomo fragoroso di allarme sociale. Voglio dire, sul significato “radicale” e il peso di luttuoso futuro che quel fatto annunciava: se il sindacato più a sinistra dello schieramento politico perdeva la fiducia di tanta giovanile intelligenza fino a lasciarne umiliare il già prestigioso segretario nazionale, come non sospettare un ribollire carsico di rabbia sociale, (e, vorrei dire, antropologica) che prima o poi avrebbe rotto la fredda crosta della “normale” dialettica politica per attingere, sotto cieli di clamore e tempesta, obbiettivi di sangue? Nessuno che abbia puntato il dito nella direzione giusta e suggerito, non dico soluzioni sicure, ma almeno tentativi di soluzioni appropriate. Quale direzione? Quella che stava sotto gli occhi di tutti e che pochi, nella classe di governo, vedevano chiaramente, pur non parlandone con altrettanta chiarezza: la sproporzione vergognosa fra i due eccessi eterni della sventura umana non-stop chiamata storia: i ricchi e i poveri. E soprattutto, dentro lo schema binario, i troppo ricchi e i troppo poveri: tra questi poli troppo divaricati si chiude la tormentata fascia delle variegate differenze. Nella quale s’incontrano figure di un sabba sociologico mascherato da carnevale: le infinite ingiustizie dei potenti e prepotenti a danno dei deboli e impotenti; degli armati di leggi avvocati giudici compiacenti e felloni manipolatori del sacro giure a scorno dei disarmati assoluti. L’immenso “contenzioso” della competizione economica spregiudicata, del libero mercato che mai è stato né libero né ben regolato in rebus a vantaggio di tutti e a salvaguardia dei deboli; della corruzione tangentizia, mafiosa, confessionale e via colorando che pesava sulle categorie indifese come macigno di sofferenza disagio malattie mal curate emarginazione e morte. Non c’era, e non c’è mai stata, nella logorrea delle competenze politico-accademiche moderate, un’ipotesi logica di disintossicazione dalla rabbia sociale perché mai c’è stata, nei luoghi deputati, la diagnosi severa e sincera, la visione disappannata dell’eterno conflitto sociale. Chi quella diagnosi e visione lucida ha realizzato non ha avuto i mezzi, le armi, le solidarietà e benefiche complicità per trarne frutti di realtà pacificatrice. E quando ci si è avviati verso la risoluzione del problema, le conseguenti rivoluzioni in marcia, o sono state annegate nel sangue degli svantaggiati dai signori del denaro e delle armi, o sono arrivate alla meta largamente metamorfosate in dispotismi attendisti di esoso prezzo carnale. Salvo brevi “primavere dei popoli” e parziali rimedi a questa o quella stortura slivellante di vita materiale. Il pendolo della storia oscilla sempre sullo stesso piano, come i pendoli materiali.
Le giustificazioni morali non mancano: vuoi combattere la tigre? Fatti tigre. Non hai gli artigli e le zanne? Fabbricati le protesi: il sub-cervello giurassico è fertile laboratorio equi-diffuso e sempre pronto all’uso ragionato. A che servirebbe, se no, l’Idea? Ma quali dovrebbero essere i tentativi di soluzione del millenario problema, drago replicante di coriaceca vitalità? Semplice: costringere i ricchi a sputare una congrua parte del loro superfluo a vantaggio dei poveri; realizzare un fisco capace di raccogliere le forze finanziarie necessarie a creare lavoro, assistere quanti menomazioni e malattie dalla bramata fatica escludono, garantire un livello di esistenza decorosa ai molti pensionati, fin troppo sovente uccisi di morte lenta dall’incuria delle istituzioni, ricche, magari, di sonori appelli quanto avare di coerenti iniziative in medias res. Non è facile, la ricetta? Vedo il sorrisino ironico degli esperti, i teologi della nuova scienza sacra, l’economia algoritmizzata, computerizzata, e molto, molto scientifica. Che però non solo non evita i disastri finanziari e relative code, ma se li assicura con una periodicità random ma infallibile. La quale, in certi casi, finisce (per fortuna) col travolgere anche i barracuda responsabili. Perché “fortuna”? Ma per dare un tonico agli sconfitti cronici di quella tale “scienza” (tanto spesso coronata di premi Nobel, esperti in previsioni fallite).
