giovedì 26 marzo 2009

Susanno frammento 19


V29 gennaio, ore 22

Ore nere, come si fanno fitte le vostre processioni in lutto! Che sia ormai prossimo il traguardo dell’imbecillità completa? Non riuscire a mettere insieme due pensieri, due ricordi. Soffrire per confessare nella maniera più banale questa impotenza. Essere costretti a ritornare continuamente sulla parola scritta. Sentire lo scontento diffondersi sempre più per tutto il corpo, la paralisi bloccare ogni potere di ordine, di decorso logico: ecco la pietanza che mi viene ammannita da alcuni giorni, il calice amaro in cui si rovescia l’acqua cristallina della speranza ancora una volta delusa, dell’autofiducia di nuovo prostrata. Che cosa mi rode il cervello?
Avessi almeno la capacità della rassegnazione, l’umiltà sconfitta della rinuncia. Lo sguardo attaccato all’oggetto fisico, non mi riesce di sollevarlo verso un nucleo coerente di contenuti mentali senza uno sforzo enorme, defatigante, mortificante: per evitare stolte incongruenze, termini banali, ripetizioni da trascinamento meccanico. La memoria mi tradisce sempre più spesso. Alla facoltà di rigoroso controllo logico-costruttivo si va sostituendo, appunto, la forza inerziale dell’associazione spontanea. Donde il rischio della ripetizione coatta. Scrivendo, pensando, lascio indietro i pensieri, e mi capita di perderli ad ogni snodo, cercando di connetterli a quelli che cerco. Una specie di frantumazione psichica.
Credo stia attraversando uno dei periodi più plumbei della mia inutile esistenza. Le vecchie lacune si allargano, le antiche debolezze si accentuano. Sono più che mai esposto all’influenza mimetica di tutto ciò che mi circonda, vivo o inanimato che sia. In particolare, mi debbo continuamente guardare dalla tendenza a imitare chi mi sta vicino: nel parlare, nel gesticolare, del muovermi, nello scrivere, nella grafia. La vecchia piaga si incancrenisce. Zelig minaccia, ghignando: una meteora o l’incipit di un’insidenza radicata? Stanchezza temporanea? Involuzione senza ritorno?
Il peggio è che non trovo cause per tanta desolazione. Che cosa mi manca? Ho un lavoro, ho testé superato bene un concorso a cattedre, il mio avvenire professionale si consolida. Ho una moglie, un figlio, i genitori, una famiglia allargata in via di sistemazione. Ho un passato lavorativo rispettabile, tre classi di alunne affezionate, che mi stimano. Un’attività culturale indipendente, delle collaborazioni giornalistiche con un seguito di lettori nel mio mondo professionale (colleghi, alunne, loro parenti…). Un angolo di mondo gelosamente blindato contro tutti e tutto. E nulla mi aiuta: né moglie né figlio, né scuola né affetto di alunne, né lavoro intellettuale né conoscenze illustri conseguenti. E nemmeno il blindato. Che paradosso!
Certo, non tutto quello che ho convocato a discolpa è senza colpa. Voglio dire, non tutto fila liscio nel mio piccolo cosmo. Il ménage gradirebbe più coinvolgimento affettivo nella partner, in verità mai veramente convinta della relativa fitness (dirlo in soldoni? Ma no, non occorre. Vero quaderno? Fra noi ci intendiamo). Il campo di battaglia scolastico apprezzerebbe di più colleghi meno invidiosi e più preparati, ciascuno nella propria materia. Le alunne: sì, sono affettuose, ma non tutte allo stesso modo. Non tutte sono convinte di avere dal sottoscritto quanto meritano. Qualche caratterino sospettoso non aiuta i rapporti fra studentesse e semina zizzania fra le amiche. Il bambino dà tanta gioia quanta preoccupazione: non socializza facilmente, soffre dell’asilo come di una punizione, di un esilio. Il mio lavoro intellettuale: ombre e luci. A volte più quelle che queste, a volte il contrario. Fra le ombre, il fallimento di ogni tentativo di lavoro grosso, di lunga lena. Insomma, da libro. Voglio dire: da prodotto finito, appagante, stampato da un editore vero. Finito: che bella parola. Le promesse mancate, la stanchezza che mi ferma al di qua di tanti propositi..
Ecco: forse è qui, nel lavoro intellettuale, la piaga che più brucia. O forse è il cumulo delle varie défaillances a premere verso la scivolata depressiva.
Né so meritare quel tanto di luce che brilla in questa caligine. Incapace perfino di farne arrivare il riflesso su queste pagine. E cerco alibi nella prigione che mi soffoca. Ma quale prigione può imprigionare lo spirito che non vuole, se lo spirito non è malato? Forse la malattia è meno rintracciabile di quel che credo. Forse bisognerebbe invertire il senso dell’analisi. lo spirito è astuto.

