lunedì 15 marzo 2010

SUSANNA, Frammento 60


La pagina del 23 ottobre della stessa agenda contiene soltanto una citazione da Tolstoj, Guerra e pace (Einaudi, pp.1240-41): la trascrivo per sfidare l’immancabile lettore/trice del 2092 a trovare il nesso con quanto seguirà, dalla stessa fonte (intendo, per fonte, l’agenda).
“Ora soltanto Pierre aveva capito tutta la forza di vitalità dell’uomo e la forza salvatrice dello spostamento di attenzione che si trova nell’uomo, simile a una valvola di sicurezza in una caldaia, che fa uscire l’eccesso del vapore appena la sua pressione oltrepassa una data misura.
Egli non vedeva e non udiva come si fucilavano i prigionieri rimasti indietro, benché più di cento di loro fossero già periti in questo modo. Non pensava a Karatajev che s’indeboliva ogni giorno di più e che, evidentemente, presto avrebbe dovuto subire la stessa sorte. Anche meno Pierre pensava a stesso. Quanto più difficile si faceva la sua posizione, quanto più terribile era il futuro, tanto più gli venivano lieti e rasserenanti pensieri, ricordi e immagini, che erano indipendenti dalla situazione nella quale si trovava”.

E la pagina del 30 ottobre risuona ancora tutta e solo di Tolstoj. Ecco un pensiero “retrogrado”, ma tanto sofferente di verità-umanità quanto attuale. Trasferisco.
“Sono cose magnifiche, l’illuminazione elettrica, i telefoni, le mostre e tutti i giardini d’Arcadia con i loro concerti e spettacoli, e tutti i sigari e i portafiammiferi, e le bretelle e i motori; ma vadano tutte in malora, e non solo loro, ma le strade ferrate e tutti i panni e le stoffe del mondo, se per la loro produzione è necessario che il 99 per cento degli uomini siano in schiavitù e periscano a migliaia nelle fabbriche necessarie per la produzione di questi oggetti”. (Lev Tolstoj, La schiavitù del nostro tempo, 1900)
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Nel 1901 la Chiesa russa scomunicò solennemente Tolstoj, con una dichiarazione del Santo Sinodo, perché egli dedicava “la sua attività letteraria e il talento donatogli dal Signore alla diffusione tra il popolo di dottrine contrarie a Cristo e alla Chiesa”.
Commentino. Niente di nuovo sotto il sole (della religione). Cara religione, sempre implacabile nel condannare i sofferenti della verità nuda. La quale riesce, misteriosamente, sempre contraria a Cristo e alla sua Chiesa. E chiaramente minacciosa per gli interessi (ahimé, quanto tangibili!) dei monopolizzatori catafratti di Cristo e di questa o quella delle Sue troppe Chiese. Cari, osceni padroni della religione. Di questa o di quella, che pari sono.
Ma facendo salvi i pochi che un po’ in tutte le epoche prendono sul serio le parti migliori dei testi sacri: quelli che additano gli svantaggiati di ogni genere e tempo come campo di azione solidale.

Pagina di venerdì, 31 luglio

Imprevisto exploit, stasera, alle Terme di Realpolia. Vi si teneva il convegno su Sciascia e il cinema d’impegno civile, con grossi nomi, o comunque noti, distribuiti fra cinema politica tribunali avvocatura e via. Conduttore, Nuccio Fava, il quale introduce abbondantemente, toccando punti salienti della carriera del Racalmutese, con relative polemiche trasversali di non conformistica accensione leonardiana. Il regista Damiani, dopo avere ricordato le ultime vergogne del regime appena mascherato (culminati nei massacri dei giudici Falcone e Borsellino e relativi contorni stragisti) si chiede che cosa ne avrebbe detto Sciascia. E richiama il famigerato articolo corrieresco sui presunti Professionisti dell’antimafia, del 10 gennaio 1987, che lui, confessa, non ha mai capito. Dopo altri interventi più o meno distanti dall’ “effettuale” dei due massacri ancora fumanti (di sangue vanamente eroico), parla Vitale, giovane avvocato facondo e ipersicuro, che polemizza con Damiani. La cui domanda, pretende il brillante giovanotto in posa tribunizia, “non ha senso”. E chiarisce: Sciascia ha lasciato abbastanza documenti per poter intuire cosa avrebbe detto sugli ultimi tragici eventi. Finito il giro della tavolata in palco, chiedo di poter intervenire, e mi viene passato un microfono giù, in platea (troppo movimentato sarebbe riuscito uno spostamento dal mio sedile al tavolo). Mi dico subito d’accordo con Damiani, richiamandomi, a mia volta, all’incauto avventato articolo che suscitò incredule e indignate reazioni più che motivate. In sostanza, mentre ripetevo la stima e l’affetto per lo scrittore, che, dissi, continuavo a leggere con vero godimento e