domenica 8 marzo 2009

Susanna frammento 17


Quaderno due

15 gennaio, ore 18, 30

Ordunque è tempo di bilanci. Questo quindicinale vortice di sconcia chimica deponga i suoi precipitati mnestici sul registro rigato di questo supporto friabile. Il primo capitolo si chiama zio Silvio.
L’Inevitabile è tornato. Puntuale come un agente del fisco, si è ripresen-tato all’esazione crudele delle scadenze. Si sperava una dilazione, abbiamo avuto un’anticipazione. Un altro piedistallo è crollato e l’idolo è in pezzi. Cumuli di ammirazione infantile, catalizzati dall’affetto fraterno, profumavano la nostra anima di nipoti, pur uomini ormai, e non inclini all’idolatria, e tuttavia tanto onesti quanto bastava a riconoscere meriti innegabili. E perciò a rispettare anche sconfitte in gran parte a noi oscure. Quegli echi di una lontana infanzia sognante, così bisognosa di miti, aiutano, certo, a concedere eventuali sconti al tribunale del presente devastato. Tribunale a volte severo, persino presso lo stesso fratello dell’idolo infranto e nostro genitore: artefice primo della pedagogia adorante di noi figli, eppure, nei tempi recenti del riflusso mortificato, reso quasi immemore verso una lunga carriera di soccorsi in tempi duri, siglata “zio Silvio”.
Già. Lo zio Silvio, lo “zio d’Africa”, pilastro della casa in quei tempi di crudele indigenza e sconforto, pane alla fame incalzante di una “famiglia numerosa” in lunghi anni di quasi totale inerzia forzata del capofamiglia disoccupato e malato. Lo zio “ricco”, lo zio abile, intelligente, istruito; lo zio serio, compito, coraggioso: il fratello riuscito di mio padre, il miglior prodotto della schiatta. L’uomo, addirittura, che avrebbe potuto essere Mussolini o Krusciov (sic), sol che condizioni propizie non gli fossero mancate: tale, l’infatuazione del nostro genitore, afflitto da carente dinamismo pragmatico, verso il fratello maggiore, tanto diverso da lui, tanto più guarnito di muscoli e artigli nell’arena-giungla del mondo ostile. Cioè, del mondo civile.
Infatuazione durata intatta per tutto il tempo della remota assenza dello zio, quindici anni, a scandire i quali, con regolarità mensile quasi perfetta, erano state le lettere scambiate fra i due fratelli. Lettere somiglianti, espresse da una uguale attitudine alla scrittura nei due germani, ma più scorrevoli e corrette quelle del capitano. E papà ce le additava, a noi fratelli soprattutto, come modelli: per quella scorrevolezza priva di impacci, la concretezza del discorso, la maniera spiccia e diretta di investire gli argomenti e dire i pensieri. Il tutto, dentro una correttezza sintattica impeccabile, e con una proprietà lessicale degna di un buon insegnante d’italiano. Mandava anche i famosi aiuti, più concreti di ogni concretezza colloquiale. E così era diventato, negli anni teneri, il piccolo dio lontano, che mandava riverberi di foto ammaliatrici e vitale sostanza di denari sonanti, appena velati in assegni e vaglia. Ah, le mani tremanti
del genitore nel prendere quella preziosa carta!
Dopo anni di sogni e vaghe attese, era sceso fino a noi, il piccolo dio. Finalmente: dall’Eritrea bruciata, quella sorta di realtà virtuale appena agganciata al mondo materiale da quei contatti troppo mediati (lettere denaro e rare fotografie), diventava corpo e voce, presenza fisica di autorità e prestigio. Dapprima, davanti ai miei sedici anni ansiosamente inesperti, in quel dopoguerra di povertà avida e patita. Poi, accanto ai miei ventitré assennati, pronti di comprensione solidarietà e consiglio, al cospetto dell’intera tribù, stretta allo sdegno moralesco per il legame non regolare dello zio: una donna separata dal marito e con tanto di figlio da mantenere agli studi. Un brutto colpo, per i parenti più vicini. Papà lo voleva sposato regolarmente, con “un buon partito”, che certamente non gli sarebbe mancato fra le nostre conoscenze. E mamma annuiva al marito: troppo divergente, la situazione del libero convivere, per la mentalità popolare dei miei genitori. Nella mamma, poi, confermata da tenaci connettivi religiosi di antica tessitura. E si pensò, arditamente, di premere sullo zio, quasi cinquantenne, in un convergere di attacchi mirati e variamente calibrati, tra delicatezze e perorazioni, con uno schieramento largo di affini e intimi, perché rompesse quel legame e accedesse a una sistemazione ortodossa.
Era venuto solo, in quel 1955, lasciando a Genova la compagna, proprio per sondare il terreno degli umori parentali. E fu un sondaggio doloroso: lo sbarramento compatto di ostilità, condensato al suo massimo nella frenetica sorella unica, nubile e gelosa, di pronta lingua e impaziente di “accasarsi”, convinse lo zio che non era il caso di far venire la sua Eleonora. Fu, forse, questo rifiuto, l’inizio della sua rovina..
Ritornando in Africa, lo zio lasciava a Genova la sua compagna, che sarebbe stata raggiunta dal figlio poco tempo dopo. Nella città ligure, Nora (così si abbreviava quel nome detestato dal parentame) doveva curare gli affari comuni, dello zio e di lei: avevano in progetto di comprare casa e aprire un bel locale, un bartabacchi, in buona posizione commerciale. E qui aveva avuto inizio l’emorragia di denari: la donna chiedeva e lui mandava. Non bastavano mai. Al suo rientro definitivo dall’Eritrea, nel ’59, lo zio di acciaio si trovò davanti a un’altra situazione difficile: la zia Vanna, la bionda sorella gelosa e impaziente, convolata, in sua assenza, a regolari ma improvvide nozze con un artigiano fi-nanziariamente incasinato, era assediata da creditori sempre più incalzanti e minacciosi. Banche, enti pubblici (l’Enel, il Comune, la Regione…), privati in legittima diffidenza, o stuzzicati da possibili occasioni di vantaggi mercantili, avanzavano ormai senza remore verso l’esito di espropri forzosi e preliminare dichiarazione di fallimento. Sotto minaccia, poderi, terreni, la stessa casa paterna del nuovo zio, Nando, bravo ebanista e mobiliere, ma pessimo amministratore. Tanto quanto il fratello socio, Liborio, anche lui buon lavoratore, ma cattivo uti-lizzatore del proprio tempo. Entrambi, poi, troppo fidenti verso operai non oppressi da esorbitanza di zelo. E così, tra sprechi di tempo dei titolari, dolce far poco di lavoranti, ritardi nelle consegne, disinvolta ignoranza di scadenze, la barca bucata della piccola azienda aveva cominciato a fare acqua di naufragio.
Breve. A chi doveva rivolgersi la zia in ambasce? Ci potevano essere dubbi? Al benefattore di sempre, al fratello-provvidenza che l’aveva mantenuta da lontano, al fratello-padre che le aveva fatto la dote, che certamente non l’avrebbe abbandonata. E così zio Silvio aveva comprato, per una diecina di milioni, un fabbricato incompleto, eretto dai fratelli Scalaroni nella campagna di Albano con l’idea di farne un nuovo laboratorio di falegnameria. Il contante rivitalizzò per un po’ di tempo la nuova famiglia, già pingue di tre figlie. Furono pagati i debiti più urgenti, si ottenne tempo per gli altri, si tornò a vivere con più speranza. O meno disperazione.
Ma lo zio Silvio si trovò presto a constatare vuoti imprevisti nei conti. La doppia suzione aveva quasi essiccato la mammella dei risparmi. Lo zio chiese rendiconti e ottenne vaghe parole. A Genova la situazione precipitò. Liti, rinfacci, malumori annerirono le sue giornate liguri, in un crescendo che ebbe il suo culmine nelle parole infami del figliastro, una sorgente dalla quale non si aspettava che gratitudine e affetto. In una delle discussioni intorno al modo migliore di uscire da una situazione non più gestibile, il giovanotto esplose in faccia allo zio impreparato un brusco “Ora hai rotto le scatole”. Peggio di una sventagliata di mitra alle spalle. Gli crollò addosso quel piccolo mondo di affetti garantito, cresciutogli negli anni granitico e puro. Fino a quel brutto momento, il capitano aveva potuto contare sull’atteggiamento solidale del figliastro: era stato sempre comprensivo, mediatore di pace. Cos’era accaduto perché venisse fuori un occasionale mister Hyde da quel mite dottor Jackill sempre rispettoso? Come se l’era lavorato la madre, dietro le spalle del compagno assente, certo ormai condannato alla liquidazione? Anche a quell’uomo esperto del mondo era toccato, dunque, quel destino fra i meno sopportabili: subire, impotente, gli effetti della maldicenza mirata, il logorio sottile del complotto dietro le spalle.
Lo zio tornò da Genova malato. Non con sintomi eclatanti, ma certo doveva avere manifestato le prime avvisaglie del male. E forse qui è la chiave della grande crisi. La donna avrà pensato: questo mi si ammala, a me toccherebbe curarlo, vederlo invecchiare, aggravarsi, morire? Se lo godano i parenti: questi bacchettoni fottuti non mi hanno voluta allora, quando lui era sano e pieno di risorse; ora se lo piangano. E l’aveva “licenziato”. Non bruscamente, è ovvio (molte controindicazioni frenavano l’eventuale durezza), ma in un non lunghissimo snocciolarsi di giorni sempre meno teneri e comprensivi, sempre più litigiosi e aspri. Fino a che il poveretto fu costretto a prendere atto della nuova realtà. Non senza qualche scatto aggressivo da parte sua, beninteso: non era tipo da rinunciare alla dignità dell’autodifesa. Soltanto, non riesco a immaginare scenate di sua invenzione: era troppo signore per farlo. Supposizioni, congetture, si capisce. Magari infiltrate dai forti residui dell’originaria idolatria, ma vigilate, anche, dagli elementi di conoscenza emersi nella quotidiana frequentazione. Insomma, non credo che si restasse troppo lontani dal vero a formularle.
*