Ma che sciocchezze vado dicendo? Sono proprio a terra, dunque. Lo spirito! Una banale, anche se inafferrabile, biochimica ballerina mi scappa di mano per schizzare verso l’irreale e l’inerziale linguistico. L’inerziale, già: ché di questo si tratta, non d’altro. Ma, ecco, nemmeno questa inerzialità cieca può ammettere uno “spirito” sveglio, cioè una mente in buona forma. Chissà se i molteplici e moderati successi non siano proprio loro a creare il disturbo: per esempio, come paura di non farcela a confermarli e migliorarli. Ecco una buona ragione di ansia proiettata sul futuro. Insomma, un maledetto imbroglio.
E domani dovrei incominciare un corso di preparazione privata per una ragazza che si presenterà agli esami di maturità classica da esterna “saltatrice” (salterebbe la seconda classe). Dovrei insegnare italiano e filosofia. Che succederà? Cosa vuol dire la domanda? Ma è chiaro: temo di “non essere all’altezza”. Di non trovarmi nello stato mentale giusto. Dovrò perdere tempo a ripassare il contenuto di tanti classici; e sarà penosa sottrazione ai miei latini otia letterari e pubblicistici. Non avevo voglia di impelagarmi in simili “scontri”, ma l’amico che me l’ha chiesto è di quelli cui è difficile negarsi. Tra l’altro (o soprattutto) è il redattore capo (e quasi unico) del settimanale cui collaboro. Come firma appetita e riverita, certo, ma chi può dirsi indispensabile in questo microcosmo della precarietà, che è un modesto settimanale locale? Perfino la firma migliore, sarei: a detta dell’estroso direttore Titta Voti.
S’intende (anzi sottintende, credo), dopo la sua. Che, in verità, è valida ben al di là di tante altre, prive della sua lunga militanza giornalistica e della sua vivacità lessicale (specialmente polemica).
E cerco aiuto nelle sigarette, che forse sono una delle cause non secondarie di questa non voluta discesa agli inferi. Probabilmente si prepara un’altra crisi tossica (“tossicosi endogena” l’appella il nominalismo inguaribile dell’umano sapere brancicante: in questo caso, sub specie hyppocratica). Sento di nuovo il cranio come oppresso da un peso interno che si sposti da destra a sinistra e viceversa. Risalirò la china?

Domanda enfatica. Come tutta la confessione esorcistica (che rileggo, trepidando). Dopo tutto non si tratta che di temporanea stanchezza, accumulo di stress. Non è forse accaduto altre volte? Non sono forse risalito? E che diamine, queste paure del cavolo! Su, alzarsi e passeggiare. Vai in riva al mare. A quest’ora, d’inverno? Da solo? Mi prenderebbero per strambo esaurito e peggio, anche in compagnia di moglie e figlio, figuriamoci in astratta solitudine da nuvole. Ma la libertà? Condizionata. Come tutto.
E dire che metà del vaniloquio teologico si fonda ciecamente sulla postulazione sballata del libero arbitrio. Ossia, di una libertà che potrebbe vincere ogni barriera di coercizione, qualsiasi contingente condizionamento organico e dispositivo genetico! Perfino i radicali liberi impazziti. Rintocchi di campane diagnostiche: fumo troppo? Un troppo, intendo, relativo alle mie capacità fisiologiche di confronto nicotinico. Dormo poco? Poco, ut supra dixi, ma anche rispetto a una medietà normale. Sì, dormo troppo poco. E la bella accoppiata mi regala le squinternate paure che ti ho confessato, quaderno dei miei sospiri e gemiti. E delle mie piccole glorie.
Mi vedo davanti la faccia spaventata di Severino Kirkegaard: credeva tanto al fantomatico libero arbitrio da cavarne realissima angoscia: com’è facile scambiare i propri condizionamenti genetici per libere possibilità disponibili. E le proprie paure catalizzate dall’ambiente (in fattispecie, soprattutto quel padre e quella tenebrosa “scheggia nella carne”, inviolato segreto pudendo) per capricci di un Despota celeste che giochi con noi, suoi robottini citolologici senza potere. Per un ansioso superlativo come il Danese la resa al Despota è una necessità vitale: contro ogni logica evidenza decenza: tutta robetta da sacrificare alla malattia mortale (la disperazione) vitanda. Ma neppure questa chute disarmata allunga la vita.

