mercoledì 30 dicembre 2009

Susanna, frammento 51


Mi s’impone un ritorno al mitico Sessantotto: una commemorazione ci tenta con un irresistibile servizio giornalistico sui figli di alcuni protagonisti dell’infuocata “kermesse” social-politico-culturale: una ribalta colorita e divertente, la molteplice testimonianza di questi figli degli allegri scalmanati presunti rivoluzionari epocali. Legnosi, i barricaderi, nel coinvolgere fanaticamente i loro pargoli, posposti sempre alle sirene della politica; vittime, quegli innocenti, di questa cervellotica intransigenza. Se ne può ammirare un duplice esempio nel libro e nel documentario di una figlia grintosa, Virginie Linhart. Il padre, Robert, scrisse un libro di successo, a ridosso del primo decennale, “L’Établi” (1978). Anzi “che fece epoca. E poi fu dimenticato”. E’ il “resoconto di un intellettuale andato a lavorare in fabbrica chez Citröen. La condizione operaia quarant’anni dopo Simone Weil”. Questo ebreo polacco sfornato dalla prestigiosa e molto selettiva Ẻcole Normale Supérieure, soffrì il riflusso post ’68 fino alla tentazione suicida. “Poi nel delirio della parola ideologica, perse la parola. O vi rinunciò. Fatto sta che ammutolì. Come un Hölderlin gauchista. Oggi è tornato a esprimersi. Ma a briciole. Dice poco. Sua figlia gli ha reso omaggio “scrivendoci sopra, a sua volta, un libro, ‘Le jour où mon père s’est tu’” e girando “un documentario di serena intensità: ‘68, mes parents et moi’ [...], nel quale ripercorre se stessa e le vite di altri suoi consimili, figli di marxisti-leninisti poi maoisti, senza dimenticare il femminismo”. Tutti questi figli, oggi quarantenni, hanno una sistemazione borghese: bancari, avvocati, economisti, impiegati... La cosa “ha tutta l’aria di una nemesi storica rispetto ai furori dei padri. E forse lo è”. Virginia non è severa con i genitori: le hanno trasmesso virtù positive, rigore morale, amore allo studio, e via elencando: “Non è stato facile avere genitori militanti [...] Ma in fin dei conti, non vorrei avere avuto un’altra infanzia”. Meno indulgenti gli altri. “Nel film sentiamo Samuel – figlio del noto architetto ex maoista Roland Castro – dichiarare: ‘Mio padre se n’è fregato di me. Io me ne fotto del 68’. /Tiè.” Una Juliette regrette: “per tutta l’infanzia ho sognato inutilmente una Barbie. Facevo colazione con biscotti e un bicchier d’acqua. Un giorno un’amichetta mi invitò a merenda: c’era cacao, pane, burro e marmellata. Quando manifestavo il desiderio di cioccolata mia madre mi dava della piccolo-borghese.” Non mancano cenni all’altra rivoluzione, l’unica riuscita: la sessuale. Leggiamo, della stessa Juliette, il dettaglio: “Ero io a tenere in ordine la casa. Tutti giravano nudi. Io mi chiudevo a chiave in bagno [...] Rientravo da scuola. In casa c’erano molte donne. Parlavano di clitoride. Io facevo i compiti”. Un altro figlio ideo-biologico del 68 aggiunge: “Mi chiamo Olivier Mao Carl Fabien. A scuola mi chiamavano Olivier. A casa Mao. Mia madre era femminista. Con le amiche discutevano di emasculazione [sic]. Me la sognavo di notte. Un incubo. E’ per questo che sono diventato omosessuale?” Di vetta in vetta: Alexandra ricorda la madre femminista ultrà (aveva imparato dal manifesto “Scum”, della famigerata Valerie Solanas, “quella che sparò ad Andy Warhol”) la quale scriveva “frasi del genere: ‘L’uomo è una donna incompleta’. Oppure: ‘Essere maschio significa essere manchevole, virgola’. Emotivamente limitato, punto’” (v. Marco Cicala, Au revoir Mao. I figli della generazione contro, che dichiarò guerra ai padri, Il Venerdì di repubblica n.1061) [nota del curatore (dei Quaderni di Paolo Assaggi). Il quale si meraviglia della sbalordita conclusione della brava (e un po’ canora) Cicala: “Nel luglio 2008 si fa fatica a comprendere come ...Soggiogare il cervello ai precetti di un micidiale dittatore asiatico...”!]
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Fine della divagazione e ritorno al privato personale. Quando mi giunse la telefonata del cognato con l’incontro susynesco inserito nel suo centro nevralgico era da poco in casa la sua prima bambina: contava già un paio di mesi. Gli sposi abitavano una villetta circondata di verde, con tre appartamenti, uno a pianterreno riservato ai suoceri, un altro al primo piano, elegante con un grande salone e mobilia fine, abitato dagli sposini; il terzo, al secondo piano, da completare, serve a ospitare parenti in visita. L’ubicazione è appena fuori centro-paese, a metà strada fra periferia e campagna circostante. La contrada è sempre la cosiddetta Zefiriade (ricca di memorie archeologiche quanto di ‘ndrina dalla sbrigativa “lupara”a. Aggiornata, magari, a kalashnikov).
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Prima di ritornare al culmine del settennio, non mi pare improprio e pleonastico ricordare come la presenza virtuale di Susanna nella mia vita non fosse mancata, neppure nei momenti più “occupati” (vuoi per impegni di lavoro che per distrazioni familiari o poveramente edonistiche). Neanche nei più drammatici. Rileggendo le agende-diario del settennio mi capita di incontrare sogni pieni di lei (ancora!) nelle situazioni più varie, sempre con incontri improbabili e in qualche misura ripaganti sul lungo silenzio nero della sua lontananza reale. Qualche mese fa rileggendo l’agenda del quinto anno da quella mitica maturità ho trovato, impensabilmente, poche righe dedicate a un sogno con Susy frammiste a righe drammatiche sull’agonia di zia Milla, sorella minore di mia madre, e mia seconda mamma “adottiva” (già richiamata in queste pagine). Ne trascrivo frammenti a più concreta intelligenza della confessione. E del suo sfondo ibrido di sofferenze lavoro e fantasie.