Tremenda realtà, questa rottura, se la memoria me la proietta sullo sfon-do delle prime confidenze legittimanti. Lunghe radici, sicuramente non marcescibili (almeno fino a un eventuale Alzheimer) hanno affondato nella polpa del mio cervello plasticamente disponibile quelle rivelazioni così congruenti con il ben saldo regime della promozione mitica. Vi era incluso, e ne segnava il centro come fulgido sole, nientemeno che l’eroismo: c’è cosa più esaltante per un adolescente di fantasia accesa e di indole generosa? Ecco, dunque, il fatto: al tempo della guerriglia Mau Mau, durante un viaggio d’affari che lo aveva portato in territorio keniota, lo zio era rimasto bloccato, nel bel mezzo della notte, da un guasto alla macchina in zona aperta alle scorrerie di quei mozzateste sbrigativi. Con lui c’era lei, l’amica, e aveva la possibilità di mettersi in salvo subito, tornando ad Asmara con non so più che amici o servitori. Ma lei rifiutò, non volle lasciarlo solo nel pericolo. E romanticamente resistette alle cavalleresche insistenze di lui. Egli non voleva abbandonare la macchina, nuova e costosa, e aveva deciso di aspettare l’alba sul posto, e poter chiedere, per telefono, l’intervento di un meccanico. Che lei si mettesse in salvo da sola, dunque. Ma lei: “Neanche a parlarne: il posto della donna è accanto al suo uomo”. Ma c’era pericolo? Appunto: ragion di più. Una vera eroina.
Incantato da quella manifestazione di amore coraggioso, lo zio cavalleresco le si legò di più. Se non se ne innamorò addirittura quella notte, trasformando una relazione a tempo e poco impegnativa in quel ménage totalizzante che lo avrebbe perduto. Ancora supposizioni, però.. I fatti: lei diventava la moglie inseparabile, il figlio suo e del marito abbandonato s’elevava negli affetti del nuovo compagno quasi a livello di figlio carnale. E gli costava bei soldoni, mantenuto nel migliore collegio di Kartum. Moglie di fatto, e figlio di adozione fattuale, senza crismi di cerimonie e ufficialità burocratica. Che importanza potevano avere in quella società coloniale, così libera, così lontana dal perbenismo colloso della Metropoli, prima littoria e poi democristiana? E per un uomo di mente aperta, alieno da conformismi inerziali e scemi di sostanza? Insomma, vita di famiglia e di affetti solidi. Fino a quel rifiuto cretino da parte di fratelli sorella cognata e vecchi zii di mente anchilosata. Fino a quel rifiuto, dico, perché lo intravedo come causa profonda e remota dei drammatici sviluppi successivi; ma questo non vuol dire che i rapporti fra zio e Nora si siano guastati subito, in quello stesso periodo. Comunque, si guastarono qualche anno dopo, nel bel mezzo di quei cambiamenti drastici: di continente nazione città casa attività.
Non c’è stata mai una versione esplicita di questo cursus (lo zio parlava poco, e di pudore ne aveva molto), ma certi accenni, allusioni dal sen fuggite, il suo rapido aggravarsi in pochi anni, danno credibilità alla presente ricostruzione congetturale. Risuona ancora negli anfratti più lontani della memoria qualche frase dell’idolo deluso, dell’eroe disapprovato, qualche blanda protesta: “Che pregiudizi, però. Potrei capire la gelosia eccessiva della sorella interessata, ma l’ostilità dei miei fratelli, tuo padre e il minore dei tre, Marcello, che motivazio-ne può vantare? Che gliene importa, a loro, della mia vita privata? Sono fatti miei, no?” E come no, carissimo zio: hai ragione da vendere, ma lo vedi come sono. Tentavo di “spiegarglili”, come erano, come, in parte, ancora sono, i suoi e miei parenti stretti: “Mentalità angusta, pregiudizi, lo hai detto. E forse qualche cosa di più corposo: paura di perdere dei privilegi, dei vantaggi”. “Ma questo, non direi: una moglie legittima avrebbe meno diritti? Un figlio carnale impegnerebbe meno le mie risorse economiche?” “E’ vero, non di meno. E’ uno strano intreccio di ragioni, forse non del tutto chiaro nemmeno agli interessati. Non dubiterei della buona fede sul dissenso, diciamo coniugale: una moglie legittima l’accetterebbero come soluzione onorevole, prenderebbero atto della situazione, non avrebbero di che lagnarsi. E mio padre, che ti ha sempre ammirato, ci vedrebbe un coerente coronamento della tua avventura di uomo, di successfull business man, di persona seria e signorile.. Una convivente la vedono come una predatrice capace di chissà quali ingordi misfatti. Né solo a tuo, ma anche a loro, a nostro danno”.
Se penso che, alla lunga, hanno avuto ragione! Hanno visto giusto loro, papà, mamma, la zia Vanna, gli zii anziani. Anche se, forse, questo vedere, secondo la presente ipotizzazione, è stato, in buona parte, un produrre e provocare. Uno di questi vecchi zii, fratello maggiore del nonno paterno, un colonnello di fanteria in pensione residente a Zancle, commentò la notizia in termini spicci, militareschi: “Un’amante la si paga, non la si trasforma in moglie. Regali, quanti ne vuoi, la convivenza, lo stesso tetto, mai”. Era lo stile dell’ufficiale promosso sul campo, titolare di una carriera militare per meriti bellici: rude, sbrigativo, ignaro di mezze misure, di pazienti “distinguo” e delicate sfumature. Così s’è fissato nell’icona memoriale questo zio Turi lontano, fratello più anziano di nonno Paolo. L’ho incontrato tre volte soltanto. Macho e “breve” fin dal taglio corto dei capelli radi e bianchi; poche e ponderate le
parole, raramente superflue e rituali, sovente tagliate nella pietra lavica. Già, la pietra lavica, così soverchiante nelle nostre contrade colonizzate dal Mongibello signore, mi si associa, nel ricordo, a quello strano ramo laterale della frondosa ascendenza. Anche lui piutto-sto mitizzato, con la sua brillante carriera militare. E, appunto, la sua dura e spiccia virilità. Ne risento, a volte, la voce: forte, baritonale, maschia. Insomma, un secondo paradigma per figli e nipoti. Un po’ meno per i pronipoti, così distanti dalla sua quotidianità logistica e pragmatica; ma pur sempre incisivo.
Ricordo ben resistente, anche questo: si era, a cornice ambientale di que-sta folgorazione, in casa del figlio maggiore, Marco, un bell’uomo di spiriti irrequieti e conseguenti appetiti. Ero appena sbocciato all’adolescenza quando cominciai a sentire, in discorsi fra cugini e in famiglia, della sua fama di sprecadonne. La povera moglie, si diceva, era una mite sua vittima incapace di difesa: gliele faceva quasi sotto gli occhi. E pensare che era sua e nostra cugina: Marco era figlio di zio Turi, appunto, la moglie, Licia, figlia di una sorella sua, e dunque di nonno Paolo. In questa infornata di cugineria e zieria tribale si era parlato tanto della situazione sentimentale dello zio africano, e credo che l’unico a non condannarlo fosse proprio Marco: lui sì che se n’intendeva. Però, siamo onesti, mai, questo Marco rubizzo, si complicò la vita con strappi dirompenti nel tessuto sacro della famiglia: amanti, quante gliene capitavano (ma erano poi così tante? Laggiù, nella Sicania lavica, basta averne un paio, e magari una sola, che faccia scalpore, per balzare subito al tante); tuttavia, di compromettere la famiglia nemmeno a parlarne. Le “porcherie”, insomma, restavano confinate fuori casa. Un fuori che poteva includere alberghi di città vicine o senz’altro dimore delle compiacenti complici del peccatore-tempesta. Altre “virtù”, invece restavano, e brillavano, dentro: per esempio, un sanguigno debole per l’euforico Bacco. Epperò, questo vizioso era un buon lavoratore, e la clientela della sua officina di elettrauto non aveva da invidiare clienti alla concorrenza. E non solo per la sua bella posizione nel centro di Realpolia. E’ vero: nessuno è perfetto.
Poi, quaderno, mi dirai dove sta di casa la perfezione.
*
Rileggendo questa pagina, mi tentano code e codicilli. Una delle code possibili mi rammenta che l’anno appena trascorso è stato, oltre la solita normale cornucopia di sciagure, anche la guantiera di eventi culturali di pacifico godimento: il centenario dantesco, già accennato in queste pagine, anniversari di altre nascite e morti illustri (di cui per ora si tace), mostre e premi letterari di routine; e così via. Del così via il tema zio Silvio mi richiama il film di Marco Bellocchio, I pugni in tasca. Questa (se non erro) opera prima, venuta su tra mille difficoltà pratiche e alcuni decisivi interventi di pronto soccorso, ha fatto discutere molto e diviso la critica. Soprattutto, ha innervosito il Castello kafkiano del Pci, punto nel suo fianco ecclesiale. Il pungiglione? La dissacrazione della famiglia e del familismo amorale. Il film forse non è un capolavoro assoluto, ma certo spruzza via molta cipria di filisteismo dal faccino composto del perbenismo piccolo borghese e sacrestiale. Omicidi a parte, il delitto consumato, a decorso lento, contro zio Silvio è un esempio dell’intossicazione da moralina familistica.
L’altra coda, mi ricanta il divin Poeta e il canto quinto del carnale Inferno: Intesi che a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento. E via con la bufera infernal che mai non resta, le icone delle famose peccatrici della storia e del mito, la breve tragedia dei due amanti: Amor che al cor gentil ratto s’apprende/ prese costui della bella persona / che mi fu tolta e il modo ancor m’offende./ Amor che a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer si forte / che come vedi ancor non m’abbandona. E seguito, che imparerò a memoria. Anzi, reimparerò, avendolo memorizzato, insieme a diversi altri canti, ai miei diciassette anni liceali.
Problema. Condanna, Dante, i due amanti, o la severità del Regime teo-logico (per non dire dell’ipocrisia sessuale di preti e assimilati)? Mentre che l’uno spirto questo disse /l’altro piangeva, sicché di pietate /io venni meno come se morisse/ e caddi come corpo morto cade: sono, queste, parole di condanna senza tremori e timori o non, piuttosto, di pietà umana al limite dell’eresia? A quando l’arruolamento dell’Alighieri fra i Fedeli d’amore, senza se e senza ma? Ma forse già l’hanno fatto.
Per chiudere la pagina: c’entra, questo ricordo sospetto (fino ai versi trascritti) con la situazione metafisica che mi lega? Per più fiate li occhi ci sospinse /questa lettura e scolorocci il viso / ma solo un punto fu quel che ci vinse:/ quando leggemmo il desiato riso / esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso/ la bocca mi baciò tutto tremante. / Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. / Quel giorno più non vi leggemmo avanti. E fermiamoci qui: l’ultimo verso è troppo controverso, e la sua lettura tragica ci increspa di brividi.