profitto, ne condannavo l’infelice sortita come un passo falso. Aggravato, poi, dal titolo (per me, poco innocente, anzi sospettabilmente peloso) voluto dal direttore Ostellino, un liberale più metafisicamente dottrinario che scrupoloso realista attento ai fatti; nonché conseguenzialmente fanatico dei diritti individuali fino a un garantismo poco gentile verso i giudici a rischio e, di fatto, molto con i criminali di ogni conio e risma. Naturalmente, espressi la mia sofferenza per quella scivolata dell’amato autore, del quale, per inciso, mi ero occupato con convinta simpatia in due articoli sul quotidiano La Sicania e sulla Gazzetta dello Stretto. Simpatia ripagata da Sciascia con il bel libro fotografico di Scianna, Feste religiose in Sicilia, e la ghiotta presentazione dello scrittore, che ci scrisse sopra una gradita dedica. Al mio schietto intervento replica Vitale, che conferma la sua precedente arringa, senza aver colto il senso del mio dissenso. Sciascia, secondo lui, avrebbe detto le stesse cose su quei presunti professionisti. A caldo, ribatto: “e avrebbe sbagliato ancora”. Poi chiedo a Fava qualche minuto ancora per replicare alla lunga requisitoria del Vitale che mi puzza sempre più di scarsa sensibilità verso i giudici-eroi. Mi vedo costretto ad appesantire le obbiezioni a Sciascia, rievocandone l’ostinazione nell’errore e l’uso di un linguaggio greve contro quei giovani del Coordinamento Antimafia palermitano, a loro volta troppo eccitati (ma comprensibilmente) contro l’idolo “traditore”. Ne segue un vivace scambio di battute tra il sottoscritto e l’avvocato eloquente. Mormorii di disapprovazione in un gruppo di radicali presenti, tra cui qualche mio ex alunno troppo pannellizzato. Qualcuno ricordando un giudizio imbecille di Pannella (quest’altro fanatico malato di ipertrofia dell’ego, come gli rinfacciò un suo ex sodale) che arrivò ad accusare Falcone e il pool antimafia di “ammutinamento contro lo Stato”, mi eccitò a cantarle ancora più alte: “Pannella non perde occasione di sparare anche qualche sonora sciocchezza!” Rina, spaventata dalla piega che prendeva la serata, e temendo per la mia salute, ha insistito perché andassimo via, spalleggiata da mia figlia e dal suo ragazzo. E si è tornati a casa, “così com’ella volse.”

Il convegno era preludio introduttivo a una rassegna cinematografica estiva con periodicità annuale organizzata da certi amici e sponsorizzata dal nostro Assessorato comunale alla Cultura. Le pagine successive dell’Agenda registrano la nostra presenza alle proiezioni dei film ispirati ai romanzi di Sciascia. E la pagina del 30 mi rammenta un’altra partecipazione impegnativa: Convegno su Sciascia e la Francia, presente il proconsole francese di Sciascia, Ambroise. Sede dell’incontro, la “sala conferenze” del Comune di Realpolia, che per la ghiotta occasione si è riempita. Molti i miei colleghi di liceo presenti e un buon numero gli alunni del mio corso e di altri. Non si sono ascoltate novità interessanti, tranne, parzialmente, quelle di Ambroise e del mio compaesano Savacca, ordinario di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’ateneo di Liotria (che è tanto generoso con le operose mediocrità accomodanti quanto refrattario agli ingegni creativi, ma severi alla Gulizza). Ho fatto il mio bravo intervento, col solito pass di emotività cardiocinetica. Ho chiesto ad Ambroise se avesse fatto caso all’uso frequente dell’aggettivo “cretino” nella pagina di Sciascia, e, nel caso, cose ne pensasse. Non ci ha fatto caso, e mi sembra una stranezza, in tanto critico. Io cosa ne penso? Penso a una specie di “fissa”, di idea ossessiva, con radici in un (non so quanto inconscio) timore-terrore che qualche suo lettore o critico potesse coglierlo in una o più scivolate degne di quell’aggettivo perentorio. E così lui prende prima, e fa dare del cretino al prof. Laurana e a tanti altri personaggi della sua ricca galleria (specie del Contesto). E implicitamente distribuisce l’insulto ai suoi critici di stento elogio o facili riserve. Una specie di complesso dell’autodidatta. Rilievo che non vuol togliere nulla al valore del narratore e dell’intellettuale impegnato (chi non ha le sue zone molli?). Salvo gli scivoloni occasionali, come “I professionisti dell’antimafia” che, ovviamente, sono dei poveri “cretini”, illusi di fare lotta alla mafia, in realtà avidi, alcuni di loro, di premi carrieristici per quella finta guerra di affollati cortei e vocalizzi altisonanti. Ma che premi e che carriere!