Scienza sacra, l’economia? Anche San Tommaso sosteneva la possibilità di una vera scienza del sacro: bastava accettare i dati della Rivelazione, e tutto il rigore logico ereditato dalla sillogistica aristotelica era a disposizione. Massimo rigore assicurato. Indi, la teologia “scienza sacra”. Il solito ossimoro della fede religiosa. Quali, i “dati rivelazionistici” della nuova scienza sacra? E donde vengono? Non c’è penuria di fonti e sorgenti: il dotto di fede religiosa alza gli occhi devoti al cielo: da lì scendono gli elementi di qualunque verità, dunque anche di quella economica. I laici non credenti sorridono alla Natura: esistono invano i “diritti naturali”? E via con l’elenco: vita, felicità, libertà, concorrenza... Titolare della splendente corona è l’individuo, piccolo sovrano con diadema assiologico garantito. Credenti o sedicenti atei, gli specialisti dell’Eco sacrale di tendenza liberista finiscono col trovarsi d’accordo su quei dati primari, tra i quali l’egoismo individuale trova onorevole posto di propellente dinamico, purché moderato da regole e limiti referenti a quei fantomatici diritti naturali. Con questa sorta di ossimoro s’ingegna di fare i conti la scienza sacra seconda. Ne scaturisce la massima della sintesi liberal-liberista: “la mia libertà finisce dove comincia la tua.” Un modo maldestro, in fondo, per enunciare l’“equilibrio degli egoismi”. Una postulazione, a sua volta, che mescola lucidità e contraddizioni.
Nessun liberal-liberista di rango avverte la contradizion che nol consente: quella Natura maiuscolata è solo la brutta (o la bella?) copia del vecchio Dio barbuto. La natura effettiva conosce solo gli egoismi della fame moltiplicata. Capace di qualunque efferatezza, lei, primum movens universale del bios terrestre. Certo, anche di calcolo e spostamenti che consentono temporanei accordi, patti collaborativi e altro raro secreto traspositivo (o sublimante) della violenza (originariamente trofica) in forme e livelli incruenti. In rari casi, non garantiti, anche con reciproca sodddisfazione dei contraenti. Ma è una possibilità accerchiata dalle irsute forme grezze della tendenziale bulimia filogenetica: roba per pochi, questa vocazione alla ragionevole distribuzione del cibo (inteso in tutte le trasposizioni possibili); dunque all’accordo, al cosiddetto dialogo, alla reciprocità rispettosa. Roba per minoranze sempre a rischio. Insomma, la storia umana, in generale, non mostra molta disposizione negli umani verso l’elevazione traspositiva dei naturali appetiti e il controllo quantitativo delle forme immediate e materiali. E la politica attuale dove più dove meno, nei Paesi del pianeta, offre un campionario inesauribile di fame poco evoluta, di ingordigia violenta e assassina. Che produce l’altra fame, quella (immediatamente biochimica) dei disperati, la fame divoratrice che consuma, lenta, corpi fiducia speranza. La fame dei privilegiati mammonici non gradisce queste sequenzialità sbugiardanti: tipo, denutrizione, collasso dei sistemi immunitari, malattie, angosciose agonie, morte.
La cronaca apolitica non contraddice l’andazzo largamente prevalente su ogni sforzo e successo di fame disciplinata. Che significa auto-limitata, anche nelle sue trasposizioni morali, culturali, edonistiche: l’etica non pretende di meno né di più che questa autolimitazione appetitiva funzionale alla possibilità di una convivenza pacifica (o soltanto competitiva senza stragi di guerra e malavita) delle varie comunità, locali, nazionali e internazionali. A lume di teoresi, una bazzecola: alla fosca luce dei fatti (storia e quotidianità della cronaca) un’utopia. Uno dei paradossi del monstrum homo sapiens: tanta neocorteccia e così poca capacità autoregolatrice. Come, e del pari: tanto ingegno scienza genialità inventiva di prodigiosa tecnologia messa (umiliata sprecata pervertita) al servizio della stupidità autodistruttiva del mammonismo brado: che viene trionfando con l’invenzione di armi sempre più schifosamente inquinanti e barbaramente crudeli, e che sembra avviare questa bella d’erbe famiglia e d’animali a un esito finale pantoclastico. Un aspetto ancora poco esplorato dalla trattatistica tecnologica è la crescente elefantiasi dei rifiuti (di ogni genere, da quelli quotidiani e domestici a quelli industriali meno inquinanti, da questi a quelli delle industrie rovinosamente avvelenanti. Fino alle scorie radioattive delle centrali nucleari, destinate a moltiplicarsi per prevedibile crescita (forse esponenziale) della fame di energia nel pianeta dei prossimi giganti industriali in gara con gli Usa. Per esempio, Cina e India. Ma altri ne spunteranno.