30 gennaio

Caprichos goyani sui generis nei sogni di stanotte, anzi del primissimo mattino. Rivedevo in un ospedale la cara compagna di viaggio nella sua veste e funzione di infermiera. Io visitavo uno zio di Rina, colpito da un’ernia strozzata, e stentavo a trovare la stanza del ricoverato, già reduce dall’inevitabile intervento chirurgico. Incrociando un’infermiera, le chiedo l’informazione correttiva, e a un certo fulmineo momento identifico in lei la giovane signora del viaggio, che a sua volta riconosce me. Accoglienza cordiale e vibrante di sorpresa, fiorire di prevedibili domande, un’euforia da treno ritrovato: lei qui, come mai? E lei, è il suo ospedale? Le spiegazioni, i particolari. Certo, è proprio l’ospedale dove mi aveva detto che lavora. Ma allora mi trovo a Ravenna: come mai? Ma poi mi sembra naturale che mi ci trovi. Addirittura con la famiglia. E mi accompagna nella stanza giusta: gentile, sorridente, rimemorante (giudicai). Mi ci lascia, movimentata dal suo lavoro, ma non prima ch’io le abbia chiesto e ottenuto la promessa di un breve colloquio a visita finita. Il malato era assopito. Attendevo il risveglio, quando entra Rina con Giampiero. Lieto di vedermi, il bambino, e alquanto perplesso nell’assimilare quell’ambiente insolito (non lo avevamo mai portato in un ospedale, né è permesso farlo prima dei dodici anni). Si sveglia lo zio. Ha ancora dolori. Arrivano la seconda moglie del suocero e il fratello di Rina, il bel dongiovanni. E io penso: se incontra la mia signora la blocca con le sue arti seduttorie. Non ricordo il bla bla bla di circostanza. Buio. Poi ci troviamo, io e Rina, a seguire il corridoio verso l’uscita. E Giampiero? E’ andato poco prima con lo zio. Ad un tratto, senza alcuna ragione e plausibilità, Rina mi fronteggia aggressiva: “Ti pare una bella impresa quello che hai fatto?” Io, di vago rimando, ipotizzando cose lontanissime da possibili cause di gelosia: “Che cosa avrei fatto?” “Mi riferisco alla tua avventuretta di viaggio.” Basito, replico con una domanda gonfia di sorpresa: “Quale avventura, e quale viaggio?” Lei, vieppiù accigliata: “Non fare l’indiano, lo sai bene”. E via, per chissà quanti minuti (il solito tempo onirico snobba-orologi), lei accusando, io negando. Fino a che sbotta: “Ma se l’ho sentita raccontare, l’avventura, qua dentro, dalla protagonista!” “Raccontare, da chi? e a chi?” Incalza, stentoreo e spudorato, l’impossibile montato dall’oniron burlone .“A delle colleghe sorridenti e incuriosite, piccate!” “Farnetichi, Rinuccia bella. Chissà a chi si riferiva la narratrice imprudente, o magari millantatrice.” “Ma se ha fatto il tuo nome, ha sciorinato dettagli inequivocabili: il tuo viaggio di concorso, la notte, la pioggia, le troppe sigarette, e via dicendo”. Stacco, buio. Ripresa. Rina è diventata Susanna. Anche lei
con la grinta protesa della gelosia aggressiva, anche lei informata, ma dalla sorella, da una sorella che con Ravenna non ha nulla a che vedere, nella realtà, ma che sarebbe collega nello stesso ospedale della mia paramante di una notte vestita. Ci impazzisco. Ma che cos’è, una congiura degli Oscuri? “Non è vero niente, Susy, è pura invenzione.” Ho un bel protestare, anche lei ripete il mio nome come pronunciato dalla sorella che lo ha appreso dalla co-protagonista ciarlona. Susy mi sbatte in faccia che non mi crede più, che l’avventura ferroviaria stride penosamente (lei ha usato altre parole che mi sfuggono.. Il senso, però, è quello) con le continue presunte prove di passione che le ammannisco. Tanto meno con le poetiche dichiarazioni che commentano i nostri abbracci. Difesa impossibile, la mia, anzi, del mio avatar ferroviario, e segnali di panico incombente. Che sfocia in uno dei miei risvegli sudati e tachicardici. Nonché conditi di sonorità semiverbali.
Interpretazione provvisoria e minimale. La mia coscienza etica è così vulnerabile? Non s’è emancipata da simili quisquilie? Induzione quasi obbligata: vuol dire che non sono quisquilie. Né posso negare un certo imbarazzo anche da sveglio e con neopallio acceso e ben ragionante. Mi difendo, male, ripetendomi che in fondo sono peccati veniali. Che sono molto comuni. E, infine, che esiste, per dirla con l’amato Camus, “una fatalità delle nature” (repetita iuvant?) cui non ci si sottrae. Mi sforzo di accettarmi come sono, imperfetto e vulnerabile alla seduzione femminile. A lucidare meglio il pupazzo esorcistico, mi capita di ripetermi il mezzo alibi o l’equivoca attenuante: ho bisogno di conferme, non sono un bell’uomo irresistibile come il cognato e mio fratello, ogni consenso dell’altra parte mi costa sforzi e fatica. E via elucubrando. Ma sì, nessuno è perfetto. Mi fermo qui, senza citare i grandi nomi della letteratura maculati dallo stesso vizio.
*
Sul foglio bianco di un libro omaggio per recensione ho scritto una similpagina di questo diario. Mi capita di spargere per i “luoghi” delle mie deambulazioni letterarie le tracce del vissuto quotidiano. Naturalmente, se i suoi contenuti meritano queste pietre miliari dell’itinerarium mentis in mentulam. Quelli di oggi, sì, senz’altro. Anzi sono da albo signanda lapillo. Anche questa pagina bianca maculata di grafite conosce, così, il destino del “dire nascosto”, del mostrare celando. Ma qui la maschera non gioca tanto sulla profanazione-deformazione del linguaggio metafisico, quanto sulla traslitterazione ingenua: caratteri del greco antico per scrivere parole chiare (anche se non proprio, o non troppo, esplicite) dell’italiano corrente. Potrei trasferirle in questo quaderno, ma con quali caratteri? Quelli del greco antico? Con quale costrutto? Sarebbero richiamo di sospetti all’occhio interessato che gli capitasse sopra teleguidato dal solito dio burlone, sua divinità il Caso: che cosa mi nasconde mio marito? Ricondotti all’italiano, non è possibile: troppo esplicite. Troppo. Riconvertirle nel gergo ironico-metafisico? Al momento, non ne ho voglia. Forse è un senso di saturazione, è bene distrarsene. Ma che pena, certe rinunce! Gridano vendetta dalle viscere del silenzio straziato. Battono alle porte della Concessione a chiedere disperatamente di poter dire la gioia del molteplice scambio. Ma le porte restano chiuse, stasera. E amen.
Ego, voluptate perfusus e condannato al cauto silēre, penso, tuttavia, che potrei cantarla ut res per somnium acta. Ma è tardi, vedremo poi.