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Non direi che l’incontro di Sciascia con Borsellino, propiziato dal sindaco di Marsala Enzo Genna, il 27 gennaio del 1988, abbia dissolto in fragili nebbie in preda al vento purificatore dubbi e deduzioni attossicate uscite dal ventre di quell’infelice intervento. Sì, è vero, Sciascia chiarì e il giudice frainteso accolse il chiarimento: “Ebbe la gradevolezza di darmi una interpretazione autentica del suo pensiero, che mi fece subito riflettere sul fatto che quella sua uscita mirava a ben altro”. Queste le parole di Borsellino, sulla nobile “persona che aveva estrema importanza nella ‘sua’ formazione e anche nella ‘sua’ sensibilità antimafia”. Il 7 luglio del 1991, a un convegno cui partecipa anche Falcone, dichiara, accanto al ministro della Giustizia Martelli, ritornando sull’articolo di Sciascia: “l’uscita fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quel pool. E sono probabilmente le stesse componenti corporative della magistratura che si oppongono a che i pubblici ministeri, opportunamente coordinati, funzionino davvero”. E sta bene: Sciascia dovette capire di avere sbagliato, quantomeno nel tono e negli esempi allusivi di quello sfogo. Il giudice aveva confermato il volenteroso gradimento della pacificazione in altra, precedente, occasione di incontri amichevoli, condita di buon pesce fresco e innaffiata di generoso vino siciliano, in un ristorante sul mare (Mauro Rostagno fece in tempo ad essere “cronista d’eccezione” dell’evento per una Tv locale). Ma sta di fatto che il 25 giugno del 1992, un mese dopo l’eccidio di Capaci, nella Biblioteca comunale di Palermo, Borsellino pronunciò queste dolenti parole: “...il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, l’anno dell’articolo del Corriere...” Segno che quell’‘uscita’ da via Solferino tornava a bruciare. Meno di un mese dopo, in quel 19 luglio di fuoco, quel Contesto avrebbe consumato un altro crimine da Guinness satanico, in quella via d’Amelio per nulla controllata. Anzi, forse troppo: ma dal mefistofelico Nemico plurale che, probabilmente, ne predispose il dettaglio (l’innocente Cinquecento parcheggiata al fianco della casa materna del giudice) alla torva missione di quel repulisti (in ultima istanza sempre mammonico). Non si è detto che il tipo di esplosivo usato non era di quelli accessibili ai giustizieri del nostro inferno quotidiano? Il tritolo mafioso è diverso da quello militare: ed ecco l’esperto renitente al Complotto affermare che proprio di quest’ultimo tipo era quello di via D’Amelio.
E che dire della famosa Agenda rossa così “misteriosamente” scomparsa e diventata irreperibile? Eppure si sa chi la prese, lo si vede nei filmati, quel carabiniere, quell’esecutore dell’ordine terminale. Invano ad ogni annuale ricorrenza di quella data il fratello di Paolo e tutta la “parte” che non si rassegna ai troppi misteri dolorosi della fascinosa Italia “sedotta e abbandonata” (ai suoi torvi stupratori), tornano a parlarne, ad accusare, a rinnovare memoria e sofferenza per le minoranze ancora prive di callosità emozionali protettive del nostro peggio. Invano. Perché gli appunti del Giudice eliminato come fastidioso ingombro sul groppone del malaffare “complicato” fanno paura a qualche fetta di complicità infetta. E così, pur rivedendo quel fantasma catodico di carabiniere che la porta via sottraendola al suo naturale destino inquisitorio, non si conoscono i mandanti di tanta “prudenza”, né la “tutela” ultima del prezioso quanto dirompente testimone imbavagliato.
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Tornando al tema “Sciascia e l’antimafia” aggiungiamo al testo di Paolo Assaggi questa espansione integrativa (il curatore dei suoi diari).

[...] Amicizia precede Amore. Deve precederlo. Perché la vera amicizia si specchia nella verità.” (Matteo Collura, Alfabeto eretico, Longanesi, voce “Amicizia”)

Caro Matteo,
ripenso alla tua vibrata reazione contro il mio giudizio sul “famigerato” articolo di Sciascia, “I professionisti dell’antimafia”. Ad Acitrezza, al cospetto dei ciclopici Faraglioni, hai pronunciato una sentenza: “La mediazione è dei politici, uno scrittore deve testimoniare la verità quando sente di farlo”. Parola più parola meno, la frase era questa. Ma in quel lembo di Crono votato all’agape amicale, la piccata sentenza fu giustamente lasciata volare nei liberi cieli dell’inessenziale.
Non ho usato a caso la parola ‘sentenza’: il tono perentorio (tale mi suonò) della tua “replica” al mio dissenso sui modi e i tempi di quella sortita gravita, infatti, nella zona del sentenziare. Nel mio linguaggio, equivale a dire: nel clima del “maiuscolarismo”. Per Maiuscole si intendano i valori “assolutizzati”, resi metafisici e pertanto sottratti al controllo empirico e all’empirica flessibilità orientata al “minor male”. In fattispecie, la mediazione e la politica c’entrano poco: quando è in gioco la vita e la morte delle persone, bisogna (credo) andare cauti con gli assoluti. Dopo la mattanza dei giudici (Chinnici, Ciaccio Montalto, Livatino...) e militari (Boris Giuliano, Basile, Cassarà, Antiochia....) assassinati dalla mafia, scendere in campo per accusare l’antimafia non appare, certamente, come una prova di sensibilità umana. So che questa accusa ti farà imbufalire. Ma se ritrovi la calma, potrei tentare di spiegarmi.
Sciascia era un siciliano di temperamento molto reattivo. Un certo fastidio provocatogli da alcuni campioni chiassosi dell’antimafia verbale lo ha distratto dalla sanguinante realtà degli (di quegli) eccidi ancora fumanti di sangue generoso, bloccandone la disponibilità empatica verso chi merita e il merito s’è acquistato con il sacrificio supremo. Non ci sono scuse e scorciatoie discorsive e razionali distinguo alla diserzione da quest’obbligo. E dunque solo quella temporanea “distrazione” può spiegare l’incauta sortita. Quanto è venuto dopo (l’orrore di Capaci e Via d’Amelio, le bombe troppo selettive e mirate di Roma Firenze Milano del ’93) conferma tragicamente l’inopportunità di quella presa di posizione.