16 gennaio
L’evento continua a dettare questo diario. Spolverato dalle minuzie quo-tidiane, il “racconto dello zio” s’impone con assoluta autorità su ogni altro frullatore tematico, anche non secondario. Il quale, se il caso, concede in ogni modo un rinvio della propria trattazione. E so che l’innominata ci perdonerà.
*
Al rientro definitivo di zio Silvio in Sicania e in seno alla famiglia avevo ventisette anni: era cambiato qualcosa nella valutazione dell’uomo da quando ne avevo solo sedici? O magari ventitre? Non credo di essermi mai soffermato a considerare la cosa attentamente, a farne domanda esplicita e problema; ma oggi, tempo di bilanci, e di tristissimi bilanci, l’indugio s’impone. E la domanda merita risposta, una meditata risposta impietosa. Al punto che quanto rimane da un repulisti severo sia a prova di bomba: cioè delle peggiori riserve o pettegolezzi e tangenziali calunnie.
Sedici anni sono ancora età di incanti. Non del tutto, certo: lo spirito critico ha cominciato a rosicchiare tanta fabulazione; ma non abbastanza da espellere il bisogno dell’eccezionale, il culto degli eroi, che è uno snodo obbligato di quella fisiologia mentale (ma finisce mai completamente, per certe nature, questo bisogno catartico, questa fisiologia adolescenziale?). E avevo già i miei, di “eroi”: divi del cinema, figure storiche, politici eminenti avevano preso il posto dei forzutissimi dell’infanzia, Carnera, fra i massimi, e due o tre personaggi locali, che avevano dato prove controllate di mirabile forza muscolare e coraggio agonale. Ma erano (con l’eccezione dei locali, accessibili a sguardi e incontri) realtà virtuali, esseri un po’ astratti, lontani, nel tempo o nello spazio. Piccola correzione: volendo stare sul pignolo, anche ai vicini toccava un po’ di aliena virtualità. Certo, si potevano incontrare, ma restavano
comunque fuori della fruizione intima, estranei, stranieri: come tutte le eccezioni eroiche. Lo zio, in-vece, era reale, reale al quadrato, per così dire: introduceva l’eroe, il mito, que-sta specie d’inattingibile trascendenza, nella casa, fra noi persone comuni, nell’aura discretamente livellatrice della famiglia. Non era più un’icona figurale, astratta, ma un uomo vero, nella sua viva corporalità. Un eroe in famiglia! C’era di che farsi crescere legittimo orgoglio. E cavarne “forza contrattuale” verso l’esterno, verso quegli altri che, al di là delle eventuali buone intenzioni, sono sempre, in varia misura, infidi e temibili.
In quel primo soggiorno, e periodo di contatti quotidiani, certo il mito si umanizzava. Contatti quotidiani, dicevo: infatti, lo zio abitava con noi, nella casa paterna, nostra residenza definitiva da quando io avevo fra i tre e i quattro anni. Avevamo abitato la “casa grande” insieme ai nonni paterni e alla zia Vanna: la mia famigliola a pianterreno, il resto al primo piano. Poi la nonna era morta. Un colpo apoplettico, si disse, e il bambino quattrenne che ero nitidamente ricorda ancora, dopo vent’anni, quella nonna corpulenta e imperiosetta, seduta sul lettone dei miei genitori, spalle al testale, immobile e con la bava alla bocca. In attesa del medico che, quando arrivò, non ebbe che da costatarne la morte.. Lo zio, ricordo, non poté venire per la tristissima circostanza: si trovava già in Eritrea da un paio di anni, e quando quel colpo apoplettico si portò via la madre, e-gli era impegnato, da ufficiale, nella imperiale Guerra Etiopica, giunta in quel mese alla svolta decisiva (troppi decenni dopo soltanto avrei saputo a quali prezzi di sangue e di barbarie “romana”). Morta la nonna, restavano con noi la zia, più âgée di me appena cinque anni, e il nonno. A periodi discontinui, abitava la casa anche zio Marcello, il minore dei tre fratelli, penultimo dei quattro figli. Il quale se la faceva un po’ fuori (a Milano, Genova, Torino) un po’ da noi, con attività discontinue e varie: commercio, lavoro in fabbrica, e chissà che altro. E’ il meno assestato dei tre fratelli, con un diploma magistrale mancato per una disavventura all’ultimo anno del corso. Oggi ha quarantasei anni, e rimane in oscillante instabilità cronica. Benché sposato e con due figli (già richiamati in questo diario).
Si umanizzava, dicevo, lo zio major. Lo vedevo pranzare con noi, parlare con la famiglia, interessarsi anche di piccole cose della normale quotidianità. Co naturale semplicità, come se vi si fosse trovato in mezzo da sempre, senza discontinuità. Si usciva insieme, non di rado. In quell’autunno dei miei sedici anni, primo della neonata Repubblica italiana fondata sul lavoro, era in casa anche zio Marcello: disoccupato e libero come un uccello, reduce, pure, da un avventuroso ricovero ospedaliero milanese gravido di conseguenze, si godeva una, non si sa quanto meritata, vacanza a spese del fratello maggiore. A volte noi tre si trascorreva la serata in casa di una cugina paterna, una bella donna dagli occhi chiari, fra l’ambra e il verde, e di corpo formoso (ma zio Marcello, bello di Casa e fortunato tombeur de femmes, obiettava sul “sedere un po’ piatto”). Molto legata ai cugini, figli di una sorella del padre (la testé evocata nonna
Carmela), la cugina Barbara era fraternamente ospitale, con pieno consenso del buon marito, che l’adorava con la dedizione di un cagnone fedele. Aveva delle amiche, abitanti in un paio di stanze dello stesso palazzetto, e frequentavano la sua accogliente ca-setta: tre sorelle, di cui la mediana e la minore belle e di forme ghiotte, la mag-giore, meno favorita nel corpo, non la riscattava nemmeno il volto, magro e ossuto. Le tre fanciulle erano fresche orfane di madre, e il padre, calzolaio, stentava a mantenerle. Vestivano in regime di lutto stretto: nero totale, dalla camicetta alle calze, giusta l’inflessibile usanza di quella nicchia etnica.
Che si faceva, in quelle sere? Si parlava, si consumava qualche dolcetto, si beveva un liquorino o un bicchierino del buon rosolio fatto in casa dall’ospite, si faceva qualche “salto” di liscio: tango, valzer, tarantella, forse anche fox trot, ma prevalevano i lenti. Dei frenetici balli introdotti dall’occupazione (pardon, liberazione) americana, manco a parlarne. Alcune sere fummo a cena, gli zii e io; e un paio di volte furono presenti le tre grazie in nero. Ecco, per lo zio mito, un’occasione di umanizzazione piuttosto stimolante, ma anche insidiosa. Si era venuta a creare una situazione intricata: allo zio Marcello piaceva la sorella me-diana, bella e di armonica polpa (che però era seriamente fidanzata), mentre di lui si invaghiva la maggiore, che non reggeva il confronto con la maliarda. A me piaceva tanto la minore, che stava sui quattordici-quindici anni e non aveva molto da invidiare alla sorella intermedia (sui ventiquattro anni).
Zio Silvio, umaniz-zato in cibi bevande e balli, apprezzava tanta grazia, ma si controllava, ligio al dovere da fratello maggiore e da persona di peso.
Nella casa avita noi tre dormivamo nella stessa ampia stanza del primo piano, per l’occasione fornita di tre lettini, così si scambiava qualche parola di commento su persone e fatti del giorno, prima di scivolare nel sonno dei giusti. Una sera mi accadde di sentire un ping-pong di frasi fra i due fratelli. Io ero già sotto le coperte nel mio lettino, loro si spogliavano per ficcarsi ciascuno nel proprio. Marcello aveva detto qualcosa sulle tre sorelle e sulla perfetta simmetria numerica dei due terzetti. Non avevo sentito chiara l’allusione a me, ma a ricostruirla mi aiutò la risposta, a mezza voce, di zio Silvio: “Eh, io ho qua-rant’anni!”. Il tono lasciava trasparire un sottinteso traducibile più o meno in questi termini: non pensare di indurmi a fare cose che la mia età e serietà non consente. Insomma, zio Marcello avrà detto che ce n’era una per ciascuno di noi, e lo zio “vecchio” (42 anni appena, in quell’anno della nascente
Repubblica) lo frenò. Umanizzazione va bene, ma non oltre certa soglia. E questo mi fece piacere: mostrava che il mito poteva perdere un po’ di smalto, ma non decadere in banalità degradanti. Meno mitico, più umano, ma nel complesso poco diminuito e ben saldo in trono.
*
Situazione difficile, la mia, allora. Con lo zio si era avuta una corrispondenza abbastanza nutrita, dietro incoraggiamento di mio padre. Ora si trattava di conversare sullo stesso livello. Di cultura, di stile, di logica e rigore discorsivo. Ci andò di mezzo anche la filosofia. Povero zio, doveva essere una bella prova di pazienza sopportarmi. Ma lui ne aveva. Una sera, chissà come, venne in ballo Sant’Agostino. Alla discussione (si era a tavola, alla fine di una cena casalinga) partecipavamo tutti i maschi della casa: insomma, io e i tre fratelli. Io demolivo gli argomenti “africani” sulla grazia, la predestinazione, la verità, l’interiorità teologale e altre ingegnosità del loquace sofista “pantografato” dai filosofanti credenti, responsabile di un millennio e mezzo di perentorie favolette spirituali-stiche. Lo zio s’inseriva, chiedeva, capiva, non sfigurava, insomma. A sfigurare ero piuttosto io, non per carenza di informazione
(quella che avevo reggeva bene l’occasione), ma per eccesso di entusiasmo: ero troppo eccitato, euforico, a momenti, tutto calato nell’impresa di contestare l’altissimo ingegno, idolo di mezzo mondo, cattolico e protestante. La teoria che più mi dava fastidio già allora era quella del male come non essere: un lascito platonico che già adolescente giudicavo un sadico oltraggio alla sofferenza degli innocenti. Lo zio doveva avere la sensazione di trovarsi in un mondo strambo e insospettato: all’istituto nautico non si studiano certe astrazioni e complicazioni.

