giovedì 22 aprile 2010

SUSANNA, Frammento 64


“Quando ci prende la paura, nonostante lo stupore in cui viviamo, i gazzettieri si adoperano per dissipare i nostri timori, e con le loro promesse si potrebbe fare l’Antologia dell’Impostura. Un giorno berremo l’acqua dei poli, dove le banchise provvederanno alle nostre necessità; un giorno trasformeremo qualsiasi cosa in cibo succulento; un giorno i cumuli di rifiuti sprofonderanno nelle viscere della terra dopo essere stati ammassati lungo le faglie, in fondo agli oceani; un giorno non dovremo più lavorare per vivere, e passeremo il tempo a distrarci; un giorno colonizzeremo, uno dopo l’altro, tutti i pianeti. Queste scempiaggini vengono pubblicate nel momento in cui tre quarti dell’umanità vivono peggio dei nostri cani o dei nostri gatti, senza alcuna speranza di uscire dall’abiezione, nel momento in cui l’ultimo quarto, al quale si promette l’abbondanza illimitata, ha non poche ragioni di dubitare dell’autenticità di queste meraviglie. Giacché basterebbe una guerra per diffondere la fine con la velocità del lampo, a ondate successive, sulla superficie del globo, e far languire i superstiti dell’orrore assoluto sotto il giogo dell’antica indigenza.
Albert Caraco, Breviario del caos, trad. it. Adelphi, 1998

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Il decennale del Caso Moro, la convocazione del Pertini presidente che tuona contro gli speculatori del sisma irpinico, la dimensione dei due eventi tragici addensano un groppo che ci risveglia il ricordo di un ventennale non meno drammatico, anche se diversamente tragico: il mitico ’68, così gonfio di umori e clamori, aveva avuto un inizio copiosamente funesto nella Sicilia, col terremoto del Belice, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio: Gibellina, Salaparuta, Santa Margherita Belice e altri paesini e villaggi furono polverizzati nelle povere case senza difesa e centinaia di abitanti rimasero sotto le macerie. Un incipit buono a titillare la sensibilità superstiziosa della troppa gente disponibile alla transumanza metafisica. Chi superstizioso non è si limita a ricordare che anche quest’ennesimo capriccio delle cieche forze di Gaia divenne presto occasione di imbrogli contabili ruberie falsi ideologici: insomma, affari loschi di pura speculazione sulle sventure altrui. Mentre molti dei sopravvissuti aspettano ancora case e restituzione di dignità: purtroppo, chi la dignità l’ha sequestrata, cioè i politici in grado di agire, sono lenti in queste operazioni. Ma svelti nell’altro genere, sopra accennato. Naturalmente, in contesto-combutta con la malavita organica. E il tutto sia detto senza piallare le piccole differenze né misconoscere le minoranze sensibili tentate dall’onestà solidaristica. Anche se condannate alla sconfitta o al silenzio coercitivo. Che poi è la stessa cosa. Quando la sconfitta non si tinge addirittura di rosso sangue risolutivo.
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Poiché si tratta della Sicilia, la Regione per eccellenza a statuto speciale, non sarebbe facile rinunciare a un cenno di doveroso ossequio per tanto mirabile realtà pluridimensionata: sociale, politica, antropologica, etica, e via strombettando. Il cenno attraversa un libro di rara schiettezza e completezza di analisi-denuncia: Saverio Lodato, “Potenti. Sicilia, anni Novanta”. Un saggio ormai vecchio (Garzanti, 1992) scritto e pubblicato poco prima della strage di Capaci, quando il peggio di quel male in queste schiette pagine ampiamente recensito non sembrava nemmeno prevedibile, a mortificazione dell’immenso carniere già riempito di morti ammazzati dalla polimafia. Già la Prefazione, tra sobria commozione e pungente ironia, restituisce l’odore acre di un tempo tragico, anticipando nel presentimento l’enfasi tenebrosa di quel tale “peggio”, davanti al quale non si prevedono barriere insuperabili. Neppure in questo inizio del terzo millennio. Ci piace, quel preludio, anche per la sfilata di vittime cui, nel nostro piccolo, rendiamo omaggio citandone i nomi (purtroppo vanamente) gloriosi.