31 gennaio, ore 19,30

Ma sì: in questo vortice di nebbie al veleno svolgi, o Desiderio, le spire della sua speranza esperta di provate chances; canta le glorie della Mneme recente e della remota; reca su questi lini rigati il profumo dei floreali minuti che rotolarono lenti e colmi nell’imbuto del crepuscolo deserto. Che svolsero umili incanti in trine di respiri affannati, dentro la coppa dell’ora che ruota. A così breve distanza cronica dal rimemorante presente…
Ah, tuffare l’anima irritata in quel roseto nero e trarne ambrosia di umida vertigine, dove stordire l’impertinente coscienza e annegare la disperazione delle notti infami. Incubi dei miei sonni sconvolti, spine della mia invitta nevrosi attorcigliata al muscolo stanco che appena resiste a pompare la sua durata in forse; acciaio di rimorsi che insinuate aghi di sevizie nel mio superego astenico, affondate in cospetto al mondo che oscilla sopra la voragine nucleare, a dispetto di tutti gli dèi e degli aerei che cozzano contro il Monte Bianco, affondate, dico, nell’onda delirante della mia impazienza, e fate sprizzare i bagliori dell’assoluto dall’attrito relativo dei corpi che soffrono l’importuna distinzione separante. E sia bando alla sobrietà verbale.