La parte che segue, sullo zio Silvio, è un’integrazione a una ripresa tardiva del racconto interrotto venticinque anni fa. La scrivo direttamente al Pc, sfidando vuoti di memoria e piccole confusioni tra il prima e il poi.

Ero già fidanzato, e avviato al destino coniugale che mi possiede, quando capitan Silvio si innestò stabilmente nella famiglia. Volentieri egli veniva a trovarmi in casa della fidanzata, la quale lo accoglieva sempre, insieme ai suoi genitori, con calore e ammirazione. Spesso usciva con noi. Ma questo accadeva più regolarmente dopo che io ebbi la “mia” casa di novello sposo (in realtà, la casa era la donazione dotale della sposa), e ancora di più quando il bambino, venuto nove mesi e mezzo dopo le nozze (vedi fortuna di un’impollinazione precoce), era in grado di uscire con noi in macchina. C’è un vuoto di memorie in questo lasso di tempo. Non riesco a ricostruire tutti gli spostamenti dello zio tra la nostra città e Genova. Credo che il rientro definitivo cada a ridosso dei primissimi anni Sessanta. No, nemmeno questo è esatto: un particolare mi ferma: zio Silvio non era presente al mio matrimonio. Cioè non era fra gli invitati. Come dire che non era fra noi, laggiù in Sicania, che si trovava o a Genova, o addirittura in Eritrea. In ogni caso, impossibilitato a venire: talmente inconcepibile sarebbe una sua mancanza al “nostro” matrimonio concomitante con la sua presenza in casa; o nella stessa Genova, ma privo di impedimenti insuperabili. Era forse a Genova, però malato? Al momento non sono in grado di dirlo. Zio Marcello, invece, c’era. Ed era tutto il suo regalo di nozze. Lo aveva chiarito semplicemente, il suo dilemma finanziario del tempo: o ti mando il regalo, ma non vengo; o vengo, ma senza regalo. Scelta obbligata, per noi sposini: sarebbe stato il più bel regalo la sua venuta, la sua presenza alla cerimonia, al ricevimento. Venisse, dunque, senza imbarazzi, convertendo in biglietto ferroviario il denaro destinato all’eventuale regalo convenzionale. E così sia.
Sapevo le sue difficoltà, né potevo concedermi il minimo dubbio sulla sua generosità: tanto chiara ne era stata la dimostrazione durante un mio sog-giorno milanese, ospite suo, subito dopo la maturità scientifica. Né solo in quell’occasione. E’ il ricordo più limpido che me ne rimane: quel cacafoco, quel torrente vulcanico di eloquenza tribunizia, e di ciarle, non aveva il male sociale più diffuso, la taccagneria, la parsimoniosità sparagnina. Come dire, il negativo più revulsivo che mi riesca di immaginare nella fisiologia antropica.
Vuoti, dunque, tra le memorie (a volte così vivide e particolareggiate!) che coinvolgono zio Silvio. Ma non è assente né oscuro il ricordo del mutato clima domestico, a cominciare da un certo momento. Lo zio era una quercia già sfiancata dal fulmine, un quasi vecchio avviato a senescenza affrettata, non lo garantiva più la vigorosa salute dei primi incontri, anzi lo tradivano segnali allarmanti di decadenza fisica. Non era più il parente ricco, largo di doni. Non era più l’alter ego autorevole del padre, complementare vendicatore delle sue défaillances. Non era più l’immagine vivente del successo, della “riuscita”, del lottatore invincibile. Era stato vinto, e appariva vinto, gravemente provato. Non per inclinazione alle lagne o mancanza di contegno: era pur sempre la persona dignitosa e capace di gravitas romana, all’occorrenza. Era ancora un uomo rispettabile. Ma per chi? Dignità, rispettabilità, onore sono qualità quant’altre mai “relazionali”: è il rapporto con l’altro che ne modula sostanza e intensità. Se l’altro ha, a sua volta, le qualità necessarie all’apprezzamento, le virtù della persona, anche se colpita dalla sventura, rifulgono (e possono rifulgere anche di più, in apparente paradosso). Viceversa, l’ex idolo ed eroe diventa soltanto un ex: idolo infranto, eroe a pezzi. Solo un vinto. Che può diventare pesante da accettare se le sue esigenze ricadono sulle nostre spalle.
Qui nostre significa, in primis, della cognata sua e madre mia, ma, in se-conda postazione, anche delle mie sorelle e sue nubili nipoti. Indi, il clima via via meno sereno, man mano che la salute dello zio declinava e le esigenze corporali crescevano. Quando la maledetta cirrosi regalava emorragie, lavare certi panni non era corvée leggera. Ma mentre mamma si limitava a qualche mugugno in sordina, lontano dal cognato sventurato, le sorelle, specialmente la piccola e più impaziente, non sempre controllavano il volume vocale della protesta, in assenza del vociferato. E con visibile stento si mascherava in fiori di sorrisi credibili l’accigliato malumore. Né si trattava solo di bucato, ma bisognava servire un po’ in tutte le faccende che riguardano il lavoro femminile: pulizie nella sua stanza e nel suo bagno, e rifare e rinnovare in lenzuola e quant’altro letto tappeti cuscini tende. Un ricordo punge, sopra gli altri, la carne ammaccata di Mneme.
E’ un ricordo indiretto, riferitomi dal fratello minore, protagonista del fatto. Lui, il fratellino, ormai cresciuto fino ai ventitré anni, era stato un po’ brusco in certe repliche ed osservazioni rivolte allo zio in difesa della mamma (forse anche delle sorelle); probabilmente aveva aggrottato le sopracciglia come gli accade sovente (a compenso reattivo dell’innata timidezza). Fatto sta che lo zio si schiuse in un grave e toccante interrogativo: era di peso? non lo si sopportava più? Se era così, egli era pronto a togliere il disturbo. Così parlò l’icona scheggiata.
Troppi segnali, da qualche tempo, tradivano insofferenza nelle persone di casa. E non è che fossero solo le donne nubili, anche la mamma, e quel che è peggio, anche il fratello a lui più vicino, nostro padre, mostrava saltuarii segni di incipiente intolleranza, usciva in pretese strane sulle abitudini da seguire in casa, si atteggiava a pater familias “universale”, lui che ai tempi dell’ammirazione incondizionata, raramente, e con estremo garbo, poteva contraddirne convinzioni e abitudini. Insomma una serie di segnali unidirezionali: il caro zio era sempre meno caro, e si capiva che a taluno, in casa, ferito nella memoria e nel sentimento della gratitudine, appariva perfino ingombrante. Se ora anche il rispettoso nipote non riusciva a nascondere l’impazienza forse era tempo di un chiarimento. Parole strazianti, quelle dello zio smitizzato: mio fratello ne fu sconvolto, lo abbracciò d’impulso, con un nodo alla gola, si scusò per le parole
involontariamente asprigne, e ridimensionò il malumore degli altri. Ai quali consigliò poi moderazione e rispetto, quel rispetto che lo zio, per pesante che fosse diventato il fardello dei suoi malanni, continuava a meritare. E non solo per il suo passato di generoso benefattore, ma certamente soprattutto per quello: chi, come, perché si sarebbe potuto dimenticare di quella lunga, puntuale assistenza generale, appena velata dal pretesto della sorella nubile che formalmente egli, l’eroe lontano, prendeva a suo carico?
*
Ora è morto, lo zio africano, lo zio eroe. Malato di ricordi, consumato dal diabete e dalla cirrosi, secondo scienza e diagnostica prossima. Ma assassinato da nemici occulti e molteplici, vicini e lontani, secondo una diversa diagnostica, meno incollata ai sacri testi dell’arte ippocratica. Ucciso da pugnalatori sottili, che lavoravano da tempo nei microspazi del suo corpo robusto: la vita rischiosa in un clima ostile, la guerra, la prigionia in campi inglesi, la fuga dal “lager” (riuscirò, un giorno o l’altro, a dedicare un po’ del mio tempo incalzato a questa parte della biografia?). Poi le delusioni, l’ingratitudine umana, l’umiliazione di dover tornare a lavorare, già anziano e potenzialmente in grado di reggersi su una congrua rendita. Minato, eroso e ucciso da troppi agenti patogeni, dei quali quelli immediatamente fisici erano soltanto il convergente affioramento finale. Ma anche, sarebbe sciocco nasconderlo, una parte dei suoi
