martedì 17 febbraio 2009

Susanna frammento 14


17 settembre, ore 23 e 45’

Pochi segni per pochi eventi. Nel privato più privato e personale.. Primo dei quali, l’ingresso dei nuovi mobili in questa stanza, ora più legittimata nella sua ambizione di essere studio: un bel tavolo lucido di finto massello ligneo, una poltroncina imbottita, delle sedie per ospiti, una libreria bonzai componibile ad angolo, una mensoliera per dossier in carpette di varia misura.
Poi, una bella gita in macchina oltre lo Stretto, nella seducente Trinacria turistica e panoramica, con amici calamagnesi: l’avvocato Carolui, la moglie Angelina, la prosperosa figlia diciassettenne, di indole taciturna ma cordiale e pacata, io, mia moglie, il piccolo. Danzano nel ricordo ancora fresco visioni di luoghi-incanto, potenziati in un rinverdito fascino dal piacere di poterli mostrare agli ospiti, di poterne illustrare e rivelare i siti e gli angoli più suggestivi, ignoti ai visitatori. Taormina, innanzitutto, più che mai “perla dello Jonio” e inesauribile scrigno di sorprese vedutistiche. E poi Realpolia, Ciclopia, Castelrupe, Liotria, i paesi subetnei: una lunga corsa con brevi soste concitate, per un assaggio augurale. Salvo che a Taormina, nelle cui sottostanti spiagge abbiamo fatto un folto bagno collettivo, corona apicale di una permanenza protratta e distesa.
Una macchina da presa alle prese con le bellezze dei nostri panorami, riprese fulminee e saltellanti. E poi villa Beltini, a Liotria, un elefante, pacioso e saggio, delle scimmie petulanti e avide, bei pappagalli rossi e multicolori, disposti a concedere qualche saggio fonetico. Breve incanto. E tanta allegria nel cervellino trillante del piccolo Giampiero, affascinato dalle scimmie, dall’elefante, da quegli strani uccelli parlanti. Tutti contenti dell’esperienza, i nostri ospiti, che, stranamente, non conoscevano proprio quei luoghi. Almeno le donne, l’avvocato essendoci capitato qualche volta, ma per impegni di lavoro, senza agio di visite e godurie.
Più dolce al palato della Memoria una passeggiata notturna per la circonvallazione del nostro paese, fino alla piazzetta di Santa Sofia, la sosta sui gradini dell’alta gradinata monumentale, di fronte al nastro teso del corso principale che scende dritto al centro. Scrigno di ricordi tenaci, il breve comprensorio che include piazzetta, chiesa e due palazzine, ritrovava l’antica patina di magia degli anni adolescenti, delle sere e notti d’amore e dolore precoci. Da lustri non vedevo quei fantasmi di pietra lavica in queste condizioni di tempo e solitudine. Nella compagnia degli ospiti, stavo un po’ dentro e un po’ fuori, con loro e con la mia Mneme prodiga di risvegli euforizzanti.
*
Qui, in Magna Grecia, la “lotta” prosegue. Crescono ostacoli. L’essere m’illumina della sua presenza raggiante, ma elude l’ente che ne tenta il contatto elisio. Si difende. Vorrebbe smussare le punte vogliose che lo sollecitano. Il mio siamese estetico ricama teoresi commosse. Le porzioni sub-trascendentali intrecciano complesse operazioni avvinghianti. L’esito si erge in tensioni circolatorie rosse di spasimo. L’estremità allucea dell’espansione operante giunge al fronte coperto del mistico pomo, e se ne avverte nel contesto somatico trascendente la risonanza di pronto riscontro. Scatta, infatti, la chiusura mistica delle colonne del tempio attorno all’espansione indurita. E una delizia scorre dentro le vene ad accendere piccole estasi controllate nel mio reattore ontico sintonizzato sulla trascendenza tentata. L’essere, infatti, resiste, ma non ignora la pietà concessiva: per esempio, stringe, ormai, con le sue dita di fede, le
propaggini estreme della cupiditas rigonfia di tenace interesse. Ne vibra, seppur mutilato, il rapporto ontologico, e brividi di voluttà circolano per i canali invisibili del presente ctonio. S’accendono i ceri della speranza, ultima dea. Il rapporto conoscerà distanze più lunghe sul quadrante del tempo: l’essere si difende e invoca pace e oblio. Per sé, e per la mia sofferenza, che cerca la fede dell’incarnazione.
Matematica e metafisica: vecchio connubio, antica contaminatio. Fertile, a volte, di impensati sbocchi: conosco professori di matematica che hanno preteso di dimostrare, more geometrico, l’esistenza di dio. Del dio trascendente e mitico, intendo, non del Deus sive natura spinoziano. L’ingegnosità umana è grande, ha osservato un filosofo e storico della filosofia. Specie se si tratta di servire nostra sorella e madre fame corporale – chiosa il sottoscritto. La quale, non per niente, sa anche mascherarsi di pura e cristallina spiritualità transuranica.
*
