lunedì 1 marzo 2010

Susanna, Frammento 58


L’occasione romana fu una collega di lettere, rappresentante di classe nel liceo scientifico Cavour, dove io ero commissario di filosofia. Bellina, bionda, non alta (poco più di un metro e sessanta) ma ben fatta, intelligente, preparata: ecco il “sommario” onesto di Donatella Cagli. Cui si può, anzi debbo, aggiungere un aperto sorriso a fossette guanciali che richiamava quell’“altro”, pur senza pareggiarlo. E anche l’età era un richiamo al mio orticello sentimentale: sette anni più giovane di me. Che viene a dire, la stessa differenza saturnina tra me e Rina: giochetti un po’ burleschi del sommo demone burlone detto Caso.
Simpatizzammo subito: lei, inizialmente, esplorando col retropensiero di cavarne frutto per i suoi rappresentati, io per distillarne buona compagnia nel forzato soggiorno romano di faticoso lavoro, non privo però di vaghe lusinghe. Avevo portato con me Rina e il bambino per la sessione estiva, ma la gravidanza rese penosa fino a un quasi collasso la sua resistenza al caldo eccezionale di quel luglio rovente e all’irrequietezza del bambino nervosamente inquieto: l’onesto pondo della piccola in arrivo moltiplicava gli insulti dell’afa. Fui costretto a riportarli a casa e tornarmene solo nella capitale: il tutto, tra due pomeriggi liberi da impegni commissariali: un sabato e la successiva domenica. A quel tempo i treni serbavano ancora una parvenza di civiltà, la competente Azienda statale era unica e non bifida come ai nostri giorni malati di aziendalismo moltiplicativo. E le stazioni ferroviarie non erano deserti sinistri, spogli di personale, forniti di fredde macchine distributrici dei nuovi biglietti di viaggio e delle informazioni poliglotte. Insomma, anche un solitario anziano, in quell’era mitica, poteva contare sull’assistenza di soccorritori di carne e sangue, spesso perfino gentili e comprensivi con le persone d’età. Oggi le finestre vuote delle biglietterie invetrate evocano la desolazione di un sito evacuato per forza di eventi apocalittici. Ah, dimenticavo: nell’era impiegatizia anche i gabinetti fisiologici erano pubblici e affidati all’uso e all’educazione dei passeggeri in attesa: oggi non più, in questa sterilizzazione dall’“umano” sono appaltati al privato d’obbligo. Alla stazione nuova di Realpolia sono i giovanotti del bar-tabacchi che, su richiesta, ti affidano la chiave per disserrare il locale inchiavardato, fare la pipì prevedibile (salvo il peggio, per fortuna raro in quella contingenza) e riconsegnarla al bancone del locale autorizzato. L’unica cosa rimasta immutata (o quasi) in quell’universo revoluto, è la logica astrale dei compensi ai suoi manager. Nel “quasi” si può iniettare il sospetto che siano, in realtà, peggiorate anche ai celesti livelli di quelle cime: una ventina di anni fa mi capitò di indignarmi contro un noto comunista che giustificava con un appello alla competenza-responsabilità un compenso annuo di 250 o più milioni per un’alta carica (forse a.d., o presidente). “Bisogna pagare bene la bravura”, disse quel difensore ispirato del popolo lavoratore in sofferente restrizione. E almeno lo strano “compagno” metteva in campo conto la bravura amministrativa, e dunque il sottinteso successo economico: oggi, cioè da ormai non pochi anni, si prescinde da quel dettaglio: si può mandare in malora l’azienda e incassare ugualmente stipendio intatto nella sua esorbitanza, e proporzionale liquidazione-pensione faraoniche. Idem se dalle terrane prosaiche rotaie si sale all’azzurro poetico delle compagnie aeree (diciamo Alitalia senz’altro). Quando si dice il progresso.
Ma torniamo alla nostra modestia “evenementielle” (e scusate la digressione). La sessione estiva trascorse nella scansione quotidiana del lavoro e nella compagnia con Donatella, cui si aggiunse presto un’altra brava collega, commissaria esterna di inglese, Ada Caruso. Si usciva insieme, la sera, si consumavano i pasti in ciacolante comunità. Almeno, a datare da certa distanza dall’inizio dei lavori commissariali. Niente eros-avventura. Solo commenti piuttosto critici sullo “stile” dei colleghi e, soprattutto, del presidente: un vecchio funzionario ministeriale in pensione, dal rognoso piglio militaresco, che s’era messo in testa di farci ritornare nel pomeriggio ad esaminare ancora candidati “inevasi” nel mattinale. Ottuso burocratismo di violenza sadica, che non andò oltre il terzo giorno: deciso a salvare le mezze giornate turistiche, scaldai di sacra indignazione i colleghi, dichiarai netta ostilità al capriccio pomeridiano, m’impegnai a sbrigare i miei candidati entro l’una e mezza, convinsi i compagni di pena a fare altrettanto. Insomma, togliemmo al vegliardo cocciuto l’alibi sadichetto. Dovette arrendersi.
