lunedì 10 maggio 2010

SUSANNA, frammento 66


Ci congediamo da Rostagno con questo flash indiretto e occasionale di autoesposizione (caratteriale, prima che morale per acquisizione culturale). Un passo tanto più congruente, nel contesto, in quanto coinvolge l’argomento centrale di questa coda sul caso Moro. Premesso che Rostagno, Curcio e Palmieri abitarono per qualche tempo una precaria casaccia pericolante rifiutata da tutti e priva del minmo comfort, ecco il giudizio del cofondatore di “Lotta continua” sull’amico finito nella lotta armata e sulle Br che la praticarono per tragica illusione: “Renato è una persona dolcissima. Io non capisco come oggi un ragazzo che aveva quel modo di innamorarsi di Margherita, quel modo di stare con gli amici, di scherzare, un’umanità profonda, amore per la natura, per i deboli, possa arrivare a dire che l’esecuzione di Aldo Moro è ‘il più alto atto di umanità in una società divisa in classi’. Le B.R. vivono in una bolla di sapone, sono un delirio perfetto. In questa bolla di sapone nessuno stimolo esterno può penetrare, ma lì dentro c’è solo una parte di loro, della loro esperienza, del loro cervello e hanno rimosso tutto il resto. Sono diventati dei tecnocrati della rivoluzione. ‘Abbattere la società divisa in classi’ non credo sia la cosa più importante della vita. Assolutamente. Certo una società divisa in classi giustifica lo scontro delle classi, ma non capisco cosa abbia a che fare questo con la soppressione fisica di un corpo, con i suoi desideri, i suoi bisogni. Io mi ritrovo fratello di Moro. Non fratello nella sua attività repressiva, nel suo delirio di potere, nella sua formazione culturale, ma nella paura della morte, nel senso profondo della voglia di vivere [...]. La sua soppressione è un tentativo di sopprimere anche me che non sono democristiano e non sono oppressore. Bah”
Questo strano giovane vitalista dice di temere la morte e si va a ficcare in una situazione che la morte, non che scansarla, la chiama, la provoca, la “prenota”: nella coerenza barbarica del bersaglio polemico stuzzicato. Si coglie un fiato di retorica buonista in quell’associazione del “moi” personale con l’identità, sia pure soltanto umana, del politico Moro assassinato dalle Br. Nè manca, quel soffio, nella semplificazione che immagina il Vietnam liberato dalla ferocia genocida degli Stati Uniti come “un gulag”, il comunismo della “repressione” cecoslovacca come “un’altra forma di dominio”, il marxismo come “un’altra ideologia totale”; e via semplificando. Dove difetta un equilibrato senso della realtà effettuale. E la conseguente attitudine al confronto tra un “prima” e un “dopo”. Che nei casi in questione non deporrebbe per la preferibilità del “prima”. Quale “prima”, nel Vietnam artificiosamente diviso, ingannato, demolito bruciato avvelenato dalle porcherie americane (come abbiamo già ricordato avanti). Forse il candido Mauro pretendeva che Hanoi ricevesse su tappeti infiorati i vari Quisling miliardari e torturatori di Saigon–Gomorra? Quanto alla Cecoslovacchia, come sottrarla alla “logica di Yalta”? Ma anche qui rimandiamo a quanto già scritto in queste pagine.