“vizi” giovanili: aveva fumato molto, e bevuto con virile misura i suoi cognac e whisky. Per troppi anni. “Debolezze”, se vogliamo, ma da uomo; vizi, sia pure, ma da masculu: quasi obbligati, nel suo mondo sociale. E senza quasi: uno status symbol della virilità operosa e socialmente “frenetica”. Del resto, non lo ricordo, nonché ubriaco, nemmeno brillo. Qualche volta, appena euforico, ma nel perimetro del mai perso self-control.
Un altro frammento di memoria sta affiorando, rivelatore: riguarda la sua presenza fra noi a metà degli anni Cinquanta. Ecco lo zio che riferisce di un chek up con rassicurata fierezza: né l’alcol né il fumo avevano lasciato traccia, se non men che modesta, nel suo corpo ancora saldo. Il fumo eccessivo? Lievissime, ovvie incrostazioni bronchiali: niente di allarmante. Ne rivedo il sorriso sobriamente ironico di uomo saldamente in sella. Pas de problème. E invece il Nemico, da talpa scaltra, scavava già in quell’assetto tanto robusto alla vista quanto insidiato dentro da sottili perfidie della microchimica ostile.
Come gli elefanti, che aveva conosciuto nei turistici safari africani (mai sparato a nobili bestie protette), era venuto a morire nella tana antica: la casa della sua infanzia remota, della sua adolescenza, degli studi, dei sacrifici per vivere e conseguire quella formazione. Era venuto già malato, ma di malattia non ancora dichiarata, era vissuto nel peggioramento continuo, ora frenato ora accelerato. Del quale, forse, non aveva capito del tutto la prognosi infausta, l’inevitabilità esiziale del capolinea. L’ultima accelerazione mi ha trovato in casa, lontano dal mio posto e città di lavoro: la casa paterna, e della mia infanzia fanciullezza giovinezza da scapolo.
*
Il romanzo dello zio africano mi ha preso talmente da non lasciarmi tempo energie e spazio per le piccole cronache della mia vita professionale nella movimentata comunità scolastica al femminile. Quando vorrò o potrò riprendere il filo della memoria troverò parecchie interruzioni: sarà un compito difficile rinsaldarne i capi senza smarrirne pezzi. Ma il romanzo ne vale la pena. Neanche sto segnando più le “uscite” dei miei articoli sui giornali e sulle riviste già note alle presenti pagine. E neppure le lettere illustri che qua e là continuo a ricevere. Maiora premunt?

18 gennaio

Riprendo il vecchio quaderno, e trascrivo, ma, ancora una volta, con incidenze correttive (e un certo imbarazzo in Crono).

Lo zio dell’Africa è morto, dunque. Un’altra porta che si chiude, ancora un mondo che scompare. Ecco: un’età della vita. Conclusione atroce. Forse que-ste due righe, o dieci, sarebbero bastate a dire l’orrore. Ma il bisogno di parlare è un’urgenza fisiologica d’autodifesa. Devo parlare, rievocare, confessare. Ancora a lungo.
La malattia lo costrinse al ricovero ospedaliero per tre volte. L’estate dell’anno dantesco la trascorse, buona parte, in ospedale: fu l’arco penoso della prima degenza, un calvario di ascite, svuotamenti, fleboclisi, emorragie. Un temporaneo miglioramento lo restituì alla famiglia per il resto dell’anno. Lo rividi il giorno dei morti. E fu difficile fargli coraggio. Disorientato dal pensiero del suo abituale pudore, non fui certo se fingesse o davvero non afferrasse tutta la gravità del suo male. Forse il suo atteggiamento combinava le due cose: vedeva, ma sperava. Malgrado tutto. L’evidenza, certo, gli s’imponeva, saltuariamente; ma bastava un effimero arretramento del morbo perché la sua virile fibra sconvolta indulgesse a qualche tentazione illusoria. O semplicemente umana: “Il corpo indietreggia davanti all’annientamento”: questa frase di Albert Camus mi risuona spesso dentro, praticamente tutte le volte che incontro malati
terrorizzati che s’aggrappano a qualsiasi simulacro di soccorso, scientifico o superstizioso. E moribondi che sono convinti (o piuttosto tentano di convincersi) che guariranno. Il corpo che “indietreggia” è capace di qualunque illusione: perché lo zio avrebbe dovuto fare eccezione? Ero venuto apposta dal “continente” per rivederlo e stare un po’ insieme. Parlò, ma poco, della sua iattura; e, appunto, si mostrò fiducioso in un prossimo ritorno della salute, solo temporaneamente sequestrata dalla sfortuna. Salute comunque, anche se diminuita, non più sorretta dalle forze di un tempo. Faceva perfino progetti di lavoro. Aveva ottenuto da un lontano amico di gioventù la direzione di una azienda di trasporti su ruote, e la cesura “per gravi motivi” gli si presentava come episodica, e di non lunga lena. Forse avrebbe ripreso il suo posto fra un paio di mesi. Sì, niente è più facile che illudersi. Anche per i migliori fra gli uomini
lucidi. Homines sumus, non dèi.
In realtà, non avrebbe dovuto lavorare, affaticarsi. Come non avrebbe dovuto più bere alcolici, neppure vino, né, ovviamente, fumare. Col fumo ce l’aveva fatta: Zeno capovolto, la sua “ultima sigaretta” era stata davvero l’ultima. Così, dall’oggi al domani, aveva smesso di fumare. Gli avevo consigliato di procedere per gradi, temendo gli imprevedibili e i previsti effetti dell’astinenza, soprattutto i primi. No, aveva detto: o tutto o niente, un taglio netto. “Non ne verrei fuori con la delicatezza. Soffrirò? Ho visto di peggio”. Già: guerra, prigionia, incidente automobilistico grave (con visibile cicatrice facciale tra guancia e mento), perfino un autoferimento precauzionale in seguito al morso di un topo (il timore della peste, in certe condizioni ambientali, non sembri esagerato). E poi, buon’ultime, le pugnalate furtive della toscanaccia in-gorda, già “caro Orsetto” epistolare (come lei, “cara Orsetta”!).
Certo, un po’ di sofferenza l’ebbe, ma la sopportò meglio con l’aiuto del-la paura mortale: il divieto del medico era stato talmente perentorio. Andò diver-samente col vino e col lavoro. Accettò un piccolo compromesso per il vino: ne bevve di meno, “temperato” con acqua, e solo a tavola, ai pasti principali. Era ininfluente, quella misura, sul decorso inarrestabile, ma forse frenabile, del ma-le, o lo aiutava, lo accelerava? Chi diceva di sì, chi di no. Anche fra medici di diversa “scuola” (o soltanto sensibilità personale). Lui comunque non intendeva rinunciare al suo unico conforto superstite. Quanto al lavoro, forse la misura a-dottata era più nociva del vino. Ma come frenare un uomo naturaliter attivo, e-ducato all’operosità eticamente convinta, rispettoso del valore lavoro fino all’intransigenza? E continuò a lavorare, contro ogni avvertimento e consiglio. Come aveva sempre fatto, fin da ragazzino, insieme a mio padre:
vicini di età (appena un anno e quattro mesi più vecchio lo zio), accudivano il gregge paterno già al settimo e sesto anno. Altri tempi. Sì, nonno Paolo era capraio. E godeva di un terreno in affitto, ereditato dal padre. Terreno argilloso, fertile di copioso grano, ulivi da olio, fichi, e pascoli. Con qualche altra pianta meno preziosa.
Così, la “misura” del lavoro, quella del vino, e qualche altro analoga-mente misurato strappo all’apparato proibitivo della semi-scienza medica, con-vergevano verso l’esito in ogni modo segnato. L’avranno accelerato? Probabil-mente. Di quanto? La scienza medica non lo sa dire. Come non ha saputo e potuto pronunciare parole di salvezza. Rappresentata da mezze figure di provincialini fatalisti, in ogni caso, l’onorevole scienza di Ippocrate (in prevalenza di cultori estranei allo spirito del Fondatore) si limitava a darci i suoi bollettini della sconfitta: patetiche prospettive di risoluzione più o meno imminente. Il più delle volte, campate in aria: a sentire l’onorevole scienza, lo zio doveva essere morto già un anno fa.