Quanto all’eros, galeotto, in quel seguito che ne registrò la tardiva nascita, fuono settembre e la sessione riparatoria degli esami. Più, magari, la solitudine popolata di ricordi: la fiducia fra me e la biondina giunse alle confidenze intime. Ne scaturì un racconto degno di una ispirata competenza narrativa: eccone un veloce cenno scarnificato. Donatella era stata protagonista di un dramma urticante: aveva ceduto al richiamo di un suo alunno invaghito di lei. Amore, disse. “Amor che a nullo amato amar perdona”? – celiai, con complice simpatia. Stette al “leggero” e continuò: “mi prese del costui piacer si forte”– e qui ci dobbiamo fermare, mi permisi di aggiungere. E lei: “Ma il mio modesto inferno l’ho avuto pure io. L’affaire si riseppe, i soliti informatori volontari e volenterosi si premurarono di fare da gazzetta, e avvertirono anche la famiglia di lui. Che intervenne, e non proprio delicatamente.” E via alle accuse infamanti, alla pubblica vergogna, alla condanna morale (e moralesca). Con l’inevitabile seguito del trasferimento forzato della troppo sensibile prof. E meno male che il ragazzo non era minorenne. Il che, peraltro, non le risparmiò certa violenza paterna: non solo verbale. S’intende, nel nome dell’etica doppiamente offesa. Tanto amore (completo!), intensa ma breve felicità, tanta chiodata sofferenza. Stava tentando di riprendersi, quell’estate, aiutata anche da una buona psicologa. Più dal suo tatto – precisò – che dalla sua teoresi.
Incoraggiato dalle confidenze, mi lasciai andare anch’io all’amarcord esternante; raccontai di Susy, della cotta e della scottatura. Il resto lo fece quella chimica misteriosa che diciamo simpatia delle pelli. A sbloccare la mia pencolante timidezza intervenne l’aiuto della cornice magica: le rovine del Palatino. La mia adolescenziale passione per la Roma antica non s’era del tutto emancipata dall’ingenuità innocente, neppure in quel maturo “mezzo del cammin di nostra vita”. E mi soccorse a sciogliere le ultime reticenze esitanti: l’abbracciai, tra quelle glorie di pietra e marmi eterni (la cui predilezione, nell’ex adolescente qual ero, non digradava, tuttavia, in pietrificata retorica da labari). Fremente di accumulata smania, non ero meno tremante per quella (e sia pur modesta) sfida all’ignoto. Mi butto o non mi butto? L’arduo dilemma si sciolse nel gesto, un atto brusco, senza vera e ponderata liberazione mentale. Lei rispose subito, con eguale impeto, venendo incontro “a mezz’aria” al mio slancio. Non aspettava altro. Di sicuro aveva, nei giorni precedenti e relative passeggiate, soppesato la mia titubante timidezza. Forse aveva attribuito l’esitazione al mio stato coniugale. Ma, nel caso, solo prima delle confidenze intime. Forse dubitava che non mi piacesse abbastanza. Comecchesia, rotto l’incanto, iniziò la cura anti-Susy. Ci si vedeva nei vari siti della magia archeologica: Terme di Caracalla, Basilica di Massenzio, Circo Massimo, Colosseo, Palatino, e così via. Ma frequentammo anche siti fluviali, onore al biondo Tevere (già allora assai meno biondo e più scafato di ordinaria prosa quotidiana), piazza Navona, Santa Maria maggiore; e via esplorando, fino al lontano Eur. Insomma, si capisce che Donatella mi faceva anche da cicerone. Lei era un’esperta di antichità romane: faceva, a tempo libero, l’accompagnatrice tecnica di comitive studentesche francesi o soltanto francofone. Meno comode delle asciutte pietre-rovine le umide scalette del mitico fiume, ma noi si era di bocca buona, e per armeggi da non orizzontali proiezioni operative quelle sfuggenti pietre andavano bene lo stesso. Un po’ meglio ci riusciva agli angoli asciutti delle chiesone in ombra serale. Ma alle spalle della monumentale Santa Maria Maggiore le effusioni si riducevano ai soli baci: la famiglia di lei aveva casa nella zona. Finché la convinsi a incontrarci nella stanza che avevo in affitto all’interno di un palazzo antico abitato da due anziani coniugi soli, proprietari di quell’eccesso di spazi che invitava alla fruizione lucrosa.
*
Ma perché mi venivano in mente, mentre stringevo Susy fra braccia nervose, in quel bar della remota Calemagna, queste minori chance auto-protettive? Forse per una minimale rivalsa contro le sue caute ripulse di saggezza amicale. O magari per “punirla” dell’essere stata a letto con un altro uomo, sia pure marito, cioè benedetto da Dio e dal Giure. Ma non potevo evitare la domanda, piuttosto inclinata a un compensatorio “no”: se ci trovassimo in condizioni di sicurezza sociale, mi respingerebbe Susy? La fragilità narcisistica voleva quel no; la controparte masochistica insinuava dubbi: chi te l’assicura? Ma intanto le condizioni propizie erano fuori dalla realtà. Conveniva, insomma, stare al quia, e contentarsi di quei contatti innocenti, di quella ritrovata presenza corporale che, pur proibita a più saporite degustazioni, era tuttavia un risarcimento dei lunghi anni bui. Piccolo dono degli dèi benevoli.