“Troverete quattro storie dalla Sicilia, quelle che sui giornali è sempre più difficile leggere perché, come si sa, i giornali hanno poco spazio, vanno sempre di fretta e traboccano ormai di ‘picconate’.” L’allusione al Grande Sardo, picconatore autopromozionale, suona come il “la” dell’intera partitura. Ma torniamo a leggere. “Di mafia si è parlato e scritto molto. E dopo trent’anni di silenzio sull’argomento, questo è un primo grande risultato. Abbiamo capito cosa accadde in Sicilia fra l’l’80 e il ’90, quando l’intera rappresentanza delle istituzioni venne spazzata via a colpi d’arma da fuoco. Conosciamo i nomi di Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuele Basile, Mario D’Aleo, Giuliano Guazzelli, poliziotti e carabinieri assassinati per aver fatto il proprio dovere. Conosciamo le limpide storie dei magistrati Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto e Rosario Livatino, degli uomini politici Mattarella e La Torre. O le storie, altrettanto belle, di grandi professionisti che non si vollero piegare: mi viene in mente, fra i tanti, il medico Paolo Giaccone, che non si prestò alla richiesta di perizie addomesticate da parte delle Cosche.” Pentiti e investigatori ci hanno informato sulla struttura e le logiche terroristiche di Cosa nostra, del grande business della droga e così via. Ma sappiamo ancora “troppo poco sui mandanti e sugli esecutori” – scriveva l’autore quando i pentiti non facevano ancora nomi di politici collusi (salvo un caso, finito tragicamente). Allorchè, dopo la morte di Falcone e Borsellino, cominciarono le passerelle dei nomi, la Grande Complicità scattò a protezione dei grossi Compromessi, e quei signori, nel convergente intreccio di cavilli prescrizioni escamotage vari, si sono salvati (tranne qualche testa meno eminente). E se un Salvo Lima ha pagato con la vita la coatta inadempienza agli obblighi “contrattuali” verso Cosa Nostra, il suo referente nazionale ha superato la novantina tra gli applausi di suore e monsignori. E con la benedizione papale.
Mentre l’impegno del giornalismo onesto puntava sui misteri dolorosi della Sicilia mafioso-collusa le trasmissioni televisive di denuncia, come “Samarcanda”, venivano chiuse: a far capire che era giunta l’ora del ‘serrate le file’ contro i disturbatori del Grande gioco. “Con la chiusura di ‘Samarcanda’ in campagna elettorale, il Palazzo ha indicato le sue ‘leggi’ con brutale evidenza. Ha voluto ribadire che la biografia politica di Salvo Lima doveva restare nascosta [...] ‘Samarcanda’, invece, si era permessa di disturbare i ‘manovratori’ (Andreotti e Forlani) nel momento in cui osavano l’impossibile: presentare Lima come un politico ‘svedese’, paragonarlo persino a tutte le altre vittime di mafia. C’è di più: la trasmissione di Santoro richiamava l’attenzione sull’intreccio mafia e politica, mentre la nuova linea ministeriale si concentra esclusivamente contro i boss che sparano. Era troppo e ‘Samarcanda’ ne ha fatto le spese.”
