mercoledì 9 dicembre 2009

Susanna, frammento 49


Mentre lascio immaginare, a chi nulla ne ha letto, quello che sta scritto in quel famoso e sacrosanto “Libro della Legge”, ricordo che di atrocità incomprensibili a una media sensibilità moderna è ricca la Bibbia, fin dal Genesi.
Nello stesso arco di Crono cade anche quel minore eppur grande olocausto che è stato il macello indonesiano: seicentomila “comunisti”, cioè operai contadini braccianti sindacalisti e altri civili, tutti disarmati e molti ignari di politica, sterminati, sistematicamente dal “democratico” Suharto (che esasperò l’ostilità “moderata” del presidente Sukarno), con la benedizione e il sostegno economico dei custodi verbali della democrazia planetaria. I quali, euforizzati dal macabro “successo”, si congratulavano col “vincitore” di tanta impresa, riempiendo i loro complici giornali di osceni capovolgimenti ideologici della verità fattuale spacciati per scrupolose corrispondenze e giudizi politici equanimi (da decenni “il più grande linguista del mondo”, l’onesto Noam Chomsky, non si stanca di smascherare tanta vergogna). E non entriamo nei dettagli, spesso orripilanti, di quelle esecuzioni massive, dove la vigliaccheria del tradimento si combina con la ferocia belluina e il “raffinato” sadismo, emulo del più efferato nazismo.
Tragedia minore anche il putsch dei colonnelli greci (21 aprile 1967) e la conseguente dittatura: minore, certamente, anche di quella indonesiana, ma nemmeno ignorabile in questa corsa fra labili quadri in fuga. Leader maximo del complotto e del regime succedaneo fu Papadopoulos, specialmente dopo il fallito tentativo golpista del re Costantino in esilio (dicembre di quello stesso anno). Uomo non certo tenero, eppure ampiamente superato in ferocia dal collega Dimitrios Joannides, che se ne sbarazzò e lo sostituì, a maggior gloria del magnifico Ordine torturatore e lagerista. E poi realizzò quel funesto colpo di mano sulla lacerata Cipro, a sfida dell’arcivescovo Makarios, che spaccò l’isola in due parti fieramente contrapposte, con scontri occasionali, conflitti più gravi e tanti morti tra greci e turchi. Questi ultimi, infatti, colsero l’occasione per occupare stabilmente un terzo dell’isola. Ed eressero un muro di caparbia durata: a tutt’oggi sta in piedi. Fu l’inizio della fine per la dittatura militare in Grecia: e pensare che Joannides aveva concepito l’infausta sortita “ciprigna” come una geniale trovata per consolidare il suo governo e salvare il resto della cricca in divisa dopo la cruenta repressione della rivolta studentesca del 1973 (gli studenti del politecnico di Atene) e le difficoltà internazionali che ne derivarono. Il ritorno della democrazia generò i processi ai golpisti, alcuni dei quali furono condannati a morte, ma senza perdere la preziosa testa: le condanne furono tutte tramutate in ergostolo. E siamo all’ennesima coincidenza con il settennio privato in marcia.