Vagando e divagando. Dio mi guarda con i suoi occhi d’amore. Il buondio, che s’è fatto uomo e carne, e s’è lasciato straziare. Io vorrei esserne degno, ma il mio scetticismo è più forte del suo sguardo amoroso. S’è nutrito troppo di evidenze il nostro scetticismo, per potersi genuflettere alle belle (o insulse?) bugie consolatorie. S’è fatto crocifiggere: e per cosa? Homo biotrophicus è uguale nei millenni, stabili come rocce d’acciaio le sue pulsioni basali. E peggiorato (o migliorato?) nelle capacità di distruggere e seminare dolori e inventarne di nuovi. Sacrificio inutile. Come mille e mille altri, precedenti e seguenti al calvario. A quel Calvario. Tutto quello che i miti del dio-uomo che si lascia tormentare e uccidere, per poi risorgere e spargere benedizioni ben materiali sul desco del suo popolo, riescono a dimostrare è la cruda verità della bestia umana, fatalmente assassina perché originaria struttura trofica, come
qualsiasi altra creatura animale, e perfino, in alcuni casi, vegetale (non sono un geniale scherzo di madre Natura artista le piante carnivore, bulimiche di carnuti insetti beffati da seduttivi inganni?). L’immensa tela culturale delle mitologie e religioni con i loro riti crudeli copre, complica, e colora di mille peculiarità locali il tentativo salvifico di gestire questa tremenda verità fisiologica: Homo necans dalle molte vite. E dalle troppe risorse distruttive. No, non nego né svaluto le opere dell’ingegno e della mano, le scienze le arti le belle scritture: dico soltanto che non compensano. Troppa la sofferenza che la distruttività implicata nella struttura fagica sparge fra le carni sensibili. Se è vero che le più strepitose meraviglie della conoscenza, tanto celebrate come pura teoresi (o contemplazione disinteressata, che dir si voglia) puntano, prima che a curare e confortare, a potenziare le capacità aggressive del rettile
giurassico in noi. Sì, è questa la verità pudenda e rimossa, coperta e drappeggiata in cultura e scienza, arte e poesia.
La quale verità, comunque si mascheri, mostra sempre la Morte trionfante, ubiquamente sincronica e infinitamente diacronica: come prima, più di prima. In questi felici tempi di frenesia scientifica e impazienza tecnologica, le sue possibilità applicative si sono dilatate in iperboli pantoclastiche. E in fondo, una luminaria nucleare planetaria non sarebbe, forse, il peggiore dei mali. E’ male più scempio, ripeto il forse, questa lenta agonia che mastica speranze, illusioni, promesse e menzogne; forza di vita e dolore d’amore.
*
Scendendo al personale e privato, nella cripta chiusa di questo silenzio notturno, un confiteor esigente recita amare giaculatorie. Il bluff mi appare la risoluzione definitiva della mia morte lenta: in amore, nel lavoro, nell’amicizia, nell’ambizione professionale e letteraria. Io sono tutta una frode.
Beato Platone e le sue eterne Idee. Ci ho creduto anch’io, per anni; fino a quel figlio legittimo della modernità che è lo spirito facitore di idee e categorie. Poi mi hanno insegnato che il corpo è tutto. Lezioni della bassa empiria e stimoli di maestri hanno spazzato via la stagnola luccicante dell’iperuranio, vuoi trascendente e schietto, vuoi mascherato d’immanenza. E’ rimasta la fede nelle certezze che si toccano con le mani (e anche coi piedi). L’anima è nulla, il sentimento zero, una burla quasi criminale la ratio naturalis e quella extrafisiologica. Ovvero, traducendo dinamicamente: l’anima è soltanto l’animazione del corpo, il sentimento una modalità della originaria tensione fagica, sempre bivalente (appetire-ingerire, o respingere come non-cibo, e magari distruggere mimando l’atto fagico, senza consumarlo compiutamente); la ratio, nelle sue varie modalità operative, una multiforme tecnica della fame, capace di mille
trasposizioni. Perfino un elettrone è corpo, e fisicità totale ogni moto dell’anima e del cuore, dispersi negli intrichi neuronali e nelle tempeste cinetiche delle neurotrasmissioni. Tutto questo sa di materialismo volgare? Viva il materialismo volgare.
*
Eros ha smesso le ali da quando mi frequenta nel circolo degli anni sessanta: reclama merce in contanti di sensi e sesso, anche se di modesto peso e strozzata dialettica; e lascia alle euforie dei drogati del sacro le cambiali avallate dal cielo. Non pretendo sempre il tutto e l’intero: la parte mi basta ancora dove l’intero reca il segno della minaccia e un vago odore di morte. Civiltà, non è forse fuga dalla morte, esorcismo della violenza bruta? Un po’ forse, se vogliamo. E un po’ bugia, ma allunga la vita. A volte, o sovente, viltà e civiltà si confondono. “Essere educati vuol dire vivere naturalmente al di là della forza”, lessi in un celebre libro. Giusto. Ma bisogna tradurre: vuol dire, anche, rinunciare al pasto completo. Spesso, contentarsi delle briciole. O degli antipasti. Io mi contento. Sono civile, educato: vorrei vivere a lungo. Cioè, morire lentamente. Ho dei doveri.. Di marito e di padre. Di padre, soprattutto.
Perciò parlavo, lassù, di “modesto peso”. E di “strozzata cinematica”.