Le quattro storie promesse dalla prefazione brulicano di nomi, fatti e misfatti, già largamente “censiti” dalla cronaca di quegli anni e dei successivi. Ma la prosa dell’autore le rivitalizza con palpitante rilievo. Che viene a dire, tra le altre cose, con coraggio civile e nessun pelo sulla lingua. La prima storia è lo svolgimento del caso Libero Grassi, dagli inizi della sua resistenza al racket all’esito tragico, e da questo alle sue conseguenze positive nel senso di un risveglio di attenzione sul tragico problema della mafia estortiva: una specie di vittoria postuma emergente da quella tomba eroica, preparata anche dall’omertà tetragona dei colleghi di quel “giapponese”. Della lunga intervista a Pina Grassi, la vedova di Libero, è difficile non trovare un passaggio avvincente. Come quando parla della coesione familiare intorno al capo, deciso a non mollare. O della viltà dei “colleghi” che, negando l’evidenza, accusavano Grassi di offrire un’immagine deformante della magnifica Isola lavoratrice e casta. O ancora quando interpreta l’assassinio del marito: “Perché Libero è stato ucciso? Forse perché, dopo la sua lettera aperta al ‘geometra Lanzalone’ [il finto nome del “messo” mafioso del pizzo] pubblicata dal ‘Giornale di Sicilia’ [...] e intitolata ‘Cari estorsori non vi pago’, qualcuno si deve esser detto: qui perdiamo la faccia e perdiamo anche la piazza...perdiamo tutto. Quella denuncia, Libero mi disse di averla scritta anche nell’interesse degli altri imprenditori siciliani e palermitani. Quindi si aspettava da loro un segno di incoraggiamento. Ci rimase molto male quando gli dissero che quella denuncia li danneggiava e che i panni sporchi non bisognava lavarli in pubblico. Bisogna tener presente che era già uscito il primo libro mastro dei Madonia con l’elenco delle persone che pagavano. E quando Libero invitava tutti a denunciare i soprusi subiti diceva: se in cento ci comportiamo allo stesso modo non possono ucciderci. Ma da parte delle associazioni di categoria l’appoggio non c’è stato. E’ strano. Ma tutti quanti ritenevano che pagare in silenzio fosse molto più logico e più tranquillo. E si lamentavano del discredito che Libero gettava sull’imprenditoria, nella convinzione che il discredito non è che il fatto avvenga, ma che si sappia. Un altro episodio clamoroso fu la sentenza del giudice catanese Luigi Russo, secondo cui pagare tangenti alla mafia non è reato. Per Libero fu un altro colpo, diceva che quella sentenza avrebbe assolto reati passati, presenti e futuri.” Unico conforto, l’accennata solida coesione familiare. Scrive Lodato: “L’incredibile avventura di quest’imprenditore che aveva spezzato le regole del gioco durò otto mesi. Mesi, dice Pina Grassi, di ‘alti e bassi’. Fra gli alti, la soddisfazione di un riconoscimento solenne, di dimensioni nazionali e risonanza internazionale: nel giugno del 1991 “la Confesercenti nazionale lo invitò a Roma per una manifestazione organizzata tutta per lui, che si concluse con l’assegnazione di una targa ancora oggi conservata in fabbrica”. Un’iniziativa, rimemora Pina, “che lo gratificò molto, e che considerò un riconoscimento finalmente importante da parte del mondo imprenditoriale. Cresceva in qui giorni anche il movimento antiracket di Capo d’Orlando. Erano altri segnali di controtendenza”. Ma non tali da scuotere le “mummie imbalsamate ottime per tutte le stagioni e abilissime nel giocare con le parole. Libero Grassi, allora, ridiventava facilmente il ‘giapponese’, l’‘alieno’, il ‘protagonista, che aveva gonfiato a dismisura fatti episodici e marginali, come per esempio un’estorsione”. Il bersagliamento vessatorio (furto del cane, furto di ben 60 milioni, cioè la paga dei suoi operai, ecc, ) si faceva sempre più stringente. Ma continuava ad infrangersi contro la corazza caratteriale del renitente impavido. Che costrinse le “mummie” a prendere la parola, denunciando un fatto notorio, ma sepolto sotto una coltre di solidale omertà silenziosa (“Perché dovete sapere che in Sicilia si è tanto più potenti quanto meno si ricorre alla parola”): “tutti gli imprenditori palermitani” pagano il pizzo, “in silenzio”, ma pagano”: “Le mummie dunque si tolsero le bende e furono costrette a prendere la parola. Un diluvio di imbarazzati luoghi comuni. Sociologismi d’accatto per replicare a verità brucianti. Statistiche dialettali per zittire il ‘giapponese [...]