Certo, non era più la frizzante fanciulla dei suoi vent’anni, ma non esagero, quaderno, se ripeto che anche dopo gli ultimi nove anni, Susanna restava una gran bella donna. A dispetto di sofferenze molteplici, gravidanze tormentose, parti drammatici, il suo corpo resisteva snello, agile, denso e colmo nelle parti canoniche, pur mai gonfie o da carnalità clamante.
Il cenno al suo corpo “efebico” mi riporta a un altro ricordo. La distanza di Crono non consente più alla memoria bucherellata di collocarlo senza incertezze di occasione e data; ma l’anno doveva essere quello dei sette più nove: sedici anni, un’eternità, da quell’estate torrida, dagli ultimi incontri contatti e spasmi di malfrenata fame. Il luogo del ricordo era senz’altro la spiaggia di Siderato. La sequenza fattuale pressappoco la seguente. Susanna era stata invitata a cena dai miei cognati con le sue figlie. Si era cenato in casa dei miei parenti, poi, a cena conclusa, si era deciso di fare un giro in macchina per i paesi vicini; ritornando, ci eravamo fermati sul magnifico lungomare sideratese. Qui, dopo una consumazione a uno dei tanti bar che vi si aprono, si era scesi in spiaggia. Ed ecco la dinamica scena fissata nella mneme impoverita. Le donne (esclusa mia moglie, poco incline a queste imprese che richiedono prontezza di riflessi e velocità di gambe), il cognato, Giampiero, Manuela, la cognata, il fratello, s’erano sfidati a una corsa, dal confine tra lungomare e spiaggia alla non vicinissima battigia. Chi sarebbe arrivato prima, avrebbe avuto in premio un ...applauso (e magari un bacio virtuale, o amicale, a scelta). Susanna s’era tolta le scarpe, correva scalza. E io, che non ricordo di avere partecipato alla gara (per rispetto, suppongo, dei miei cinquant’anni), mi gustai quell’elettrizzante filmetto, che s’è stampato così saldamente nella memoria. Spiaggia soffusamente sfiorata dalle luci del lungomare, Susy tornata ragazzina spensierata in quel semibuio elettrizzante, tutto il gruppetto delle ragazze, compresa la mia Manuela, a correre verso il mare in paragonistica allegria livellatrice di divergenti età anagrafiche. Era uno spettacolo grazioso, gentile, pluri-gradevole. Ma per me qualcosa di più intrigante, di più pervasivo: io rivedevo la Susy di sedici anni prima, agile silfide dai preziosi piedi scalzi. Guardavo lei soltanto, o quasi. E guardando sentivo rifluire nei micro-condotti del corpo-anima in tensione gli umori di quel tempo “magico”.
E vabbene: ammettiamo e confessiamo in penitenza la facile magia di repulisti e disinvolte rimozioni selettive, che lasciavano al centro della pista il buono e il bello di quell’esperienza esaltante, mai più ritrovata. Susy allegra, ridente, sfidante, in corsa. E scalza. Questo particolare faceva da asse alla girandola di emozioni scatenata da quella innocente malizia in gara di corsa: quei piedi, non avevo potuto mai stringerli fra le mani nella loro nudità armoniosa. Me ne tornava la voglia in quell’occasione. Li avrei anche baciati: questa nuance di feticismo l’ho avuta sempre, verso i piedi belli delle mie (pochissime) donne (non è facile, come può sembrare, trovare un bel piede di donna). Ma non c’era niente da fare. Anche il mio bacio feticistico doveva arretrare verso il solito mondo dei sogni incompiuti. Tuttavia, seppure virtuale, mi inteneriva (non sapevo, allora, che andava, con gli altri dettagli, a raccogliere materia di futura e insospettata ripresa poetica).

Comunque, una memorabile bella serata. Di quale mese e giorno? Il mese era settembre, non poteva essere altro. Il giorno, non c’è più modo di saperlo con puntuale precisione, ma deve cadere nella seconda decade del mese. La precisione numerica è una probabilità remota: che salti fuori (mi ripeto, ahimé ma è quasi inevitabile) qualche testimonianza scritta smarrita nella mia foresta cartacea (come sono saltate fuori da un insospettato sepolcro le tre preziose lettere di Susy). Chi arrivò primo al contatto con la mite onda appena risaccante del mitico mare? Non lo ricordo, ma non fu certo Susy, che protestò allegre scuse per non essere stata la prima. Certo, il sempre vigoroso cognato era, o poteva essere, più veloce di tutti i concorrenti. A meno che non avesse voluto cedere la vittoria a una delle donne (la sua proverbiale galanteria poteva arrivare anche a queste piccole finezze). Ma come scegliere fra tante? Come graziare la giusta, davanti allo sguardo di una moglie, poi! Di quella moglie, in particolare: così segnata dallo svantaggio fisico fra tante piccole veneri. Veneri borghesucce e ammodino, sia pure, ma privilegiate, in un modo o nell’altro, sul piano che più conta nell’umano giudicare: l’aspetto fisico. La cognata si sentiva una specie di intellettuale (aveva ripreso a studiare all’università): niente piccola borghesia al femminile, dunque. Ma la molto femminile certezza che quelle doti di mente e cervello, lì, erano inerti, inutilizzabili. L’unico uso possibile ne confinava la funzione nell’altrettanto ferma certezza compensativa della propria superiorità culturale su quel cinquettante stormo di ochette bellocce (che altro potevano essere, quelle “femmine” cinguettanti, ai suoi occhi di saputella complessata?). Ma forse il vincitore fu mio figlio Giampiero, alto più dello zio, e agile per minore ingombro di peso muscolare.