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Circola una meteora, nei cieli cartacei ed elettronici della Grande Opinione diffusa, la comoda convinzione che la violenza sociale stia soltanto negli spari dei gruppi armati: si ignora (o comodamente si finge) la violenza senza spari, silenziosa e mascherata, che privilegiati di ogni risma e cosca esercitano su masse di reietti sguarniti, di altrettanti generi e specie. La violenza senza piombo non uccide meno degli spari disperatamente vendicativi: uccide con la disoccupazione prolungata, con gli incidenti sul lavoro (da noi, tra quattro e cinque morti al giorno), con i super-stipendi dei manager bulimici che guastano il fegato agli operai e impiegati e insegnanti e pensionati mal-pagati malnutriti malcurati; ai disoccupati e licenziati cinquantenni e ultra. Ma da un paio di anni anche giovani, e qualificati. E via seguitando con la carne individuale delle categorie a rischio; con leggi decreti regole imposte ad esclusivo vantaggio di parlamentari ministri amministratori pubblici direttori e relative corti di gregari e sottoposti di vario grado; con lo spreco sistematico del pubblico denaro per opere inutili e mega-incompiute (quante!), compensi a sterili parassiti impiegatizi (quanti!); con i finti concorsi a posti pre-assegnati e gli stratagemmi per eludere gli esiti sfavorevoli dei referendum popolari; con le mille furbate (a dirla in dipietrese) per neutralizzare norme di freno e limiti allo sbafo politico-burocratico. E via celebrando. I volti della violenza sono tanti, ma se ne addita uno solo: così conviene alle cosiddette classi dirigenti, così alle tracimanti folle di clientes del raggiro altolocato, così a tutti i minacciati dall’ira armata. A sua volta, peraltro, sterile in esiti appetibili di lungo corso (e perfino maldestra nella selezione dei bersagli).

Nessuna proposta di porre rimedio a queste piaghe purulente delle diseguaglianze scandalose; nessuna denuncia vibrata continua coerente degli abusi, dei compensi faraonici, dei profitti e delle rendite godute egoisticamente da singoli gruppi lobby famiglie. Tutte iniziative che ci si aspetta dalle formazioni popolari, partiti o sindacati. Che, sì, conoscono momenti di reattività fortunata, ma appaiono inetti ai lunghi percorsi coerenti, alla vigilianza continua sulle strategie dei paperoni disposti a tutto. Si sono battuti, i sindacati, con costanza e coerenza nella feconda stagione dell’Autunno caldo; hanno ottenuto il famoso (per i padroni famigerato) Contratto dei lavoratori e altre buone cose, ma non hanno saputo impedire un riflusso moderato di varia paternità e sempre funzionale agli eterni privilegiati, al loro recupero di potere e combattività. Sono mancati gli uomini giusti al posto giusto. Con tale riflusso siamo entrati nell’era del globalismo, e non mancano, anzi si sprecano, i suoi apologeti: che, impudicamente, annunciano, mentendo, progressi per tutti, e perfino vantaggi speciali per i poveri, per i paria del mondo. Ma ti conosco mascherina, come si diceva un tempo negli spensierati carnevali di lusso: è la solita spudorata bugia. Il bene, i vantaggi sono stati sono e saranno sempre per pochi nella giungla della competizione selvaggia; e i molti, i più, continueranno a pagare per i pochi. Non saranno casi sporadici, in seno alle masse dolenti, di intraprendenza fortunata o di laboriosità assistita da benefattori a mutare l’evidenza effettuale nel suo “core” di macigno, a scalfire incisivamente l’inerzia millenaria del suo ripetersi lungo i secoli e i loro turpi salassi.