Alfa e omega del mio spasimo elisio, benedizione al tuo cuore pazzo. E grazie siano rese al tuo cuerpo risvegliato. Anche se in parte deluso. Là in fondo, nell’umida porta tenebricosa profonda egemone risolutiva: là, in quell’abisso di umido delirio non siamo ancora entrati.. Né vi entreremo, a meno di un collasso della vigilanza propiziato dalla tua impazienza. Vorrei dire quasi metafisica, arretrando, per un momento, verso l’adolescenza ingenua e promozionale. Tu che dall’impotenza coatta e dall’impazienza frenata hai tratto l’orgoglio invidiato di un cupio dissolvi convertito in chimico scacco di conati “falliti” ed eccitazioni mutile, possiedi pure la rocca rosicata del mio “spirito”. Ermetismo? E mimetismo (acciaccato).
Volentieri carte e sterpi delle mie ambizioni umiliate faranno combustibile alla fiamma vieppiù divorante di questa fame che ha il tuo nome. E lacrime e bestemmie si versino pure a tentare di spegnere ciò che ogni respiro di memoria, ogni alito di attesa alimenta inarrestabilmente. Che posso fare? Spegnere la fiamma non so. Avvenga quel che può: più della morte prematura e di un inglorioso dolersi non potrà sortire questa buona febbre disinceppata.

Parole, lo so. Si fa presto a dire “che m’importa”, “avvenga quel che può”, e simili vocalizzi pseudo-eroici: maledirei mille volte l’inevitato evitabile; e, non conciliato, piegherei le malferme gambe. Onde para-sismiche di brutale biochimica mi attraversano il corpo all’orrendo pensiero di una chute di clamore sociale. Oportet ut scandala eveniant? Ma quando mai!
Because I love may little son, my only child, e perdere non vorrei neppure my wife; e questa tiepida bambagia che si chiama casa focolare letto coniugale caldo di confortevole corpo, ancora generoso di labili delizie e ricordi non discari. Né questo regolare moto quasi quotidiano e questa abitudine remunerata, né quel fiato di attenzioni femminili e quell’invisibile nube di calore affettivo che, tutti insieme, fanno il mio lavoro e la mia ibrida sorte.
E se la fama, la notorietà grande, mi rimane ostile, vada a cercare altrove fronti, e corna, da incoronare. Piango, forse, perché non sono alto il metro e ottanta che vorrei, né forte quanto il buon Carnera della mia infanzia ammirata? O bello come Gregory Peck e seducente come Clark Gable, e le altre stars della mia adolescenza sognante? Quali argomenti migliori saettano la mia scarsa energia psichica, la mia bucherellata memoria, la mia intelligenza reticente? Al diavolo, una buona volta, libri e cultura, erudizione e poesia, arte e letteratura, scienza e pensiero. E notti insonni consumate sulle sudate carte: morirò presto, morirei più presto. La prospettiva non mi alletta. Vade retro!
Lo so, lo so: finirà comunque, è già finita: nella assiderata coscienza di questa successione scontata, di questa infinita ingiustizia senz’appelli, vent’anni e trenta, venti giorni o minuti fanno poca differenza. Nessuna al cospetto dell’Assoluto, cioè del Nulla. L’Assoluto, ovvero il Nulla  scriveva già Mallarmé, l’ermetico del rigore lucido. Aveva ragione. Anche a infilarlo nel corpo della parola? Ironicamente, sì. Infilarlo: ma quali parole ti scappano, penna rossa! Un po’ di self control, andiamo. Magari dillo in inglese: to insert.

Ma che, perciò? Si vive con la coscienza (più o meno artica)? Si mangia con la lucidità del mezzogiorno polare? Si scopa con l’idea della morte, eretta a membro voglioso, forse? Maledetto il mondo e Ciò che l’ha fatto. Chi mi toglierà questa brama di vita che chiamo paura? Come spegnerei, gagliarda Ragione, questa arsura, questo fuocherello penetrante che la reclama giorno e notte?
No, non ho fretta di andarmene. Subirei come un’enorme ingiustizia uno sgancio prematuro. Ho troppa curiosità di vedere come va a finire il Contesto. E abbastanza interesse filosofico a raccogliere altre prove della inesauribile infamia umana. Lo spettacolo, l’ho sperimentato, spesso mi fa soffrire, mi appare insopportabile, supera ogni più bieca immaginazione? Tutto vero. Ma l’attrazione bivalente fa premio sulla repulsione revulsiva. E’ una sfida. Voglio vedere che altro sapranno escogitare, i miei simili, in fatto di torture e massacri, menzogne e trappole consolatorie. E quali altre miserelle risorse di buona volontà cozzeranno contro il ferrigno Eccesso non scalabile, a sottrargli solo bricole di salvezza.