Ci furono altri incontri, ma sempre collettivi. Di vederci da soli, lei ed io, non c’era possibilità alcuna. Né una vera voglia di tentare: troppo rischio per la ritrovata amicizia fra Rina e Susy, per i buoni rapporti fra le nostre famiglie. E quindi, anche per le future, forse improbabili ma “logicamente” non impossibili, occasioni di nuovi incontri personali. Finita la bella parentesi estiva, ciascun gruppo ritornò al proprio soggiorno quotidiano: Susanna e figlie, per qualche mese ancora, a Moncolone, poi trasferimento a Roma; noi nel paesotto della provincia sicanico-liotrica. Viaggiarono lettere e voci telefoniche, scambi di notizie e di auguri. Niente di più e di meglio, per altro tempo imprecisabile ma di non molti anni. Un incontro romano, invece, avvenne due anni dopo circa. E, tracce o non tracce scritte, mi riesce abbastanza facile ricostruirlo nei suoi momenti apicali. Ma non prima di avere servito degnamente un altro snodo dei nostri rapporti a distanza.
*
In una delle prime lettere dell’anno successivo (forse addirittura la prima) Susy mi chiede di aiutarla a trovare un lavoro: la lettera è tutta un grido di dolore, quasi disperato. A difenderla dai pensieri truci erano (così scriveva), le ragazze, le figliuole: per averle entrambe, aveva rinunciato a una bella fetta di “alimenti” (lo abbiamo già detto), e ora non riusciva a sopravvivere senza l’aiuto dei suoi genitori. Avrebbe voluto emanciparsi da questa dipendenza, se ne vergognava: i suoi non erano così corazzati contro le ristrettezze finanziarie. Non pagavano affitto, la casa era di loro proprietà, s’erano ormai ridotti a tre persone, includendo Giacomino ancora studente. Ma non scialavano certo. Susanna aveva ragione di volerli liberare dal peso dei saltuari soccorsi. Ed io penso a quella specie di marito, professore di lettere, umanista del cavolo, che rinuncia alle figlie per un misero lucro. Che “uomo meraviglioso”, povera Susy. Mi chiedeva aiuto, dunque, attribuendomi possibilità remote dalla mia esistenza di insegnante e di studioso estraneo alla politica politicante. E soprattutto in rotta con quel mondo cattolico e conformista che è disposto ad aiutare, magari, ma solo chi può ricambiare in qualche modo e tangibile sostanza. Per esempio, con un pugno di voti. Dal troppo decentrato Moncolone subalpino e confinario, che cosa poteva dare Susy in cambio di favori decisivi? In Roma, invece, avrebbe potuto dare, e tanto. Ma era, la sua, una merce esclusa da ogni logica di scambio onesto, e Susy dentro quella logica voleva restare ad ogni costo. Anche, o soprattutto, in nome e per il futuro delle figlie: che non avessero mai a rinfacciarle comportamenti immorali. Di questo lei si lamentava nella lettera: lavoro, nella ubertosa dinamica corrotta capitale politica in mille faccende affaccendata, quanto ne volesse, ma solo a quella condizione. Tutti chiedono in cambio una cosa che io non sono disposta a dare – scrive nella lettera. – Ma eccola qua, la drammatica scrittura, così dolente e così cara, in una trascrizione integrale, sviste e approssimazioni comprese.



Moncolone, 14/ 1/ 198…
Carissimo prof. Assaggi.
Si stupirà parecchio nel ricevere questa mia, ma il motivo che mi ha spinto a farlo è molto importante, se non vitale, e di veri amici ai quali rivolgermi non ne ho tanti.
Sono in una situazione drammatica, dalla quale non riesco a venirne fuori, non per mia volontà, ma perché mi si chiede qualcosa che non intendo assolutamente dare. Ogni tentativo fatto per risolvere i problemi della mia vita è sfociato nel medesimo punto: “Io do una cosa a te, tu ne dai una a me”. Ma quello che dovrei dare io è troppo importante perché possa accettare passivamente. Il mio matrimonio è fallito “definitivamente” e miseramente; ma questo non la sorprenderà! Sono ormai quattro mesi che sono separata legalmente.