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Vi rientra anche il mitico rumoroso affascinante caotico Sessantotto, pieno di furori e speranze, ma non meno inconcludente, sul lungo periodo, di ben altre rivoluzioni finite, quelle, addirittura in tirannie e dispotismi. A questi eventi mi sono trovato in mezzo, in un modo o nell’altro, ma sempre, ovviamente, a distanza fisica di sicurezza. Nelle assemblee studentesche parteggiavo, anche se con spirito critico (e dunque, frenando la demagogia implicita in ogni entusiasmo giovanile), per le soluzioni veramente democratiche (o per loro realistiche e accettabili approssimazioni). Negli scontri (vibrati e magari al limite della rissa, ma sempre verbali) tra ragazzi di sinistra e missini (male informati, questi, ed eredi di genitori e nonni fanatici, piuttosto diffusi nei palazzetti e palazzoni della vescovile Realpolia) mediavo, senza arretrare di un passo dalle mie critiche posizioni “progressiste”. Garantendo a tutti libertà di parola, integravo lezioni di storia con escursioni periodiche nella cronaca politica più accesa , ma mi scontravo con una stratificazione ideologica familiare di quei giovani prevalentemente catto-fascistoidi. C’erano, poi, i cattolici di sinistra, più informati dei “reazionari nazionalisti”, ma anche loro (non tutti, ma tanti) illusi di potere realizzare il Vangelo nella società capitalistica assistita dagli Usa, superpotenza “alleata”, certo, e pronta all’uso della carota, ma meno che del bastone: vedi Piani Prometeo, e “strategia della tensione” a base di stragi (come la celeberrima e molto rivelatrice di Piazza Fontana, 12 dicembre 1969). E via tacendo, sulla sovranità limitata e l’umano-sociale costo di questa limitazione. Fin dallo sbarco in Sicilia del 1943: con i suoi eccessi aggressivi, i bombardamenti feroci e militarmente insensati, intorno a Palermo, Ragusa, Augusta (in uno dei quali furono maciullati trecento bambini), i suoi “errori” letali contro inermi civili (fino a sparare contro porte e finestre segnate a lutto, scambiando quel segno per insegna fascista!). E che dire della fucilazione di soldati italiani a braccia alzate o già accolti come prigionieri? Né fu solo l’eufemistico errore a coprire, per decenni, quello scoop di ferocia “liberatrice”. Altra rimozione di lunga vita, e diversa (magari opposta) colorazione politica, la bestialità giurassica delle foibe contro inermi italiani, semplificati in massa a puri fascisti destinatari di sacrosante ritorsioni contro le vecchie prepotenze del sepolto regime (discriminazione, assimilazione forzata, pulizia etnica sui resistenti e via con le solite glorie della storia).
Ci chiede nostra signora della lucidità: chi vincerebbe la gara di ferocia fra tanti sapientes bipedi in divisa molto civilizzati e ben forniti di pietà religiosa secundum quid? Un quid che accende flash di sconvolta memoria sulla maledizione scagliata contro il mite Spinoza: tentazione sommersa di ogni religione.
Ma torniamo all’America imperiale. E onoriamone pure la sistematica ingerenza neo-coloniale negli affari interni degli stati latino-americani: la coda del settennio fa in tempo ad agganciare l’ultima grande infamia di quel tormentoso segmento storico: la cancellazione della giovane, forse frettolosa, democrazia cilena, l’instaurarsi della dittatura di Pinochet, l’uccisione dell’Uomo onesto venuto a tentare la salvezza del suo popolo, il medico presidente Salvatore Allende. Una di quelle fiaccole, Allende, che s’accendono, a intervalli non brevi, nella tenebra affumicata della torva storia per rianimare la Speranza, e magari illudere i paria del pianeta maledetto che un mondo meno carogna sia possibile. Possibile, cioè, anche fuori dei proclami e delle sonanti parole seguite, tutt’al più, e più spesso, solo da magre elemosine, dove risplende, ma sempre di luce futura. Insomma, l’ennesimo caso di intervento “correttivo” degli Stati Uniti, questa sedicente democrazia ed effettiva plutocrazia delle mega-lobby e delle più ciniche multinazionali subcolonialiste, nelle vicende del loro abusivo Lebensraum continentale. Intervento che non ha mai badato a spese in fatto di vite umane “colorate”: in quelle “spese” rientrano i metodi risolutivi per spazzare via sindacalisti e attivisti vari, malati di strane pretese (come quella di difendere gli operai schiavizzati da magri compensi e orari da collasso): assoldare assassini ben pagati raccolti in formazioni paramilitari, comprare la complicità dei corruttibilissimi governanti locali e loro polizie. In questa gloria di tenebre mammoniche risultano coinvolti insospettabili nomi di fama planetaria, come Coca Cola, Nestlë, Mc Donald e compari-concorrenti (“denunciati” da rari ma onesti servizi televisivi). Non da meno i produttori di cancro a iosa, come Exxon e altri colossi petrolchimici, con le loro raffinerie allogate in mezzo a popolazioni-spazzatura, su terreni coltivati, presto sterilizzati dai reflui tossici e cancerogeni.