L’ascite l’aveva gonfiato in proporzioni indecenti. Era in ospedale da quindici giorni quando lo rividi, dopo l’incontro del 2 novembre. Ed era, appun-to, gonfio di edemi sparsi, anzi, si può dire, di un solo edema diffuso per tutto il corpo oltraggiato. Il ventre, un otre osceno, da Sileno lubrico; i testicoli avevano raggiunto dimensioni mostruose. E tuttavia egli parlava: discuteva di lavoro col socio, dava suggerimenti e dettava disposizioni. Nessun dubbio: in quei momen-ti drammatici, egli sperava ancora di uscire sulle proprie gambe da quell’orribile covo di corpi umiliati, alcuni marcescenti, che chiamano ospedale. Quale strana ironia nel sadismo ottuso di madre natura, di sorella malattia: appanna la lucidità dei più forti, come se si divertisse a umiliarne lo specifico umano, il troppo cele-brato blasone della consapevolezza, dell’autocoscienza vigilante.
Si alzò da solo fino al limite del quasi impossibile, da solo fece, continuò a fare, con serrato pudore, le pulizie personali. Mi si riferiva di questo con am-mirazione: parenti e infermieri. Io, purtroppo, e mio fratello, eravamo lontani, oltre il mare, incatenati dal lavoro. La degenza se la videro i miei, e particolar-mente mio padre. Soprattutto penoso fronteggiare i dolenti rientri del malato in casa. La vecchia, ma rinnovata, “grande casa” dei nonni, completa di stalla (or-mai spopolata ) e orto ferace, ricca di memorie liete e tristi. Ma per le vacanze di Natale siamo stati al paese, noi germani, e abbiamo potuto seguire lo zio, parlare con lui, confortarlo del nostro affetto: più espansivo quello di mio fratello, più composto e parco di menzogne il mio.
Negli ultimi giorni del dramma fu con noi zio Marcello. Semper idem: ciarlone, focoso, perentorio nelle sue sortite. E dunque, a volte non sopportabile da parte di chi deve sopportare già il peso immane di una malattia spietata. E al-lora noi nipoti gli ricordavamo quel che lui tendeva a rimuovere: le condizioni dello zio malato. Non sono mancati nemmeno i casi di intervento diretto dell’interessato. Che si calmasse, il rematoso, che abbassasse tono timbro volu-me della infaticabile voce a parlantina mitragliante: il malato era stanco, il mala-to voleva riposare, la notte dormiva così poco. Quello si placava per un po’, ma non tardava a ricominciare. E noi a ri-allontanarlo da quel letto, da quella corsia, tentando di coinvolgerlo in altre chiacchiere e ricordi personali e di schiatta.
Ad un certo punto non poté più, lo zio Silvio, curare da solo l’igiene per-sonale. Esigentissimo, quasi maniaco della pulizia, si vide consegnato al dispet-toso dovere e al barcollante affetto degli altri per il doloroso soddisfacimento dei bisogni più imbarazzanti. Umiliato, anche nel delirio tentava di scendere da solo dal letto. Più d’una volta, mio fratello Marco e lo zio Marcello, che lo ve-gliavano in ospedale, dovettero accorrere, nella notte, a fermarlo. Nel delirio riaffioravano brandelli sconnessi del passato remoto, e si intrecciavano a ricordi vicini, a sensazioni attuali: simil-discorsi tragicamente comici e strazianti.
Mi cercava. Nel disordine cupo dell’incoscienza sconnessa, o della semi-coscienza baluginante, la mia immagine lo inseguiva, lo accompagnava, ma con sdoppiamenti e snaturamenti indecifrabili. Una volta mi chiese se io fossi venu-to: “E’ venuto Paolo, è venuto?” Quella sua voce fioca, la pronuncia stentata, le parole smozzicate: lui che parlava con maschia voce limpida, e pronunciava con dizione perfetta, e non sprecava parole nei suoi discorsi sempre misurati, sempre funzionali alla comunicazione essenziale. Davvero non ha limiti il sadismo di madre natura matrigna. Altre volte mi chiamava col nome di mio padre, e chie-deva ancora di me. Ripeteva la domanda a intervalli, spesso a occhi chiusi, quasi sempre in stato di semicoscienza: “Carlo, è venuto Paolo?” Lo chiedeva a tutti, al fratello Marcello, a mio padre, a mio fratello, alle sorelle, a me stesso.
Andavamo d’accordo ai bei tempi della salute: un certo pudore ci acco-munava. E una delicatezza nel mio affetto che lo confortava. Lo capivano anche gli altri, tutti, maschi e femmine, vicini e meno vicini: quella insistenza, quella sorta di coazione a ripetere legata al mio nome, alla mia presenza fisica e virtua-le era la prova della mia incidenza nel suo assetto emozionale e mentale. Nel venir meno delle nostre normalità funzionali, la mente si rifugia nelle nicchie delle certezze consolanti. E forse le rastremate condizioni vitali cercano in quel-le nicche un inconfessato soccorso magico, un potere ignoto di contrasto vincen-te col Mostro. Non fosse, magari, che per una dilazione all’inevitabile.
Un’ernia oscena, poderosa, inverosimile si protendeva dall’ombelico. Aveva avuto un’emorragia sottocutanea nella regione centro-addominale e una fascia nerastra lo cingeva sinistramente. Una notte gli si aprirono i testicoli: la pelle, troppo tesa, non resse alla pressione crescente. Ne zampillarono sangue e plasma, a lungo, fino al pavimento, addosso a zio Marcello che lo assisteva, quella notte, insieme a mio fratello. Pareva proprio che non fosse previsto alcun limite all’orrore nel consiglio segreto dell’abisso molecolare favoleggiato in dio destino natura sorte. L’immancabile bestemmia dell’involontario bersaglio stri-dette come un tocco aggiuntivo di tragica ironia sul dramma. “Lo zio Marcello è sempre lui”, aveva riferito mio fratello, la mattina dopo. Ma senza tono di con-danna. Troppo divergenti da ogni sopportabile normalità erano le circostanze per sprecare giudizi. Marco non era facile alla bestemmia, ma quella notte aveva sentito una sorta di liberatrice necessità nel “tuono” irato di quel “porcoddio” schizzato al cielo. Anzi, al soffitto della truce stanza: emblema di ben altri schermi fra “l’invocazione umana e il silenzio irragionevole dell’Universo” (Ca-mus)
Le iniezioni (ormai inutili “stazioni” di una ritualità meccanica) sul cor-po martoriato gli lasciavano macchie di sangue pesto, e lo facevano sanguinare per ore. Aveva i tessuti fradici. Negli ultimi due giorni gli si era consumata l’epidermide sulla spalla sinistra e sulla gamba destra: due larghe piaghe trasu-davano plasma incessantemente. Poiché aveva perso ogni controllo, orinava nel letto e poi bruciava in mezzo all’orina di fuoco e al plasma trasudato, nell’attesa di una mano pietosa (non sempre pronta) che lo asciugasse. Si agitava conti-nuamente e chiedeva di essere pulito. Aveva fame e sete. Fino a qualche minuto dalla fine, mangiò una fettina di pera e bevve acqua.
Il penultimo giorno ritornai a visitarlo con mia moglie. A un certo mo-mento prese il lenzuolo con entrambe le mani, se lo portò alla bocca e prese a masticarlo. Gli occhi chiusi, ormai incapace di aprirli. Voltandolo per mutarlo di lenzuola, il liquido che lo riempiva gorgogliava sinistramente..
*
Insomma, eccoci di nuovo, e in grande stile, alle situazioni-limite, alle grandi occasioni dei bilanci draconiani sulla realtà universa e la sua malconcepi-ta fetta biologica, in particolare; occasioni sprecate dal 999/ 1000 (ma il rapporto è una concessione all’ottimismo scemo) dei cervelluti bipedi. I quali sono (ma che mi ripeto a fare? Ovvero: perché non dovrei, dinanzi a quei pennuti senza penne?), sono, dico, tanto corrivi a gridare al miracolo se guariscono da un fo-runcolo, quanto a sventolare Mistero, Giudizio divino insondabile e perfino sa-cralità della sofferenza di fronte a vergogne come lo scempio di un uomo degno, o lo strazio di mille bambini, colpevoli soltanto di immacolata innocenza. Sini-stro privilegio poco meno che esclusivo, questo della sacralità del dolore, della più sciagurata categoria verbifica, i teologi. E vogliono essere trattati bene, i si-gnori della superstizione antropomorfica. Con i guanti gialli, anzi di velluto in-censato, perché “ognuno ha diritto alle proprie idee”, “siamo liberi di pensarla come ci pare”, “la libertà di coscienza è un valore assoluto”; e simili propositi verbali di fratellanza evangelica, sempre sgonfiata nei fatti contro lo scoglio del pensare diverso. E perfino, in tanti, con conseguente nostalgia della sua elimina-zione dal nostro orizzonte di forzata convivenza. Ah, i bei roghi della santissima Inquisizione! Le sue squisite stanze della tortura prodigata in nome dell’amore.
*