Questa estate, andando giù da sola, ho cercato di farmi un esame di coscienza, e speravo che il rientro in famiglia avesse aiutato anche l’“altra parte” a fare ciò. Non è servito a niente! Anzi la situazione, al mio rientro, è precipitata. Evidentemente quindici anni di continue liti ci hanno portato entrambi a definire un rapporto che si trascinava per forza di cose, ma che era già morto da tanto tempo. Una sola cosa mi ha lasciato perplessa e nauseata: il disinteresse di un padre nei confronti delle figlie!
Per definire la situazione, che era diventata insostenibile, ho accettato in sede di tribunale, il minimo di alimenti, sperando che, prima o poi, un lavoro mi avrebbe aiutata finanziariamente. Ogni porta bussata e aperta, però ha avuto lo stesso risultato: non si fa niente per niente! Può immaginare quindi come mi sono sempre sentita e come mi sento. Fossi sola andrei, forse, a fare qualunque cosa, ma ho due bambine che vorrei poter guardare in faccia sempre senza vergognarmi.
Fino ad oggi ho fatto qualche supplenza nella scuola elementare, e questo mi ha permesso di andare avanti senza scottarmi. Ma quanto durerà? Quando le scuole saranno chiuse, cosa farò? Questi pensieri (ed altri, che non mi sembra giusto elencare ora) mi hanno spinto a farla partecipe della mia situazione. L’ho sempre giudicata una persona unica al mondo, e chissà che forse Lei, e “non altri” mi possa dare una mano! Qui non mi trattiene più niente, sono libera di andare a vivere dove ci sia un lavoro per me, e quindi, se ci sono possibilità di tornare giù, ben vengano.
Il giorno 24 c. m. tenterò il concorso magistrale a Roma, ma ho sbagliato a presentare la domanda in quella città, avrei dovuto farla per Reggio C. Mi avevano però promesso l’aiuto che cercavo, mentre adesso, visto che non ho accettato “certe condizioni”, mi hanno scaricata. Mi chiedo, allora, sempre e in continuazione. “E’ giusto tutto questo?!”
Ma, bando alle ciance! Le ho prospettato, sia pure in minima parte, la mia situazione, e se Lei volesse scrivermi due parole, ne sarei immensamente felice. La prego sinceramente di salutarmi sua moglie Rina, che non dovrebbe più avercela con una persona perseguitata dalla cattiva sorte. E che l’età e le vicissitudini della vita hanno maturato molto più in fretta di quanto si possa pensare!
Resto in attesa, salutandola con gli stessi pensieri sinceri e affettuosi, ma più riflessivi e consapevoli di quando era il mio professore di filosofia.
Affettuosamente
Susanna
*

Confrontando il contenuto della lettera con quel che ho riassunto prima della trascrizione, si capisce che non tutto quanto è presente nella mia sintesi lo è altrettanto chiaramente nella lettera. La quale allude, e in alcuni punti in modo che io soltanto, o soprattutto, capissi; ma non dice apertis verbis alcune cose che ho accennato nel résumé. Il sunto, insomma, è integrato (me ne accorgo rileggendolo) da rivelazioni che Susy mi aveva fatto in telefonate successive allo scambio epistolare. La rinuncia alle figlie, per esempio, da parte di quel padre snaturato, in cambio di vantaggi economici, nella lettera è accennata allusivamente, mentre per telefono mi era stata arricchita di particolari espliciti (che, del resto, ripetevano confidenze già fatte a voce in quella stessa estate calamagnese). Così i vani tentativi di riavvicinamento fra marito e moglie, i soccorsi dei suoi, e altro ancora.
A quell’invocazione di aiuto, che mi sconvolse, io potei rispondere mediocremente, anche se con piena buona volontà. Cercai nel mio ambiente e fra le poche amicizie qualificate alla bisogna se ci fosse possibilità di un lavoro per lei. In Comune, nella fabbrica di amici e parenti, e non trovai nulla. Cioè, soltanto proiezioni nelle fumosità di un incerto domani. Pensai allora di scrivere, e scrissi, una convincente e commossa lettera a una famosa show girl, che aveva aiutato altre donne in difficoltà. Informai Susanna dei miei tentativi e delle relative risposte; le parlai della lettera per quella signora e gliela spedii in visione. Mi fece sapere che apprezzava i miei tentativi, che sperava sempre, ma che la lettera alla show girl era inutile. Alle mie meraviglie, rispose che in Città (si era già trasferita a Roma) si chiacchierava molto su quella persona, la quale, stando ai vari passa-parola, aveva favorito la carriera attraversando, con le soste del caso, certe stanze autorevoli della capitale (e in particolare di quel suo folto mini-cosmo che si riconosce in Mamma Rai). Insomma, aveva fatto proprio quello che lei, Susy, rifiutava di fare.