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Nella coda del settennio rientra anche il colera a Napoli e dintorni: dono del cielo. E della “napoletanità” poco igienica. Scoppiato sul finire del torrido agosto del ’73, l’epidemia smascherò le brutte facce della politica locale e nazionale, e cioè la subordinazione dell’interesse comune e generale a quello privato e particolare (sempre malconcepito); la connivenza, a diversi livelli, di troppi politici, locali e no, con la camorra; l’affarismo impudico e senza limiti, molto trasversale fra distinte categorie socio-professionali; l’assoluta mutilazione, in quelle coriacee sensibilità, della benché minima traccia di etica personale e comunitaria. Cominciando dall’alto: che cosa pensare di un ministro della sanità come Luigi Gui che va dicendo di avere “sentita alla radio” la brutta notizia? Dopo il settimo morto di colera! Mentre le folle “godono” lo spettacolo delle cozze infette che vagano in mare sulle miti onde di Margellina con annessi topi morti, i politici parlano, si riuniscono, promettono impegnando effusioni di facile parola. E una “dichiarazione di urgenza” del Consiglio regionale approda a una legge fantastica, ma destinata al non raro oblio che seduce le iniziative politiche italiane (specie nel profondo Sud): “Finanziamenti regionali per la costruzione, ampliamento e completamento di impianti per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani”. Fu previsto uno stanziamento di 30 miliardi. Dopo cinque anni non se n’era speso un miliardesimo. E quella legge è rimasta in qualche sperduto cassetto dell’ennesimo tavolo dimenticato. Facile prevedere che l’emergenza si riproporrà fra qualche anno o decennio, magari oltre il duemila. Quando non sarà possibile giocare col nome del vibrione Ogawa di quell’anno per sfottere i democristiani della corrente dorotea, trasformandolo in “o Gava”, perché al posto del “viceré doroteo” (nel frattempo probabilmente trapassato) ci saranno altri nomi di “viceré” a perpetuarne l’operosa memoria. Ma la monnezza sarà uguale. Anzi, peggio: ci si può scommettere. Il dna dell’ibrido popolo lo garantisce. Avremo la peste camorristica a dominare il solito giro di complicità politiche e variamente istituzionali: qualche prefetto, qualche ufficiale o maresciallo della gloriosa Arma, uomini della polizia, della finanza, dei vigili urbani. E perfino qualche mela marcia della magistratura di vario livello. Una volta, e forse più di una, ho scritto in un articolo che la nostra civiltà-società consumistica meriterebbe a pieno titolo un appellativo meno anodino, prospetticamente più drammatico: “civiltà dei rifiuti”. Alla salute delle passate e delle future malattie indotte dalla pacchia miliardaria di questa eco-delinquenza a molte teste e variopinte coperture, magari bipartisan. Alla faccia degli autentici cacciatori di malavitosi, che, non solo devono subire gli intralci tessuti dalle complicità istituzionali, ma ricevono anche carezze di calunnie e insulti vari da servi e sodali dei corrotti. E spiace constatare che il marcio lambisce, e in certi casi tocca e contagia, anche la variegata sinistra organizzata. E sia pure in misure e modalità assai meno drammatiche e devastanti rispetto al blocco delle cosiddette forze moderate e liberal-democratiche.
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I giornalisti di quell’anno rievocarono altri episodi di colera di epoche assai meno protette contro queste insorgenze poco fatali e molto umane. Quella del 1884 fece 7000 morti, la precedente, del 1836-37 (durante la quale morì Giacomo Leopardi, ospite a Napoli, dell’amico Antonio Ranieri), ne aveva prodotto ben 18.000. Il quotidiano di Napoli, Il Mattino, pubblicò la “lettera aperta” che la battagliera Matilde Serao indirizzò, in occasione del “colera 1884”, al premier di quel governo, il Depretis del “compromesso storico” d’epoca (passato nei libri di storia come trasformismo): “La strada dei Mercanti l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello; le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e smorta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio”
Indi, rivolte di folle esasperate contro le discariche, abusive o no, blocchi stradali, scontro con le “forze dell’ordine” e altra ordinaria celebrazione del disordine civile ignorato, anzi coltivato, in rebus, dall’alto.