“Ora bisogna guardarsi non soltanto dalla mafia, ma anche dall’antimafia” si legge nel tuo bel libro, col seguito del commento: “E lo dissero i siciliani ‘puliti’, non implicati in alcun modo con la mafia”. Ti chiedo: ne siamo certi? O non si rischia di ammucchiare fra i ‘puliti’ i quaquaraquà di don Mariano Arena? I quali, è vero, non sono “implicati in alcun modo” con la mafia, se implicarsi significa colludere in modo attivo. Ma in verità un poco implicati siamo tutti, indirettamente. E tutti i ‘puliti’ subiamo le conseguenze di quel non essere implicati. Tra le quali, il tributo del pizzo. Grosso, se siamo commercianti o professionisti che pagano la ‘protezione’; piccolo e molto laterale se siamo operai impiegati insegnanti pensionati salvati (finora) dall’esazione targata Piovra. Come lo paghiamo? Semplice: i taglieggiati diretti devono rifarsi in qualche modo di quella tassa impropria, e ne scaricano gli effetti sui prezzi delle loro merci o servizi.
Che poi ci sia stata un’antimafia chiassosa e spettacolare è un altro discorso, e lo si poteva liquidare con un sorriso di non feroce ironia. O magari di amara ironia, visti gli esiti ‘effettuali’ (posso, di tanto in tanto, “copiarvi”, te e Sciascia?) quasi nulli di quel folklore. Ma non era possibile, stando a quel che leggo: “[...]in Sicilia l’antimafia aveva finito col praticare metodi mafiosi per affermare la sua supremazia, il suo monopolio nella sacrosanta lotta alla mafia”. Bontà tua, aggiungi: “Non tutta l’antimafia, si capisce: solo quella che, se non fosse esistita la mafia, non avrebbe avuto alcuna occasione di carriera e di notorietà”. Con dolore e disagio scrivo quanto segue. Quali sarebbero i metodi mafiosi dell’antimafia criticabile e clamante? I presunti “sospetti, teoremi e crociate”? Ma la mafia non usa teoremi e crociate, e i suoi sospetti sfociano in ben altri metodi: avvisi chiari (tipo, proiettili incartati, teste d’agnello in buste di plastica, bombe su macchine vuote e contro negozi,...), con sbocco sommitale (degli avvisi sterili di esiti pragmatico-monetari) in risolutivi omicidi “pedagogici”. Vogliamo dire quanti morti ha prodotto l’antimafia?
Occasione di carriera: ma quali carriere ha favorito questa patetica antimafia? Quella di Orlando? Di Borsellino? Che carriere! Colui che davvero meritava una promozione per reali meriti, dico Falcone, fu servito con il contrasto subdolo del suo procuratore capo, il boicottaggio di corvi e traditori subordinati, l’umiliazione di vedersi scavalcato da un quaquaraqua nella direzione di quell’ “Investigativa” che lui aveva elevato a efficiente macchina anti-cosche (il lavoro del successore imposto fu lo spezzettamento del monoblocco investigativo del pool in mille rivoli indipendenti, mentre il capo della Procura umiliava Falcone in compiti ridicoli). Il tutto, come si scoprì in seguito, con il lavoro sotterraneo di certa massoneria e dei (soliti) servizi segreti “deviati”. Il fatto è che Falcone e Borsellino avevano, collaborando con Carla Del Ponte, individuato il bersaglio giusto: le banche svizzere e di altri paradisi fiscali (europei e di più remoto marchio) i quali custodivano e ripulivano gli ingenti capitali insanguinati. Le parole, a volte, “sono pietre” (come scoprì Chi vide Cristo fermarsi a Eboli) e prima di lanciarle sarebbe bene valutare ponderatamente il bersaglio. Specie se si tratti di iperboli. E dire che il pool stava realizzando i suggerimenti di Sciascia: “Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nelle contabilità...” (Alfabeto eretico, voce “Mafia”. Con quel che precede e segue).
Come mi spiego la “distrazione” di don Leonardo? Con la sua biografia (della cui conoscenza non ringrazierò mai abbastanza l’autore del “Maestro di Regalpetra”), la sua acuita sensibilità alla giustizia ingiusta. L’esperienza traumatica della disavventura paterna con l’avvocato traditore e l’ingiusta “condanna”, il suicidio del fratello. E via seguendo le tue stesse indicazioni. La diffidenza verso la Giustizia con la maiuscola, tradita (troppe volte su cento) nella quotidiana prassi da giudici vili corrotti collusi con politici e mafiosi o militanti in certa massoneria tralignata, è l’esito inevitabile di tanta amarezza biografica. Un discorso simile (e complementare) può farsi per la Giustizia sacralizzata e il suo fanatismo: ma non sembra, questa, la “forma” più minacciosa. Tale privilegio storto spetta all’altra versione, quella schizzata sopra,
Detto questo, ne faccio seguire quest’...altro: proprio perché la giustizia giusta è sempre stata un esito minoritario (ah, i polli di Renzo!) della competente prassi, debbo apprezzare al meglio i pochi giudici che la garantiscono, o tentano (nelle strettoie delle leggi, e fra le trappole dei boicottaggi interni) di realizzarla, fosse pure soltanto in parte (per colpa di quelle trappole nel “sistema”). Vedi maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. Dove sarebbe, allora, lo scandalo se un giudice antimafia viene promosso per le sue capacità specifiche contro la pratica idiota della mera anzianità? Le promozioni (ivi compresa la progressività degli stipendi) per mera anzianità sono il cancro da estirpare (ma, campa cavallo!) in tutta l’amministrazione pubblica (perlomeno): un vasto capitolo dell’imperante scialo targato Sprechi di Stato.