. C’era l’associazione degli industriali chiamata direttamente in causa da Libero Grassi. La dirigeva... Salvatore Cozzo, limiano di ferro. L’uomo che non perdeva occasione di ripetere pubblicamente che Grassi sbagliava. Che danneggiava l’immagine della Sicilia. E lo accusava di creare tempeste in un bicchiere” . Ancora parole di Pina Grassi, parole di cruda verità: “Ricordo bene che Libero, quando si eleggevano gli organi dell’associazione degli industriali, poneva provocatoriamente la propria candidatura. Quando si faceva lo spoglio dei voti si trovava solo il voto che aveva dato a se stesso”. L’Osservatorio Libero Grassi, sorto subito dopo la sua “immolazione”, pubblicò “il suo primo quaderno raccogliendo i documenti-chiave di una brutta polemica che contribuì all’operazione terra bruciata. C’è il testo dell’intervista telefonica che [...] Cozzo rilasciò al ‘Giornale di Sicilia’ undici giorni dopo la lettera aperta del ‘giapponese’ al ‘geometra Anzalone’. Domanda: le risulta che altri industriali subiscano intimidazioni e paghino il pizzo? La mummia non si scompone: ‘Abbiamo 550 aziende associate. Noi non abbiamo mai avute segnalazioni’. Il giornalista ricorda che nella borgata di Brancaccio, ad alta densità mafiosa, ci sono fabbriche che sono state più volte ridotte in cenere dal racket. La mummia tira dritto per la sua strada: ‘Lo so, ed è vergognoso. Ma non dobbiamo fare più drammi di quelli che realmente esistono. Se no la Sicilia apparirà sempre come terra di criminalità. Cosa crede? In altre regioni, la Lombardia in testa, la delinquenza non scherza. Ma lì si minimizza. Le ‘buone famiglie’ tendono a tacere”. Commentino di Lodato: “Bravo Cozzo. Davvero ben detto. Da che mondo è mondo le ‘buone famiglie’ tacciono. Non come quei perdigiorno dei Grassi che non facevano altro che strillare... E perché non rimangano dubbi sul ‘cozzopensiero’”, ecco altre “due ‘meravigliose’ risposte” a ‘L’Ora’: “Io, per esempio, non ho mai ricevuto alcuna richiesta di pizzo. Ma ho già dichiarato che non sono il confessore dei seicento imprenditori che aderiscono all’associazione industriali. Ci sono quelli che subiscono il pizzo e quelli che non lo subiscono, e questo dipende spesso dal territorio in cui operano e dalle realtà che incontrano. Non si può generalizzare. Grassi sta demolendo l’imagine dell’imprenditoria palermitana”. E la seconda: “Ma cosa dovremmo fare secondo Libero Grassi? Dovremmo dire ai nostri associati: rifiutatevi di pagare il pizzo? Dovremmo fare campagne continue in questo senso? Allora noi spogliamo la nostra associazione dei suoi compiti istituzionali e cambiamo mestiere. La nostra azione è diretta verso altri obiettivi: primo fra tutti, la promozione dello sviluppo produttivo. Non possiamo farci solo vessilliferi della lotta alla mafia. Abbiamo altri compiti, altri doveri”. Il campionario dei “cozzo-pensanti” non era magro: ricordandone un altro di peso, il socialista Giuseppe Albanese, presidente dell’Associazione piccoli industriali, apprendiamo che il campione soffriva “di una strana forma di strabismo teorico: dove c’era mafia lui sospettava terrorismo”. Ad un convegno, su “Tranquillità ambientale e sviluppo economico” alle “provocazioni” di Libero Grassi l’ineffabile aveva replicato con questa meraviglia di parole-fantasma: “La risposta che diamo noi imprenditori è di tipo occupazionale, di impegno di pulizia, di trasparenza. Non ci possiamo sostituire agli organi dello Stato. Ciascuno di noi deve fare il proprio dovere, nel ruolo che la società ci ha dato o che ci siamo presi, perciò la mia dichiarazione è in linea con questo principio; e debbo dire che ancora oggi la risposta non è stata data, perché non ci sono condanne di reati di tipo mafioso. E’ grave. C’è una condanna, ci sono condanne, c’è un colpevole di cui si possa affermare che era mafioso o era terrorista? Questo è il problema. Allora io dico che se ci fossimo preoccupati di fare ciascuno il nostro dovere forse oggi sarebbe più facile anche per la giustizia arrivare a dirmi chi è stato un mafioso o un terrorista, perché stiamo ancora a discutere su ipotesi, dato che non c’è niente di certo...”