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Ma prima di alcuni degli eventi richiamati, come accennavo, ci fu il ’68, il mitico 1968, anno di festosi furori e fragori, di allegrie espansive e di ritornanti malinconie, di drammi e farse. Soprattutto, di entusiasmi e illusioni. Molte realtà del Vecchio Ordine (come si diceva allora) crollarono sotto i colpi della Contestazione, e meritavano di crollare: l’autoritarismo blindato delle istituzioni formative, scuole medie e università, certa stagnazione culturale sempre in fregola di rinnovamenti e in realtà pronta ad appagarsi di alchimie verbali e verbalistiche acrobazie; certo umanesimo cristiano gonfio di ciarle pseudo-logiche, e l’altro, marxista-puro, che si pretendeva alternativo al primo, eppure entrambi insensibili agli stimoli della galassia fisiologica (dalla biologia molecolare all’etologia). Ma si credette (ancora una volta) a un “mondo nuovo”, migliore e duraturo: di democrazia partecipativa, di egalitarismo solidarista, di maoismo evangelico per gli uni, di maoismo ateo e anticlericale per gli altri, ma parimenti palingenetico. La Cina di Mao, il Grande Timoniere, brillava come fulgido astro sull’orizzonte ideologico dei giovani europei più accesi: un granitico “assoluto” di certezze redentrici contro le nefandezze del capitalismo imperialista. La Rivoluzione Culturale lampeggiava nei cieli azzurri con bagliori d’avvenire rossi di speranze, di resurrezioni, di riscatti per i diseredati del mondo. E di sangue, anche: ma in quel tempo di miti freschi e relativa esaltazione non si credeva al sangue repressivo, tantomeno a quello versato dalle “guardie rosse” troppo fanatizzate dal Verbo ispiratore: lo si accollava come spudorata menzogna alla perfida propaganda dell’ideologia avversaria. Il Libretto rosso di Mao si vendeva a milioni di copie, se ne aspiravano, più che leggere, le massime, i pensieri, gli insegnamenti: come voce di un nuovo e più attuale sacro testo (e i cattocomunisti, come spregiativamente vennero chiamati i credenti di “sinistra estrema”, non trovavano contrasti insanabili tra i due Vangeli). Quante parole grosse, che sventolio di maiuscole, in quei fervidi giorni, in quelle giornate di movimenti non stop al servizio dell’Idea. E della baldoria pensosa. Se la passarono male molti rappresentanti del Vecchiume contestato: dai preti conservatori ai baroni di cattedra, dai presidi di liceo “reazionari” ai dirigenti di azienda autoritari (cioè, la quasi totalità, rarissimi essendo gli Adriani Olivetti, specie in Italia, e gli esperimenti assimilabili a Comunità).
Non mancarono episodi di violenza ingiustificabili contro docenti universitari presidi professori. Né scontri con le polizie, sempre di mano lesta e manganelli pronti all’uso revanchista (o Pasolini candido, che difendevi le divise proletarie, dimenticando che spesso l’abito fa il monaco). E sempre difese, le polizie mazzianti, dal destrume europeo e italiota in particolare. Dal “Maggio francese” che aprì le danze ai suoi tardivi riflessi italiani e isolani, la lunga avventura ci coinvolse più o meno tutti. E io mi trovai ancora una volta al fianco dei giovani, giovane (e meno giovane) anch’io, ma con (la già dichiarata) disposizione mentale prudente verso la babele maiuscolara. Non era facile farsi accettare come mediatori e non passare per pompieri. Criticare, per esempio, certe semplificazioni di un Cohn Bendit, e fosse pure dentro un discorso simpatizzante. Tuttavia non posso dire di avere avuto guai e problemi seri con i miei studenti, sia degli istituti magistrali della Calamagna che dei licei in cui mi trovai a insegnare dal primo anno del mio rientro insulare. Ero schierato, e lo sapevano tutti, ma con il peso coscienziale di una vigilanza ostilissima alle menzogne semplificatrici e alle rimozioni interessate. Condizione davvero non comoda per chi vive in mezzo a giovani “catramati” di ideologie sostanzialmente dicotomiche. Non è difficile figurarsi come potessero venire accolte le mie riserve sull’ambigua “rivoluzione culturale” cinese, già allora sospetta, per me, di eccessi tutt’altro che indolori per gli opinabili bersagli di quel fanatismo ideolatrico. Ma resta meritevole di sorridente (magari di un sorriso amarognolo) indulgenza Chi potè lodare come “Formidabili quegli anni”: si potrebbe campare senza una qualche mitologia? Oggi quel signore è impegnato in cause meno rumorose, ma rispettabilissime: la difesa dell’ambiente, la lotta (non fanatica come l’altra) contro gli Ogm. E contorni. La fiammeggiante Capanna guerriera si è riassettata in comoda dimora borghese. O quasi. La lima del Tempo è spietata. E il dna anche peggio: se penso a certi rinculi (oggi a lauti stipendi ammazza-ideali, nel giornalismo cartaceo o elettronico privato o pubblico), l’ex leader rosso mi appare un modello di coerenza.