18 settembre
vestibolo della Notte

Questa frode atroce che diciamo Vita è alternanza di varia morte. Si vive morendo, si vive uccidendo: uomini, animali e piante. E minerali, se la convenzione della distinzione triplice concede una deroga. Tanto miracolo non ha bisogno di padreterni creatori e provvidenti. Pure, la paura della bestia umana reclama altari e incensi. E la fame ingorda dei sapientes brucia ancora chi rifiuta tanta mortificazione. Ci sono roghi anche oggi: bruciano corpi di carta e inchiostro, con legna di calunnie e di silenzi. Bruciano tranquillità e benessere, appagamenti e “corpi gloriosi”, di notorietà e di carriera. Condannano, ove possono, all’indigenza i reprobi (cioè, i resistenti alle sirene incensiarie) e premiano i convertiti. Che sono spesso furbi voltagabbana e damascati da estrema unzione.
Quanto a me, reclamo corpi in senso stretto e trascendenze corporee in senso largo. Preferisco il labile, evanescente certo al fatuo, iper-ipotetico, ambiguo incerto (ovvero, sogno infantile di eternità mai dimostrate). Quel labile evanescente e fugacissimo certo è ben più denso dei sospiri spiritali e delle flatulenze metafisiche. Und liebe ich dich in contanti di incantevole Fleisch. Bene irrorata e benissimo innervata (concordanze in traduzione italiana). E’ qui che il “labile evanescente” si rinsalda e inturgidisce, si fa febbre di sangue veloce, stringe i pugni del concreto in faccia all’astratto dell’eterno.. E non baratta col cielo di sospiri l’umida densità del suo spasimo di fibre canali tubi e molecole saettanti.