E dunque? Come “e dunque?” Lo scambio degli interrogativi avvenne per telefono, tra un moi per qualche minuto intontito e una Susy già esperta di gossip romanesco e implicazioni sottostanti. Se la show girl aveva accettato quel pedaggio a molle, come pensavo, io, ingenuo, di poterla commuovere per analoghe vicissitudini e proposte alla mia protetta? E sia pure, la signora Susanna, questo cammeo di onestà, madre sublime di due innocenti bambine, separata da un marito-mostro per amore delle figlie. E quant’altro. Certi scrupoli sono ormai un lusso nel gran mondo metropolitano. Senza dire che quell’ “ormai” sa di pleonasmo ridicolo.
Il discorso “obbiettorio” di Susy reggeva, ma io non mi rassegnavo alla rinuncia: la lettera era bell’e pronta, la ritenevo toccante, eccetera. Perché non tentare? Ma Susy fu tassativa: sarebbe inutile, insisteva. E si rassegnava ad aspettare eventuali risposte alle mie inchieste locali. Sulle quali, in realtà, si poteva contare ancora meno che sulla show girl secondo Susy e il pettegolezzo capitolino. Arrivai a chiederle come mai ritenesse credibile, anzi indubitabile, quel cicaleccio dissacrante: escludeva che si potesse trattare di calunnie? che ci fosse dell’esagerazione gratuita? Lo escludeva. La pregai di non stracciare la lettera, non si sa mai ci ripensasse, più in là: magari come tentativo estremo. Mi accusò, garbatamente, di aver pensato male di lei sospettando che potesse “stracciare” un così bel ricordo del mio affetto sincero e di una sensibilità così partecipe delle sue sfortune. Obbiettai e mi scusai: solo affetto? Risposta: una risatina complice e ironici “puntini” di benevola reticenza. “Che altro” poteva aspettarsi da un uomo “felicemente sposato e fortunato padre di due bei figli di sicuro avvenire?” Obbiettai sul felicemente con altrettanto benevola ironia, stando a quel giochino leggero frizzante di sottintesi, sfuggito, per qualche minuto, alla morsa di quel serio così drammatico. E intanto pensavo agli invisibili ma raffigurabili vezzi del bel viso resistente alle molte insidie.

Ma ecco la lettera (da Akiskene, 198...)

Gentile Rodella,
vorrei affidare alla Sua intrepida generosità un caso umano che mi sembra di palpitante interesse (e, purtroppo, di perenne attualità). Si tratta di una signora separata dal marito, alla quale il competente Tribunale ha affidato le due figlie (15 e 13 anni), con l’assistenza coniugale (i cosiddetti alimenti) di appena 500.000 lire al mese. L’esiguità della somma ha questa spiegazione: la signora, pur di avere entrambe le “bambine”, ha accettato lo “sconto” proposto dall’ex coniuge al proprio impegno finanziario, come contropartita alla sua rinuncia per una delle figlie. Come vede, un gesto da padre snaturato.
Con tale somma è evidente che non si può vivere in tre, nemmeno in un paesino del profondo Sud, figuriamoci in una città come Roma. La tenera madre, infatti, non pensava di farcela con quell’unico sostegno, ma contava di trovare un lavoro che le consentisse di integrarlo con un suo autonomo reddito. La signora ha cercato, infatti, lavoro, per oltre un anno e mezzo, ma tolte alcune supplenze scolastiche (ha il diploma magistrale) di breve durata, non ha trovato altro. O meglio, ha trovato tante occasioni, diverse tra loro per tipo di attività, ma accomunate dall’identica condizione: andare a letto col “benefattore” (padrone di azienda o manager o comunque persona di peso nel relativo ambiente).
La signora, che ha 37 anni, è ancora una bella donna e una ghiotta possibile preda: malgrado le ingiurie della malasorte (due parti cesarei, e cinque interventi chirurgici, di cui due alla tiroide). Ne avrebbe di chances, se non soffrisse di una “patologia” scostante: l’onestà. Che non le permette di accettare la “transazione”. Forse – mi scrive in una sua accorata lettera (è una mia ex allieva), che è tutta un grido di dolore e un appello al soccorso – se non avesse avuto le due bambine, l’esasperazione l’avrebbe costretta a cedere ai poco nobili ricatti. Ma così no: non può rassegnarsi a non poter guardare in viso le due figlie senza vergogna. E, soprattutto, non vuole rischiare di comprometterne l’avvenire. Scrupoli e valori di altri tempi? Forse. Ma non è bello che qualcuno li prenda sul serio? Che creda ancora nella dignità umana, in questo mondo di mercanti e mercificazione universale?
Ecco, io penso pure che questo qualcuno meriti l’aiuto di Rodella, che tante persone ha già aiutato. Non potrebbe, magari, invitarla al Suo programma quotidiano? La speranza sarebbe che, facendo conoscere il caso al vasto pubblico della Sua trasmissione, potesse venir fuori l’anima buona disposta ad aiutare la mia segnalata, offrendole, o facendole offrire da terzi di propria fiducia, un lavoro pulito. Anche una cosa modesta, tanto per consentire alla famigliola di mantenersi senza eccessivi sacrifici (soprattutto, senza quello di non mandare più le brave figliuole a scuola). Ma bisognerebbe far presto, perché la signora è al limite della resistenza, e di tanto in tanto le vengono cupi pensieri di gesti insani. Le do il suo nome e numero telefonico [...]