Naturalmente il parziale dissenso non spegne la simpatia che ispira questo scavezzacollo complicato e contraddittorio (capace di provocare tanto allegre scazzottate goliardiche quanto successi universitari da trenta e lode). Anzi, ne riproduciamo un passo sul ’68, completo di annessi e connessi, personali e (soprattutto) pubblici e collettivi. Eccolo. “Il ’68 è l’anno che mi fa incontrare Silvia, una ragazza bellissima di origine cecoslovacca, e di lingua tedesca. Per tutto il tempo che siamo stati insieme abbiamo fatto la fame più nera e siamo stati insieme un po’ di anni. Senza averlo mai deciso. / Il ’68 lo chiami ‘sessantotto’ perché è un fenomeno sociale che percorre milioni di persone. Però il ‘sessantotto’ lo puoi avere ogni giorno, lo puoi avere quando ti innamori. I movimenti sono come gli innamoramenti, dice Alberoni. Ripensare al ’68, al Vietnam, è una cosa pazzesca, un delirio, pensare a cosa ha significato il Vietnam come elemento di liberazione delle coscienze e cos’è il Vietnam oggi: un ‘gulag’. Ancora una volta ha prevalso il terrore socialista, un’altra forma di dominio. Il comunismo al potere è altrettanto terrificante dell’imperialismo. La Cecoslovacchia, i carri armati russi, Ian Palach, il cavaliere solitario contro il Moloch. Non me ne importa nulla se tu porti o no l’ideologia del lavoro, se sei Carlo Marx. Se arrivi con i carri armati e mi schiacci sei un nemico. Il marxismo è un’altra ideologia totale. Basta guardare la faccia di gente come Breznev che hanno stampato sopra tutto il delirio, la brutalità, la ferocia del potere allo stato puro”. Un’analisi frettolosa, anzi una non-analisi a motrice emotiva, impulsiva. Per esempio, quegli “schiacciamenti” non ci furono affatto. Che poi l’ideologia in quanto tale sia esposta alla tentazione totalitaria, è una possibilità inscritta nella “natura umana”. Qualsiasi ideologia: un modello insuperato di quella tentazione realizzata resta la Chiesa cattolica, dai terrori medievali e controriformistici dell’Inquisizione alle tentazioni ripulite, sia pure, dalle sataniche sevizie corporali ma ancora oggi petulanti e barbare. “Dai terrori medievali”, dicevo: in verità, ho fatto, così, un involontario sconto al fanatismo torturatore e assassino del proto-cristianesimo. Basti pensare al caso Ipazia, la filosofessa neoplatonica: uccisa fra atrocissimi tormenti dalla blebaglia cristiana aizzata dal vescovo Cirillo (fatto santo, poi, dalla generosa Chiesa dai facili altari). Né quanto accennato sulla Chiesa oblitera l’universalità del fenomeno religioso in fatto di violenza fanatica. O di sacrifici umani. Le ideologie sono le scimmie della religione: vivaio di “maiuscole” (diceva Gulizza, che le faceva uscire tutte dalla “pancia della D”, iniziale di Dio. Di qui, il dovere di giudicare dai comportamenti effettivi del caso per caso. E della distinzione contestuale: un imperativo, sine qua non justitia.

Su Praga, nel contesto storico, è ancora valida, e molto istruttiva, la polemica (peraltro garbata) fra due intellettuali, due famosi scrittori: “Günter Grass e Pavel Kohout, Dialogo con Praga” (De Donato Editore, Dissensi 23, 1969). Si tratta di uno scambio epistolare serrato, che mette in campo tesi e malintesi pacatamente, lontano dal veleno ideologico. Una sorta di “botta e risposta”, ben calibrata, senza mutrie e rigidezze, dove i malintesi vengono chiariti e le divergenze ridimensionate con vantaggio della verità effettuale e del fair play. Che è come dire: una visione di contestualità e confronti rigorosi fra vantaggi e sacrifici, rinunce personali e acquisti collettivi, spirito di sacrificio individuale e garanzie sociali. E soprattutto, un inchino alla forza perentoria della Necessità: magari dolente, a volte, per i prezzi severi che può imporre alla contabilità umanistica del successo e della vittoria. Beni, peraltro, mai garantiti erga futurum (1).