19 settembre

Sto per inviare al ch.mo lincèo prof. Nicola Abbagnano un ritaglio della Gazzetta dello Stretto con la mia recensione al suo capolavoro teoretico, Introduzione all’esistenzialismo, ora ristampato dal “Saggiatore”. La recensione, in realtà, è una carrellata sull’intero itinerario speculativo del filosofo, e storico del pensiero, dalle precocissime “origini” al ricolmo, indaffaratissimo oggi. Ecco la letterina di accompagnamento.

“Ch.mo Professore,
tempo fa Lei mi incoraggiò, con gentili parole, a mandarLe i miei articoli di filosofia, in particolare quelli che la riguardano. EccoLe, dunque, una recensione alquanto panoramica al Suo Introduzione all’esistenzialismo (che uscirà anche su I problemi della pedagogia). Vi unisco la preghiera di scusare le eventuali imprecisioni e le inevitabili semplificazioni: il carattere e la destinazione dello scritto ne sono, in buona parte, responsabili. Mi scuso anche di quanto sto per chiederLe. La copia dell’Introduzione e quella di Filosofia, religione, scienza in mio possesso sono ridotte in pessime condizioni: se potessi rimpiazzarle con una copia nuova che mi venisse da Lei (e magari recasse la Sua firma e qualche parola autografa) ne sarei, ovviamente, felice. Ma, naturalmente, se la cosa Le creasse difficoltà, sia come non avessi formulata la richiesta (forse un po’ “impertinente”). / Si abbia i miei più distinti e, se mi consente, cordiali
saluti.”

In calce, firma e indirizzo. Alla buonora.
Troppo cerimoniosa? Ma no: la mia ammirazione per il Salernitano è antica e sincera. Quanto il rispetto che mi ispira. Ed è ammirazione e rispetto anche per lo stile divulgativo, quella chiarezza espositiva e lindura di lingua che ne fanno un elzevirista principe. Caso raro nel panorama della filosofia italiana contemporanea. Anche di quella che onora la stampa quotidiana.
Ma sì, forse, a ripensarci, un po’ ruffiana è. E sia. Infine, chi sono io per esibire “sostenutezze” degne di ben altre altezze?


Domenica 26 settembre, Ore 0,35

Ohimè, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da quali contese e gemiti nascesti! (EMPEDOCLE)
Una volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte, o piuttosto riposare; e lasciano figli, in modo che altri destini di morte si compiano. (ERACLITO)
(v. I presocratici, a cura di G. Giannantoni e altri, Bari Laterza,
*
Approfitto di questa vacanza di stanchezza per condensare in gocce (magre) di inchiostro un paio di pruriti emozionali: qualche lampo di gioia nervosa, spenta dalla paura; qualche torsione viscerale di tedio recidivo; e cenci di memoria inzuppati di scoramento.
La gioia. Felicità, avrei detto in altri tempi. Il sole nelle mani non lo è forse? Succhiare secrezioni di speranze rapprese in fremiti di istologia orale, o premere il grembo velato del lungo sogno in metamorfosi di anatomia vibrante – dita di mani prensili, questa volta, invece di alluci – non è felicità? Distanze di ore consumate in sospiri di sguardi impotenti; lontananze di giorni mesi anni coperte – prodigi della circospetta tenacia – in tête-à-tête già declinanti sulla china della disperata rassegnazione e ora realtà pulsante di sviluppi metafisici superattivati. Trepide attese di lungo corso, progetti librati tra caute rêveries e delibazioni oniriche avvelenate da livide albe ghignanti di banalità quotidiana, calate, di colpo, nelle pieghe di un sogno di carne: tutto questo è merito di buona sorte e implosive convergenze astrali. E sostanza di mistica edoné non sottovalutabile.