19 gennaio

Questo dramma mi ha colto nel peggiore momento: giorno 11 dovevo presentarmi all’esame orale del concorso a cattedre, perciò non sono potuto ri-manere accanto allo zio morente quanto avrei voluto: un maiora premunt triste-mente duro, che non ammetteva deroghe. Era in gioco il mio avvenire: di pro-fessore, di marito, di padre: come superare certa soglia di rischio imbranante al momento del confronto col Minosse esaminatore senza un assiduo impegno?
Ripassavo storia la sera del giorno 6, alle ore 9, quando mio fratello e zio Marcello vennero a darci la notizia. L’aspettavo da un momento all’altro, anzi l’anticipavo con l’affetto e il desiderio, come la fine di una sporca tortura; ma quando la ebbi qualcosa mi saltò alla gola. Era rabbia, pena, senso di irrimedia-bile impotenza, di infinita frustrazione verso un’alterità perversamente incon-trollabile. Sgorgarono lacrime. Fluide, inarrestabili, composite come il sentire ingorgato, eppure quasi confortevoli.
Lo rividi già vestito. Mi dissero poi con quanta fatica e quante difficoltà fossero riusciti i tre uomini della famiglia presenti, con l’aiuto degli infermieri, a fare entrare quel corpo sformato, debordante, profanato dal prevalere incontra-stato della quantità bruta e brutta, in abiti nati per altre dimensioni. Quante fa-sciature preliminari dovettero precedere la vestizione vera e propria, ad evitare tracimazioni drammatiche.
Aveva la solita espressione dei morti che hanno sofferto troppo: quasi sorridente. Era l’espressione che vidi sul volto dello zio Saverio, morto della stessa malattia nel luglio del ’59, a soli 46 anni; l’espressione che era sul viso di mia suocera, morta qualche mese prima, il 19 marzo di quello stesso anno (festa di san Giuseppe), dopo lunga malattia mal diagnosticata e malissimo curata. Quasi la stessa che mi aveva sorpreso, forse per la prima volta, nel lontano 1952, sul viso terreo del mio vicino di casa, amico e compagno di giochi, Alfio Rabiti, ucciso, anche lui, dalla turpe ascite. Ma con dettagli più drammatici, più raccapriccianti, starei per dire più metafisicamente osceni: aveva vermi nelle piaghe. Avete letto giusto, marziani del tremila: vermi, vermicelli bianchi e ser-peggianti, nella carne morta, rossa di non arrestabile tracimare del sangue; vermi, da vivo, dentro i crateri della decomposizione. Il plasma gli era stato
prosciugato più volte con applicazione di sanguisughe. Ma si riformava, fin troppo presto, e i morsi delle minute vampire non guarivano: e così germi vivi della morte modulare invadevano quelle piaghe, presto necrotizzanti. Vita beffarda nella carne defunta di un vivo che precipita verso la fine dentro la valanga dell’Inevitabile assoluto. Verso la pace, si può anche dire: ma a qual prezzo, ma con quanta disciplina di sofferenza, ora paziente, ora urlante. Negli ultimi giorni gli urli arrivavano lontano, si ascoltavano fin dentro le nostre case, in tutte le stanze del vicinato, variamente partecipe del dramma. E non si cancellerà certo mai dalla mia pure scotomizzata memoria quel gesto disperato, quella risposta virile di un ragazzo all’ennesima menata dei soliti presenzianti, vicini beghine e pretonzoli senz’anima, al milionesimo consiglio pio di affidarsi al Signore, impetrare la Madonna, e chissà che altro sudiciume logico involontario:
Alfio che strappa il crocifisso dalla parete sopra la sua testa e lo scaglia lontano da sé, dal suo corpo seviziato, e quello sbatte contro una sedia e rimbalza a terra, sul pavimento della stanza. Quella prima stanza della modesta casetta terrana aperta sulla strada provinciale, già a quel tempo ricca di traffico motorizzato. Con un fiotto delle residue forze, il martire ha scolpito il gesto per eccellenza. Cioè, l’unico degno in quella bolgia d’inferno reale, oscenamente spacciata per prova del buondio, pedagogia severa, magari, ma da affrontare e superare senza protesta, senza rivolta. Invece la rivolta c’era stata: chiara, netta, energica. Una risposta di verità, gettata in faccia a quei propalatori di menzogne in stridente contrasto di fuoco con la verità della sua carne diabolicamente torturata. Menzogne nate, bensì, per consolare e aiutare la sopportazione rassegnata dei sofferenti, ma evidentemente non più buona a tanta bisogna quando l’eccesso, questo sì blasfemo, supera la soglia dell’estrema sopportazione. Alfio Rabiti aveva ventidue anni.
Aveva fatto appena in tempo a sposarsi e generare un bambinello nato orfano.. Come avrebbe postillato il caso l’autore dell’Homme révolté?
Divagazioni, sempre divagazioni. Non riesco ad evitare la seducente in-sidia della libera associazione. Ma lo sono, poi? Sono divagazioni, davvero sol-tanto divagazioni? Sia come sia, con l’immagine (ricostruita in questa trascri-zione su scarni dati presenti nel quaderno) di quel giovane tradito dalla vita, ri-torno al nostro lutto e al suo indotto. Ma non senza aver precisato, sempre diva-gando a margine, che non era la cirrosi la sua malattia, ma uno scompenso car-diaco, forse dono di una miocardite o endocardite, provocata da reumatismi tra-scurati.
*
Zio Silvio ha lasciato un milione in contanti, collocato in banca con li-bretto personale, e il fabbricato incompiuto di Albano. La scoperta di quel libret-to bancario ha dato occasione a uno spettacolo poco edificante. Gli eredi diretti, chi più chi meno acceso di normale interesse, hanno tentato di convincere l’agonizzante a trasformare in “libretto al portatore” quel libretto personale. Lo zio respingeva quegli assalti: tra una macchia e l’altra di buio mentale, il povero malato balbettò le sue ragioni: “Voi me li consumate, e poi io che cosa man-gio?” Ragioni piuttosto appannate, come si vede, ma pur sempre innestate sul ceppo di una sospettosità plausibile: l’istinto di autodifesa, evidentemente fun-zionante, sia pure in un residuale baluginio, faceva sentire la sua flebile voce. Anche in condizioni di estreme difficoltà fisiologiche la vita insiste in queste vane resistenze.
Zio Marcello fu più esplicito del cognato: questi aveva tentato di ma-scherare la molla segreta della richiesta, parlando, senza convincere il destinata-rio, di necessità cliniche del malato, di spese necessarie per curarlo meglio; Marcello, invece, con la sua souplesse da camilliano convinto, sparò in faccia al fratello sconquassato che, in caso di morte, sarebbe stato un peccato perdere quei soldi. O anche perderne solo una parte: a vantaggio di chi, poi? Dello Stato: cioè di un vampiro più estraneo che amico dei poveri e dei sofferenti. Dopo aveva aggiunto, a tardiva autocorrezione – quasi certamente imbeccato da qualche cenno di mio padre – che i soldi servivano per lui, per il malato. Cioè, aveva rie-cheggiato zio Geppino, il marito di zia Vanna (che fremeva, anch’essa, ma ave-va avuto il pudore e l’occasione di tacere sull’argomento, di non intervenire nel-la perorazione). Il malato fece le corna. E poco dopo autorizzò mio padre a pre-levare una parte del denaro per le necessità segnalate; ma non si lasciò convince-re a cambiare la tipologia del libretto. Evidentemente, l’esperienza lo aveva segnato: mai più fidarsi ciecamente di amici e parenti, mai più darglisi in pasto. Altra manifestazione di resistenza vitale allo sfacelo, pur così avanzato: come se la vita residua si concentrasse in un’estrema acropoli di riducibile ma ancor te-nace ostinazione.
Una vecchia procura generale rilasciata dallo zio a mio padre salvò la tranquillità degli eredi. Quel lampo di memoria su quella vecchia carta dimenti-cata in un cassetto spianò quei visi contratti in un contenuto, ma luminoso sorri-so. Una procura generale senza limiti di tempo: e fu come un profumo di altri diluvi. Un profumo di gardenia a contrastare il letamaio presente. Nel suo muto linguaggio di carta quasi ingiallita, con la rigida sintassi del modulario burocra-tico, la procura parla di una fiducia assoluta, di un’intesa senz’ombra di sospetti, aliena da calcoli meschini e “spirito borghese”. Com’era stato possibile intacca-re quest’idillio? Ah, fragilità delle umane virtù.