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Ma ritorniamo al Rostagno vitalissimo e contraddittorio, che è capace di stupirci ancora. “Nel ’68 avevo già dato gli esami e tutti con trenta e lode. La mia tesi verteva sullo sciopero generale, con una parte storica e una teorica. La parte teorica riguardava il dibattito all’interno della socialdemocrazia tedesca [...] Devo dire che non me ne fregava niente della tesi, infatti mi sono laureato nel ’70. Era il regalo che facevo a mia madre, ormai moribonda”. Una madre sensibile e moderna, che approvava l’impegno politico del figlio: “era una mia tifosa, ha conservato tutti i ritagli del ’68. Era contenta che mi battessi per i poveri, per i giusti”. Si può deludere una tale mamma? Il bravo figliuolo decide di laurearsi. Ma sorge un alt grosso come un macigno su quella strada così teneramente filiale: “La notte prima fui sequestrato dai ragazzi della università, da quelli di Lotta Continua, che mi tennero sveglio dicendomi che non dovevo laurearmi. Dicevano: ‘Tu, proprio tu ti laurei! Dai un esempio di disfattismo politico’. Io non avevo il coraggio di dire che mi volevo laureare perché così facevo contenta mia madre. Non era politico. / La mattina dopo è stato uno show. Italo ha fatto pagare il biglietto d’ingresso a tutti. Ne parlarono i giornali: Rostagno che tornava a Trento; c’era tutto il corpo accademico schierato, le autorità cittadine. La sala era piena. Si respirava la classica atmosfera mondana. Fra i professori c’erano Bobbio, Alberoni, Andreatta. Il relatore si alza e bla bla bla. ‘La parola al redattore’. E io seduto. Non mi alzo. Panico, tensione, silenzio. Lentamente il professore ripete. Niente. Io vedevo mio padre e mia madre che mi guardavano allibiti. Poi dai banchi della commissione hanno cominciato a dire: ‘Proprio lei che ha sempre sostenuto la politicità dell’università, della cultura, adesso ha un’occasione per dimostrarlo e sta zitto’. Bassa provocazione che raccolsi interamente. E cominciai. ‘Di questa tesi non potete discutere. Dello sciopero possono parlare solo gli operai, quelli che lo fanno, non voi che siete ciechi e che state seduti a tavolino’. Una tirata da bassa demagogia, da ridere. Poi ho tirato fuori un’immagine di Sartre: ‘Per voi la cultura è una gigantesca mangiata e cagata, la cultura è un gigantesco processo defecatorio di cui non resta nulla. Vivete in una città e non conoscete nulla della gente che vi abita, non vi accorgete delle stagioni, non passate mai il vostro tempo in un prato. Siete diventati dei funzionari. Cosa volete capire del mondo’. E via di questo passo. Risultato: 110 e lode e bacio accademico”. A volte i macigni si spostano. O si scavalcano!
Mentre estraggo dalla matrice del sensato pessimismo la timida speranza che la pulsazione frizzante di queste citazioni ne possa riscattare l’ingombro, riporto ancora qualche passo sul momento creativo della discesa in campo diretta: “Sono venuto via da Trento e mi sono trasferito a Milano con amici con i quali ero d’accordo nel modo di pensare la politica. A Milano abbiamo fondato Lotta Continua. Ho fatto la mia prima esperienza come direttore del giornale ‘Lotta Continua’ quando ancora era un quindicinale e conduceva la campagna di smascheramento della ‘strage di Stato’. La direzione del giornale l’ho tenuta per sette, otto numeri e ho avuto occasione di fare delle amicizie molto belle, per esempio con Pier Paolo Pasolini, Marco Pannella, Marco Ferreri, con il quale avevamo deciso di fare un film per finanziare L.C. perché le sottoscrizioni non bastavano. A questo film, che non si è mai fatto, avrebbe dovuto partecipare Vanessa Redgrave”. Peccato. Questo folletto irrequieto fa politica a modo suo: volantinaggio in condizioni crono-climatiche di sofferenza (“sveglia la mattina presto per arrivare alla fabbrica alle 5 [...] nella nebbia, nel freddo con gli operai che scendono dalle valli, che cercano di dare pizzicotti alle ragazze e che chiedono ‘che ci fate, chi vi paga’”), concerti rock e pop, qualche bicchierino termogeno, il giornale che ospita recensioni musicali. E così via, di passo svelto e di corse senz’altro. “L’immagine che ho avuto io, nel partito, nel ‘movimento’ e nella sinistra in generale è quella di uno che in quegli anni di assatanamento marxista, di operaismo sfrenato, parlava di Jimy Hendrix, di droga, di religione. Io ho vissuto tutti questi anni come un delirio, un innamoramento prima di me stesso e degli altri, poi della classe operaia fino ad arrivare alla paranoia più totale”. Evviva la sincerità. Che continua con il foglio di battaglia “Re Nudo”, la campagna contro il caro-concerti, qualche scontrarello con la figura d’obbligo di certe ‘recite’: “Si può dire che è proprio grazie al mio amore per la musica e ad un concerto dei Led Zeppelin finito con uno scontro con la polizia, che conosco Chicca e – violini sullo sfondo – faremo insieme Maddalena”. Cioè, l’amatissima figlia, così presto orfanizzata dall’eroica (altri dirà imprudente ) irrequietezza paterna.