Concludo con un “appello”: credimi se ti assicuro che non voglio bene di meno a Sciascia per questo mio parziale dissenso (indotto da uno “specifico” ben delimitato); che lo rileggo con piacere stima e profitto. A sostegno, mi concedo una citazione, dalla “Vita di Galileo” di Brecht: “Non tutto ciò che fa un grand’uomo è grande”. E si può aggiungere: non c’è grand’uomo che non abbia le sue colpe i suoi vizi le sue occasionali défaillances. Io non mi sono mai associato agli insulti dell’antimafia “cattiva” (o soltanto incautamente offesa) contro Sciascia, ma non potevo né posso accettare quella sortita come un merito della sua battaglia contro il malcostume e le piaghe della vita politico-sociale, proprio perché si prestava a un uso strumentale pernicioso, nei fatti puntualmente praticato dalla canaglia “bipartisan” della politica stile “Giorno della civetta”, “Il Contesto”, “Toto modo”, e via denunciando. O da critici frettolosi.
Quando Sciascia dice: “Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”, mi trova pienamente d’accordo (attraversando il lungo sentiero produttivo che va dalle “Parrocchie” all’ultimo testo). Quando afferma “ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose” bisogna pure prenderlo in parola. Magari, semmai, sostituendo il “tante” con “alcune”, o “certe”. Né ho dubbi sul consentire quando, a compimento del pensiero, rivendica: “ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari”. Basta, tanto, perché la nostra amicizia non sia turbata da questo parzialissimo, ed eventuali altri, dissensi? Da parte mia, ne sono convinto. Ti abbraccio [fine lettera]
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Vedo che il tema è tornato d’attualità e continua a scottare, riproponendo i due schieramenti di vent’anni fa: un ventennale non si presenta invano alla ribalta mediatica. Ottima occasione per rifare i propri conti, riconsiderare gli argomenti altrui, massime quelli delle “grandi firme”. Ho letto la pagina della Repubblica del 28 dicembre (“Quel j’accuse di Sciascia”, di Attilio Bolzoni, con intervista alla figlia Maria), ho letto Pierluigi Battista, ho letto Piero Ostellino. E mi capiterà di leggere altro. Sempre col vivo interesse di vent’anni fa, quando il sangue mi fluiva più caldo nelle vene, ma, oggi, con minore propensione (spero) a perderci il sonno: troppa esperienza degli umani mi ha costruito la certezza scettica che l’ego di ognuno finisce col dominare le nostre sensibilità, a volte fino a sospenderne l’ingresso nelle elucubrazioni stolidamente credute del tutto “asettiche”, cioè tutte di puro filato razionale.
Le “grandi firme” hanno un’incontrollabile tendenza a volare subito verso i massimi sistemi: fanno della teoresi e obliterano fatti destini sofferenze di persone “carnali” coinvolte del contenzioso; e ludicamente bazzicano con manichini di plastica e robottini di pura verbalità. Di tutto il bla bla bla messo in campo, mi gusto le notizie documentate, le parole dei familiari, sommari-catenaccio come questo di Repubblica: “Fu uno scandalo: dalle pagine del “Corriere” puntava il dito contro Paolo Borsellino e il sindaco Orlando, ma non ce l’aveva con le persone, come poi si capì”. Non ce l’aveva con le persone: ecco un testo che seduce al commentino smagato: ma se le indicava col dito dritto puntato contro! Ma se picconava le ragioni dell’uno e dell’altro senza sbavature di equivoci e anòdine genericità! “Poi si capì”? Non sarebbe più “amichevole” verso la verità, la sincerità e lo stesso Sciascia dire che poi capì di avere quantomeno esagerato e precisò (in incontri privati e dichiarazioni pubbliche, attenuando con un secondo il primo articolo, che non ce l’aveva con i due chiari bersagli, ecc.)? Il bailamme suscitato lo aiutò a prendere coscienza del botto sparato. Come si dice? Meglio tardi che mai: e questo gli fa onore. Ma sarebbe stato ancora meglio ammettere che i meriti antimafia guadagnati sul campo a rischio della vita (puntualmente, e prevedibilmente, perduta pochi anni dopo, in quella maledetta primavera-estate del 1992) giustificavano la promozione di Borsellino nella “trincea” (non certo nella sinecura) di Marsala, come bollavano d’infamia la vittoria del Meli su Falcone al Csm inquinato da giudici complici e quaquaraquà (recentemente, uno di questi ha tentato di censurare il film con Dapporto-Falcone, colpevole di alludere alla sua non eccelsa figura: aveva votato, tra l’altro, contro il giudice al Csm). Tipico caso in cui il formalismo delle astratte regole uccide la sostanza di carne e sangue. Ma non seppelliamo il fatto che, spesso, l’astratto si muove al guinzaglio del molto concreto e corposo “particulare” guicciardiniano. Ne costituisce il gallonato servitore.