Paure. Un ronzare di sospetti, un mobile cerchio di sguardi ambigui, ancestrali potenze in letargo che l’Imprevisto potrebbe destare e scatenarmi addosso dall’ara dei Diritti e dal podio degli affetti parentali. Con esiti catastrofici, che non ho la forza di fermare in immagine oltre il microtempo del lampo. Lo spettro della chute definitiva semina terrori dentro canali di vita e osmosi di sangue. Terrori in mitraglia di ricorrenti flash, che mozzano il fiato alla gioia sopra onorata (e sia pure in timidezza di cenni mascherati). La gioia delle chances lungamente cercate, e con fatica e ingegno costruite, e poi, al dunque dei fatti, avvelenate, un po’ (molto?), da questi “terrori da misfatti”, evocatori di scatenate Erinni.
*
Tedio. Di questa compressione, di questa regolarità quotidiana gocciolante stupidità: discorsi vuoti di senso che non sia di immediata empiria, parole schiacciate sulle supreme necessità della biologia domestica – spese alimentari, arredamento, consorte aliena da ogni solletico di cultura e traboccante di casa mobili in arrivo passeggiate parrucchiere, partite a carte serali con amiche, sbadigli davanti al televisore-altare.. Tedio, di questa impotenza che mastica una sola certezza, che lo stillicidio delle ore e il rotolare dei giorni inchioda all’antica paralisi: sein zum Tode, essere per la morte. Magari in versione banalizzata.
Ma veramente: che fare al suo cospetto? Lavorare, scrivere, amare, mangiare con le nostre mille bocche: non è un annegare la paura, la grande paura fondamentale, uno stordire, ubriacare la coscienza, la lucida consapevolezza dell’Inevitabile strutturale? La quale coscienza, poi, non si lascia offuscare e imbavagliare con facili riti; non le si può tappare gli occhi né turare le orecchie. Tutto ciò che la circonda, vivo o morto, le canta l’eterno refrain: a che? Il saldo è lì, sul tavolo della vana fatica. Verrà la mano invisibile e apporrà la sua firma inappellabile. Verrà: prima o poi. E la distanza tra quel prima e quel poi, fosse di molti decenni, non sarà, infine, che una sfumatura appena percettibile. Il pneumatico si affloscerà, e novant’anni saranno come dieci mesi o trenta settimane.
Verrà la morte, e non avrà i tuoi occhi. Verrà, e non avrà occhi. Non omnis moriar? E che resterà? Quattro fogli imbrattati, un vasto ronzio di maldicenze, un lembo di “corpo glorioso” in balia di mille zanne intinte nell’odio (della versione teologica, soprattutto). Una striscia di memoria bucherellata, che si scioglierà al calore dei giorni lungo le vie del cuore troppo facilmente saturabili delle “persone care”. E anche le persone care arriveranno..
Nihil admirari, nihil metuere, nihil cupere? L’apatia stoico-spinoziana, la compressione buddistica del desiderio (della plurima fame sempre in campo), l’“etica della conoscenza” (Jacques Monod): rinunciare a vivere, sterilizzarsi per non soffrire. Sciocchezze. In ogni caso, bisognerebbe avere in corpo altri nervi. Anche se un pizzico di sano buddismo non farebbe male. Ma soltanto un pizzico. Rapsodicamente, come Dio-Dna concede.
Spararsi? C’è il bambino. E c’è, via, anche la madre. Anzi, le madri: forse che la mia frena di meno? Ci sono le poche persone care. Scuse, alibi vili? Può darsi. Ma anche verità di rapsodiche strette alla gola e nodi di pianto.
Divertissiment pascaliano? Secundum quid. Divertirsi come de-vertere, distrarsi: dai pensieri gravi, dai massimi problemi, o patemi. Non resta altro: fra le inutili pseudo-soluzioni, questa, di stordire la coscienza morsa dalla verità zannuta, è la meno frivola. Tanto meno, quanto più frivola viene giudicata dal moralismo ciarliero. O dal pragmatismo frenetico dell’affarismo mammonico. Lavorare, fare concorsi, abbracciare delle convinzioni, fare finta di abbracciarle. E ciarlare, ciarlare. Il bello (brutto) è che ho scelto un mestiere nel quale la ciarla è (quasi) tutto.
Ma via, tregua: affidiamoci a quel quasi: c’è spazio per contrastarvi il Tentatore. “Ubriacatevi” – suggeriva un Intenditore –: “di vino, di poesia o di virtù…Per non sentire l’orribile peso del tempo che ci piega le spalle”. O qualcosa di simile (cercare il testo per raddrizzare la citazione? Vedremo).

Nessun commento: