venerdì 28 maggio 2010

SUSANNA Frammento 68


L’altro evento minore, ma di impatto paragonabile con la morte di Presley, fu l’uccisione di John Lennon, magna pars dei Beatles. A sparargli, in quel dicembre dell’ottanta (alle ore 22,50 del giorno 8, precisano le cronache) un pingue fan, che lo voleva tutto per sé. Uno squilibrato, si affrettarono a sentenziare media di mercato massivo e opinion makers di qualità accademica, più o meno versati in psicologia adleriana. Uno schizofrenico, che altro può essere un ragazzo che spara cinque colpi di pistola al suo idolo (muore, ancora la cronaca, 19 minuti dopo gli spari, alle 23,09). Al momento dell’ “insano gesto” Mark David Chapman aveva in tasca una copia del capolavoro di Salinger, “Il giovane Holden”. E non vedeva dissonanze fra il culto per quel romanzo con protagonista un giovane sbalestrato, anarcoide, millantatore e povero di riferimenti etici (anche se umanamente simpatico), e la militanza dichiarata in seno alla Chiesa evangelica (con annessa pratica di volontariato). A sentirlo, aveva voluto “punire Lennon”, che avrebbe tradito i suoi (e loro) ideali: proprio Lennon, il cantore della pace! Il ragazzo di “impertinente” coerenza, che aveva restituito a sua maestà Elisabetta II la nomina a baronetto.
Il contesto, insomma, denuncia una possibilità forte, quasi certezza: che nemmeno Chapman avesse coscienza chiara del vero movente del suo “colpo di testa” presunto schizofrenico. A Gulizza quel delitto sembrò l’ennesima conferma delle sue tesi: l’amore umano ha lontane radici antropofagiche. Cioè, si presenta (a una disamina radicale) come una diramazione, più o meno saldamanete sublimabile, del primum movens biologico, la fame, appunto. In quest’ottica, più che alla schizofrenia, il caso fa pensare a una fissazione paranoica. Così forte, da nascondersi allo stesso soggetto dietro motivazioni strampalate, ma funzionali alla spinta regressiva radicale. Ucciso da lui, l’eroe troppo amato era tutto suo: hanno un bell’agitarsi gli altri fans, nessuno di loro potrà scalfirne l’esclusivo possesso. Una specie d’incorporazione mistica.
E così dissi, con un prudente mix di serio e faceto, all’ex cuginetto sedicenne innamorato, in quel tempo medio degli anni sessanta, della “musica sacra” di quei baronetti. Al telefono, da Milano, egli commentò la notizia con memore dolore, ma ormai dall’alto del suo ruolo di biologo ben remunerato presso case farmaceutiche importanti (dico al plurale per il suo facile transitare dall’una all’altra secondo impeccabili calcoli di materiali vantaggi, di soldi e carriera).
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“Se c’è un Dio, il caos e la morte figureranno nel novero dei Suoi attributi, se non c’è, non cambia nulla, poiché il caos e la morte basteranno a se stessi fino alla consumazione dei secoli. Non ha importaza quello che si incensa, si è vittime della caducità e della dissoluzione, qualsiasi cosa si adori non si eviterà nulla, i buoni e i cattivi hanno un solo destino, un unico abisso accoglie i santi e i mostri, l’idea di giusto e ingiusto non è mai stata altro che un delirio, al quale ci appigliamo per ragioni di convenienza. In verità, l’origine delle idee religiose e morali è nell’uomo, cacciarla fuori dell’uomo è un nonsenso, l’uomo è un animale metafisico, il quale vorrebbe che l’universo esistesse solo per lui, ma l’universo lo ignora, e l’uomo si consola di questa indifferenza popolando lo spazio di dèi, dèi fatti a sua immagine. Sicché riusciamo a vivere accontentandoci di principi vuoti. Ma questi principi così belli e così consolanti cadono nel nulla quando ci si aprono gli occhi sulla morte e sul caos da cui viviamo avvolti, in costante pericolo. La fede non è che una vanità tra le altre e l’arte di ingannare l’uomo sulla natura del mondo”.
Albert Caraco, Breviario del caos
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Le sciagure come le proverbiali ciliegie: l’una tira l’altra. Anche nell’ectoplasma “notizia”. Quel 1980 fu pure l’anno di Ustica: cioè, dell’aereo abbattuto da misteriosi caccia killer in quelle acque troppo discrete, che non vollero rivelare mai i nomi di esecutori e mandanti dell’infamia-equivoco. Un altro dei nostri misteri, un’altra storia piena di indagini ricostruzioni tesi e antitesi, depistaggi manomissioni di tracciati radar inutilmente accusatori di presenze militari fuori posto. Fra le 81 vittime, una giovane madre, figlia di un compaesano: tornava da Palermo. Una bella donna, che accendeva ammirazione e rispetto. Lasciava una bimba di un paio d’anni. Nel ricordo, vedo il padre camminare per le nostre strade, dopo l’evento ferale, come un sonnambulo larvale(1).
Anno funereo, quant’altri mai in tempo di pace (peraltro, sempre relativa: a pezzi di calandario e lembi del mappamondo), quel 1980: stragi di natura e di uomini, quasi a gara a “chi” meglio sapesse mostrare il volto feroce della creazione increata: Ustica, Bologna, Irpinia,… E ancora omicidi del terrorismo politico, drogato di illusioni sulla forza trascinante di un semplicistico apostolato al sangue: altre priorità inquietavano il popolo dei lavoratori. Né la scelta di bersagli incomprensibili (che erano i più) aiutava a capire quella strategia tortuosamente obliqua.

Sul pianale retrattile del tavolo porta-computer giace da lungo tempo (né so più a qual fine) uno dei cartoncini illustrati e colorati che accompagnavano i Cd-Rom del quotidiano La Repubblica: vi leggo “Quel che accadde” in quell’anno. L’elezione di George Bush padre alla presidenza degli Stati Uniti. Nell’elenco del Caos-morte. L’esplosione su Lockerbie di un Jumbo della Pan Am per una bomba a bordo. Il tragico incidente di volo delle frecce tricolori a Ramstein. L’elezione di Occhetto a nuovo segretario del Pci. L’assegnazione di nove premi Oscar a “L’ultimo imperatore” di Bertolucci. Le olimpiadi di Seul. “E altro ancora”. Sotto, l’annuncio-sommario del 5° Cd-Rom, “Quell’anno accadde. Il crollo del muro di Berlino. La repressione dei moti di Tien An Men”: ancora sangue di giovani agnelli improvvisatisi arieti poco credibili. “I ‘veleni’ della Procura di Palermo con le lettere del ‘corvo’” (la bava del complesso “down with Falcone”) . “Lo scontro per il controllo della Mondadori” (Mammona oggi e sempre). “La condanna a morte di Salman Rushdie da parte degli integralisti islamici” (strano destino di una parola: integralisti, per dire assassini in nomine dei. “E altro ancora.”
In quell’ “altro”, dei due e degli altri Cd-Rom, ci stanno, in bella evidenza sulfurea, ottime guerre prodighe di sangue: Iran-Iraq (otto anni di macelli, con la geniale trovata di sminare i campi minati versandovi sopra la tenera carne di bambini iraniani: gloria, codesta, del grande ritorno religioso dopo la cacciata del fastoso tiranno regale), Afghanistan (Urss-talebani: super-assistiti, questi, dai criminali Usa e contorno), Congo, Etiopia, Sri Lanka, la già ricordata Prima guerra del Golfo, Bosnia, Serbia, Kosovo, Ruanda e via sommando: tanti nomi, altrettante carneficine gonfie di orrori umani troppo umani. E tanti bellissimi terremoti, pieni di morti e malmorti e feriti e mutilati, esibizioni indiscutibili della Provvidenza sismica, sempre in allerta di pronto intervento (per alleggerire il peso antropico sul corpo troppo sfruttato di “Gaia, il pianeta che vive”). E che dire dell’altro strumento riequilibratore escogitato dalla troppo inventiva Natura sprecona, le care collaudate epidemie di splendido pedigree, che hanno tentato e continuano a tentare un salasso tipo spagnola al cubo mediante quegli invisibili killer che sono batteri e virus, sempre pronti alle mutazioni peggiorative? Ebola, aviaria, mucca pazza… Per tacere dei nuovi successi del solito nobile cancro di plurimillenaria carriera, della paziente Sla, del recente (in termini di decenni) Aids. E via esaltando il progetto teo-cosmologico Id, che tanto inebria quei bambinoni incoscienti degli scienziati credenti e altri ossimori ciarlieri del sadismo ilare di madre natura sciupona.
Parlarne è tanto possibile quanto inutile: che cosa aggiungerebbe al quadro realistico del Mondo qualche altra guerra massacro genocidio, duttile impero-ubriaco-di-potenza, terrorismo islamico di risposta satanica, ma detta santa (santa contro il Grande Satana dell’Occidente cristiano!); e via ammucchiando nella rincorsa fra dilatata scrittura pigra e veloci eventi incalzanti? Ma com’è irridente questa “guerra di santi”, così tragicamente remota dalle beguzze di quartiere narrate dal nostro baffuto Verga, verista innocente.
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Un’ultima tentazione preme per ricevere ospitalità in queste stanze della memoria, complici tre circostanze: una vecchia lettera di zio Silvio che accenna al pericolo Mau Mau scrivendo a mio padre; una domanda in terza liceo di un ragazzo per avere più notizie su Jomo Keniatta e la rivoluzione keniota; la risposta ultrasintetica alla domanda fondata sul libro di testo e l’impegno con la classe a dedicare una lezione di storia al Kenia. A parte segnalo il propellente forse più decisivo: la coincidenza dell’anno di nascita del Kenia libero con l’anno della mia conoscenza di Susy e della sua classe. Che purtroppo coincide anche con la data nera dell’uccisione di John Kennedy.
Un sito internet mi soccorre. Tralascio la storia pre-coloniale del Kenya. La resistenza alle sopercherie coloniali comincia presto in Kenya: già nel 1922 esiste un movimento per una meno ingiusta distribuzione della terra, l’Associazione dei giovani Kikuyu. Nel marzo di quell’anno viene arrestato Harry Thuku, capo dell’Associzaione. La polizia inglese spara sulla folla che ne chiede la liberazione: esito, 21 morti fra i dimostranti. Più di cento, correggono i kikuyu. L’effetto moltiplicatore del martirio non si fece attendere: da quel tempo si infittirono i raduni politici contro i soprusi coloniali. Per esempio, il lavoro forzato e la “tassa sulle capanne”: una brillante idea civilizzatrice per estendere l’incendio rivoluzionario. Non si chiesero più migliori condizioni di lavoro e più equa distribuzione delle terre fertili: si cominciò a chiedere l’Uhururu, la libertà. Nel ’24 nasce il “Kikuyu Central Association” (KCA), che presto si allea ad altre formazioni di etnie diverse ma di convergente programma politico (per esempio, della tribù Luo, l’etnia più numerosa dopo i Kikuyiu. Il governo coloniale fa delle concessioni di parata (assemblee, e simili), ma ricomincia a sequestrare altre terre per la bella vita dei coloni. La Chiesa offre altre occasioni di scontri: condannando la circoncisione femminile, si macchia di interferenze inaccettabili per i “nativi”. Fertile terreno, la dissidenza, per la nascita di moti religiosi indipendenti che presto si accendono di nazionalismo politico. Dal 1935 le principali tribù formano delle associazioni patriottiche, che nel 1940 il governatorato inglese tenta di sciogliere arrestandone i capi (persino con l’accusa non dimostrata di complottare con il consolato italiano). Ancora una volta, l’effetto è contrario al desiderio. Il “consigliere” Eliud Mathu, il primo africano in quel Consiglio Legislativo del Kenya coloniale, fonda una più forte organizzazione politica, che nel 1946 assume il nome di Kenya African Union (KAU), e dove entrano tutte le etnie keniote, ma con netta prevalenza dei Kikuyu. Da questa etnia dominante viene fuori l’uomo che porterà il Kenya all’indipedùndenza, Jomo Kenyatta. In quegli anni il futuro “padre del Kenya” ha superato i cinquant’anni e conta un percorso esistenziale ricco di esperienze. Il figlio del pastore ha conseguito perfino una laurea (...)

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Devo interrompere quel racconto sintetico sul Kenia: lo riprenderò, spero, più tardi. Ora non posso. Non me la sento. Nell’ultima telefonata Susanna mi ha rivelato un segreto che gronda sangue e pus. Mi sforzo, ma non riesco a parlarne in quest’ultima agenda. L’enormità della cosa mi paralizza. Sto scrivendo questo accenno muto dopo qualche mese di rinvii. Anzi, di rimozione totale della scrittura romanzesca: quel che l’horror della politica tradotta in massacri bellici non ha prodotto lo ha fatto questa notizia: così abissalmente lontana da ogni mia capacità di sospettare e temere. Forse sto tentando di vincere il blocco. Ma non credo di farcela.
Mi stava ripetendo le brutte notizie più volte ascoltate: sulla figlia maggiore in ricaduta di anoressia. “Ma come? ─ dico  ancora! Ha una laurea, una specializzazione, un lavoro, è sposata con un giovane che l’adora: cosa le occorre per spegnere questo passato?” Susy ebbe uno dei suoi scatti di insofferente sorpresa: “Di che ti meravigli? E’ la malattia!” Già: ma che significa? Questo genere di malattie hanno pure un’eziologia, le si può affrontare con successo, anche se difficile e magari parziale; una volta individuate le cause si può rimuoverle. A poco a poco, con tenace pazienza e amorevole complicità materna. E azzardai un’ipotesi di spiegazione: “Forse, dissi, la ragazza non accetta, ancora oggi, che un padre possa rinunciare così facilmente a una figlia, e qui addirittura a due figlie? Forse l’abbandono le comunica un senso come di inadeguatezza, di insufficienza; perfino, in quell’affettività disturbata, di colpevolezza? Il retropensiero potrebbe essere: non ha saputo evitare, e poi vincere, l’ostilità o l’indifferenza del padre, non si sente abbastanza dotata per questo miracolo, per riconquistarlo, che ne so...” Ma Susy tagliò corto, in quell’ultima telefonata: “Macché padre e suo abbandono, ma quale inadeguatezza! Il suo cruccio è ben altro. Me lo ha rivelato quest’estate...”
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Io tremo ancora a quella torva rivelazione. E qui mi fermo. Incapace di telefonare, di nuovo, alla sventurata madre. Che cosa le potrei dire, quando tutte le parole inutili le ho dette già in quell’occasione? Mi accade un po’ come al sismografo che non riesce a registrare un evento sismico per accesso di choc: in questi casi, l’unica testimonianza che dell’evento l’apparecchio può fornire è la sua incapacità di fornirla, il suo guasto per eccesso di scontro.
L’immagine non è una mia fortunata illuminazione: l’ho trovata in un saggio di un filosofo francese, usata per dire l’indicibile della Shoah, ovvero l’incapacità del linguaggio (in qualunque sua forma e potenza) di esprimere adeguatamente quel culmine di ogni orrore, quel deragliare da ogni argine e limite della nostra natura giurassica. L’onesta denuncia del prestito mi salva dal furto, ma non da un brivido d’imbarazzo: usarla ancora per un orrore, sia pure, ma di proporzioni incomparabili con l’eccesso multipolare dell’Altro, non è una specie di abuso? Forse dovrei tagliare queste ultime righe. Forse le taglierò.

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PARTE TERZA

“Voglio scrivere il libro grande. Mi sento in vena. Voglio dire cose che forse nessuno ha dette mai. [...] Come ti ho detto, la speranza di fare un colpo consiste nel romanzo, e il romanzo che voglio scrivere è tale da fare colpo. Sarà, se riuscirò a finirlo, un libro terribile; dovrà fare l’effetto d’una bomba. [...] non ho altra volontà, ti assicuro, che di scrivere questo libro; ma le difficoltà sono diecimila volte più grandi di quelle della novella.”
Federico De Roberto, Lettere alla madre

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“Si scrive per rendere verosimile la realtà. Non so degli altri, ma io sono stato sempre colpito dalla inverosimiglianza della vita, m’è parso sempre che da un momento all’altro qualcuno dovesse dirmi: “Basta così, non è vero niente”. Allora io penso che bisogna scrivere per cercare di crederci, a questo impossibile e riuscito colpo di dadi; che si debba, se l’universo è una metastasi folle, un po’ fingere di mimarla, un po’ cercarvi un ordine che ci inganni e ci salvi. Questo mi pare il compito civico e umanitario dello scrittore, farsi copista e insieme legislatore del caos, guardiano della legge e insieme turbatore della quiete, un ladro del fuoco che porti tra gli uomini il segreto della cenere, un confessore degli infelici, una spia sacra, un dio sceso a morire per tutti”
Gesualdo Bufalino, Le ragioni dello scrivere, in Cere perse

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Chi avrà avuto la pazienza di seguirci fin qui avrà capito che qualcosa di storto ha scompigliato la logica dei tempi. Che l’ineluttabile unidirezionalità di quel mostro bulimico ha giocato a rimpiattino, a far finta di andare all’indietro, e poi di nuovo in avanti, e poi... Insomma, la solita manfrina del narrare che s’accapiglia col tempo. Ma non è di questo che voglio infastidirvi, ora: si tratta di banalità, anche se complicate (e complicabili, magari fino ai giochetti sofistici di Agostino di Ippona – con la sua pretesa del tempo come distensio animi, e giù giù fino al mago Heidegger – col suo tempo “estatico”. Anzi, fino all’ultra-mago e super-ontologo prof. Emanuele Severino, imperturbato trangugiatore del Tempo vorace e castratore iperloico del Divenire impossibile.
L’intrico fra narrare e vivere, il rapporto fra i fatti narrati e il tempo reale del narrare, di chi li narra, fermandosi, ritornando sui propri passi, intervenendo sul già scritto, cancellando aggiungendo modificando in mille e mille modi: niente di più affascinante. Per chi ha, giusto, tempo da perdere e non ha cose più sostanziali da dire. O ha l’impulso ludico ipertrofico (alla Borges, per esempio, con le sue “Fictiones”, alias “Biblioteca di Babele”), al punto di sacrificarle, le cose, al puro diletto “geometrico”. No, qui voglio dire soltanto che l’autore dei diari con mia relativa, ma pur sempre ampia, libertà trasferiti in questo tortuoso racconto ipernutrito, è stato individuato da tempo: era fra i due o tre che sospettavo. Una piccola ricerca mi ha messo in mano paese di residenza e numero di telefono veri. Ci siamo sentiti, incontrati, raccontati. E in uno dei nostri incontri in amarcord ha deciso di svelarmi il bollente segreto che non è riuscito a stendere sulle pagine delle sue agende-diario. Non ci riuscivo – mi diceva – e ogni tentativo di rompere l’incantesimo si arenava contro “un’onda di nausea: la sensazione di sporcare le mie pagine. Di sporcarle con qualcosa di non rimediabile: una contaminazione avvilente, come di una malattia schifosa, da esclusione sociale.” Una forma speciale di lebbra, di Aids, di contagio radioattivo. E chi più ne ha, più ne aggiunga: insomma, ascoltai un uomo in crisi di coscienza critica, “diminuito” rispetto al personaggio che si è andato rivelando (o costruendo) nelle sue pagine: a volte così coraggiose, così spregiudicate. Così au pair con la “vergogna radicale del mondo” (una sua espressione, che io, forse, ma devo controllare, ho cassato nel mio libero arbitrio rimescolante: per un suo intrinseco eccesso di “pessimismo”).
Non vi nascondo che qualcosa delle sue difficoltà, anzi molto, s’è comunicato alla mia intrepidezza. Che perciò divaga, la tira in lungo e va per le lunghe, esita a entrare in argomento. Ma poiché il tira e molla è durato abbastanza, vediamo se dal prossimo rigo riuscirò a immergermi (lascio la cacofonia: è così fit!) in quella liquida nausea. La sera delle confidenze estreme, Paolo Assaggi mi aveva portato al bar principale del mio paese di mare. Vi prendemmo un caffè al banco e lasciammo la piccola babilonia della gioventù cicalante ai tavolini sparsi sul lembo di piazza sequestrata dall’uso in concessione (fenomeno che ormai affligge tutti gli spazi abitati d’Italia). E lentamente scivolammo verso il tratto di spiaggia meno frequentato, lasciandoci alle spalle il lungomare affollato di brulicante varietà antropica (con la solita ghiotta porzione di belle donne e ragazze “ombelicate”).
Conversazione (in specimen). Lui: “Dobbiamo finire questa storia infinita. Ti dirò quello che non ho osato (non mi è stato permesso: scegli tu) scrivere sulle mie pagine private. Che pure non ignorano atrocità delle peggiori. Quando Susanna replicò alla mia ipotesi sull’anoressia ricorrente della figlia con quello scatto quasi aggressivo, aggiunse questo eccesso di lordura cosmica”.
Io. “Uhm! Cominciamo bene. E non ti nascondo che trovo irrituale questa riluttanza o ripugnaza in uno spirito libero come te.”
Lui: “Forse non sono poi così libero come credi, e come ho creduto io stesso. Non manca una copiosa casistica sull’auto-inganno nelle auto-analisi. Ma siamo al dunque.”
Si fermò. E mi parve che tirasse un sospiro troppo lungo. Anche lui cominciava a trovare esagerata questa sua reticenza, e un blocco così poco coerente con la propria abituale schiettezza. E riprese a confessare, cominciando a esplicitare: “Ripetevo a Susanna la mia ipotesi eziologica sulla malattia della figlia: che la ragazza, nella sua ipersensibilità, potrebbe essersi inconsapevolmente colpevolizzata per non avere avuto la forza attrattiva di impedire al padre l’abbandono. Susanna tagliò corto con rabbia: ‘Macché padre e inadeguatezza. Le ragazze soffrivano della presenza del padre, non dell’assenza. E se ne sono liberate con sollievo: le nostre liti, sempre più frequenti, erano una tortura per loro. Il problema (chiamamolo così) non è stato quel padre, ma un altro!’ ‘Un altro?’ ‘Sì, un altro’ Pensai a un parente acquisito, uno zio o che, a un suo abuso. Chiesi: ‘Chi, dunque?’ E qui esplose il super-botto: ‘Il MIO!’
“Ecco la bomba. Non ricordavo, di Susanna, un tale urlo, eppure gridava, ai suoi vent’anni. In allegria comunicativa o in tensione aggressiva. Nemmeno nei momenti di più viscerale rabbia contro professori o familiari ne era sgorgato uno uguale. Banale il mio patetico ‘Nooo!’ Che lei troncò, decisa: ‘Sì, invece, sì purtroppo! il nonno, capisci”. Al mio perplesso, sbalestrato, sconclusionato ‘in che senso?’ Susanna rispose urlando ancora, a condensare questo piccolo assoluto di nero catrame: ‘L’ha violentata’.”
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Il nonno, dunque. Ecco il mostro. Inescusabile, per la sensibilità di Paolo, peggio di un torturatore nazista e di un tagliagole talebano. Peggio di un pedofilo sadico. Un nonno Belzebù! Un Gilles de Retz in formato ridotto. Si può immaginare un orrore più sconvolgente? Di questo tenore erano le esternazioni del mio amico: diventato nonno, viveva una tenerezza ipersensibile verso la prima nipotina. Ma riprendiamo il racconto di Paolo.
Durante le periodiche permanenze dei genitori presso la figlia capitava che il padre rimanesse solo in casa con la nipotina maggiore: gli altri uscivano insieme, Susanna, la madre e la seconda delle sue figlie, a volte il fratellino Giacomino, e il caro nonno faceva insospettabile compagnia protettiva alla nipotina. Erano le occasioni dell’inconcepibile. Susanna aveva detto a Paolo che la cosa era durata anni. Era cominciata quando la bambina ne aveva nove, di anni. Paolo continuava ad annaspare raccontando. Aveva chiesto a Susanna se nell’idea di violenza si potesse raccogliere soltanto un genere di contatti, diciamo, epidermici, non invasivi, non... Insomma, un garbuglio di imbarazzo, che tentava di attenuare la bestialità del fatto, di non arrendersi all’evidenza di quell’urto. Susanna aveva replicato con un problematico, ripetitivo ‘e che ne so, che ne so’, ma poi aveva sbottato ammettendo, indirettamente, lo stupro pieno. Le rivelazioni di Claudia insistevano sulla violenza, e a parlare era una donna sposata, che si confida con la madre: come pensare che la giovane non distinguesse chiaramente fra stupro e violazioni meno drastiche? E forse quel “che ne so” di Susanna era il sintomo di un ripensamento contro quella confidenza eccessiva e il suo effetto su Paolo: un tardivo inutile pentimento del pudore che scopre un eccesso di azzardo nella sua stura liberatrice. Che, in ogni caso, durò poco. Stava confidando un purulento segreto, sia pure. Ma non al primo venuto (per usare una formula frusta). E nemmeno al suo non previsto compagno di recente acquisto occasionale. Lo aveva rivelato a un uomo che tanto aveva significato per lei, per la sua iniziazione al sesso (e sia pure dimezzato). Un personaggio di peso e dramma, nella sua realtà di studentessa e di amica. Amica di una moglie tradita per lei, e da lei. E che l’aveva trattata con l’affettuosa dedizione di una sorella maggiore. Non era il caso di pentirsi di quella confessione. Né di attenuare l’orrore. No, no: la figlia era stata inequivocabile: violenza con penetrazione. Ripetuta negli anni, ad ogni occasione di solitudine a due. Magari questa forma estrema sarà venuta dopo dei nove anni, dopo ma chissà quanto dopo. Anni? Come rigirare il coltello delle domande nella piaga di una madre squassata da quell’inezione di cicuta che corrode e uccide lentamente la parte più gelosa della complessità psichica materna?
La bambina, poi adolescente, poi donna, aveva tenuto dentro quel segreto fino all’estate precedente la telefonata, come dire per circa vent’anni. Lo sconcerto di Paolo lo faceva brancolare come un ubriaco che parli a vanvera. Fioccavano, in quell’ultima telefonata, domande oziose, domande maldestre, attente ad evitare quell’effetto seviziatore. Lasciando alla madre la scelta di dire e non dire. Un cenno alla possibile reazione difensiva della ragazzina cresciuta ne provocò una risposta irata: la figlia era “una cretina”, una debole incapace di difendersi. E poi, una bambina, una ragazza si fa presto a confonderla, a plagiarla. Come dubitare di un nonno che l’ha cresciuta insieme alla mamma, che tante prove d’amore impeccabile le aveva dato? Le avrà fatto credere a un gioco, un gioco un po’ speciale, ma innocente. E piacevole: non sono indispensabili gli ormoni per trovare nelle bambine tratti comportamentali tipiche della femminilità. Fino alle precoci curiosità sessuali. Confuse, vaghe, insomma innocenti, sia pure. Innocenti, certo, ma con l’innocente malizia di curiosità esplorativa che lo stesso pudore gradualmente inoculato, sviluppa. Non lo sapeva Paolo? Paolo lo sapeva in teoria, ma, frastornato e innervosito, sparava domande per colmare il vuoto che si apriva tra una frase e l’altra di quella sofferenza parlante. Domande un po’ a caso, ma, come già detto, attente a non accrescere sofferenza nella sventurata.
Aveva ricordato perfino il tentativo di quel padre verso la stessa Susanna. Un tuffo nel lontano passato. Un ritorno ardito, forse inopportuno, come certe domande. Per lui, che le confidava di avere descritto l’episodio nel suo diario, e per lei stessa, che egli aveva indotta a riviverlo. Un’occasione, tra l’altro, per Susanna, di ripetere lo sfogo, il grintoso quanto scombinato confronto con la fragile figlia: “Certo, che ci provò, il vigliacco, ma con me toccò duro, ero ben altra cosa, io: lo respinsi in così malo modo che gli tolsi per sempre la voglia di riprovarci. Mi sapevo difendere, io; lei no. Mia figlia è una debole, una stupida.” Che c’entrano qui le parole-insulti stupida, cretina, e simili qualifiche? – pensò Paolo, ma non lo disse bruscamente a Susanna. Ripeté considerazioni vaghe: ‘Chissà come l’avrà convinta, confusa, e indotta al silenzio da bambina. Crescendo, e prendendo coscienza dell’enormità della vergogna, era stata la ragazza stessa a imporsi quel segreto.
Altro che la kierkegaardiana “scheggia nella carne”, aveva pensato Paolo, sempre incline alla tentazione del rimemorare culto. Cosa poteva essere la ipotetica bestemmia paterna al terribile Geova, gli occhi rivolti a un cielo nemico, di fronte a questa ben più turpe bestemmia?
Ecco, dunque, il verminaio scoperto. La malattia, le ricadute, la scarsa o non sufficiente efficacia delle terapie affondano tumide radici in quel cancro antropico. Susanna non ha mantenuto il segreto: ha spiattellato a quasi tutti i componenti della vasta famiglia quel bubbone. E si è scontrata con sensibilità diverse dalla sua. La sorella Tina, la piccola, delle quattro, l’aveva pregata di non dire nulla al suo compagno; il fratello maggiore, fece la stessa preghiera per nascondere alla moglie quel puzzo di sentina. Con accenti diversi, ma uguale sostanza, lo seguirono gli altri due fratelli. Susanna non apprezzò questa delicatezza: per lei era soltanto ipocrisia, e non la tollerava. L’odio postumo per quel padre degenerato era tale che avrebbe scoperchiato la tomba per sputare addosso a quei luridi resti. Aveva distrutto tutte le fotografie con la sua faccia, e suggeriva agli altri, fratelli e sorelle, di fare altrettanto. Vorrebbe cancellare la presenza di lui perfino dalla sua memoria. Un cenno di Paolo alle probabili sofferenze della madre per gli inevitabili tradimenti di un tale satiro non aveva trovato comprensione pietosa in Susanna; anzi, infastidita indifferenza: ‘Affari loro’, aveva risposto. Quanto alle delicatezze rimuoventi di fratelli e sorelle, non era sicura che le avrebbe appagate: si sentiva più disposta a pubblicizzare al massimo il losco segreto che non a tacerlo a immeritata salvaguardia della memoria paterna. Così diceva in quella telefonata memorabile (naturalmente, col suo lessico e l’abituale forza “sintattica”).
Paolo ricordò le confidenze di Susanna dell’estate ’92, sulla salute del padre: un cancro alla prostata lo faceva soffrire atrocemente. Sarebbe morto qualche anno dopo.
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Nella sua angoscia, piombatale addosso sopra le non poche altre sventure, c’era quell’eccesso di accumulo che rende furioso un temperamento vivace. Avesse potuto azzerare la sua vita e il contesto familiare per farsene un altro lo avrebbe fatto. Anche a prezzo di nuove sofferenze, pur di non guazzare più in quel pantano irrespirabile. Un padre come quello appesta l’intera famiglia. Riandando in memoria nel passato più lontano e risalendolo, Susanna doveva averci visto una maledizione radicale, e la radice avvelenata era quel genitore, quel tenero padre tanto amato nell’infanzia e adolescenza. Un bell’uomo, da fare invidia alle donne meno fortunate del paese, con un volto maschio dai tratti regolari, neri baffetti tira-baci, un corpo muscoloso, la statura mediterranea, sulla media, ma bene armonizzata con l’insieme. Quale bambina non si è innamorata del padre? E quando, crescendo, se ne apprezzano i tratti fisici, quella specie particolare di innamoramento a volte lo si supera con difficoltà e strascichi di immaturità. Ma è pur esso un vero amore. Quando lo si scopre distorto da tanto oggetto, lo scompiglio riverbera su ogni sentimento emozione rapporto familiare. Ne viene inquinata ogni cosa ogni persona ogni relazione.
Al momento in cui scriviamo non siamo a conoscenza di altre “confidenze” incestuose dell’uomo all’interno della famiglia, e insomma sostanzialmente verso le altre figlie. Se ha fatto quel maldestro tentativo con Susanna, perché non potrebbe averlo fatto con qualcuna delle altre figlie? Susy era, incomparabilmente, la più bella fra le sorelle? Senza dubbio, ma le altre non erano certo da buttare: tutte carine, tutte belline, ciascuna a suo modo. Di viso e di figura: quale più alta e quale meno, ma tutte ben proporzionate, di belle gambe e curve sobriamente in carne, con ottimi seni di salda consistenza e contenuta opulenza: insomma appetibili non meno di Susy per la stragrande maggioranza dei maschi normali, non impelagati in delibazioni estetizzanti e sottostanti finezze.
Ci aveva provato con altre figlie? Ecco la domanda che al momento, ma forse per sempre, rimane senza risposta. Paolo non l’aveva rivolta a Susanna, naturalmente, ma se la rigirava in qualche angolo del cervello. A Susy, invece, aveva ricordato un altro episodio delle loro biografie incrociate: la scenata da Rinaldo in campo quando il marito di lei, ladro della lettera di Paolo alla moglie (già separata, e tuttavia ignara “sorvegliata speciale”), aveva telefonato alla famiglia di lei gonfio di scandalo e presunta sofferenza. Ricordava, Susy, quella levata di scudi, quella minaccia di chissà quale macello? La pagliacciata, in realtà, non arrivò a concretarsi nemmeno in una telefonata a Paolo con relativa richiesta di spiegazioni. A parole doveva fare una calata fino alla Sicania. Se la ricordava, Susy? Come no, la ricordava, sì, fin troppo bene. E la commentò: “Già, il moralista, il nobile difensore dell’onore familiare, della vergine figlia inviolata, che avrebbe volentieri violato lui. Il porco! Il pagliaccio infame”
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La conversazione fra Paolo e lo scrivente era durata fino alle soglie della notte. La bella notte marina, con tanto di luna quasi piena a sparpagliarsi sulla placida menzogna seduttiva di un mare incredibilmente dolce. Volgeva al termine, fra un sorso di té freddo e l’altro, una sigaretta dietro l’altra da parte mia, e un paio soltanto fumate dall’amico, con una sua domanda sulla probabile sofferenza di Susanna anche come figlia costretta a distruggere tanta parte della sua vita: un padre già adorato che si rivela un mostro. Non è certo la minore delle pene possibili nel copioso pozzo delle sofferenze previste per la specie sapiente.
A uno dei tanti lidi impiantati sull’immensa spiaggia ionica una vivace orchestrina intonava canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta. A un certo punto la Voce del complessino cantò “Guarda che luna” di Buscaglione, addirittura imitandone la vocalità con aderenza sorprendente. Paolo si concesse qualche minuto di amarcord: parlò dei tempi dell’università, quando si aspettavano in città le lezioni pomeridiane masticando panini più o meno imbottiti, bevendo, modicamente, birra e gettonando canzoni in voga nei juke-box allora onnipresenti. Rimemorò la serata in spiaggia con Rina, Susy, il fratello di Rina e i nipotini, e la gara di corsa a piedi nudi sul ciottolato della spiaggia. “Prustificò” altre sequenze, e quando la Voce attaccò “Che bella cosa sei” tacque, tutto concentrato nel confronto fra le parole della canzone e le sue lontane esperienze con Susy. Quelle altre canzoni le aveva scoltate dal giradischi insieme a lei e Rina, nella sua casa di Zefiria.
Il ricordo più tristemente incisivo puntò più in alto: fu la scomparsa “contemporanea” di due suoi idoli giovanili, mai rinnegati: Albert Camus e, appunto, Fred Buscaglione. Forse poco accomunava quei due teneri “mostri”, ma certo la fine tragica e identica, la giovane età, il fascino seduttivo, così diverso eppure ben comparabile nell’utopia della felicità tout malgré. Una vera mutilazione, in quell’inizio del Sessanta, per Paolo, che ne riempì il diario. E da allora cominciò le sue scritture camusiane, articoli e saggi, tutti pubblicati. Ma il libro, no: mancato. Per eccesso di ingordigia citatoria (vedi caso!). Restano una foresta di fogli, buoni ad alimentare brevi scritti e ricorrenti sfoghi. Ma anche tesi di laurea che un collega s’era impegnato a comporre per due distinte laureande in due distinti periodi separati da un paio d’anni. E avevano diviso a metà il compenso, col collega “tesiografo”. Consolante, quel ricordo: che almeno, in assenza del sognato libro, sia rimasta qualcosa di concreto da tanta fatica. Ma non è lecito fare tesi a pagamento? Certo che no: in teoria. In paratica, è un libero commercio del “così fan tutte”. Una versione, certo, meno hard del film dallo stesso titolo. Quanto a me, mai fatte tesi a pagamento. E nemmeno, ch’io sappia, Paolo. Questo coinvolgimento indiretto è l’unico caso. Il che non toglie che si possa scrivere un’intera tesi per una figlia, o una nipote.
Sia come sia, fra quei due idoli si stende Susanna: un nome, per un contesto ricco e longevo. “Che bella cosa sei quando ti guardo, Che bella cosa sei quando ti bacio…”
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I contatti telefonici fra Paolo e Susanna ripresero dopo un tempo più lungo del solito intervallo medio fra una chiamata e l’altra. In lui durava, spinoso e imbranante, l’imbarazzo di quel pesante segreto. Così lasciò cadere tante opportunità di telefonare: gli si era sviluppata una specie di paura, e non la chiamava. Rimaneva solo in casa ed era tentato di fare il suo numero, ma finiva sempre col rimandare: chissà, forse Rina tornerà più presto del previsto; forse verrà a trovarmi qualcuno dei figli, e dovrò interrompere bruscamente la conversazione; e poi, oggi non mi sento in forma. Eccetera: scuse e pretesti di grana grossa, insomma. Finalmente, una sera di medio autunno si decise a rompere i pretestuosi indugi. La chiamò e la solita nota cara voce arrochita gli rispose. Non ebbe bisogno del convenzionale “Sono io...”: la sua vocalità antica, chissà se poco o tanto modificata dai tempi della scuola, era ormai saldamente fissata nella risvegliata memoria di Susy.
In questa prima chiamata dopo la grande rivelazione altri particolari si aggiunsero alla composizione del caso, ma Paolo evitò di fare domande adesive al midollo sensibile della cosa. I nuovi particolari riguardano essenzialmente la reazione varia e mutevole dei familiari allo scandalo. E dunque qualche risposta piccata di Susy alle reticenze di fratelli e sorelle, nipoti e cognati.
E poi il solito florilegio di notizie sulla propria esistenza delusa, la sua collaborazione professionale con l’amico, gli incontri sempre più rari, la relazione ormai stanca, non si sa quanto logorata, benché protetta, in certa misura, dalla distanza fra gli incontri e dalla reciproca indipendenza biografica e logistica.
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Quanti anni trascorsero in questa routine lenta di rapsodici incontri telefonici? Non saprei precisare, ma non molti. Poi si verificò l’imprevedibile: un incontro “in carne e ossa” fra i due amanti incorporei. Paolo era in Calamagna per una breve vacanza estiva, ospiti, lui e Rina, del fratello di lei, nella grande casa di Letizia Marina. Una mattina Paolo, da solo, si recò a Zefiria. Aveva indossato il costume da bagno: avrebbe fatto il bagno nel mare zefirese? Non ne era certo, e si affidava al caso. Passeggiò lungo le vie segnate dal suo soggiorno lontano, quando abitava in quei luoghi. Non ritrovava più che le sole strade: l’abitativo era tutto sconvolto. Nella via Bengasi, la sua strada al tempo della “prima Susanna” l’area già occupata dalla casa e dall’annesso orto dell’avvocato Carolui ospitava, ora, un comunissimo palazzotto condominiale di ben sei piani, certamente in parte abusivi (e chissà come sanati in quell’ambiente di complicità diffuse fra costruttori, politici e mafiosi). Una permuta, certamente: quale, l’appartamento (o gli appartamenti: almeno due, suppongo) dell’avvocato? Era ancora in vita, lui? E la moglie? Di Rosanna si erano avute notizie: aveva fatto la carriera universitaria, e a quell’epoca era già professore aggregato di Storia moderna nell’ateneo zanglese. Ma dei genitori, Paolo non sapeva nulla. La casa dove abitava lui con la sua famigliola aveva subito modifiche anch’essa, ma era ancora riconoscibile: avevano, tra l’altro, murato l’ingresso sulla via Bengasi, che garantiva l’autonomia della parte terrana in locazione. Intatta era rimasta la casa vicina, sul fianco sinistro della “propria”, col suo florido giardinetto davanti alla costruzione abitabile: ma lei, la prosperosa signora che l’abitava, sempre fresca di parrucchiere, viveva ancora? Improbabile: avrebbe avuto più di novant’anni. La casa “giardinata” era soltanto terrana, e il figlio della simpatica signora era stato alunno di Paolo al suo primo anno di insegnamento statale da supplente annuale all’istituto commerciale di Siderato. Una foto riproduce Paolo al centro di un terzetto le cui ale sono il figlio della signora, Daniele Calvise, e un secondo suo alunno dello stesso istituto ma di altro corso: Carmelo La Grotta. Quest’ultimo era morto. Paolo aveva appreso la brutta notizia in circostanze impensabili, dalla gentile bocca di una sua nipote. Era, costei, in compagnia del padre anziano cardiopatico, fra la clientela in sala d’aspetto di un noto cardiologo liotrese: un barone universitario, direttore di un celebrato istituto di cardiologia di quella città, e in piena attività illegale, con visite, in quella metà degli anni Novanta, da 350.000 lire in libero nero seppia. Un esemplare caso di sanità insana. L’ex alunno, zio della fanciulla, era stato ucciso da un cancro ai polmoni. A soli quarantotto anni: fumava come il classico turco. Paolo, toccato nelle corde della sensibilità profonda, aveva iniziato un racconto su quell’incontro e le sue implicazioni emozionali. Pensava a quel suo sventurato studente, che tanta parte aveva avuto nella sua vita dei primi anni magnogreci, a quella giovane nipote nubile, sacrificata accanto al padre, che veniva da così lontano a versare terra di denaro sporco nelle bramose canne di quel Cerbero mascherato da medico e figlio ideale di un brutale Ippocrate capovolto. Pensava al ritorno di quella tenera coppia in un paesino sperduto fra le montagne della Limina, nel cuore della notte decembrina. Insomma, c’era abbastanza materiale per un racconto vibrato e sfaccettato. Che tuttavia, come molte cose del mio amico, è rimasto sospeso alle prime cartelle di video-scrittura. Magari, un giorno o l’altro, salterà fuori, invece, compiuto e rifinito: chi lo sa. Sono tante le carte lasciate in eredità da questo prodigo grafomane. Nonché campione dell’interrotto. E dell’abbozzo.
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Ma torniamo all’incontro zefirese. Paolo continuò il suo nostalgico giro dei posti più ricchi di memorie personali. Finché non decise di fare una capatina sulla spiaggia. Avanzando verso il lungomare rivedeva scene lontane: il primo incontro con Susy dopo sette anni di buia lontananza senza notizie; la volta che si trovarono in spiaggia, in quella spiaggia, lei con le sue bambine e Paolo con Rina e Giampiero. Poi “visualizzò” l’incontro del “nono anno” (ossia, del sedicesimo dalla maturità di lei): era avvenuto lì, subito “dentro” il lungomare dall’ingresso più centrale. Altri tempi, irrecuperabili e cristallizzati in scampoli mitici, del tutto, come dire?, improduttivi. E lui era ormai un quasi vecchio professore. Tutto sommato, perché negarsi un soffio di sentimentalismo? “A chi faccio male, a chi devo dare conto?” E avanzò verso quel tratto di spiaggia che li aveva visti insieme, completi di famiglia nella calda estate del remoto 1973.
Avanzando, ammiccava verso la probabile zona-meta di quell’anno. A un certo punto ebbe l’impressione che un fantasma della sua immaginazione si frapponesse tra l’occhio suo e la realtà: più o meno nel tratto memorizzato una donna in costume da bagno gli ricordava Susanna: s’era alzata avviandosi verso un locale ombrato presente su quel segmento di lungomare. Un cappello da sole la difendeva dalla furia canicolare e occhiali neri facevano lo stesso servizio per gli occhi. Che perciò non erano visibili. Tuttavia, più lui si avvicinava più la somiglianza lo sbalordiva. Somiglianza di corpo e movenze, innanzitutto, ché il viso era poco visibile. Certo, non era la fresca ragazza del trentennio precedente, e non era nemmeno la matura signora rossa incontrata al ministero del lavoro, e tuttavia ricordava l’una e l’altra. Fu incerto fino a un metro da lei, che da parte sua, non gli aveva badato: a che scopo guardare un vecchio probabilmente calvo, con un ridicolo berretto bianco sulla pelata? Lei approdò sul lungomare, salì sul marciapiede, si avvicinò al locale alberato, entrò. Paolo si guardò tutta la scena e attese che la donna del mistero uscisse dal bar con le sue bottiglie di aranciata e Coca Cola nelle mani.
La donna aveva avuto il tempo di percepire quella manfrina ambigua (galante? voyeuristica?) e rispose all’attenzione dell’anziano con sguardo di crucciata aria interrogativa. Pochi secondi di sbalordita incertezza, e avvenne il piccolo miracolo: professore, lei! Susanna, tu! E come mai, e che strano caso è questo, e che ci fate qui, e tu che ci fai. Non ho chiesto a Paolo di precisare la durata del cinguettio slogato che si snodò fra i due smarriti reduci del buono e del cattivo tempo antico. Basti ricordare che presto Paolo corresse Susy:  Ma come, mi dai del lei e del voi? E’ che per un momento Susanna era tornata l’alunna del magistrale, la quale, in pubblico, doveva dare del lei o del voi al professore. E poi: lui pareva solo, ma chi poteva sapere? Forse nelle vicinanze c’era Rina, che avrebbe potuto ascoltare e vedere. Non ricordava, Susanna, se Rina avesse accettato, in quegli anni, non più prossimi, del ritrovarsi e frequantarsi (sia pure nell’angusto possibile), il suo latino tu rivolto al marito.
Non c’era nessuno, con Paolo: Rina era andata a fare spese con la cognata nel paese montano di Letizia Jonica, e lui aveva fatto quel salto solitario a Zefiria in chiave tutta memoriale e sentimentale. Si trovava a Letizia Marina, ospite con Rina del fratello di lei e della cognatina ciarliera, patita di gossip (siamo già negli anni di questa voga: gossip, non pettegolezzi. Come fitness, non …). No, non c’erano figli né nipoti con loro. E lei, Susanna, come mai si trovava nell’ultimo posto al mondo in cui l’avrebbe immaginata? Anzi, nel paese dove aveva più volte ripetuto e giurato che non sarebbe più tornata? Ecco la spiegazione, pedestre, poco magica, e tuttavia dall’alone magico tutt’altro che aliena. C’era stato un lutto in famiglia: una sua zia, sorella della madre, era morta qualche giorno prima. Lei aveva un debito di riconoscenza con questa zia (che l’aveva allevata in buona parte) ed era venuta a raccoglierne gli ultimi fiati. Non la giudicassi per quella presenza in spiaggia: a che scopo fingere e recitare un lutto maggiore del reale? E poi, in paese a chi doveva dare conto, dopo trent’anni di salutare, duplice lontananza? Giudicarla? Era l’ultima cosa che l’euforico e frastornatissimo amico potesse pensare. Piuttosto, brancolava ancora nelle rosee nebbie della sorpresa per quelle coincidenze, previsionalmente così difficili, eppure benignamente calate nella realtà. E non aveva ancora dipanato quella matassa, non ne aveva colto altri fili più improbabili di un pure scarsissimamente probabile semplice incontro in quel luogo segnato.
Come mai Susy si trovava proprio in quel tratto di spiaggia, e non più a nord o più a sud? La risposta della donna gli accese nel sangue la sua parte di supplemento elettrico. Confida, Susanna: “Non so come, non so perché – trascrivo e riassumo da un taccuino tascabile di Paolo – stamattina, al risveglio, mi è venuta in mente la volta che siamo stati insieme in questa parte di spiaggia e poi in questo locale, noi tre soltanto, tu con Rina e io da sola, già separata (la prima fase) da quel gentiluomo di mio marito. Ricordi?” Le oziose domande (pur così dolci al palato di Memoria emotiva)! Se ricordava, lui? Paolo non aveva dimenticato nulla di significativo della loro vicenda. Solo dettagli di puro contorno. Almeno, così credeva lui. E così recitò alle orecchie di Susanna.
“Ricordo perfettamente (anche se, dopo ventitre anni, in forma condensata). Ricordo le tue confidenze a Rina, la mia ostentata finzione d’indifferenza al tuo fascino sempre in azione. Raccontavi le tue disavventure coniugali e i guai di salute tuoi e delle piccole.”
“Lasciamo stare il mio fascino, già allora ormai quasi spento...”
“E figuriamoci oggi, no? Invece non è vero. Non era vero allora, al tempo dell’incontro qui, quando la tua bellezza sfolgorava quasi intatta, malgrado le sofferenze subite. Non è del tutto vero neanche oggi, che sale con benigna fatica da un sottofondo di crudeli attentati clinici ed esistenziali, ma non ancora spenta, solo modificata, attenuata, se vuoi, ma non dirmi spenta.”
Ovviamente, l’appunto trascritto non fu versato brutalmente come qui appare nelle orecchie impreparate di Susy: parole e frasi più semplici dovettero precedere nell’oralità la civetteria di questa elaborazione litterata (destinata, forse, a ulteriori trattamenti). Rispose Susanna (più o meno).
“Sarà. Magari soltanto agli occhi tuoi. E se non tutta di verità, perlomeno sa di consolante galanteria. E’ stato, quello di ventitre anni fa in questo luogo, il primo incontro vero e sincero, dopo la burrasca dell’impatto in casa dei tuoi cognati.”
“Sì, ricordo, la freddezza punitiva, ma tanto sofferente, di Rina, la tua fuga nell’angolo del ballatoio sopra il giardinetto, le tue lacrime....”
“Oh bravo, vedo che hai fissato bene gli episodi della nostra storia.”
“Hai dimenticato che sto scrivendo il nostro romanzo? Ho preso nota di tutti i fatti importanti nei miei diari. E talvolta anche dei minimi. I più significativi li ho descritti abbastanza estesamente, anche se, spesso, in chiave cifrata.”
“Cifrata, come? Che vuol dire, esattamente?”
“Vuol dire, mascherata, schermata...”
“Fin qui ci arrivo, ma è un po’ generico, no?
“Preciso. Più frequentemente, la verità veniva tradotta e nascosta in ironiche frasi filosofiche per un gioco di sorridente polemica anti-metafisica. Come puoi capire, l’intento principale era di sfuggire alla corretta interpretazione di Rina, nel caso una mia distrazione le avesse consentito l’accesso ai miei diari.”
No, Susanna non l’aveva dimenticato, l’impegno del romanzo. Anzi gli suggeriva di affrettarsi a concluderlo, o magari soltanto una prima parte, se gli veniva troppo lungo (come lui aveva accennato in una delle loro telefonate): per avere più probabilità di leggerlo – diceva. Visto quel che fumava, non si sentiva sicura di poter toccare l’età dei genitori. Il suggerimento era saltato fuori nella penultima telefonata, e ora Susanna lo ripeteva, convinta che fosse la prima volta a dirlo.
Dunque, le era venuta in visione quella “serena chiacchierata”. Non sapeva come e perché. Forse, azzardò, aveva fatto un sogno sull’argomento, e non lo ricordava. A una certa età capita di dimenticare facilmente i sogni. Ora che veniva indotta a pensarci, ma sì, una sensazione vaga di avere bazzicato in sogno quei personaggi fluttuava nella sua “memoria sbrindellata”. E così era venuta intenzionalmente in quel duplice luogo, la spiaggia e il locale, per riprovare, in qualche modo, quel momento di serenità nella ricostruita amicizia, dopo i sette anni di “buio totale e freddo”. Naturalmente, molte cose erano cambiate “da quel tempo ormai mitico”. Non c’era più nessuno dei vecchi proprietari, probabilmente morti, e non era lo stesso neppure quel tratto di spiaggia. Il locale, poi, s’era ingrandito e abbellito. Come, del resto, tutto il lungomare, prolungato nella parte asfaltata e concluso con un delizioso boschetto di varia flora, ma soprattutto pini, confortato di invitanti sedili in legno, e qualche tavolo contornato di sedie per eventuali veloci picnic.
La silfide Coincidenza, mentre lei parlava, aveva lavorato nella mente di Paolo attizzandovi altre emozioni. Anche lui era venuto in quel segmento di spiaggia e in quel locale spinto dallo stesso ricordo. Che lui preferiva chiamare “reviviscenza proustiana”, così intensi e vividi erano quegli sgorghi emozionali e così chiare certe loro improvvise immagini. Ne schizzò via un inciso stranamente alieno: “Ecco perché gioco al lotto, qualche volta, e anche al super-enalotto. Questo nostro incontro aveva più o meno le stesse probabilità di un terno al lotto o di un “cinque più” al super-enalotto”. Già, le stesse. Più o meno.
Dopo avere incollato questa coda allotria al tenero amarcord sentimentale, Paolo avvertì un senso di disagio (così scrive nel taccuino tascabile). Come di una stonatura. Ma, dice, l’inclusione scivolò innocua su un sorriso di commento un po’ ironico di Susy. Che volle ricordare: “Mi pare che ai nostri tempi, non giocavi, e consideravi debolezze popolari, o – come dicevi? ah, sì – piccolo-borghesi questi inseguimenti della fortuna.”
“Sai come accade, si diventa più indulgenti verso le debolezze umane, con gli anni in crescita sul groppone (o groppino che sia). Basta non lasciarsi travolgere e agire sempre con misura. Allora non c’è vergogna a sfidare sua maestà, anzi divinità, il Caso, regolatore inappellabile di tante vicende umane.”
Come era sfacciatamente manifesto in quella incredibile coincidenza a più risvolti: un lutto porta Susy a Zefiria, Paolo si trova in Calemagna; Susy è venuta da sola a Zefiria, il suo Marco rimasto a Milano, vincolato al lavoro; Paolo si sente spinto a un vagabondaggio memoriale e scende solo a Zefiria; Susy viene in spiaggia; un sogno la orienta sul tratto di lungomare, di fronte al locale del 1973; Paolo ricorda pure lui quell’incontro di ventitre anni prima, e sceglie lo stesso segmento di spiaggia e lungomare. Ce ne vuole, a radunare un simile bouquet di coincidenze parziali e raggiungere quell’improbabile totale.
Paolo non seppe evitare domande sui rapporti tra lei e quel lui: stentava a mettere insieme i due nomi, quel gemmato “Susanna” accanto a quel “Marco” predone gli disturbava la peristalsi. Né convinse Susanna che fossero domande “neutre”. Lui, prevedibilmente, si augurava, per un verso, che quei rapporti si esaurissero e Susy (ma sì, meglio la contrazione, così odorosa di ghiotte susine) rimanesse di nuovo libera, ma per un altro verso, temeva l’evento come una disgrazia per lei: cosa avrebbe fatto senza quel lavoro e quel “sussidio”? Egli non poteva aiutarla in nessun modo concreto: le sue magre finanze di pensionato erano affidate, da sempre, alle sagge mani di Rina, vocazionalmente incline al risparmio oculato; e la sua “mensilità personale”, calcolata per spese modeste (benzina, qualche giornale e libro di prezzo economico, un caffé al giorno, e simili ) poteva farla oscillare entro margini stretti: ad evitare scontri stressanti e interrogatori snervanti da parte della saggia (e implacabile) amministratrice domestica. E poi, Susy avrebbe accettato quell’aiuto? Domanda oziosa: era sicuro che no. Non in quelle condizioni. In altre (ben altre!), forse sì. Anzi, certamente: perché “forse”?

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(1)Una rivelazione tardiva del solito Cossiga, miniera di segreti pudendi (e di qualche azzardo ermeneutico), riattizza il fuoco dell’interesse e le fiamme della polemica tornano a lingueggiare intorno a Ustica. Eccolo qui il segreto svelato, bello e rotondo: l’obiettivo di quel “trambusto” era Gheddafi. Il quale, non essendo stupido, aveva provveduto a una trappola per i suoi sbrigativi cacciatori. E ne andò di mezzo quel folto di ignari innocenti: una geniale trappola, insomma, che sbaglia volpe e fa un atroce macello di agnelli. Come dire: l’ennesimo test del cinismo politico.

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