21 gennaio. La zia è tutta una rossa piaga, dai glutei all’osso sacro. Ma resiste. Non mangia, ma resiste. Si riesce a versarle in bocca (con lenta pazienza) appena un sorso d’acqua zuccherata, o succo di frutta, di tanto in tanto nel corso delle lunghe giornate di passione. Ondate di ricordi teneri e remoti si spezzano contro questo scoglio sordo di cellule necrotiche in rapida discesa verso l’indistinto. La zia Milla, la mia seconda mamma. Mi portava in campagna, nella cosiddetta sciara del nonno materno, che avevo ancora la vestina, allora in uso anche per i maschietti sotto i tre anni. Mi rivedo, piccolo e sperduto, tra grandi cladodi (pale, in dialetto sicanico) di fichidindia e aspre spalliere di pietra pomice. Sperduto fra cose troppo grandi ma fiducioso nella materna protezione di quella fatina attenta e vigilante. La quale, ultima delle quattro sorelle di mia madre, era una bella e prosperosa ragazza ventenne, ancora nubile a quel tempo, e come tale destinataria naturale del ruolo materno vicario. E lei in qualche modo si allenava alle connesse necessità e responsabilità. Mi accudiva con vivo trasporto, con vigilante tenerezza e flessibilità di interventi, mai, però, inquinati da severità o impazienza. In certi pomeriggi assolati mi portava all’imbocco della strada principale del piccolo borgo, allora tutta a fondo naturale di sabbia nera e pietrisco, e da lì il mio occhio fiducioso si perdeva nella lontananza tremolante dell’aria surriscaldata alla ricerca di un’incerta figura avanzante, che speravo fosse papà – il papà in visita dal paese lontano, tante volte promesso dalla zia in quell’attesa, in quello spazio caldo e vasto per me alieno e indecifrabile. Quasi rivivo la gioia perduta di quando la zia confermava il mio incerto riconoscimento balbettante un “papà” insicuro e problematico: “è papà, sì, è papà!” A completare la gioia, subito accesa di trilli e impazienze cinetiche, l’amabile zia aggiungeva un euforizzante “andiamoci incontro!” E si andava, su quella strada perduta, che la memoria restituisce così fascinosa, e così affocata nel sole africano di quella contrada sub-etnea. Il più delle volte, però, l’attesa tanto avida e protesa rimaneva delusa. Era una sofferenza, allora: la nostalgia della mamma carnale, della famigliola appena accresciuta dalla misteriosa nascita della sorellina, e secondogenita, il papà, così abile e sicuro nel sollevarmi fra le braccia robuste e giocare a lanciarmi “in alto”. Ma non era un dramma, con quella mamma vicaria così affettuosa premurosa generosa di doni e tempo ludico. Era “sempre” con me, la zia Milla. Ora io non posso fare nulla per lei.
Mi sovviene che ho già “deposto” questo amarcord in qualche pagina dei miei diari. Dilemma: che fare? cancellare o lasciare? Oscillazione riflessiva. Approdo: affidiamoci al proverbiale latinorum: repetita iuvant.

22 gennaio La zia apre gli occhi, sorride: uno strano sorriso remoto, quasi mistico. Ma non parla. Seguita a marcire. Lugubremente.
Poche righe private, nella pagina. Il cui resto è occupato da una lunga citazione di secondo grado: la definizione marxiana della merce presente nel libro di Fischer, Marx parla da sé, Longanesi, p. 100. Col lontano commentino mio: “Esempio di grande stile, oltre che di pensiero profondo”. E l’attuale postilla: la pagina, esempio spiccato di mélange personale.

23 gennaio Altro mélange. Un cenno alla zia agonizzante e il resto della pagina occupato da una lunga citazione dal saggio-testimonianza di E. Kuby, Praga speranza, pezzo forte del libro collettivo Praga e la sinistra, pp. 33-34. Eccone un frammento: “Il 21 agosto a Praga si sputò in faccia agli equipaggi dei carri armati, l’ho visto io. Si lanciò loro addosso della vernice, io l’ho visto. Si arrampicavano che parevano dei clown fuori dal loro carro armato già in preda alle fiamme, io li ho visti. Eppure non sparavano. Lo posso giurare”.