. Commentino di Lodato: “Pensiero raffinatissimo, quello di Albanese. Chi ha mai detto che è stata ‘sicuramente’ la mafia a mettere a ferro e fuoco la Sicilia? Le sentenze di Cassazione a quella data, infatti, cancellavano puntualmente i verdetti di primo e secondo grado. Aguzzando l’ingegno, Albanese sottintendeva: come fa Libero Grassi a dire che le richieste estorsive provengono dalla mafia?” Un altro nome dentro un’altra vicenda significativa. “Perché la galleria delle mummie sia completa bisogna ricordare la Confcommercio regionale”, diretta da Alfredo Spatafora, “consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia, del quale dicendo che è una superpotenza siciliana non c’è altro da aggiungere. Insofferente quando in associazione si affrontava il tema mafia, preferiva spostare il discorso sulle rapine e si è sempre lamentato di averne subite tante nei suoi negozi di scarpe sparsi per tutt’Italia. Ma quando nel dicembre ’89 venne scoperto il primo ‘libro mastro’ di Madonia, il suo nome figurava fra quelli degli 84 imprenditori, commercianti e gestori di locali pubblici che pagavano i mafiosi. Tuttavia, secondo gli investigatori, Spatafora godeva di uno straordinario trattamento di favore, visto che sborsava molto meno di quanto avrebbe dovuto, in proporzione alla sua ricchezza. Lui tagliò la testa al toro negando con decisione di aver mai pagato. E tutto finì lì”.
Naturalmente, Pina Grassi e figli vivono sotto scorta, e la signora, raro esempio di dignitoso equilibrio, non inveisce e non recrimina, lasciando a chi ne ha il compito, o, da buon giornalista se lo assume, l’onere delle analisi severe e doverose. Lei apprezza il ritrovato affetto delle persone. I clienti, uomini e donne, non evitano più il suo negozio. “Sono tutti meravigliosi”, dice al giornalista, “deliziosi, affettuosi. Nella gente ho ritrovato il calore umano, i clienti che vengono in negozio non sono marziani, non fanno finta che nulla sia accaduto, mi sono vicini, mi dicono: signora l’abbiamo seguita e la seguiamo sempre...”.
“Si è fatto davvero tardi adesso”, si avvia a concludere l’intervista Lodato. “E’ già sera su questa Palermo dai mille e mille delitti impuniti. Nell’Alfetta ci sono altri uomini, segno che le pattuglie si sono date il cambio. Pina Maesano Grassi si prepara a tirare giù la saracinesca. Guardo quelle tende che mi sembrano incredibile metafora di quanto è accaduto. Libero aveva squarciato i sipari e tante mummie erano state costrette a fare capolino”.
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La quarta storia del volume traccia un sommario dell’era del pool, dei suoi successi, della sua liquidazione ad opera di giudici felloni, ministri “distratti”, politici e procuratori a rischio di “scopertura”: un convergere di istanze convocate alla protezione della politica collusa. Cassazione, Csm, singole procure operarono di concerto per frenare, fermare, disperdere il lavoro compiuto da Falcone e collaboratori con l’ascolto dei pentiti (Buscetta, Calderone, Contorno...), l’interpretazione del monolite Cosa nostra; e tante tessere di un mosaico che consentì il Maxi processo. Nomi onorati e nomi discutibili (per usare un eufemismo) si intrecciano e scontrano in un vortice di eventi concepiti come estrema ratio per bloccare l’esito di quella impresa storica. Il giudice “ Di Lello fu ad esempio uno dei pochi che non condivisero la strategia di frantumazione dei processi sostenuta dal consigliere Antonino Meli e fatta tempestivamente propria dalla Cassazione. Di che si trattava? Pietra dello scandalo furono le rivelazioni del pentito catanese Antonino Calderone. Un fiume di confessioni che avrebbe consentito un altro aggiornato processone. Ma dopo Buscetta e Contorno la misura ormai era colma, e molti vollero correre ai ripari soffocando sul nascere questo nuovo immenso filone investigativo. Falcone masticò amaro. Si rendeva conto che la sua filosofia giudiziaria, incentrata sulla monoliticità e unicità di Cosa Nostra, ne sarebbe uscita irrimediabilmente compromessa”. Sappiamo come andò a finire, malgrado gli sforzi che Falcone fece per “salvare il salvabile”, mentre imperversava in Cassazione il cavaliere dalla trista figura Corrado Carnevale, il distruttore delle sacrosante condanne dei boss, il pretoriano del cavillo, l’ammazza-sentenze. Poi condannato a sei anni per favoreggiamento di mafiosi. E con un “poi” al quadrato, anni dopo, restituito alla cosiddetta società civile con il rovesciamento della sentenza di primo grado.