20 gennaio

Dopo i funerali, mio fratello partì per Roma, dove, da professore di ma-tematica, era atteso per gli scrutini del primo quadrimestre. Zio Marcello prese il treno per Milano l’indomani. Lo accompagnai in macchina alla stazione della rumorosa, congesta Liotria, “Milano del Sud”, per fargli prendere il direttissimo.
Di ritorno, solo, percorrendo strade che avevo fatto tante volte insieme a zio Silvio, mi venivano lacrime agli occhi. E quel pianto di dolore aveva una sua stravolta dolcezza. Contro l’ingiustizia feroce del mondo, quel rannicchiarsi fra i vinti più dolenti, fra i peggio marcati dalla sconfitta universale, scioglieva nel cuore una sensazione di forza, di consolante speranza e autodifesa non vana.
A casa mi aspettava mio padre: si andava insieme al cimitero per la se-poltura. Ultima fase del rito. In attesa del nostro turno (altri “clienti” ci precede-vano), papà rievocò un poco della sua vita col fratello: dagli anni della fanciul-lezza agli ultimi tempi. Parole, tutto sommato, convenzionali, nella parte elogia-tiva. Ma non senza un’aliquota di sincera pietà, di vero dolore. Soprattutto, però, una disinibita sincerità critica, ambiguamente resistente alla pulizia catartica che si suole attribuire alla “santa” potenza educativa della morte.
Si coglievano, alla luce crepuscolare di questo epilogo, le differenze di mentalità, di carattere, di educazione dei due fratelli. Suo ammiratore incondi-zionato per le qualità positive (intelligenza, facilità all’apprensione del nuovo, ottima scrittura, vocazione e rispetto per il lavoro, generosità), papà rimprovera-va allo zio i già segnalati “vizi”: il fumo, il bicchierino, l’inclinazione edonistica generale. E il gusto delle donne in particolare. Quest’ultimo “vizio”, soprattutto, mio padre considerava incongruente con la serietà, la dignità, l’onorabilità pro-fessionale. E quant’altro. Quant’altro, voglio dire, a suo parere, costituisce la consistenza e quadratura di un uomo di peso. Insomma, sembrava non ricono-scergli il diritto al godimento. Gli rinfacciava, anche, una certa disposizione a farsi servire: cosa normale in Africa, fra dipendenti e servi di colore, non in fa-miglia. Non, soprattutto, in una famiglia
ospite, dove le donne sono nostra mo-glie e le nostre figlie. E qui papà esagerava. Lo zio non pretendeva, ma chiede-va, gentilmente. Credeva di poterlo fare, ricordando, senza mai rinfacciarlo, quanto aveva dato a questa famiglia. La quale (e sembrò a volte che papà lo di-menticasse) senza l’aiuto dello “zio africano” non sarebbe riuscita a sostenersi serbando la famosa dignità sociale cui il pater familias teneva sino al fanatismo.
Ci furono momenti, durante la disoccupazione prolungata di mio padre, che si dovette lavorare un po’ tutti, ciascuno a suo modo: ma rimanendo in casa, in piena indipendenza, senza umiliazioni. Io facevo lezioni private dalla mattina alla sera (in estate, cominciavo perfino alle sei del fresco mattino in cortile); le sorelle ricamavano e cucivano per conto terzi. Mettendo insieme i modesti gua-dagni del nostro lavoro e gli aiuti, sia pure più leggeri, dello zio, che ufficial-mente (come ho detto) manteneva la sorella nubile, si riusciva a vivere decoro-samente. E provvedere, anche, al corredo delle ragazze. Non aveva diritto, que-sto benefattore, di aspettarsi affetto rispetto provvidenze quotidiane da tutti i componenti della famiglia? Probabilmente, durante le fasi involutive della ma-lattia, qualche lino sporco dovette suggerire a papà l’attesa di una più vigile di-screzione nel malato: specialmente verso le figlie. Che del resto potevano sof-frirne solo l’occasionale vista, perché, quando a toccarli, erano ben protette dalla madre, da nostra madre, la quale riserbava a sé le incombenze più sgradevoli. E sempre, in ogni occasione, risparmiava, come poteva, noi figli.
Miserie della carne, così sensibile, così vulnerabile, così fragilmente mu-tevole: in basso e in alto, dal calcagno alla nobile testa. La quale nobile, in real-tà, serve le diverse “livellature” del corpo e dei suoi variegati e monocordi appe-titi. Così in generale. Così della specie intera. Ma con, pur minimali, eccezioni empatiche.
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Rivedo la sequenza: noi due, io e il babbo, bene incappottati, sotto i ci-pressi, movimenti di gente e di bare, le nostre parole sulla vita e la morte, il mi-stero del “dopo”, contro fredde nuvole cupamente grigie e qualche pigolio di uccelli. Noi due, gli ultimi avanzi della “festa”, soli, fra simili alieni, più o meno dolenti, come abbandonati in un deserto invisibile. Sensazioni momentanee, pe-raltro: urgenze incombenti non concedevano spazio a lungaggini meditative.
“La vera vita comincia dopo la morte”. Questa frase mi risuonava nel cuore in lutto: l’aveva pronunciata, con semplicità perentoria, un mio collega. Ieri, alla stazione di questo paese magnogreco, al mio rientro dalla Sicania triste. Non senza avere ridondato: “io credo nell’immortalità dell’anima”. “Io no” – avevo sovrapposto a un mezzo sorriso d’indulgente bonomia. Mio padre era sta-to più serio, quel giorno, sotto i cipressi: “Davanti a questo grande mistero” – diceva, mentre la mia filosofia si ritirava in discreto buon ordine – “hanno ra-gione quelli che pensano a un’altra vita, e non si può dare torto a quelli che ve-dono la fine di tutto nella bara”. Ha, lui, di queste sortite para-filosofiche. A vol-te penso che avrebbe potuto riuscire un buon insegnante di questa disciplina. Chissà, forse vede in me il riscatto della sia non ardita rinuncia precoce.
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Quando zio Silvio era ancora vivo, alla mia dolente osservazione révol-tée sul disfacimento inarrestabile del suo corpo, zio Marcello aveva risposto che solo lo spirito poteva resistere a tanta rovina. Al fratello minore di mio padre, che aveva studiato filosofia al magistrale, risposi, allora, che lo spirito finiva col corpo. Aggiunsi che se una certezza avevo, era questa. E’ vero, ancora vero. An-zi, più che mai lucidamente e incontestabilmente vero.
Ma che me ne faccio di tanta verità e certezza? Ghiaccio nel gelo dell’inverno? Beati i poveri di spirito…
Mi aveva guardato un po’ perplesso, zio Marcello, ascoltando la mia a-sciutta professione di non-fede. Non se l’aspettava? Eppure, non mi pare di aver fatto tanto per nascondere le mie “idee”. Si aspettava qualcosa di più complica-to? Lo spirito: che cosa intendeva, lui, con quella logora parola sputtanata da millenni di riflessione onesta? Pur riportato in trono dalle armate anglo-americane, pur gonfiato dai ricostituenti politico-affaristici e democristiano-vaticani, lo spirito-fenice restava un miserabile prodotto dell’umana debolezza davanti alla morte. Quello “griffato” dalla scienza, sapeva di corpo, di fisiologia: era solamente un aspetto complesso della complicatissima, ma altrettanto natura-le e terragna, fisiologia animale a livello antropico. Accidentatissmo livello.

Chiudo la pagina con un degno maestro di lucidità: Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra /al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale; / quella che grande e forte / mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna. / (Leopardi, La ginestra, vv. 111-125).

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