E finché dura questa situazione, le Brigate rosse potrete sconfiggerle mille volte, ma torneranno sempre. Sotto altri nomi sigle programmi illusioni, forse, ma torneranno. Voi risponderete ostinatamente con polizia tribunali carcere proiettili e magari torture. Nonché eloquenti editoriali della stampa magna vergati da ben foraggiati “specialisti” del moderatume sofistico, che non degnerebbero di uno sbadiglio parole come queste, gridate nel deserto. E la storia si ripete: cambiando maschere e costumi, armi e teoremi, ma conservando la stessa tortuosa materia e realtà carnale.
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E bravo: ho scritto il mio comizio. O più verosimilmente, il testo di una conferenza (im)possibile. In verità, tentavo, cominciando, di accennare soltanto allo sfondo delle mie vicende susyniche. In particolare, avrei voluto segnalare il tipo di discussioni che si facevano nelle mie ore dedicate all’attualità. Sulle sei ore per classe (tre per filosofia e tre per storia) una alla settimana, in media, la riservavo all’educazione civica (sono stato sempre l’unico a insegnarla, tra tutti i colleghi delle mie materie nelle varie scuole dove ho lavorato: varie, ma sempre licei classici, dal mio ritorno in Sicania). Nell’ambito dell’educazione civica una settimana sì e una no, si leggevano quotidiani o periodici in classe, si commentavano editoriali e opinioni, cronache e inchieste. Non era facile tagliare per selezionare nella strabocchevole massa di eventi, ma bastava l’assaggio per stimolare interesse. Si riusciva a coinvolgere anche le ragazze, fisiologicamente meno inclini ai travagli della politica. Non volevano fare la figura delle superficiali agli occhi dei compagni di classe. I quali, negli anni Settanta e Ottanta, erano, nel mio corso, divisi in gruppi fieramente contrapposti, dal Pci al Msi. Con qualche dilatazione verso gli “opposti estremismi” extra-parlamentari. Figurarsi le vibrazioni in aula degli accesi dibattiti. E dicono che il nostro è un mestiere facile! Ma forse mi sto ripetendo.
Sì, l’intento originario era questo. Poi gli argomenti ti prendono la mano e perdi il senso della misura. Se rileggi per tagliare, magari ti accade di aggiungere altra eloquenza, tant’è pletorica e veloce produttrice del nuovo la cronaca politica e criminale. E così accade che cancelli un rigo e ne aggiungi due e tre.
A volte ci si sente schiacciati da tanta profluvie. Allora si tentano vie di salvezza, si predicano calma e indifferenza buddiste, per sé e per gli altri, si guarda agli astri lontani (come suggeriva il caro schietto geniale vecchio Bertrand Russell) per ridimensionare il peso dei fatti terreni e personali. L’esito? Brevi sospensioni della tensione appetitiva su bersagli prossimi. Nient’altro. Ma tanto utile.
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Frugando nella giungla dispersa dei miei libri variamente (e multispazialmente) collocati, m’imbatto in un testo che giaceva nel buio degli spazi fuori mano da un paio di decenni. Sfogliandolo, in ammirazione delle molte foto raccolte al centro dei due masselli di pagine, vengo legiucchiandone qualche capoverso. Mi si risvegliano lontani ricordi e mi si accende alle sinapsi il focherello dell’interesse. Breve: l’ho letto e ora sono costretto a ritornare al luttuoso, affastellato, lugubre 1978. Si tratta di un altro capitolo di quel dramma storico: minore, rispetto al “caso Moro”, ma non privo di un esito tragico differito. Insomma, sto parlando del “caso Macondo” e del suo resoconto-zibaldone, appunto il volume che ne porta il titolo (Sugarco edizioni, 1978). E che raccoglie testimonianze molto varie e di garantito interesse molteplice. A cominciare dall’intervista del suo maggiore personaggio, Mauro Rostagno, ricca di dati fattuali quanto di emozioni calde e frizzanti.