Con l’occasione Le porgo, insieme ai più vivi complimenti per le sue trasmissioni, saluti cordialissimi e un grazie per l’attenzione (spero di poterle offrire anche la mia riconoscenza)
*
Dopo un anno ancora di sofferenze da stenti, Susy riuscì ad avere un posto al ministero del Lavoro senza pagare il prezzo inaccettabile. Il fratello maggiore, tramite la moglie e la sua parentela, poté interessare un politico regionale repubblicano, ma con amicizie romane nella onnipresente Democrazia cristiana. Non era un posto a tempo indeterminato e garantito, ma un ingaggio a termine, rinnovabile. Il rinnovo del relativo contratto di anno in anno coprì alcuni anni senza difficoltà. Ad ogni rinnovo si ripeteva la promessa di “stabilizzare” il rapporto, ma l’evento continuava a slittare sul futuro. Lei aveva imparato bene il compito e le relazioni sul rendimento erano positive: tutto lasciava sperare un avvenire di sicurezza economica dignitosa, sufficiente non soltanto per il puro e modesto sostentamento, ma anche per far proseguire gli studi alle figlie. E tuttavia solo il vessillo della speranza continuava a sventolare indisturbato.
Verso la metà degli anni ottanta io e Rina, trovandoci a Roma per motivi di salute (una tenace acne rosacea ricamava crudelmente sulla mia cute apicale), decidemmo di trascorrervi un paio di giorni da dedicare, parte alla rivisitazione turistica dell’Urbe, parte a possibili incontri con amici residenti, che non vedevamo da tempo. Telefonammo anche a Susanna al Ministero (ci aveva comunicato il numero nella lettera che annunciava l’impiego) e fissammo un appuntamento nello stesso palazzone di via Veneto per il pomeriggio. La trovai ancora bella, ma soprattutto, più serena e fiduciosa nelle buone prospettive future. Calda accoglienza e confidenze “fraterne” riempirono il tempo dell’incontro. La figlia maggiore le dava ancora preoccupazioni, ma sembrava avviata a superare i disturbi più gravi dell’adolescenza, quella sindrome anoressica che l’aveva spinta sull’orlo dell’abisso. L’impegno nello studio (in quella primavera frequentava la prima ginnasiale) l’aiutava a combattere con un certo successo la depressione anoressica. Non era, precisava Susanna, un cammino lineare e i progressi, non solo erano lenti, ma restavano anche insidiati da incombenti minacce di ricadute. Più volte queste minacce si erano invelenite in angosciosi ritorni del peggio. La situazione, insomma, non era affatto tranquilla, ma Susy era forte: più precisamente, a darle forza, diceva, erano le due ragazze, così sole, così bisognose del suo aiuto. Una confessione che aveva già fatta a noi, quasi con le stesse parole, negli incontri del secondo black out. Aggiungeva che le recidive della grande influivano negativamente sulla piccola. Anche lei aveva qualche difficoltà di adattamento scolastico, e di tanto in tanto un’autentica crisi di scoraggiamento. Ma non poneva i problemi drammatici della maggiore. Ed era un supplemento di difficoltà nella vita della madre, bilanciare il suo interesse tra le due, evitando che la minore potesse risentirsi della inevitabile sua maggiore attenzione verso chi, delle due, ne aveva più bisogno.
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Quanti anni passarono da questo primo incontro al Ministero al secondo? Non sono in grado di dirlo con precisione, ma non molti certamente. Nella primavera (tra marzo e aprile) di uno dei primissimi si era in gita scolastica. Anzi, in “viaggio d’istruzione”: i licei classici non fanno (ohibò!) gite, ma solo viaggi d’istruzione. Ben preparati, con itinerari molto selettivi, un preside cicerone (è il caso del nostro liceo) munito di eloquenti schede di storia d’arte, uno o più professori (io, uno di questi) ad affiancare il capo d’istituto secondo le personali, anzi professionali, competenze (a me toccava riassumere la storia delle contrade e città dell’ “incontro”). Per gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta i viaggi furono abbuffate di sacra Umbria con Assisi al centro e annessa Cittadella cristiana: una passione del nostro preside, cattolico sinistreggiante, che si sforzava di trasmetterla a noi accompagnatori e agli studenti. Quell’Umbria, col suo medioevo di turriti borghi, castelli arcigni, piazze di dura pietra, le sue modernità importanti (Perugina, le acciaierie di Terni ecc,), i suoi paesaggi e gemme territoriali (le Cascate delle Marmore, il Trasimeno…), e la sua vivace Cittadella di volenterosi giovani della sinistra cattolica, restava pur sempre un affascinante target in ogni sua parte e aspetto: ma quando rischiò di imporsi come unica meta per le classi finali del liceo, un mugugno di professori maturò in proposte alternative. E così nella seconda metà degli anni ottanta, la destinazione si spostò su Roma e i cosiddetti Castelli romani. Per due giorni si pernottava in Roma per visitare i siti canonici della Città; il resto in un bell’ambiente alberghiero moderno della campagna laziale gestito da “suore laiche”: soluzione che ci teneva vantaggiosamente vicini ai Castelli da visitare. In una delle due giornate romane andammo, per la seconda volta in pochi anni, io e Rina, a trovare la nostra amica Susy, sganciandoci dalla comitiva nel primo dei due pomeriggi. Non era una “sottrazione” sensibile al mio tempo istituzionale, i giorni a disposizione delle gite lunghe si aggiravano tra la settimana e i dieci: bastanti a far godere ai molto agitati ragazzi e alle fin troppo vivaci ragazze le porzioni eminenti dei relativi valori storico-estetici. E a stancare noi accompagnatori per veglie forzate di problematico controllo disciplinare e scherzi estrosi di collocazione notturna, cioè in ore presunte libere dalla nostra sorveglianza. Uno di questi pomeriggi, dunque, io e Rina lo destinammo al nuovo incontro con Susanna. L’appuntamento, per ragioni di orari e connessi impegni, suoi e nostri, fu anche stavolta al ministero. La rinuncia alla piccola parte del programma “scolastico” non sacrificò nulla che non avessimo già visitato in precedenti viaggi extra scuola.