Postilla del trentennio:[Un libro che allora mi esaltò, offrendomi argomenti da contrapporre ai luoghi comuni della propaganda antisovietica. Ero stato fra i pochi a inserire l’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia nel ferrigno contesto tacitamente sotteso alla logica di Yalta e della Guerra fredda con i reciproci torti variamente compensati. E ricordare i ben più sanguinari interventi Usa in America latina e in estremo Oriente].1
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Sia detto con la debita ironia per i catoni zelanti nel condannare decontestualizzando gli eventi sul filo del vento ideologico del momento storico: per non fare nomi, tipo Enzo Bettiza, scontento della “riprovazione” del vecchio Pci saldato a Mosca, che il Fassino di 40 anni dopo voleva spacciare come “netta condanna” dell’ “invasione sovietica”. O tipo Bertinotti, che, nella celebrazione del quarantennio, pronuncia un j’accxuse degno di miglior causa: “La primavera di Praga non fu aiutata da chi doveva e poteva”, il Pci “si fece chiudere dalla realpolitik, dal tentativo di salvare le relazioni con l’Urss”! Quando si dice essere più realisti del re. Com’è più rispettabile l’antica, magari ingenua, “professione di fede” di Longo, segretario del Pci in quella torrida estate di tragici eventi: “Noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei Paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo...” [Nota del curatore dei diari di Paolo Assaggi. Un quarantennio dopo. ]
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24 gennaio Stasera hanno portato la zia a casa in ambulanza: la danno per spacciata e hanno “concesso” a titolo di favore questo “trasloco”, che evita complicazioni burocratiche. Mia madre ha telefonato a mia moglie: “La zia è morta”. Rina mi informa. Scappiamo in macchina per la vecchia casa del nonno materno, ora della moribonda zia, casa vicinissima a quella dei miei. La casa, attualmente, è la fresca dimora provvisoria di due sposini, il figlio minore, Beppe, e la polposetta mogliettina dal viso grazioso. Entro, sapendo di trovare la zia già spenta. E invece, appena entrato, lei mi apre tanto d’occhi e mi guarda. Per un momento ho creduto a un abbaglio da straripamento emozionale. Macché morta: era ancora viva. Soprattutto in quello sguardo intenso e sorridente. In serata appare, addirittura, via via più sveglia, più reattiva: ci guarda, roteando gli occhi da rediviva, un po’ su tutti i presenti, ci sorride, si muove. Che strani guizzi di vitalità in quel corpo consunto! A culmine di tanto risveglio, a un certo punto tira fuori entrambe le braccia e con mani incredibili si stropiccia gli occhi, si liscia i capelli. Gesti inconsci, meccanici, d’accordo, ma gesti di vita, ancora, di vera spontanea vita, sull’orlo della tomba. Mia madre era convinta che il braccio destro fosse paralizzato: non l’aveva mai mosso durante questi lunghi giorni di funebre tristezza, dopo il suo rientro dall’ospedale.
Grosso problema: chi laverà le sue torture? La zia, da tempo, si fa tutto addosso, e ora, che è piena di piaghe da decubito, la cosa è diventata più greve. Come trovare una donna capace della bisogna? Capace, si capisce, non solo tecnicamente, per così dire, ma gastricamente, come “forza di stomaco” . E disponibile, senza meschini, ma comprensibili, disgusti e reticenze.

25 gennaio (Pagina cocktail se altre mai. Si apre con una citazione da “Oblomov” e si chiude con il martirio della zia: nel bel mezzo, si stende il sogno susyano. Ecco qua.)

“Anche oggigiorno, in mezzo alla fredda realtà senza fantasia che lo circonda, l’uomo russo si compiace di credere nelle attraenti favole dell’antichità, e forse per lungo tempo ancora non rinuncerà a tali credenze” (I. Gonciàrov, “Oblomov”, B.U.R, , 1965, p. 145). Ore 23. Sto vedendo “L’ultima spiaggia” alla tivvù. La stupenda Ava Gardner, la mia attrice preferita, mi ricorda Sa (Susy). Per taglio di viso, occhi, sguardo vellutato, fossette alle guance, movenze. Sa è soltanto più “leggera”, meno “corposa”, ma ne ha l’esprit, sensualità scattante compresa. Sa, l’intramontabile. Che ancora l’altra notte ho incontrato in Onirilandia. Deliziosamente disponibile, piena di giustificazioni e possibilità nuove, da sposa scontenta. Ah, l’ironica pietà dei sogni.
Stranamente, la Gardner è apparsa come l’originale di una copia felice a uno zio di Rina, lo sfortunato zio Tano, che una foto della nipote diciassettenne ha giudicato sempre somigliante alla diva. Eppure, “in carne” Rina e Susy sono due bellezze diverse. Giuochi della fotografia? Non basterebbero. Intanto io invidio Walter Chiari, quel bruttaccio seducente che l’ha avuta, la diva, beato lui.
Mi sovviene un termine di paragone più convincente, forse, per la “mia” Susy: la Rossella O ‘Hara di “Via col vento”, e cioè l’incantevole Vivien Leigh. Ma più che per i volti, diversi di una diversa bellezza sovrana (salvo, un po’ il nasino moderatamente all’insù), per il temperamento: vivace, civettuolo e poco domabile. Curioso particolare: il nasino delicato di Rina somiglia più a quello di Vivien che all’altro campione di plasticità, della concorrente. Tre nasi muliebri diversamente perfetti, con inevitabili somiglianze di dettaglio. Ultima coincidenza (senza rilevanza): l’età del film (tratto, com’è arcinoto, dall’omonimo romanzo di Margaret Mitchell, premio Pulitzer 1937, e diretto da Victor Fleming) è uguale a quella di Rina.
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Ho letto che stanno girando un seguito (sequel, in obbligato gergo) del monumentale Via col vento, vecchio di quasi settant’anni: chi sarà la nuova Rossella? Chi il nuovo Rett? Dove trovare una Vivien Leigh e un nuovo Clark Gable? Una certa curiosità pizzica l’attesa, anche se certi nomi circolano già. [Nota del curatore]
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E la zia muore. Il che dice poco. Bisogna aggiungere che muore stranamente. E’ piena di piaghe e non si lamenta: donde le viene questa anestesia. Che cosa può avere scatenato questa anomala produzione di endorfine? Che ci devono essere, dietro quel silenzio senza buchi di urla né di gemiti. Oggi ha tenuto tutto il giorno gli occhi aperti. Ho ancora “parlato” con una morta. Mi sento malissimo, sono tutto pieno di foruncoli: il corpo parla anche questo suo linguaggio diretto, perentorio, tanto più sobrio delle parole. Anche le più avare.
La mamma l’ha trovata – la donna, voglio dire, che baderà alla zia – E’ una giovane che poco tempo fa ha assistito due vecchietti ridotti come la zia. Dapprima non voleva accettare il nuoco incarico: troppo vicini, e opprimenti, i ricordi dell’assistenza ai due vecchi. Poi, commossa dalla faccia triste di mia madre, ha ceduto alle sue timide insistenze. Ma ha posto una condizione: che il marito non ne sappia nulla. Non gli piace che la mogliettina affondi le mani in certe materie. E si intravede anche un miglioramento nella loro situazione economica, se la necessità non preme più come al tempo dei vecchietti marci. Oggi, prima grande lavata globale. Mi dicono cose tremende. Che forse è meglio tacere. Non foss’altro, per non essere tentati, ancora, a sterili pronunciamenti contro “il male di vivere”.

26 gennaio Seguita il calvario della zia: immobilità, marcescenza, sporcizie, pulizie, fleboclisi. Non prende quasi nulla: solo un cucchiaino di succo di frutta, di acqua. Apre gli occhi, si muove, e sembra uno scherzo questo improvviso e lento emergere dall’immobilità assoluta. Stamane ha pronunciato una confusa parola: la rivolgeva a un pronipotino presente con la madre. Non che riconosca nessuno, ormai; solo che i suoni noti (e forse anche gli odori, per certe fisiologie più incisivi dei suoni) le risvegliano vaghe forme di “antiche” e note presenze, stimolando la sua reazione mimico-visiva, e talvolta anche vocale.

27 gennaio Pare che muoia e non muore. Sembra che la casa ritrovata le trasmetta forza di resistenza. Superstizione intorno a questa impressione di ritrovata forza vitale: che volesse tornare a casa sua? Che le abbiano fatta la fattura? Che abbia litigato con qualcuno che ora non la lascia “andare”? E via di questo passo e tono per tutto l’uditorio-parlatorio femminile presente: di parentela e di vicinanza in visita. Mi dà quasi un senso di sommessa letizia questo ritrovarla ancora viva ad ogni mia venuta nella sua casa. Viva, ostinatamente presente nella casuccia che la vide nascere, crescere, soffrire (quanto, porco ...! - censurato): per la cura vana e la successiva fatale morte della tenera madre precocemente devastata da un tumore rettale; per torture inflittele da due parti drammatici complicati da imperizia medica e resistenze dell’età non più fresca; per la perdita prematura di un marito adorabile, infestato da una sinusite tubercolare con annessi tormenti da suppurazione nei glutei iniettati di farmaci impotenti. E lei a subire e subire, per mesi, anni. Fino ad ammalarsi nel cervello, fino alla semi-demenza e ai relativi comportamenti strambi. E poi, da quel corpo irrigidito mi viene una sensazione strana, “metafisica”. Come di un ponte fra le due sponde reciprocamente repellenti, tra i due regni inconciliabili: la vita e la sua negazione, la vita e la morte. E’ viva, ma è morta. E’ presente, ed è assente. E si stenta ad accettare l’evidenza fisica della metamorfosi inesauribile: vita, morte, nuova vita, bassa, degradata, verminosa, ma vita tuttavia, nella sua cieca ottusità espansiva...
Viva la vita, dunque? Ma nemmeno per sogno. La connessa retorica degli ottimisti (chi altri potrebbero celebrare il “santo miracolo” della vita?) mi fa ricordare la drastica confessione di Schopenhauer: “Del resto non posso trattenerm qui dal dichiarare che l’ottimismo mi appare come un modo di pensare non soltanto assurdo, bensì in verità anche scellerato, come una derisione rivoltante delle inesprimibili sofferenze dell’umanità” (“Il mondo come volontà e rappresentazione”, I). E se, per caso, l’ho citato già in queste pagine, fa niente.