Falcone fece il possibile: ecco un’affermazione che sollecita una riflessione su un buco nero della sua onorata carriera. Quando il pentito Giuseppe Pellegriti “tirò in ballo l’eurodeputato dc Salvo Lima, definendolo in qualche modo mandante dell’uccisione di Piersanti Mattarella [...] Falcone non gli risparmiò un mandato di cattura per calunnia [...] Non mancarono le critiche a Falcone per l’eccessiva tempestività di quel provvedimento, quasi che il magistrato avesse fretta di fare uscire da quella brutta inchiesta Salvo Lima. Un atto di pronto ossequio al gruppo andreottiano che, naturalmente, insorse di fronte alla chiamata in causa del suo big?”. Lodato si schermisce: “Non abbiamo elementi per decifrare quella tempestività”. E osserva che, se Pellegriti non era un pezzo grosso dell’Onorata Società, Marino Mannoia lo era: “Ma Salvo Lima venne chiamato in causa anche da un pentito doc, quel Marino Mannoia al quale Falcone ha sempre creduto. /Mannoia non era un pentito qualunque. Fu il primo appartenente al clan dei corleonesi che collaborò con la giustizia [...] Cosa disse il pentito”. Che Salvo Lima era, fra gli uomini politici, il più amico di Stefano Bontade, il grande capo mafia palermitano assassinato nell’81 all’inizio della guerra fra i clan rivali”. E indicava perfino il bar dove i due s’incontravano “quando era giorno di chiusura”. Quale fu la reazione del giudice? “Falcone registrò tutto fedelmente, ma non rivelò alcuna particolare curiosità sull’argomento”. E forse c’è di più strano: un altro libro sui misteri dolorosi d’Italia ricorda una lettera di Falcone su Salvo Lima piena di notizie positive e priva di qualsiasi appunto. Al momento non ricordo la data di quelle credenziali richieste e senza difficoltà concesse.
Siccome è difficile sospettare di un uomo che ha dato la vita per la sua missione, s’impone un tentativo di dare senso a tanti riguardi. E’ troppo ipotizzare che quel timoniere instancabile del vascello antimafia temesse, bruciando i tempi, di essere fermato? E che perciò non esitò a rischiare la reputazione, pur di evitare lo stop al suo lavoro? Stop che poi, purtroppo, gli fu dato ugualmente, fra il Meli promosso dal csm per rovinare l’indagine e il Giammanco che dà incarichi ridicoli all’uomo del Pool. E il ministro Martelli che lo chiama al suo ministero, per compensarlo delle amarezze siciliane. Né si pensava, allora, a quel peggio così largamente tragico. E troppo grosso per essere opera di sola mafia.
A conclusione del suo saggio Lodato afferma che la via giudiziaria non basta più per combattere la mafia: che nel frattenpo è cresciuta e dilaga per il mondo. Occorre, dice, “un nuovo modo di fare politica. Un nuovo modo di raccogliere il consenso elettorale. Un nuovo modo di distribu8zione delle risorse pubbliche, non più all’insegna dell’infinita discrezionalità ma valorizzando il momento del controllo democratico della spesa. Sono progetti ambiziosi. Passano tutti da una profonda riforma dei partiti”. Che ancora stiamo aspettando.