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Rileggendo la carrellata sopra “contratta” sul “mitico Sessantotto” ho avuto l’impressione di essermi alquanto scontata la mia partecipazione. Dopo tutto, guardavo con dichiarata simpatia l’esperimento maoista della rivoluzione culturale, quell’egalitarismo spinto fino all’uniformità forzata del vestire, quella fiducia in un vero rinnovamento pragmatico-assiologico (a scorno delle vaste ipocrisie del sedicente “mondo libero” e molto cristiano), l’aria di un’epoca nuova (almeno parzialmente). Le vittime prevedibilmente seminate dal gigantismo fanatico del Tentativo? Come accennavo sopra, non le negavo, ma tendevo a sovraccaricare l’innegabile vocazione menzognera della propaganda occidentale, quindi a “scalare” forse più del corretto le cifre iperboliche sbandierate da questo mega-produttore di falsità ad usum delphini (il delfino immarcescibile del taroccato paradiso capitalistico). Sarà un caso che già in Calamagna mi chiamassero (colleghi scettici, ma anche amici di fuori ) “il maoista”? Mea culpa, dunque? E sia. Ma secundum quid.1
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Il mitico Sessantotto fu anche l’anno di un’altra infamia: la strage di Città del Messico, il fuoco assassino di quel governo sugli studenti in pacifica dimostrazione contro le solite vergogne delle troppe e varie diseguaglianze sociali: dagli affamati indios e campesinos super-sfruttati (la versione “secolo XX” dell’antica schiavitù) ai possidenti latifondisti e miliardari degli intrallazzi con gli Stati Uniti neocoloniali. Era la “vigilia” della XVIII Olimpiade quando quell’ossimoro spudorato che “regnava” col titolo di Partito Rivoluzionario Istituzionale ordinò l’ennesimo massacro ingiustificato del secolo. E quel contrasto osceno prendeva di mira la sacrosanta protesta studentesca: troppi soldi per i giochi, mentre “fuori” si moriva di fame. Vecchia musica, quante volte ripetuta e finita sempre con piombo in faccia agli impiccioni che infastidiscono la buona coscienza capitalistica: c’è per nulla la nuova scienza sacra, l’Economia liberista, col suo santo Mercato e i suoi algoritmi da premio Nobel? In quelle luminose pagine si spiega come qualmente il meglio del peggio sia sempre e ovunque la (peraltro mitica) onesta libera concorrenza, produttrice di ricchezza per i capaci e (ma col tempo, un tempo lungo, magari) benessere per tutti. Peggio per i renitenti (e resistenti) alla conversione para-millenarista.
A riprova di tanta falsità e disinvolta ferocia decisa al delitto in difesa della Libertà maschera ideale e di quella reale e mammonica, due assassinii di rara chiarezza e infamia in quell’anno magico: quello del 4 aprile fulminò, a Menphis, in piena campagna per i diritti civili dei negri, Martin Luther King, l’uomo che aveva un sogno: I have a dream. Il dream si realizzerà, bene o male, ma non senza ambiguità e resistenze varie, e solo dopo molti anni di lotta plurale e crudele, fiammeggiante di molti crimini con vittime nere (nella produzione dei quali il primato spetta all’organizzazione razzista Ku Klux Kan, messa, sì, fuori legge, ma a lungo operante in clandestinità, non senza complicità tra certi presìdi della stessa legge). Unico frutto positivo della ferocia razzista fu l’attenuarsi dei contrasti fra il non violento King e l’alfiere e fondatore di Potere nero, Malcom X.
Il secondo omicidio eliminò, cinque anni dopo Dallas, cioè dopo l’incredibile assassinio del presidente John Kennedy), il fratello ministro della Giustizia e aspirante presidente, Robert, detto Bob: era il 12 giugno. Anche Bob aveva un sogno, in buona parte identico a quello del leader negro.