Come previsto, ho “dovuto” leggere altri testi sulla querelle. E mi si è confermata l’idea che in Italia si procede spesso a ondate di conformismo e di mode: nel ventennale di quella tempesta pare diventata moda la pretesa di chiedere scusa a Sciascia. O almeno, dargli ragione “senza se e senza ma”. Che quella pretesa parta da un Pierluigi Battista, pazienza: da sempre lo qualifica l’ambizione del moralizzatore dalla fluida penna. Il fluiloquio a galoppo (dire la stessa cosa in tre-quattro modi in fila saltellanti di gioia lessicale) gli sembra argomento sufficiente per sentenziare a destra e a manca senza la fatica del documentarsi e meditare pazientemente sugli eventi e i loro protagonisti: di veri argomenti, infatti, c’è ben poco nel suo “argomentare”, quasi sempre rimuovente e selettivo a senso unico. La fattispecie non fa eccezione. Né possiamo dimenticare che Battisti integra il folto manipolo degli “anticomplottisti”: una sottospecie culturale che va crescendo all’ombra del vessillo “down with plots!”. E spiace che vi si imbranchi un cervello lucido come Sergio Romano, di solito così cauto nelle sue rivisitazioni storiche. Mentre non suscitano perplessità “arruolamenti” come quelli di un Ostellino, di un Panebianco e altre glorie solferiniane. Insomma, gli anticomplottisti sono già maturi per contendere il primato ai complottisti fanatici. E forse sono peggiori, se possono spingersi fino a negare il complotto di Dallas 1963, e prendere per buono quell’“insulto all’intelligenza” (Bertrand Russell) che fu il “Rapporto Warren”.
Pazienza, si diceva. Ma che perfino un Tano Grasso ripeta il ritornello “Sciascia aveva ragione” vuol dire che siamo alla moda del capovolgimento: dal crucifige al Gloria in Excelsis. E manco male che non si associ al “chiedere scusa”. Come invece vorrebbe un altro campione del libero pensiero quale (si ritiene) Piero Ostellino, accodandosi al Battista (che ironia, a volte, nei nomi: nomen omen?). Il quale Ostellino tira fuori l’asso del “pensiero totalizzante” e dottamente attribuendolo ai suoi oppositori e ai contestatori di Sciascia di ieri e di oggi, predica, in sostanza, il diritto del singolo a dire quel che pensa sempre comunque e in qualunque contingenza, senza badare ai possibili effetti delle sue esternazioni. E questo sarebbe il maximum del liberalismo etico-politico! “Minchia, signor tenente!”, verrebbe fatto di esplodere. Ci permettiamo di opporre, a tanta sicurezza, qualche dubbio: chi apre bocca non dovrebbe, dunque, porsi sempre l’interrogativo (etico, prima che politico) sui possibili rischi di danno sociale e confrontare i prevedibili vantaggi e svantaggi verso terzi avanti di scrivere o pronunciare parola? Noi, si parva licet, crediamo di sì. E se non lo fa, non stia poi a piangere incomprensione o gridare al complotto del pensiero illiberale quando gli effetti del suo predicare gli si rivoltano contro, dai fatti e dai giudizi altrui (di gente meno “astratta” e più corporalmente “partecipe” di lui).
Fra tutte le parole dette su cui ho stancato gli occhi mi suonano familiari le dichiarazioni del più arrabbiato dei critici di “quello” Sciascia: Francesco Petruzzella. L’unico che abbia evocato il clima di quel 1987, e ricordato, rivivendolo, il lutto delle stragi quasi quotidiane, la paura e l’inferno di quella Palermo maledetta sporcata di sangue innocente, dove una parola sbagliata poteva esporre al rischio di finire massacrati dal piombo mafioso. E’ l’autore di quell’eccesso denigratorio che io non condivisi nemmeno allora, in quel clima sovreccitato che pure sveleniva, almeno in parte, certe reattive sortite paradossali. Con questo culmine: “Sciascia quaquaraquà” che “si colloca ai margini della società civile”! Ma è un uomo di coerenza, questo Petruzzella, lui sì, un vero “siciliano pulito”, un ex ragazzo che merita tutta la comprensione di chi non confonde il sangue con l’inchiostro, la battaglia di carne a rischio totale con il ping-pong delle ideuzze predicatorie da sventolare su grandi fogli ben paganti. Ecco le parole che mi sono trascritte nella mia agenda-diario: “Non mi pento di nulla, certo la mia fu una reazione rabbiosa, ma la crescita umana e culturale di un’intera generazione siciliana è stata scandita dai morti, dai funerali, dal terrore. Quando lessi quella mattina del 10 gennaio 1987 l’articolo di Sciascia, rimasi pietrificato. Perché l’ha fatto?, mi chiesi. Perché Sciascia non si è limitato a descrivere uno scenario ma ha invece indicato due uomini  Orlando, il sindaco del grande cambiamento di Palermo e Borsellino, un magistrato integerrimo, come esempi dell’antimafia che fa carriera.”