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L’anno culmine del novennio ospita ancora tanti orrori, che lo sbadiglio di una discrezione stanca consiglia di sottacere: ma come soffocare nel silenzio quello che più mi bruciò e che più da vicino mi s’intreccia con i fatti personali qui serviti? Si vuol dire l’assassinio del generale Dalla Chiesa, da cento giorni appena prefetto della mefitica Palermo (inutilmente onusta di storia e cultura). E mette conto narrare qui il contrasto sconvolgente con l’innocenza vacanziera del contesto in cui appresi la notizia. Come ho già accennato, mi trovavo in Calamagna in quel settembre, a trascorrere, con la famiglia, una non lunga vacanza marina dopo la fatica degli esami di maturità che mi avevano impegnato nel liceo classico zefirese. Abitavamo nella “casetta verticale” degli ex padroni di casa, a Siderato, il mio “paese della memoria”. Erano stati gli stessi proprietari a offrircela gratis per quella vacanza. La mattina del 4 settembre ero fuori casa per la solita passeggiata protolucana, e passavo, rincasando dal lungomare, in una di quelle viuzze a fondo naturale che portano dalle strade principali alla spiaggia. Da una di quelle porticine di povera casa terrana si affaccia una popolana di mezza età gridando. “Hanno ammazzato il generale Dalla Chiesa”. Lo stava dicendo a me, unico passante in quel momento. Quasi gridando, come per togliersi un peso troppo grande dal cuore colpito. Ne ebbi un colpo da trauma: “Ma cosa dice, signora? Impossibile!” “L’ha detto or ora la televisione, ne sta ancora parlando.” “E quando…?” “E’ successo ieri sera, a Palermo, un agguato di mafia, hanno detto”. Continuai a sperare in un malinteso: una popolana d’età poteva aver capito male, saltato qualche parola, equivocata una frase, chi lo sa. Assurdamente confuso, annaspavo tra dubbi e speranza. Il fatto è che non mi ci raccapezzavo: a quel punto eravamo? A quel grado di infermità degenerativa avevano portato l’Italia? Il martello di quel crudele choc batteva sul cervello smarrito: per me Dalla Chiesa doveva rappresentare il baluardo inespugnabile della lotta contro il drago mafioso. Una specie di punto fermo nel riscatto dello Stato fellone. Ed eccolo lì, cadavere crivellato di colpi, insieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, dentro una macchina non blindata, colpi come tante bestemmie contro ogni residuale correttezza etica umana logica (vorrei dire), come definitive lacerazioni delle estreme speranze. Ancora una volta il tradimento e la viltà mammonica avevano fatto lega per massacrare ostacoli istituzionali in carne umana e spegnere le coinvolte illusioni della guaribilità. Dopo quel delitto, mi aspettavo di tutto e di peggio nella nostra malcucita Italia unificata. E prevedevo come confermato teatro delle nuove sciagure la bella Sicania, che “caliga, non per Tifeo ma per nascente solfo”: sì, di natura e di lupara. Come puntualmente accadde.
Mi trovavo nel “luogo” per eccellenza, quello che mi aveva fatto incontrare Susanna al compimento del novennio nero: come è sadica la vita a intrecciare cose tanto divaricate, distanti, contrapposte. Reciprocamente repellenti.
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Trascrivo una lunga citazione dalla mia agenda di quell’anno. Quasi una sosta di recupero dal debordare delle emozioni risvegliate.