Intanto ci godiamo almeno un resumé di un tagliente profilo della favolosa Regione, degno di essere incorniciato (e che nel libro è molto più espanso e articolato). “I primi Potenti siciliani li incontriamo nei palazzi della cuccagna della Regione, in questa ‘macchina meravigliosa’ modellata su misura per inghiottire migliaia di miliardi, per elargire ricche prebende e distribuire a piene mani posti di lavoro, dove ai bisogni collettivi è stato sostituito il bisogno di caste inamovibili, in questo autentico circo equestre che chiamano il Palazzo dell’Autonomia. E proprio come nei circhi veri incontreremo i giocolieri del disegno di legge, i prestigiatori dei regolamenti interni, i saltinbanchi del dibattito d’aula, i fantasisti del bilancio di spesa e i domatori di clientele”. Insomma, un vero “labirinto della discrezionalità, del fortuito e dell’interesse particolare innalzato a principio di spesa.” Al tempo in cui scriveva Lodato la regione aveva ben 25.000 dipendenti! Ogni confronto con altre realtà omologhe del Centro-Nord ne mostra(va) la mostruosità. Per di più, tutti pagati con stipendi e pensioni favolosi. Negli anni successivi, poi, quella cifra si è gonfiata ancora, e oggi non so quanti siano quei fortunati. Senza contare i consulenti, gli avvocati e altre categorie a contratti occasionali. E le migliaia di progetti di opere pubbliche realizzate solo in parte, o mai trasferiti allo scavo delle fondamenta.
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A merito del Disordine burlone che gioca con gli eventi umani non sembra fuori tema il ricordo del Presidente della Repubblica in carica nel tempo della “tragedia Moro”: il più pittoresco, il meno confidente della gravitas istituzionale, il più compatibile con la comicità da Bagaglino. Insomma, Giovanni Leone. Avvocato, docente di diritto, piccolo di corpo, sbilenco nei tratti del volto, goffo e, soprattutto, assai “napoletano”. L’uomo che fece le corna ai suoi pubblici contestatori e fu coinvolto nello scandalo Lockeed, il bersaglio di Camilla Cederna, che ne determinò la sorte col suo pamphlet micidiale, non viene nemmeno nominato in tanto vario dibattito sul Caso Moro: quasi uno sfondo muto, senza spessore, senza volto, senza voce (che non fossero ciacole insignificanti).
Nel suo libro, La carriera di un presidente, la Cederna espone tutte le magagne di quel patetico personaggio. A cominciare dal ritrattino pepato che ne fa la moglie, Vittoria Michitto, di bell’aspetto, fidanzata, 17 anni lei, 36 lui, descrivendolo, da corteggiatore, come peggio non si potrebbe: “Saputo che facevo la terza liceo ‘mi farò nominare presidente della commissione’ fu la sua reazione immediata, ‘così la promuovo’[…] quel pozzo di scienza, quel professore, quel pedante: mi pesava soltanto l’idea di rivederlo, mi affliggerà l’anima mia, sospiravo” (naturalmente, resta il mistero del perché lo abbia sposato). Non meno memorabile l’irruzione nella sala dove l’attendeva la Cederna: un cagnolino fra le gambe, e poi le gambe larghe stravaccato sulla poltrona, e il fotografo paralizzato da una visione choccante: sblocca la situazione la moglie che si accorge dell’apertura e sussurra a quell’orecchio prominente: “Senza il benché minimo imbarazzo, seguitando a parlare di calcio (una sua passione), del mestiere d’avvocato […] con una mano rapidissima, come se giocasse, si chiude la fenditura”. Questo Topo Gigio, questo tapiro, questo gufo, ama le cause “difficili”: difende Felice Riva, un industriale che porta all’estero la cassa mammonica dell’azienda; difende il mafioso Antonio Mangiafridda, accusato dell’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale; difende la Sade, la società responsabile del disastro del Vajont, “contro gli eredi delle vittime di quella tragedia, dopo aver promesso loro, pochi mesi prima e con apparente groppo di emozione in gola, che giustizia sarebbe stata assicurata. E averglielo promesso da presidente del Consiglio”. Tra il ’63 e il ’64 Leone è presidente della Camera e poi premier di un “governo balneare”. Disinvolto nella disponibilità verso la destra, ne accetta più volte il soccorso. In competizione con Saragat, nel 64, dal magnanimo ex concorrente riceve la nomina a senatore a vita tre anni dopo. Tra giugno e novembre del ’68 torna a guidare un balneare “coatto”. Nello stesso anno stringe rapporti di affari con i fratelli Lefebvre, foraggiati dalla società americana Lockheed che vuole piazzare i suoi aerei. Planano mazzette su almeno due grossi politici, un ministro e un capo del governo. Il processo davanti alla Corte Costituzionale scopre il ministro, Mario Tanassi, socialdemocratico. Più difficile individuare il premier nascosto sotto un nomignolo in codice, Antelope Cobbler. La rosa dei presidenti del Consiglio tra cui cercare comprende soltanto tre nomi: Mariano Rumor, Aldo Moro e Giovanni Leone.” Escludendo (per inattaccabili motivi) i primi due, non resta che il terzo: ma non si riuscirà a “provarlo”. Si inclina a credere in un errore di ortografia del dirigente Lockheed: invece di scrivere Gobbler avrebbe scritto Cobbler, che toglie ogni senso accessibile all’espressione, laddove Antelope Gobbler suonerebbe trasparente: il Divoratore di Antilopi, cioè il leone. Il Leone.