Di famiglia borghese, figlio di un predicatore battista, Martin Luther è un “privilegiato” del mondo escluso, uno che vive nella Auburn Avenue (di Atalanta). Battezzata il Paradiso Nero, ospita le “élites della razza inferiore”. Martin studia, cambia stato e città (nel 1948 si trasferisce a Chester, Pennsylvania), fa teologia, diventa pastore della chiesa battista, intraprende la lotta per i diritti civili, adotta il metodo gandhiano della nonviolenza: “siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione…” . E’ del 28 agosto del 1963 la “marcia su Washington”, durante la quale pronunciò per la prima volta (forse) la celebre frase I have a dream.
Non conoscevo ancora Susanna, in quel mese e anno, ma l’avevo già alunna quando, l’anno successivo, al tenace missionario fu assegnato il Nobel per la pace. E l’avevo perduta da poco più di un anno quando King fu assassinato.
Molte sfilate pacifiche vengono trasformate in scontri violenti dalle provocazioni dei bianchi segregazionisti e della polizia. Molti arresti, tanto carcere anche per King. Che risponde con un irenismo sconfinante nella retorica evangelica: “Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora…” Prende posizione contro la guerra nel Vietnam, e denuncia il degrado dei ghetti, “entrando così direttamente in conflitto con la Casa Bianca”. A Memphis partecipava alla marcia degli spazzini in sciopero. Stando sulla veranda esterna dell’albergo, fra i suoi amici, offriva un bersaglio fin troppo facile a chi aveva nel cuore la sua condanna capitale. Che fu eseguita con alcuni colpi di fucile sparati da un balcone di fronte all’albergo.
E si scatenò l’inferno in mezza America, con un bell’addio alla nonviolenza predicata dal leader assassinato. Sacrosanta autodifesa peraltro, di chi ha d’un tratto scavalcato la soglia di tolleranza-speranza. Il presunto assassino fu catturato a Londra, due mesi più tardi. Ma si dichiarò innocente e promise di rivelare il nome del vero colpevole. Naturalmente, non gliene lasciarono il tempo: cadde trafitto da acconce coltellate dentro la sua cella, la notte successiva alla sua promessa. La storia si ripete. E così, non si sa ancora chi sia stato il vero assassino individuale: quello diffuso e massivo è fin troppo noto. Sparpagliato su amplissimi spazi sociali, era facile imbattersi in qualche pensierino gentile, perfino stampato sulle vetrine dei negozi: “Segregazione oggi domani e sempre” “Mai un negro negli spazi dei bianchi”. E simili fioretti evangelici.
Fra i suoi pensieri-aforismi, alcuni sono degni della storia e della leggenda (magari previa tara dell’inevitabile bava retorica). Esempi: “Se un uomo non ha ancora scoperto qualcosa per cui morire, non ha ancora iniziato a vivere”. “Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostri amici”. Tanti i libri, saggi di riviste, articoli di giornali sul carismatico personaggio. E tra le canzoni dedicate a lui, ricordiamo “Pride. In the name of love”, degli U2. Tanta gloria postuma, e prossima alla santificazione laica, non obliteri il fatto che ancora a trentacinque anni di lontananza da quell’esecuzione feroce c’è chi maledice l’eroe nero e si compiace della sua eliminazione. Il razzismo è una patologia endemica, con fasi di latenza e fasi di riemersione (anche massiva). Mi sovvengono le parole finali della camusiana Peste: “Il bacillo della peste non muore mai, si nasconde fra le cartacce e i rifiuti, finché un bel giorno tornerà a far morire i topi sui gradini di una casa.” (citazione a memoria da controllare).
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Inutile ricordare che la mia “vigilanza” sul martirio del Vietnam era sempre sveglia puntuale documentata. Leggevo quanto potevo sull’argomento e di tanto in tanto si faceva “lettura del giornale” in classe (in tutte e tre le classi del liceo classico). In realtà, si leggevano e commentavano anche articoli di riviste, mensili e settimanali, e pagine di instant books. Alcuni di questi articoli li ho trascritti parzialmente nelle mie agende-diario.
Eccone un campione. Dal volume di Mario Lenzi, In Vietnam ho visto (“I grandi servizi di Paese Sera”, con prefazione di Enzo Biagi, Roma) trovo depositato sull’Agenda di quell’anno (senza le iperboli grafiche della titolazione suggestiva) brani tra i più significativi (ma per me lo erano tutti, in un’altalena di “più o meno” dalle oscillazioni tenui).