“Era una succursale intima della via di Poitiers: vi incontrò il grande M.A., l’illustre B. il profondo C., l’eloquente Z., l’immenso Y., i vecchi tenori del centro sinistra, i paladini della destra, i burgravi del giusto-mezzo, gli eterni burattini della commedia. Fu sbalordito dal loro orribile linguaggio, dalle loro piccinerie, dai loro rancori, dalla loro malafede: era tutta gente che aveva votato la Costituzione e ora si dava da fare per demolirla; e si agitavano molto, lanciavano dei manifesti, dei libelli, delle biografie, quella di Fumichon, fatta da Hussonnet, era un capolavoro. Nonancourt si occupava della propaganda nelle campagne, il signor di Grémonville coltivava il clero, Martinon cercava di conquistare i giovani borghesi. Ognuno secondo, i propri mezzi, si diede da fare, perfino Cisy, proprio lui. Pensando adesso alle cose serie, tutto il giorno faceva giri in calesse per il partito. /Il signor Dambreuse, come un barometro, rappresentava sempre l’ultima variante. Non si poteva parlare di Lamartine senza che lui citasse il motto di un uomo del popolo:’Basta con la cetra!’ Cavaignac ai suoi occhi non era ormai altro che un traditore. Il Presidente, che lui aveva ammirato per tre mesi, cominciava a scadere nella sua stima (non gli trovava ‘l’energia necessaria’); e siccome gli occorreva sempre un salvatore, la sua riconoscenza, dopo l’incidente del Conservatorio, andava a Changarnier: ‘Grazie a Dio, Changarnier...Speriamo che Changarnier...Oh! non c’è niente da temere, fintanto che Changarnier...’ / Veniva esaltato soprattutto il signor Thiers per il suo libro contro il socialismo, nel quale si era palesato tanto pensatore che scrittore. Si facevano grandi risate su Pierre Leroux, che citava alla Camera passi di filosofi. Si facevano delle battute sulla coda falansteriana. Si ansava ad applaudire la ‘Fiera delle Idee’, e si paragonavano gli autori ad Aristofane. Frédéric ci andò, come tutti. /Le chiacchiere politiche e la buona tavola intorpidivano il suo senso morale. Per quanto mediocri gli apparissero quei personaggi, era fiero di conoscerli e intimamente aspirava alla considerazione dei borghesi. Un’amante come la signora Dambreuse gli avrebbe dato prestigio”
GUSTAVE FLAUBERT, L’educazione sentimentale, traduzione di Lalla Romano, l’Unità-Einaudi, 1996, pp.502-03.
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L’inadeguatezza della politica in generale non è scoperta recente: fior di narratori e intellettuali l’hanno denunciata in romanzi drammi saggi storici. Per limitarci a tempi meno remoti, e a un tema ancora palpitante di umori e furori: dal romanzo di Pirandello, I vecchi e i giovani alla spietata vivisezione del de Roberto nell’incompiuto e travagliatissimo Imperio, dalle inchieste di Jacini Villari Nitti ecc. al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e alla Disunità d’Italia di Giorgio Bocca, una tradizione di critica più o meno radicale al Risorgimento, ai tradimenti della classe politica, alle brutalità della nuova dominazione spacciata per liberazione, ai residui fascisti, si è alimentata senza interruzioni. Fino ad enfatizzarsi nel “separatismo rivoluzionario” (di ispirazione socialista) di uno studioso calamagnese, autore di un pamphlet di successo, esplicito fin da titolo: 1861: nascita di una colonia. Il saggio, ben documentato, sviscera tutte le magagne della conquista sabauda e dei suoi complici vecchi e nuovi (compresa la “sinistra nazionale”) e lancia, per il Meridione vessato, quell’utopia tanto appassionata quanto in stridula e dolente frizione con le realtà politiche in atto. Quante chiaccherate sull’argomento con l’amico Nicola Zitara, autore appassionato quanto ben documentato del libro (peraltro, tanto appagante come difusione e risonanza, quanto magro di esiti economici!)

Del De Roberto trovo nell’agenda-diario 1992 trascritta una pagina, a suo tempo segnalata a Gulizza per l’ispirazione trofologica, e fatta leggere in classe nel liceo di Realpolia. Eccola.
“La maggior parte delle nazioni e dell’intero genere umano non pensavano ad altro fuorché alla fame da saziare, nel modo più agevole e pronto. Quella stessa cieca potenza che aveva messo l’istinto della vita in ogni uomo, aveva anche dato ad alcuni, a pochissimi, l’appetito di qualche idea; ma l’efficacia delle idee sulle cose, che all’anima ingenua era parsa grande, ora pareva meno che nulla all’anima disingannata. Iniziando la sua carriera egli aveva creduto di dedicare tutte le sue forze al bene pubblico, d’esercitare quotidianamente un apostolato. Quell’opera che egli aveva creduto provvida e nobile, era stata giudicata iniqua ed impura dai suoi avversari. Perché credere che la ragione e la verità erano state dalla sua parte, e non da quella degli altri? Nessuna missione egli aveva esercitato: s’era dato al giornalismo dopo essersi accorto che l’arte non era pane per i suoi denti; e al giornalismo ed all’arte s’era dato per poter vivere fuori del paese natale, libero dal giogo dei parenti, sulla via della gloria e della ricchezza. Questo era stato il suo vero ed unico scopo, travestito e decorato col nome di missione sociale! // E che valeva tutto ciò che egli aveva detto e scritto, gli altri al pari di lui, i più valenti, i sommi? //Le parole umane se ne andavano col vento, gli stessi scritti si cancellavano e si disperdevano; quelli che parevano immortali duravano un poco di più; ma l’oblio li aspettava del pari, dopo secoli invece che anni; ma anni e secoli e millenni non erano altro che momenti dell’eternità.”

Questa sensazione di inutilità e d’impotenza ti prende alla gola ad ogni constatazione della vanità pratica di ogni documentata denuncia, invettiva, perorazione. Può capitare, è capitato, capiterà che interi libri siano pieni di fatti con tanto di nomi cifre circostanze del malaffare nazionale in politica economia giustizia, e che questi libri vadano a ruba, diventino best seller, inebriino media e folle plaudenti alla denuncia e inveienti contro i bersagli indicati nelle pagine surriscaldate. Ma più in là non si vada, non si sia andati, dopo gli anni di piombo e la stagione di mani pulite finita nel ciclico ritorno del peggio. E i libri di denuncia vengono assorbiti dal mercato, neutralizzati come parte e propellente della sua anima nera, come sardonica conferma che un “oltre” non c’è, non ci può essere, non ci sarà. Il Mercato, il “santo Mercato” ne esce confermato giustificato esaltato.
Ma sarà sempre così? Non sarebbe “logico”: ci saranno nuove crisi economiche e finanziarie, si supereranno, i soliti “vinti” ne pagheranno il costo più drammatico, e tutto il meccano, ora telematico, riprenderà la sua corsa ad infinitum. Ma se la storia mostra (insegna?) qualcosa di incontestabile è che prima o poi una crisi di dimensioni ciclopiche creerà la massa critica per l’innesco della reazione a catena: ci saranno tanti poveri, tanti milioni di disperati e arrabbiati che l’esito rivoluzionario, o almeno insurrezionale, non sarà evitato. Et altro non ci appulcro.
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(1) Malintesi a parte, e relativi chiarimenti, bastano anche una o due delle risposte di Kohout a Grass a illuminare la “scena” della preziosa conversazione epistolare. “Quello che io definisco il Suo errore mi sembra essere parte integrante di una grande finzione cui è sottoposta più o meno tutta la Sua società. Presa nel giro ingannevole delle proprie crisi, che scaturiscono dalla sua stessa essenza, questa società cerca di farsi coraggio e di sentirsi sicura facendo notare come anche la società concorrente (cioè il socialismo) ristagni in se stessa e non abbia risolto il problema dell’esistenza dell’umanità. In questo ‘canto di consolazione’ si ripetono strofe vecchie di cinquant’anni ed altre che risalgono a data recentissima,. Mi permetto di citare le più importanti e di discuterle brevemente. // 1° strofa: “Il contenuto umanistico dell’appello di Marx è stato soffocato nel sangue dalla Rivoluzione di Ottobre, una delle più crudeli della storia”. / La Sua società seria, pulita e soddisfatta (lo dico senza ironia), riesce, se non altro ad essere fiera di sé quando può confrontare il suo standard di vita con il nostro. Dunque, la Sua vecchia e solida società ha per così dire dimenticato che è nata dal bagno di sangue della Rivoluzione Francese. Qualunque sia la nostra disposizione alla violenza (e noi due ne abbiamo apparentemente in egual misura) dobbiamo riconoscere che lo sviluppo della società è sottoposto a leggi inesorabili come quelle della fisica. La violenza della rivoluzione corrisponde esattamente alla violenza della reazione. / la Cecoslovacchiaa è passata al socialismo nel 1948, due anni e mezzo dopo la partenza dei soldati sovieticici, nostri alleati, senza sparare un colpo, e ciò non per la straordinaria nobiltà di animo dei rivoluzionari, ma per la momentanea debolezza della borghesia ceca. Il partito comunista ha sfruttato il momento favorevole. Per vincere, la Rivoluzione d’Ottobre dovette lottare contro una forza secolare, che aveva perso sì la capacità di governare, ma non quella di uccidere. I mezzi della rivoluzione dovettero essere adeguati a quelli della reazione e ciò sia nell’anno 1917 sia nell’anno 1789. L’alternativa storica era, in un caso e nell’altro, la disfatta.
‘II strofa. Lo stalinismo ha deformato la rivoluzione socialista in una dittatura di tipo hitleriano’. // I primi ventotto anni della storia della rivoluzione sovietica si possono suddividere in due sole fasi; stato di occupazione e stato di guerra. Dopo il 1917 la nota parola d’ordine: ‘Buttateli a mare!’ costituì non di rado il contenuto più importante della politica estera di molti paesi europei. La rivoluzione russa doveva venir soffocata, e questa è una circostanza poco propizia allo spiegamento della democrazia rivoluzionaria. Anzi, come il soldato prussiano ed austriaco costrinsero Parigi a trovare il suo Robespierre, così l’Europa borghese e fascista ha costretto la Russia sovietica a trovare il suo Stalin. Oggi Stalin sembra esistere sotto due aspetti diversi: quello di Dio e quello del diavolo. Secondo me, i documenti, che anche nel mondo moderno ci arrivano nelle bottiglie come messaggi affidati al caso (e non solo dall’Oriente, vedi la morte di Kennedy), ci mostreranno alla fine tratti più precisi del volto di questa tragica figura che ha colpito a morte la rivoluzione salvandola al tempo stesso dalla morte”. In questo apparente paradosso, o bisticcio ossimorico, pulsa la fiamma “rastremata” al massimo di una verità storica e biologica tante, troppe volte esibita e confermata dagli eventi e dai millenni, e altrettante snobbata, disattesa, respinta da troppi “umanisti” non rassegnati al suo costoso rigore. Neanche quando la storia è il loro mestiere. Quale verità ? L’abbiamo ripetuta tante volte in queste pagine (un po’, a volte parecchio, casual) che ci riesce difficile esplicitarla ancora. Ma non è forse evidente anche nelle parole di Kohout?. Ripigliamone, dunque, la prosa ancora per qualche minuto. “La battaglia di Stalingrado, che Stalin ha organizzato come Robespierre Valmy, ha avuto certo effetti più durevoli dei suoi delitti. Paragonare Stalin a Hitler è un’assurdità d’effetto. Non perché quest’ultimo sia stato sconfitto, ma perché Stalin non ha scardinato le fondamenta della rivoluzione, neppure quando ha perseguitato politicamente i suoi esponenti, non ha cioè messo in discussione la proprietà collettiva del capitale e dei mezzi di produzione. L’umanista può ribattere appassionatamente che ciò è troppo poco. E infatti non è una consolazione per i morti e neanche per i superstiti. Ma un uomo spassionato non può non rendersi conto che proprio questo fatto ha deciso la guerra e ha reso possibile all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, già quattro anni dopo la morte di Stalin, di iniziare la conquista non solo dello spazio cosmico ma soprattutto di quello della libertà umana, l’unico in cui possa venir realizzato lo scopo della Rivoluzione d’Ottobre”. E qui ci fermiamo: dovrebbe essere chiaro il senso del discorso di Kohout. Come lo sarebbe, se sviluppato anch’esso in queste pagine e note, quello di Grass. con le sue precisazioni, a volte un po’ troppo attente ai prezzi pagati per certi esiti di sicuro prestigio e di più soddisfacente rispetto dei bisogni vitali primari.

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