Altri controlli sul patrimonio rivelano acquisizioni inspiegabili, anche se, neppure esse, “penalizzabili”, e mentre l’istruttoria Lockheed procede, altre “stranezze” caricano le spallucce del Leone sì poco ruggente. Che, però, la vigilia di Natale del 1971, diventa presidente della Repubblica “con i voti sottobanco, ma non tanto, del Movimento sociale”. All’inizio del mandato ispira simpatia a un certo pubblico. Ma anche a una giornalista poco incline alla compiacenza. E così Oriana Fallaci prende uno dei suoi primi granchi: “A un tratto pensai: mi piace perché è un brav’uomo. Almeno con lui ci è andata bene: è un brav’uomo. Ed è intelligente”. Mai cantonata fu così bislacca. (1)
L’uomo è coriaceo, e resiste a tutte le spinte verso le dimissioni. Poi si scatena la campagna dell’Espresso: “una serie di articoli minuziosamente documentati sui soldi, le tasse, gli affari, le amicizie, i maneggi del presidente” lo inchiodano. Il senatore socialista Guido Campopiano e i quattro deputati radicali “lo denunciano ufficialmente in Parlamento”. La “questione morale” mette radici (anche se non riuscirà a lussureggiare in un salutare avvenire boschivo). Il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti (2 giugno 1978) mostra che quello spreco non è gradito al 43% dell’elettorato. Si stringe il cerchio intorno a Leone: Dc e Pci lo invitano a dimettersi. La pressione bipartisan “convince” il Napoletano doc: che smonta il 15 giugno, poco più di un mese dopo l’assassinio di Moro. Sembra che la maledizione lanciata da quell’ostia ingombrante cominci a dare i suoi frutti. Ma chi scrive non è superstizioso, e si limita a constatare che mancavano ancora sei mesi alla fine del mandato. Uno dei peggiori dal ’46.(2)

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(1)Ne prenderà altri, la terribile lingua, fino alla corrida anti-islam e contro l’aborto, tutta scintillante di Valori assoluti, che manco un Pera marcio sermoneggiante dal podio senatoriale, o un Giuliano Ferrara debordante anche nelle ruffiane scempiaggini valoriali. Ma è un’eroina, un’icona del democratismo di parata, dell’ateismo devoto. Un’Intoccabile. Che pure da morta continua a ingombrare la scena mediatica e la mercanzia bibliografica con ristampe e volumoni autobiografici [Nota del curatore di Paolo Assaggi.

(2)Paolo Assaggi non previde quel che, pure, era sospettabile in un Paese come la cattolica Italia molto democratica (secundum quid): la riabilitazione del Leone ferito nell’anno del centenario natalizio. Hanno cominciato due suoi collaboratori con lettere a Sergio Romano. Il quale, a richiesta di un commento, non fa nulla di più che ripercorrere la vicenta Lockeed con l’aria di accusare i due giornalisti come responsabili delle sfortune leonine. L’anticomplottista vocazionale Romano nell’occasione fa il Pilato. Il perno di tanta beatificazione? Un viaggetto a Washington del Leone presidente per tentare di scongiurare l’ostilità americana all’idea “moresca” di coinvolgere il Pci nel governo del Paese satellite. Visti gli esiti di medio termine... [Nota del curatore di Paolo Assaggi.]

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