Ecco un “giovane” che si espone, forte della sua pura coscienza. Quando apparve la famigerata “lettera” del Petruzzella nel putiferio subito esploso la maggioranza dei “putiferanti” attaccò l’antimafia, credendosi in obbligo di santificare l’icona Sciascia: una ventata di conformismo clamante. Molto sospetta, peraltro. Particolare interessante per misurare il clima del tempo e la viltà criminale dei quaquaraquà doc: “Poi i nostri nomi furono pubblicati uno per uno sul giornale locale. Tutti quelli del consiglio direttivo. Il titolo era: “Chi sono gli accusatori: una tessera rossa con la piovra nera” . Un episodio che meriterebbe commenti di fiamme, altro che la rinnovata “accademia” dei culi in carriera schermati contro ogni autentico rischio: l’ex giovane si limita a un sobrio commento:  “Un segnale brutto per Palermo, fare i nomi pubblicamente di chi stava contro la mafia.” Un “chi” parcamente plurale e, soprattutto, senza conforto di chiari consensi e corazze istituzionali: “Eravamo pochi, eravamo soli... In quel periodo avevamo paura anche di riunirci nelle nostre case, il clima di quegli anni era infame”. Ancora un dettaglio di peso al servizio di una valutazione onesta di quella “rabbia”: “La mia famiglia è di Racalmuto, il paese di Sciascia. E io Sciascia l’ho sempre amato, come d’altronde tutti i siciliani. Ma quell’articolo ha rappresentato uno spartiacque nella vicenda palermitana. Mentre noi cercavamo di ribellarci allo strapotere della mafia e andavamo in piazza a gridare “Palermo è nostra e non di Cosa Nostra”, gli intellettuali siciliani se ne stavano in silenzio, non si schieravano, facevano finta di non vedere e di non sentire in una città dove era impossibile non vedere e non sentire. Poi Sciascia addirittura parlò dei rischi dell’antimafia, non dei rischi della mafia. E fece quei due nomi, Orlando e Borsellino. Due personaggi che stavano provando per la prima volta a spaccare un sistema di potere mafioso [...] avremmo avuto bisogno di un sostegno, di una solidarietà da parte di intellettuali come Sciascia che non è mai arrivata [...] Ci ritrovammo soli. Dopo l’articolo sui ‘Professionisti dell’Antimafia' ancora più soli di prima.” Alle mirate (e finte) “provocazioni” dell’intervistatore, che lo vorrebbe contrito e confuso, quel “professionista” risponde: “Dopo vent’anni penso ancora che da Leonardo Sciascia mi sarei aspettato un altro gesto, la sua voce alta si sarebbe dovuta far sentire per aiutare i siciliani onesti a liberarsi dalla mafia [...] Palermo era avvolta nella paura. E Sciascia, il nostro migliore scrittore, il raffinato intellettuale, se la prendeva proprio con l’antimafia. No, dopo vent’anni non rinnego nulla.” Ecco delle parole di virile sentire. A fronte delle quali come suona falsa la supponente prosa dell’Ostellino in cattedra: “Vent’anni fa  dopo aver pubblicato sul Corriere, che allora dirigevo, l’articolo di Sciascia intitolato ‘I professionisti dell’antimafia’  scrivevo: ‘E’ bastato che Sciascia sollevasse il problema della compatibilità fra autonomia individuale e lotta collettiva alla mafia perché nei commenti di giornalisti e uomini politici rispuntasse il ‘pensiero totalizzante’. Oggi [...] rispunta quello stesso pensiero.” Eccolo qua, invece, il pensiero volante: fra libere astrazioni dalle sonorità cattivanti. Dove rimane confinata la spietata realtà “corporale” che s’affaccia nelle parole dritte di Petruzzella? Quanto poca aderenza di viscere s’intravede in simili distillati di (presunto) puro cervello frontale? Tanto poca, quella, quanto del tutto presunto questo, perché, in termini di scienza, si tratta in realtà del laboratorio encefalico di ogni emozione e commozione (compresa la multicefala superstizione): il “sistema limbico” col suo ippocampo, la sua amigdala e così via. Ed ecco il parto di tanta gravidanza: l’enorme implicazione dello scritto regalpetrino “sublimata” fino alla rarefazione di una civetteria scolastica: “il problema della compatibilità fra autonomia individuale e la lotta collettiva alla mafia”!
Ora tanti degli ex ragazzi del ’87 vanno a chiedere scusa alla vedova Sciascia: fanno bene, se l’oggetto delle scuse sono le parole grosse da me respinte. Giocano, invece, a un nuovo “invasamento”, quegli ex giovani, quando ricantano il salmo dell’ “aveva ragione”. E non c’è da stupirsi: tanti di loro hanno fatto carriera (di avvocato giudice docente universitario...). Qualcuno, forse, aiutato da meriti anti-mafia? Può darsi. Altri hanno, semplicemente, tradito quella nobile illusione: vedi Pintacuda, buonanima, Carmine Caruso, figlio di una vittima della mafia assassina finito nelle file di gente che con la Piovra ha avuto solidi e non tanto occulti legami (per non parlare della figlia di Dalla Chiesa). Gli ex fondano un’Associazione intitolata a don Leonardo, ritrovano l’orgoglio civile, ma ripetono parole fruste, formule logorate dai molteplici abusi (“rifondare la politica in Sicilia”, “nuova fase” nell’eterna “lotta alla mafia” di puri gargarismi...). Fino al grottesco: in questa nuova fase “non ci sia né la delega ai magistrati né l’indignazione morale” (sic).
Si avverte l’equivoco odore delle astrazioni a gogò, flora lussureggiante in Accademia, negli studi “avvocatili”, nei talk show televisivi, nelle sudate prosette dei quotidiani prudentissimi. E dei rotocalchi con l’anima nella pancia e più giù. Quanto più verace, nella sua candida follia giovanile, quella rabbia, quella indignazione. Ai miei studenti di liceo mi sforzavo di trasmetterne un soffio, pur non essendo, io, giovane, in quei torridi anni Ottanta. E pur sapendo che fra loro c’erano alcuni figli di papà paganti il pizzo alla disonorata società (costruttori, farmacisti, medici specialisti ricchi di clientela, negozianti...). E usavo parole congeneri al “pietrificato” petruzzelliano. Pagavano, quei mercanti (del farmaco e del giure, che differenza fa?) e pagano. Altri miliardari, della politica e degli affari in felici sponsali, sono addirittura più addentro alle segrete cos(ch)e.
Al Battisti, che non ha le attenuanti della giovinezza, rivolgerei le parole che Nando dalla Chiesa indirizzò a Sciascia: “Non ti viene mai in mente di scrivere una bella terza pagina sul Corriere sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano?” Agli amici di Sciascia (tra i quali mi colloco a fronte alta) suggerirei, inoltre, di valutare l’influenza che può avere avuto l’amicizia con Pannella, la discutibile frequentazione dei radicali. Brava gente, ma “invasata”, spesso, a senso unico (fino a perdere, a volte, il sopra richiamato senso della “carnalità” degli eventi-persone). Per loro, la priorità di quegli anni era il “giusto processo”, non la lotta alla mafia. Erano le garanzie di trattamento umano ai carcerati, mafiosi (cioè pluri-assassini), compresi: che sono, magari, nell’in-sé della teoria, cose sacrosante, ma non quando si antepongono al vitale confronto con gli stragisti alla lupara (anzi, ormai, al kalashnikov e al tritolo, legittimi eredi di quel vecchio arnese), creando difficoltà supplementari ai giudici e ai poliziotti realmente impegnati su quel fronte privo di tregue. I boss gliene furono tanto grati, infatti, da iscriversi al partito. Come il super boss Piromalli. E da ordinare, dal carcere, il voto a tappeto per il partito socialista di Craxi-Martelli e compagnia bell[ic]a.
Leggo, nel servizio di Repubblica, “il presente” dell’ex ragazzo Petruzzella: “fa volontariato con i bambini a rischio dei quartieri popolari di Palermo, è amico di molti magistrati della Procura, pubblica articoli e saggi su riviste siciliane, raccoglie scritti su Cosa Nostra e dintorni”. Insomma, non è diventato un pentito accademico, o notarile e simili rifugi della vocazione al quieto vivere.

Ostellino, invece, continua ad essere quel dogmatico strabico che si crede democratico e liberal: approva tutte le scelte dell’America peggiore, adora Israele, qualunque porcheria commettano, l’una e l’altro, accusa di metafisica (un metafisico come lui!) pacifisti anti-unilateralisti, critici delle disastrose scelte yankee (ma sì, qualche parolina forte ci vuole di tanto in tanto), vuoi in politica estera marziale criminale e maldestra, vuoi nell’inquinamento sistematico dell’ambiente. L’ultima cavolata del ex direttore si scioglie sotto un titolo “titanico”:Terrorismo e chiacchiere. Poco poco, questo anti-metafisico di sogno teorizza il diritto degli Usa a bombardare qualunque Paese sovrano sospetto di ospitare terroristi. Anche a costo (come è accaduto diecine di volte e continua ad accadere in Iraq e Afghanistan mentre scriviamo) di mietere migliaia di vittime innocenti. L’immacolato Occidente fantasticato dagli Ostellino resta sempre senza macchia: e con nessuna responsabilità nella coltura del terrorismo. Se al peggio non c’è limite, neanche nel fortilizio-tempio del moderatismo duttile, non è difficile trovare sul “Corriere della sera” altri campioni dell’occidentalismo miope, con incluso l’americanismo affettivo nella versione estrema: Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, e altri illustrissimi. Fermo restando che il rifugio elettivo di simile antropologia rimane il complesso arcoriano della multiforme medialità (giornali, magazine, tivvù e quant’altro): dove li trovi eroi della bufala cubitale così spudoratamente alieni dai fatti dalle evidenze dalle prove visibili e tangibili per qualunque distesa di autenticità, inclusa quella direttamente personale e pluri-registrata?

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