“Macondo” è il ‘luogo magico’, allegramente divergente, di una Milano affannata tra perbenismo borghese di vario livello, affarismo garantito, industrie in forse e a pieno vapore, conformismo disturbato. Tra le varie tendenze del plurimo disturbo si colloca Macondo: uno spazio di quattro stanze trasformato in una girandola di esperienze slegate da qualsiasi regimentazione e monolitismo ideologico. Vi era un ristorante, vi si mangiava e beveva a prezzi accessibili anche alle tasche meno abitate. Vi si faceva musica: varia, “giovane”, dal vario Rock alla lirica. Vi si tenevano liberi incontri culturali e conferenze programmate sui temi più “a giorno”. Si studiava liberamente quel che piaceva. Si ballava, anche. E qualcuno ci fumava uno spinello.
Macondo è il nome della fiabesca città dei “Cento anni di solitudine”, il romanzo cult di un paio di generazioni. Nel suo personale gusto di mescolare realismo puntuale e fiammate di fantasia sfrenata, Gabriel Garcia Marquez fa della città un’oasi di attivismo frenetico e fortunato per poi condannarla, dopo anni di benessere diffuso, alla malagrazia della scalogna annientatrice “sotto la specie” di una ininterrotta pioggia di durata pluriennale. Cerchi il lettore le (eventuali) corrispondenze fra la mitica città sudamericana e il mitico, ma più reale, Macondo milanese.
Questo “luogo magico” si guadagnava l’attributo per l’assoluta mancanza di mutrie e zavorre: ogni esperienza vi trovava spazio. Ogni esperienza socialmente compatibile con la convivenza e la compresenza: niente di criminale. Uno spazio “alternativo” – come si soleva dire a quei tempi. Ma non vi si spacciava droga: né leggera né, tantomeno, pesante. Eppure la facile impressionabilità della “gente” (con doppia o tripla g) si lasciò andare a una vieppiù sospettosa riluttanza verso questa sorta di allegro, vitalissimo caravanserraglio. E da questo humus spuntò la leggenda dello spaccio: al Macondo si fumano droghe pesanti e si spacciano. Ipse dixit: un ipse di massa. Grezzo, dunque. Ma coniugato con un allerta mediatico scampanante: dalle tivvù alla carta stampata. E qui, dal destrifero “Tempo” all’Unità, vestale perbenista della sinistra “inquadrata”, che non concepiva salvezza fuori dalle sue vergini mura.
Uno scherzo, un innocente gioco goliardico fu eretto a suggello della certezza avvelenata. Avevano fatto stampare, quei giocherelloni, dei finti biglietti del tram con sù la scritta: “Vale uno spinello”. Tanto bastò. Le forze dell’Ordine sociale, i custodi della moralità pubblica, i pretoriani improbabili della pace familiare ammucchiarono una muraglia umana di adamantina resistenza al Disordine, e l’arresto scattò, puntuale e grintoso. Tutti i presenti, in gattabuia. Retata apocalittica, uno spiegamento di forze da scontro bellico. E poi ci fu il processo. Clamoroso, medializzato al parossismo, concluso con una sentenza a suo modo comica, che “assolve tutti gli imputati dalle imputazioni di cui al capo B), perché il fatto non sussiste, e al capo C), perché il fatto non costituisce reato”. Come dire: assoluzione dalle imputazioni più pesanti, condanna per inezie che comportano pene irrisorie e sospensione della pena. Era il 10 Marzo 1978. Mancavano sei piccoli giorni a un vero crimine, a un verace strappo tragico al tessuto “pacificato” dell’ordine sociale: la strage della scorta e il sequestro di Aldo Moro. E 61 giorni al compimento di quel dramma d‘insanguinata autenticità. Cui misero mano parecchi custodi del pubblico Bene. E della privata Morale. Ut supra dixi.
Dare una pur veloce idea della varia bellezza del libro non è possibile in questa occasione, e dunque non ci si prova neanche. Il massimo che ci sentiamo di concederci è la citazione di qualche brano di qualcuno dei tanti personaggi che hanno sentito il dovere-piacere di interrvenire sul fattaccio. Interventi diversi, anzi disparati, che scorrono dall’acrobatismo “reichiano” di chi la sa lunga sulla vera rivoluzione (tanto da degradare “Lotta Continua” a “gruppo controrivoluzionario”) come Mario Mieli (che spera in una palingenesi erotico-mistica seppellitrice del capitalismo), a chi scoprì in Macondo “un senso diffuso di solitudine e noia”, ma per fare denuncia contro il benpensantismo (“Questi sentimenti sono nella realtà. Non li ha inventati Macondo, che è nato per un fine opposto: per confrontarsi con questa realtà, per provarsi a cambiarla”. Parole di Melandri, Daghini, Gambazzi); da Pio Baldelli, che si compiace della sentenza sul locale (“ha chiarito senz’ombra di dubbio il valore morale e sociale dell’esperienza Macondo [...] mentre i giornalisti, di centro, di destra, ma anche di sinistra, non sono riusciti neanche un po’ a sospettarla. Al contrario. Hanno aperto un fuoco martellante nei suoi confronti”) a Natalia Aspesi, euforica per la riapertura del locale magico (“Il binomio droga e sesso questa sera non potrebbe scovarlo neppure il più cinico dei cronisti”, nemmeno “le migliori firme della deprecazione senza immaginazione”); dalla coriacea “Unità”, che liquida l’esperienza Macondo con spruzzi di fanatismo blindato, alla faccia della sentenza e del giudice Baldi che ne ha riconosciuto il sopra ricordato “valore morale e sociale” (“saranno i Fiorucci della disgregazione e adesso non si preoccupano neppure di girare troppo attorno alle accuse di managerialità abile e spregiudicata”) al pacato Giorgio Bocca, che riconosce e accusa a chiare lettere: “la faccenda non puzza soltanto di hashish, puzza di crudeltà e ottusità clericale da anni Cinquanta. Il metodo della denuncia è sempre quello dei comitati civici, dei cittadini timorati e sdegnati che spontaneamente scrivono o telefonano a poliziotti e a giornalisti per chiedere ‘la fine dello sconcio’ [...] Il cronista dell’ ‘Unità’ milanese, Cavallini, uno che ha perso la grande occasione di vivere negli anni della guerra fredda, descrive Macondo e i suoi seicento clienti come un luogo ‘squallido’, dove la politica viene mercificata e la fotografia del relitto Capanna venduta come souvenir. Il compagno Cavallini non deve essersi accorto in questi anni di quelle manifestazioni mercuriali che sono i festival dell’‘Unità’ in cui è stato mercificato tutto, persino il Ginseng coreano, sciroppo socialista di lunga vita, persino il Togliatti ridotto a portachiave di automobile.” Particolare che, detto dal più autorevole biografo del “Migliore”, fa un certo effetto. E continua, Bocca, a staffilare questo perbenismo zoppo.
“I frequentatori del Macondo, questa gioventù che non sa apprezzare le elettrizzanti serate della Fgci, è ovviamente ‘squallida’ e i drogati ancor più ovviamente ‘squallidi e disperati. E’ curioso come qualsiasi fatto sociale appena passa dai ricchi ai poveri diventa squallido. Negli anni Trenta prendere la cocaina in Italia era il massimo dello snobismo, un piacere da D’Annunzio e Pitigrilli; e tutta l’Italia snob e fascista si raccontava estasiata la storiella del cocainomane bolognese amico di Ciano che aveva drogato persino il ministro degli Esteri giapponese in visita, Matsuoka’”. Dopo aver confessato che, in mancanza di meglio (la rivoluzione ? Forse, ma vera) apprezzerebbe, dice Bocca, anche “una riforma puritana dello Stato”, precisando: “Puritana, non bacchettona o ipocrita, è chiaro. Ma siccome di questa riforma non si vede neppure un accenno, siccome i grandi ladri e i grandi riciclatori di riscatti da rapimento o di furti di Stato e i grandi evasori sono sempre tranquilli e impuniti, questa durezza e ferocia verso i poveri cristi ci lascia dubbiosi. / I giornali riportano senza un commento il fatto che al Macondo la sera della sorpresa c’erano seicento persone. Ma dove mai, e quando, a Milano un locale pubblico è riuscito a mettere insieme quasi ogni sera una simile folla? /Dunque il problema c’è, enorme, ci sono decine di migliaia di giovani che non sanno dove battere la testa, dove trovare compagnia, come socializzare. Il Macondo non era un luogo di delizia? Può darsi. Qualcuno ci fumava? E’ certo. Ma vogliamo far finta di non sapere che le droghe leggere sono quasi la norma e che quelle pesanti continuano a diffondersi anche perché servono egregiamente per deviare verso il sogno la contestazione giovanile?”
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Nell’intervista riprodotta nel volume Rostagno parla, anche, di un suo viaggio in Sicilia. Ne dice un gran bene, lo rievoca con parole e frasi vibranti di commozione multipolare: paesaggistica, estetica, etica. Fu la sua occasione ribalda. Innamorato di quella Sicilia affascinante, bella di mari spiagge monti e valli, città e cittadine, di paesoni alternati a paesini, gonfi di storia, di palazzi e piazze e chiese di un barocco seduttivo, eccetera, ma altresì, ma soprattutto malata di mafia, corruzione, pessima politica, e altro bene capovolto, ci tornò, vi mise radici, solidarizzò e collaboro con le giovani forze sociali del contrasto allo sfascio. Convinto, inebriato, attvissimo, parlò accusò denunciò, da televisioni locali, con coraggio (o incoscienza, secondo la filosofia della Prudenza). E fu chiamato a ingrossare la contabilità dei martiri. Piombo mafioso, si disse, in quel di Trapani (2). E nessuna coscienza sveglia ne dubitò.
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(1) In occasione della commemorazione per il 3O° dalla morte Pino Pelosi fu invitato all’idroscalo del crimine dal responsabile della Lipu, che bada alla cura dell’area verde lì protetta: “Pessima trovata” commentò Nardini, chiedendo chi l’avesse invitato. Convinto, invece, un altro amico di Pasolini, Giorgio Iorio: “Pelosi qui oggi? Pasolini ne sarebbe stato contento”. Pasolini divide ancora. Un titolo del Corsera e una sua pagina intera dedicata alle ultime novità (9 maggio 2005) dà la misura della serietà di questo revival di interesse: . Altro versante caldo del “affaire Pasolini” è quello che s’intitola da “Petrolio”, il romanzo incompiuto del Poeta (già ricordato in queste pagine) che sta conoscendo periodici risvegli di fiamma alimentati dal giallo aggiuntivo dei fogli smarriti, cioè del capitolo che più direttamente accusa Eugenio Cefis di corresponsabilità nell’attentato mortale a Mattei (“nel romanzo viene chiamato Bonocore, mentre a Cefis spetta il cognome, non proprio lusinghiero, di Troya”). Commentando un pensiero pasoliniano sul disorientamento possibile del lettore che accostasse il testo ancora grezzo (“il mio non è un romanzo a ‘schidionate’, ma a ‘brulichio’ e quindi è comprensibile che il lettore resti un po’ disorientato”), l’autore del più recente servizio giornalistico sul caso, Paolo Di Stefano, lo conclude con altri sospetti: “Forse non avrebbe immaginato che il disorientamento sarebbe stato accresciuto trentacinque anni dopo da troppe omertà. O dall’uso strumentale cui si presta un’opera ancora dolorosamente attuale” (“Petrolio”, il mistero in mostra [titolo]. Il caso. Il capitolo scomparso di Pasolini ritirato dalla manifestazione milanese. Il vero titolo: ‘Lampi su Eni’ [occhiello] Dell’Utri: ‘Non sarà esposto, ma l’ho visto: settanta veline con appunti a mano” [catenaccio], Corriere della sera, 12 marzo 2010) [Nota del curatore dei Documenti Assaggi].
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(2) Ma non senza il non eccezionale mistero su mandanti esecutori utilizzatori laterali e via affuscando. Nel 19° anno dalla morte, gli amici organizzarono un pubblico incontro. In rete si trova (fra l’altro materiale) l’annuncio della manifestazione, una foto del manifesto con il volto di Mauro e queste parole. “Ciao Mauro! VI edizione. Sabato 29 settembre 2007/ dalle ore 20.00/. [...] Trapani. /Proiezioni. Dibattiti, musica dal vivo”. Sopra il volto di Mauro, le scritte “Coordinamento per la Pace, Trapani” (a sinistra). “Cobas, Trapani” (a destra). Il testo [rigorosamente in microcaratteri, secondo il recente andazzo “dagli all’anziano”] comincia con questo brano: “Diciannove anni dall’omicidio di Mauro Rostagno. Uno dei tanti, troppi misteri della storia repubblicana, un delitto imperfetto, nella sua ricostruzione e nella ricerca della verità, sempre troppo lacunosa e parziale. Un continuo susseguirsi di depistaggi, di ambiguità e di tentativi di seppellire tutto sotto la coltre delle archiviazioni giudiziarie. / Mauro Rostagno era un personaggio scomodo, un giornalista che aveva conquistato la fiducia e l’ascolto dei trapanesi, un popolo da troppo tempo piegato dalla paura e dall’omertà. Difficilmente etichettabile, Rostagno lottava contro la mafia ma senza essere al ‘servizio dello stato’. Grazie a un linguaggio semplice e libero, denunciava il malaffare, la cattiva amministrazione della città e, più in generale, l’esistenza di un sistema di potere tanto marcio quanto consolidato. Sfidava la mafia e i padroni della città col coraggio dell’inchiesta e con il piglio dissacrante dell’ironia, come quando si punta il dito contro il re nudo”. Superfluo aggiungere, a questo punto, il seguito della storia, che infatti si annuncia con l’ “ovvio” più ripetitivo coriaceo costante nella pornostoria politico-morale della Sicania felix. Che comincia con questa lamentatio: “l’indignazione morale che aveva scosso Trapani all’indomani della morte di Rostagno, si è via via affievolita con il passare degli anni, e questa città è tornata a chiudersi a riccio, refrattaria a qualunque istanza di progresso civile e sociale. Oggi, a Trapani e in questa provincia, così come in tutta la Sicilia, la mafia continua a tenere ben salde le redini dell’economia, della vita pubblica e amministrativa, attraverso la spartizione di cariche e appalti, attraverso le intimidazioni, il racket, la speculazione edilizia, il capillare controllo sociale”.
Sempre nel Web troviamo un commosso ricordo di Gad Lerner, “Mauro Rostagno, vent’anni dopo”. ‘Sabato 27 settembre 2008’. Ne trascriviamo qualche passo. “Sono ritornato a Trapani dopo vent’anni. Ho posato il mio sasso al cimitero di Valdelice su quella tomba tra i melograni con la sagoma di Mauro Rostagno scolorita come il negativo di una pellicola. Passando dal bivio di campagna in cui tamponarono la sua Duna e gli scaricarono addosso otto proiettili la sera del 28 settembre 1988, siamo arrivati alla bellissima Comunità Saman trovandola deserta. E’ qui che vent’anni fa ci ritrovammo intorno al suo corpo vestito di una tunica bianca, masticando il dolore di una perdita intollerabile, solo pochi mesi dopo gli arresti per il caso Calabresi e dunquie un’accusa infamante rivolta a noi tutti ex di Lotta Continua [...] L’inchiesta ha subito intoppi, ritardi, deviazioni. Lo ha onestamente riconosciuto ieri ai giardini della Villa Comunale di Trapani il giudice Antonio Ingroia, che finalmente ha potuto annunciare l’imminenza di un processo per gli assassini di Mauro. Com’era chiaro fin dal primo momento, si trattò di un delitto di mafia. Ma siccome Mauro Rostagno era un irregolare, un sovversivo, un sessantottino, degli inquirenti obnubilati dal pregiudizio stentarono a riconoscerlo. Eppure lo vedeva tutta Trapani quello strano giornalista che trasmetteva filmati compromettenti e diceva il nome dei collusi in diretta tv.”[Nota del curatore dell’Eredità letteraria di Paolo Assaggi]

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