Voce dal sen fuggita…Non sono del tutto mie queste parole baldanzose. Se potessi barattare il mio resto di esistenza con la fine di ogni violenza credo che lo farei senza troppe difficoltà. Dopotutto, vi salverei mio figlio. E con lui milioni di innocenti assoluti, cioè di bambini, contenitori vuoti di malizia umana. Anche quando ne appaiono precocemente colmi. Farneticazioni? E allora piantamola qui.

3 febbraio, ore 19, 24

Ho riletto le pagine precedenti. Vedo che non manca quel vento di sovreccitazione che caratterizza, da decenni, saltuariamente, le mie “esternazioni interne”. Sarebbe facile rilevare, anche, qualche contraddizione in termini, per così dire. Se la pagina del 29 gennaio fila abbastanza liscia, la sua pretesa di essere nel vortice della crisi in atto è infondata: la sua sola realtà fisica dice che si è un po’ più in là, che la crisi, bene o male, è già alle spalle, fuori da quelle righe e frasi scorrevoli e calzanti. E’ inevitabile: ci illudiamo di parlare del puntuale presente in corsa, ma in realtà parliamo sempre del passato. Sarà un passato lontano, sarà un passato di minuti o secondi, non possiamo che guardare a ciò che è (stato). Dire il presente che scorre verrebbe a significare parlare di ciò che ancora non è, non s’è fatto. Certo si tratta, magari, di tempi piccoli. Tanto da dare l’impressione di scorrere col tempo, di pareggiarne i contenuti in fieri. Ma i tempi di sfasamento ci sono sempre. Ora, per esempio, ho ancora l’impressione di parlare (scrivere) di ciò che non è, ma si viene facendo. Un attimo di riflessione mi convince che cerco le parole adatte a dire ciò che ho già in mente, già pensato. E sia pure in modo vago, non ben contornato di chiari perimetri concettuali. Una cosa resta comunque valida: è altrettanto vero che, scrivendone o parlandone, l’idea-contenuto si definisce, si determina, si chiarisce e matura.
*
Ma lasciamo la teoresi ad altri tempi e spazi. E qui concediamo un cenno alla mia allieva privata. E’ una ragazzotta dalle forme prosperose, ma anche di mente non torpida. Afferra con una certa facilità, specie le notizie di letteratura italiana. Legge con piacere i poeti e mostra una spiccata sensibilità ritmica. Meno alacre sul terreno filosofico. Altro neo: soffre di una tendenza sprecona a imparare i riassunti anche delle opere minori dei grandi autori. Ingenuità da scolaretta che ha perso il contatto con la scuola superiore (interrotta alla seconda liceo). Ma ce la farà. Si chiama Carlotta: mai nome fu più indicato, meglio coerente con la realtà corporale retrostante.
Le difficoltà di Carlotta stanno altrove. Me le ha rivelate, in camera charitatis, l’amico redattore che me l’ha inflitta. La ragazza ha delle strane crisi, che la medicina e la psicologia hanno interpretato come spiccato bisogno di sfogo sessuale. Il fisico del soggetto ha tutti i crismi per legittimare questa “lettura”. Lo hanno detto anche alla madre: la ragazza ha bisogno di sposarsi presto. Il più presto possibile. O le sue crisi si faranno più frequenti e drammatiche. Figurarsi l’imbarazzo della povera donna. O forse no, non c’è imbarazzo, e sono io, nella mia residuale e tenacissima educazione catto-sessuofobica, a immaginare difficoltà materne per simili casi? La madre, magari, sarà abbastanza intuitiva e realista da sottrarre a bacchettonesche intrusioni morali questioni del genere. Del resto, in questa parte della Megan Ellas a specchio dello Jonio, i problemi della sessualità sono vissuti con naturalezza pagana. E le donne,
in particolare, non indulgono (salve minimali eccezioni) a insipide rinunce o estenuanti rinvii. I tuoi fratelli, quaderno, ne sanno qualcosa.