28 gennaio Continuo a fermarmi qualche minuto in casa della zia, la mattina, andando a scuola, e verso le due, ritornandone. Realpolia, la città del mio liceo, non è lontana, e il percorso comprende l’intera via dove sorgono le case dei nonni e la mia paterna. C’è sempre spazio per posteggiare la mia utilitaria sul lato destro (scendendo verso la città), tra le porte delle nostre case.
Il mio dialogo di silenzio con questo cadavere vivente continua ad alimentare la mia intraducibile meditatio mortis. Sono, per alcuni minuti al giorno, in una specie di dimensione intermedia: vivo in attesa di scadenza, sento la virtualità incombente della morte frugare le mie cellule come un disturbo fisico, biochimico. Immagino i processi disfattivi dentro la mia carne, e tento di rappresentarmi i moti molecolari (e sub) delle cellule che vivono e di quelle che si sbriciolano e finiscono nelle microscopiche cavità del brulicame lubrico. Mi saltano al cuore anche le immagini dell’eventuale “poi” e mi si chiude la gola in un raspo di pianto al pensiero della bambina priva del tanto invocato papà, sempre disponibile nel suo tempo libero dagli “inderogabili” (scuola e vario ingombro sociale): mi chiamerà mi cercherà e riceverà pietose bugie al posto di un’incomprensibile verità. Non riesco a sopportare questo pensiero.
Noto che ho usato verbi al futuro anziché al condizionale: bel sintomo.

29 gennaio Da quattro giorni non ingoia che qualche rara goccia d’acqua. Le piaghe, malgrado le cure, si estendono. Non me le fanno vedere, ma avrei una gran curiosità di guardarle, invece. Per cogliere fino a qual punto siamo materia corruttibile, marcescenza oscena, disgustoso liquame. Dove la corona lucente del pensiero suona in qualche misura come una raffinata perfidia, un’ironica burla. E poi, cercare la verità significa sempre fare esercizio di sadismo. Sublimato e spostato quanto si voglia, il nativo sadismo è la molla remota (e rimossa) dell’indagare, dell’andare dentro, del sezionare: operazioni strutturali della scienza, di qualsiasi scienza. Ma qui, dico in me, prevale la connotazione sadico-filosofica della scepsi. Mi tenta l’idea di pungere col bisturi della mia nuda lucidità visiva, col mio sguardo spoglio di bugie consolatorie, l’iperuranica sostanza dell’umana sublimità tradotta in tangibile poltiglia di umori in cancrena. De hominis dignitate. De dignitate et excellentia hominis, lo spirito è la vera, anzi unica realtà, l’anima semplicetta ospite del bruto corpaccio, sua prigione provvisoria, il bruco e la farfalla, “il corpo è spirito”, la Vernunft, il Geist, die schöne Seele, la res cogitans, la volontà libera, la sinderesi, l’apex mentis, ... Che comune denominatore per tanto gotha della mitologia umanistica maltradotta in nomenclatura e linguaggio! Brutte cellule che si sfaldano, galassie di molecole erranti, sistemi solari distorti di atomi persi in affannati modellini variabili, liquami, puzzo,... Giochi del Brutto poter che, ascoso,...
Ed ecco che improvvisamente, evocata dalla logica degli opposti, l’immagine di “lei” fende questo drappo nero e vi si accampa luminosa di sorridente, consolante vitalità, di scoppiettante joie de vivre. Addirittura più di quanto gliene abbia vista nella sperimentata realtà, dove la joie era sempre un po’ appannata nell’ombra delle ovvie paure di circostanza. E dei sensi di colpa inchiodativi dentro.

30 gennaio Stanotte mia madre l’ha vista morta più volte. Per la prima volta, poi, in questo calvario finale, s’è lamentata. E’ calata parecchio. Forse non supererà questa prossima notte. Le si è scolpita nel volto la maschera di una “moralità” medievale. Gli occhi, ormai da ieri, sono serrati e affondati in una macchia nera, la bocca aperta mostra le gengive sdentate, con tre soli pezzetti residui pendenti dall’arcata superiore. Una di queste punte, nei giorni scorsi, è affondata così profondamente nel labbro inferiore da bucarlo.

31 gennaio Ore 19, 50. E’ morta. Circa un’ora fa. Il suo corpo stremato ha continuato fino all’incredibile a divorare le misere scorte lipo-proteiche e ne ha trasformato il volto già bello in una mostruosità dragulesca. Gli occhi socchiusi lasciano vedere una sottile striscia di bianco con sopra una traccia di iride; le occhiaie sono due cavità bluastre, quasi nere; il naso affilato, come prosciugato nei suoi umori estremi, un pezzetto di osso mal coperto da secca epidermide; la bocca spalancata a ingoiare l’ossigeno scarso con sempre più inutile avidità; residui dentali scheggiati pendono dai lati dell’arcata superiore (molari, credo); la mandibola, già attratta ritmicamente, durante l’agonia, dalla mascella superiore in un vano sforzo di raggiungerla, ora pende distante da quella, la testa lievemente rovesciata e inclinata. Così s’è presentata nelle ultime ore, così si offre ora allo sguardo perplesso dei presenti. Una gorgone, un vampiro, un mostro dove le tracce dell’antica grazia e regolarità di tratti non sono però del tutto spente. C’è, come ho già scritto su queste pagine, un mistero, anche, in questa incredibile resistenza di un corpo rastremato da piaghe voraci, digiuno, e perciò autofagico, privo di funzionalità cerebrale relazionale. Data per morta domenica scorsa, muore stasera, alla stessa ora che la vide arrivare dall’inutile ospedale e ritornare nella sua vecchia casa restaurata, che, si direbbe, le ha prolungato la vita di una settimana. Quasi a concederle il tempo di “godersela” come poteva. Un tempo supplementare strappato alla famelica oscenità della morte. E lei pareva volerci restare e assaporarla il più a lungo possibile, la sua casetta d’una vita. Ho seguito il suo affanno degli ultimi minuti fino all’arrivo senza sponda. Quasi non credevo che si fosse fermato quel soffio ostinato a durare contro ogni apparente regola biologica, per giorni e giorni, fra allarmi continui e reiterate smentite.
I corvi sacri sono già al lavoro. Il parroco, che ha scandito le formule dell’estrema unzione sul ritmo di questo scorcio di agonia, s’è premurato di consigliare un impresario di pompe funebri suo amico. “Disinteressatamente, io consiglio... poi voi fate come credete. Io mi permetto di suggerire perché siete amici, è mio dovere consigliare il meglio...”. E via con la musica. Quale sarà la sua percentuale di consigliere amico? Amico del giaguaro, s’intende. Ma dov’è lo scandalo? E’ prassi universale. Ieri sera mi diceva, davanti al cadavere vivente della zia: “Sono stato a visitare dodici ammalati.” E li enumerò, con tanto di anagrafe, chissà ne conoscessimo qualcuno (com’era infatti). Ora – voglio dire dopo il suo “disinteressato” consiglio-suggerimento – capisco meglio il discorso di ieri sera. Aveva fatto il giro dei suoi clienti, un giro d’affari fra i suoi cespiti più garantiti. Magari qualcuno sarà talmente povero da costringerlo a versare ai superstiti della famiglia stretta il gruzzoletto dei “Fiori che non marciscono”. Ma nel totale il guadagno è più certo che lo stipendio di un vigile urbano. Diremo che la sua fede nel buondio è confinata negli angolini nebulosi della paura immediata? Che di Lui si ricorderà nei momenti di pericolo? Forse è così. Ma è altrettanto vero che le due modalità dell’appetire, la sacra e la profana, non riescono a presentargli contrasto. Non deve pur vivere, lui, che tanto si prodiga per i parrocchiani? E se nel momento del gran viaggio gli si affaccerà alla coscienza fiaccata qualche dubbio su quella perfetta concordanza, be’ pazienza: non ci sarà certo l’inferno per sì innocua piccolezza. Così fan tutti: e dunque?
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Posso chiudere questa pagina, quaderno, ricordando il sogno di questa notte? Sì, lei, ancora e sempre. Io le raccontavo della zia, lei mi compiangeva, diceva di volerla vedere. Come se abitassimo nello stesso paese, anziché a impercorribile distanza l’una dall’altro. Poi però ritornava sposata e lontana, ma in vacanza al suo paese di Calamagna. E io, come facevo, io, a trovarmi lì, così lontano dal lutto in corso, dal mio luogo di lavoro, dal mio paese sicanico? Miracoli dell’onirico, dove spazio e tempo stravolgono la sintassi della “condizione vegliante”. C’è una fase nebulosa del sogno, alla quale segue la presenza di Susy nella mia casa: lei e Rina a conversare da buone amiche. Scherzi del desiderio (anzi Desiderio: per una volta, ingrano la maiuscola: come dovuto omaggio al caso). Lei diceva a Rina che le cose non andavano bene col marito, che il suo matrimonio era a rischio rottura. Amenità dell’inconscio affamato. Alla fine, ci baciavamo. Ma castamente, da buoni amici: era la sua condizione. Il suo riconciliato rispetto verso Rina, l’amica ritrovata.
Malgrado il lutto, oggi ho dovuto onorare un impegno con il prof. Rama, che mi aspettava. Sono rimasto a casa sua dalle 12,30 alle 13,30 circa. Abbiamo parlato di Domenico Tempio e dei suoi studiosi, tra i quali l’amico Ciaccò; di Molière e delle sue intenzioni di dedicargli un saggio; dei miei scrittarelli e di tante altre cose letterarie. Mi ha dato un fascicolo della sua rivista e una busta da imbucare, contenente un altro fascicolo dello stesso numero e una lettera di presentazione del periodico per il direttore di Paese sera libri con preghiera di occuparsene su quel supplemento (al quale egli ha collaborato qualche anno fa, specialmente con articoli verghiani). Ho imbucato la busta sua e una mia, pronta da ieri, diretta alla redazione del Gazzettino d. g , con dentro un’ampia recensione a “Praga e la sinistra”, Una redazione “contratta” l’ho spedita a Ciaccò per la Gazzetta.
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01 febbraio Il funerale della zia s’è dovuto spostare a domani, perché il figlio maggiore non potrà essere qua prima delle ore 18 di oggi.
Ore 18. Il cugino (nonché mio figlioccio di cresima!) arriva e appena in casa esplode in un pianto dirotto. Ci sento dentro, misto al dolore naturale per la perdita, una specie di sordo rancore imprecisato: la madre è stata allontanata dalla sua casa, ricoverata all’ospizio, fra gente estranea e chissà con quali negligenze del personale addetto alle malate; nella sua casa s’è sistemato il fratello con la sposina in luna di miele, e la cosa potrebbe suonare sacrilega al figlio lontano: forse le prevedibili trascuranze dell’ospizio hanno affrettato la fine della cara donna sventurata? O, addirittura, chissà, l’hanno provocata? E verso gli zii che l’hanno ricoverata, niente da dire e pensare? Probabilmente, nel suo confuso dolore si mescola un po’ di tutto, e non è da fargliene colpa. Col tempo si convincerà che la madre diletta non era più gestibile in casa: le capitava di affacciarsi e chiamare dei passanti; forse scambiava qualche occasionale signore per il marito morto dodici anni prima; le capitava di portarsi sulla soglia anche di notte. Quante volte mia madre era stata chiamata in allarme dalle vicine per queste stranezze della povera demente! Carlo, il cugino dolente, certo avrebbe capito più tardi; ma ora bisognava lasciarlo al suo sfogo liberatore. E poi, chi può dirlo?, forse le mie ipotesi sono soltanto fantasie pessimistiche, e il poverino ha solo pianto quella perdita insostituibile senza taciuti rancori e inutili risentimenti. Forse. E’ la solita storia, di quel garbuglio che è il cuore umano.

02 febbraio La grande chiesa secentesca di santa Sofia brilla con tutte le sue luci (che non sono poche). I parenti in chiesa non riescono a riempirne neppure la metà della grande navata unica. La mia sofferenza per la perdita non brucia abbastanza da impedire al pensiero di vagare: soffriva tanto la povera donna, che la morte non può non essere vista e desiderata da tutti i parenti come grazia liberatrice. L’ambiente, per me non più sacro in senso stretto, resta tale per la piena di ricordi che vi palpitano dentro, incollati a ogni suo angolo. Guardo intorno, le colonne tortili e dorate, i grandi quadri alle pareti, i diversi altari minori (quasi ancillari) sui capaci fianchi, con i loro putti grassocci, il coro e l’altare maggiore, l’organo in alto, dietro le spalle dei fedeli, il pulpito laterale (sul fianco destro, guardando l’altare), e verifico che ogni particolare si lega ancora, in una memoria reviviscente, a qualche dettaglio della mia vita adolescente, e perfino dell’infanzia remota. Ogni nodo di quella materia santa risponde a un grumo mnestico rappreso sotto anni di “oblio” che il contatto visivo, oramai raro, scioglie e, parzialmente, rivitalizza, appunto. Il volto di fanciulle amate lampeggia nei flash risveglianti. Della prima fiamma, soprattutto: che mi bruciò a lungo. E soprattutto mi insegnò, durante il timido corteggiamento, cosa può essere paradiso: con un tenero sguardo complice e un breve distendersi di labbra a un dolcissimo, insperato sorriso. Un quasi niente, in sé, ma un evento sconvolgente per il ragazzo sensibile e innamorato che ero tra i sedici e i diciassette anni: mi comunicò felicità mai prima sognate. Né mai più dimenticate. Fu un segnale di apertura alla speranza, un pegno per un futuro non chiuso alle sue grazie devotamente vagheggiate, ma ancora lontane.
Poi lo sguardo si appunta sulla fiammella di una candela e ne sgorga una sorta di esercizio linguistico, quasi un riposo per non stancare i troppo vibranti ricordi sentimentali. Quanti verbi e frasi possono scaturire da una candela accesa? La fiamma tremola, palpita, ondeggia, s’irrigidisce, s’impenna, vibra, sussulta, s’appuntisce, si piega, si sfrangia, s’incurva, s’appiattisce, si allunga, ... Mistica lingua di fuoco. L’odore dell’incenso evoca vecchi pruriti sadici, ancestrali palpiti di ignaro erotismo infantile, quando immaginavo, del tutto innocente, di penetrare “dentro” la carne misteriosa (sempre celata) del corpo femminile, mentre ragazze e giovani spose cantavano inni sacri accompagnate dalle note di un organo, in quella chiesetta di campagna ancora in piedi e ormai usata parcamente per scarsità di preti. Chiesa della Madonna del Gelsomino: che nome gentile e profumato. Entrare nei corpi gentili: ma per mistiche vie non sessuali. Chi sapeva, in quel cesto di innocenza implume, la seconda e più intrinseca funzione di quegli organi?
E la zia dentro la bara, non più zia né persona, non più fulcro di affetti tenaci, soltanto un nulla strutturale e una prosciugata massa di carne in disordine metamorfico intollerabile alla sensibilità visiva dei vivi. Quella carne putrescente che scioglie lo spirito in umori fetidi. Che sconcezza la vita. E non c’è scampo. Non c’è parola, spoglia e dritta o gemmata in su le dannate carte, che possa riscattarci, veramente, dall’enorme offesa che la condizione organica ci impone. Che dire? E’ stato detto tutto, nei secoli e nelle civiltà. E a nulla serve tutto questo dire confessare denunciare. O esaltare a contrariis. La leopardiana (prima che foscoliana) illusione può ingannarci per qualche ora o minuto, favorire l’oblio rilassante, breve e ricorrente, ma nel fondo nulla cambia. Come sapeva bene, e con disincantata schiettezza diceva, il nano gigante di Recanati. La zia viva: mille volti, uno strano candore ostinato, la complicità dei semplici. Eppure, a suo modo, sensibile anche da quel lato dell’organica vita tenace. Perciò sofferente della lunga, crudele, precoce vedovanza. Magari perché congiunta a troppo lungo digiuno di vergine ignara. Poi i due parti penosi, e la lunga catena di sofferenze, in parte agganciata a quelle lacerazioni sanguinose. Ave, zia-mamma.
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L’altra grande perdita si chiama inattesa morte di Mimì Ciaccò. Avevo saputo di una sua crisi più violenta delle solite, e avevo telefonato, da casa, alla moglie Germana. Ne avevo ricevuto notizie rassicuranti. Una seconda telefonata partì da Ravenna, dove mi trovavo per un “Corso di aggiornamento” con tema suggestivo: “Letteratura e società”. Anche questo contatto telefonico era stato rassicurante: il malato migliorava, il peggio era passato; e via confortando. Avevo promesso una visita al mio ritorno da quella capitale del tardo Impero romano, che avevo trovato così affascinante (le buone notizie lasciavano sgombro qualche tratto di cielo per le “frivolezze” turistico-culturali tra Germana e me).
E allora come mai quella novità sconcia che si abbatté sulla mia spelacchiata teca ossea come un macigno balzatomi addosso da una pagina della Gazzetta dello Stretto aperta tra le mani di un passeggero sulla nave-traghetto? Che significava quel titolone “Mimì Ciaccò ci ha lasciato”, col suo codazzo di sottotitoli sull’agonia fatale di un uomo che stava migliorando e lentamente avanzava sulla via del quasi garantito ristabilimento clinico?
Una bomba adrenalinica, uno squasso di tremiti mi paralizzò per alcuni minuti. Poi cominciai a chiedermi che cosa potesse avere provocato quel crollo inatteso. Ma quale risposta darmi? E a che serviva farsi domande, rispondere con vaghe ipotesi e via piangendo? Ecco, l’unica cosa seria da fare era lasciare libero corso alle lacrime. Avrei appreso tutti i dettagli della sconcezza mortale l’indomani, quando sarei andato, con Rina, a trovare Germana e la salma dell’amico rapito nella città dello Stretto.
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Ed eccolo là Mimì, tradotto in corpo inanimato, composto nelle positure vestite delle regole fisse, gonfio, il viso nel cereo pallore canonico, quel volto che fingeva riposo, un’ombra di sorriso ironico sulle labbra. Che mi richiamava alla memoria altri morti, giovani adulti anziani. Ma giovani soprattutto. Primo dei quali, quel mio compagno di giochi e vicino di casa che, ancora vivo, aveva avuto il dono raro dei vermi nella carne già morta delle gambe piallate dal marasma cardio-circolatorio, eppure ostinate in una vana resistenza allo sfacelo imcombente. Lo stesso sorriso mesto e sereno, quasi di gratitudine per essere stati liberati dal lungo soffrire e dalle conseguenti vergogne senza riparo.
Tre volte mi dovetti allontanare dalla stanza dove stava l’amico Ciaccò “assassinato”: per dare libero sfogo alla pressione delle lacrime, in una stanza attigua, vicino, ma invisibile a Germana e alle amiche presenti (i ragazzi erano stati affidati ai nonni), tra le quali restava, ogni volta, Rina, mia moglie. Germana piangeva, ma con una specie di maturata rassegnazione. Mentre sono lì, telefonano dal giornale: chiedono un articolo di ricordo verace (non un “coccodrillo”) una commemorazione sincera, secondo i meriti dell’ottimo giornalista scomparso: conosce, Germana, qualcuno di fiducia che lo possa scrivere? Risposta-lampo della giovane vedova: “C’è qui chi lo può fare meglio di tutti, il suo migliore amico, prof. Paolo Assaggi”. Aggiudicato. L’avrei scritto, con ampia facoltà di “spaziare”, l’indomani avrei dovuto portarlo alla sede del quotidiano liotrico, La Sicania: loro avrebbero provveduto a dettarlo via telefono.
L’articolo uscì senza tagli e con scarsi, insignificanti, refusi. L’ultimo rigo dettava, con sincerità appena manierata: “E ora torniamo alle lacrime. Che non si possono stampare. Per fortuna”. Appena, sì, perché di lacrime ne versai ancora, perché anche il mio “nobile egoismo” soffriva, perché un amico un difensore un medium insostituibile mi veniva a mancare. E, soprattutto, perché pensavo ai suoi tre figli ancora bambini. Ma, se posso dirlo, il ricordo di un incontro lontano mi restituiva un rassicurante giudizio di Mimì su Germana (il contesto: i suoi ricorrenti timori di candidato a una morte prematura): “Per lei non mi preoccupo: è una donna forte, saprà difendersi, per sé e per i bambini”. Aveva ragione. Alla Gazzetta sono stati leali, l’hanno assunta, e lei ha imparato presto il mestiere. Doveva fare l’avvocato, il destino le ha assegnato un ruolo più “espositivo”, e perciò più gratificante: non è una timida, Germana, e apprezza la visibilità sociale. Ma il pensiero dei bambini mutilati del padre mi mordeva.

Quell’articolo di triste occasione fu il mio primo contatto collaborativo col giornale per eccellenza di Liotria (ma forse, già allora, dell’intera Sicania). Tre anni dopo sarei diventato un riconosciuto collaboratore delle pagine culturali (non senza occasionali “spalle” e corsivi di costume e ghiotte occasioni).

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