Prima di tutto l’uomo. Perché questo popolo è in grado non solo di resistere a un nemico tanto più forte, ma anche di contrattaccare. Un giusto rapporto con la vita e con la natura.

Di ritorno da Hanoi, giugno.  Tu stai leggendo e in questo stesso momento i bombardieri americani continuano il massacro. La tv dice che Nixon toglie i soldati dal Vietnam; ma per ogni soldato che ritira, manda un bombardiere. Nelle cronache ricorrono sempre gli stessi nomi di città: Hanoi, Haiphong, Nam Dinh, Nin Binh, Cao Bang, Thai Nguyen, e altri centri e villaggi che io ricordo non come nomi nella impersonale registrazione dei bollettini di guerra, ma come case, strade, negozi, cooperative, fabbriche; e donne e uomini come noi; e ragazzi come i nostri; e banchi di scuola, libri, letti, mobili, biciclette: le povere cose della vita di tutti i giorni.
Noi abbiamo spesso di questa guerra un’immagine sfocata o retorica. Non ci sono, nel Vietnam, bandiere al vento né squilli di tromba; ma città distrutte, case sventrate, ospedali a pezzi, ponti demoliti, tralicci contorti, binari divelti, chiese che non hanno più né campanili né altari; e morti, milioni di morti, in un paesaggio allucinante, una terra informe di acqua e fango, una giungla più una palude, sotto la nebbia, in un caldo asfissiante. E gli uomini, per sopravvivere, si rifugiano sotto terra, nelle fogne, con i ragni, i serpenti e i topi.
Noi continuiamo la nostra vita, siamo con la moglie, con i figli, con gli amici; al lavoro, alla partita o al cinema; qualche volta partecipiamo pure alle veglie per il Vietnam in piazza Navona e poi andiamo al ristorante dalle parti di via Ripetta. E laggiù, ogni ora, le bombe: trecento bombardamenti al giorno.

10. 01. ‘73, Non vogliono la guerra

Laggiù, a Hanoi, ho conosciuto un giornalista americano, che aveva avuto un permesso speciale dai vietnamiti. Ho letto, poi, le nobili e coraggiose parole che ha scritto sul suo giornale. Veniva con noi nel rifugio e ascoltava con gli occhi sbarrati i colpi sordi delle bombe che buttavano i suoi compatrioti. Una volta lo hanno portato a vedere le vittime di un attacco dei Phantom. Ha detto semplicemente: “Tutti questi bambini morti pesano su di me”. Piangeva. Ha aggiunto: “Ora vorrei essere vietnamita. Mi vergogno di essere nato americano”. La ragazza che lo accompagnava, Quynh Anh, gli ha risposto: “Non ti chiamerò americano. Ti chiamerò fratello. Non devi vergognarti. Noi amiamo il popolo americano. Noi crediamo che gli americani siano quasi tutti come te”

Quello che più mi ha colpito dei vietnamiti è il loro tranquillo coraggio, l’assenza di retorica. Non vogliono la guerra, non sono un popolo guerriero come i Gurka. Fanno la guerra da trent’anni, e la sanno fare, ma vogliono la pace. “Combattiamo  mi ha detto Hoan Tung, direttore del Nhan Dan, con una di quelle frasi che illuminano tutto, all’improvviso  perché non abbiamo altra scelta. La ferocia del nemico ci costringe a essere eroi. Non è colpa nostra se la nostra terra è in una posizione strategica, nel mondo, tra India e Cina, un balcone sui mari d’Oriente; non è colpa nostra se fa gola ai generali americani. Loro hanno molti Giuda, che per trenta denari ci dipingono come aggressori; ma è facile capire chi sono gli aggressori, perché la guerra si fa qui, tra le nostre case, e non negli Stati Uniti”
Non dimenticherò facilmente gli occhi che avevano i soldati di Nam Dinh. Gli stessi che poi ho visto affrontare con spietato furore un attacco dei Phantom, quando una ragazza dal viso pulito cantò per loro: “Mio caro, non tornare là, resta qui con me”

1 commento:

Unknown ha detto...

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