5 febbraio

Susanna ha saputo della nuova allieva privata e fa la gelosa. Scherza, ma si indovina, nel tono faceto, una vena di autentica preoccupazione: teme che il suo prof si dedichi più alla nuova e trascuri la “vecchia”? Lei, intanto, dovrebbe studiare di più. Ma è contro la sua natura (la sua follicolina). Al contrario, la sua compagna di classe, Gabriella (detta Lella) lavora convinta, e raccoglie meritati frutti di generale consenso docente (insomma, buoni voti e sorrisi di approvazione).
Stanotte l’ho sognata. Susy, non Lella. Un sogno affannato. In parte ripetitivo di un precedente, già “relazionato” su queste pagine. Si era ad una specie di déjeuner sur l’herbe, fra tante ragazze e pochi professori; le ragazze erano per lo più della sua classe, e talune di altre ma dello stesso istituto. Una gita scolastica, probabilmente: che altro avrebbe potuto riunirci, in tanti e con tanta mescolanza, in aperta campagna? C’era anche un laghetto nelle vicinanze. E chissà come, sulla sponda di questo ci siamo venuti a trovare senza andarci. Guardinghi, nei nostri gesti e misurati nelle parole, lei sgranocchiando un panino al salame, a un tratto scatta con un inatteso quasi-grido: “Ah! a proposito: te la sei spassata in treno, nel tuo viaggio verso la capitale!” – Di nuovo? Sbalordito, replico, incredulo su quel suo ostentato sapere. “Chi te l’ha detto, l’angelo?” “Vorresti dire che non è vero?” “Certo che no!
Avevo ben altro cui badare: viaggiavo per affrontare un difficile concorso a cattedre, non per spassarmela.” “A me l’hanno detto, e chi me l’ha detto non mente!” – Ero sicuro di non aver parlato con nessuno dell’avventuretta ferroviaria: non poteva trattarsi che di una invenzione birichina della pazzerella. E invece lei insisteva sulla presunta confidenza del misterioso informatore. Nella solita logica bizzarra del sogno immaginai perfino che l’ignoto viaggiatore dormiente, che ad un certo momento si allontanò, discreto, dallo scompartimento, potesse incarnare quell’improbabile ruolo di pettegolo rompiscatole! Forse fingeva di dormire, forse la conosce, potrebbe anche essere un parente di Susy. Forse... In mezzo a questa girandola di forse mi svegliai, agitato, il polso (ut semper, in simili fattispecie) tachicardico, e mi ci volle qualche minuto a riprendere contatto con la realtà. E’ mancato poco che chiamassi Susy mia moglie, che beatamente dormiva al mio legittimo fianco.

Il sogno, come il precedente, mi ha lasciato una specie di inquietudine. E ne è germogliata la ripresa di un piccolo, ma concitato, esame di coscienza. Chi sono io, che non solo non riesco nella fedeltà coniugale, ma fallisco anche in quella extra? Sono un’anomalia? Un mostro? Un immaturo? Una vittima della neotenia imbizzarrita? Un Peter Pan filosofante? Risposta. Balle. Soltanto un mezzo farfallino con qualche prurito di problematica morale. Più difficile inserire in questo quadretto la non meno autentica vocazione culturale, la scelta professionale, la stima che (invidie e renitenze probabili a parte) mi circonda nel duplice ambiente, scolastico e paesano (anzi, bipaesano). Ma dove si anniderebbe la mostruosità?
Che bella occasione per spararmi una citazione latina: Homo sum, nihil humani a me alienum puto. Nemmeno i giochetti rosati del divo d’Annunzio esplicitati nelle conversazioni epistolari con l’amante convinta…
Non comprendi l’allusione, pigro lettore del tremila? Arrangiati, vai a cercare nell’epistolario dannunziano la saporia semantica traslativa di quel sostantivo nascosto dentro l’aggettivo floreale.

1 commento:

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Miiiii, Pasquale. Lei scrive assai bene, ma un blog non è la sede adatta per valorizzare il suo talento. Dovrei stampare i suoi articoli-diari e leggerli con comodo. Nel weekend ci provo.
Con stima.
Un collega di scienze che ha solo classi maschili.