In questo secondo incontro trovammo una Susy leggermente più invecchiata, anche se ancora resistente nei suoi tratti migliori. Certo, il viziaccio della sigaretta non aiutava la sua pelle a conservare intatto l’antico splendore, ma le perdite restavano ancora contenute, e le tracce della giovanile bellezza ben presenti sotto il maquillage sempre meno leggero. Era sulla soglia dei quaranta, in quella primavera romana, Susy la bella. Che ammetteva i rischi e le esazioni dell’età incalzante, ma solo teoricamente. Le davamo dei consigli, Rina ed io, come persone più mature: fumasse di meno, evitasse di fumare al chiuso, pensasse alle sue bambine ormai adolescenti... Lei ascoltava, ringraziava, prometteva di ridurre le maledette nicotiniche, ma poi tornava a quella che era ormai una vera dipendenza tabagica. Sì, evitava di fumare dentro casa, si affacciava al balcone o a una delle finestre quand’era chez soi: così diceva e prometteva, ma poi chissà se manteneva.
E moi? Il solito balancement tra presente e passato. Tra il sofferto splendore del passato e il quieto avanzo del gramo presente. Qu’est-ce que tu veux?– chiedeva il passato al deprivato presente. Je suis passé, fermé, fini! Ma il presente replicava, “escamatova”: c’è ancora il futuro, perché sgozzare la quasi implume speranza che pigola fra le tue frasche, presente dimezzato, ma non prosciugato? Una speranzella non fa male a nessuno, perché no, dunque? Pourquoi pas? Pensavo in francese per...induzione inerziale: sfogliavo distrattamente un opuscolo scritto in quella nobile lingua preso da un tavolo dello stanzino ospitale mentre le due donne cicalavano fra loro. Di vari argomenti, ma in modo tutto speciale di figli e figlie, di guai e difficoltà di differente genere, dall’una all’altra, e certamente di peso maggiore dal lato Susy.
Tra una frase e l’altra della conversazione muliebre e della mia lettura un pensiero cominciò a ronzare nel mio cervello: che Susy potesse fumare tanto per abbassare il livello libidico: non sarebbe stato un bel (brutto?) modo di distanziare le immaginate soluzioni di ripiego del periodico “svuotamento” solitario?
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Il terzo incontro, sempre in quel tetro palazzone ministeriale, offrì al nostro sguardo deluso una Susanna decisamente invecchiata, che mostrava quasi tutti i suoi quarantacinque anni. Il trucco pesante nascondeva, sì, qualche guasto epidermico e sottocutaneo, ma gridava con la voce di un cromatismo troppo acceso la sua ormai inderogabile necessità difensiva. Certo, i segni della giovanile perfezione non erano cancellati, erano soltanto mortificati, dove più dove meno, ma chiunque la guardasse avrebbe potuto leggere in trasparenza un passato di glorie estetiche. Quello che mi colpiva più sgradevolmente, in quell’apparato difensivo sovraesposto era l’elemento meno temuto e prevedibile del suo cromatismo svampante. Un rosso tizianesco dei capelli, tanto più eclatante quanto meno necessario esteticamente. Qualcosa si era guastato anche dentro quella testolina, peraltro sempre un po’ in feeling con la bizzarria. Una Susy rossa! Che me ne faccio? – gridava nel suo buco remoto il moi rimosso e mai rinnegato. – Che roba è? Rivoglio la folta ondulata chioma corvina dei suoi vent’anni. E magari il maquillage leggero di quel tempo mitico. Perfino una rasatura delle sopracciglia alla Mina (in realtà mitigata da molti anni) avrei accettato con minor disappunto che quello svampante colore tizianesco (o anche se fosse stato biondo).

Ma le delusioni, nonché regredire, crescevano. Susanna non era più la solitaria mamma di due fanciulle in fiore, interamente votata al loro benessere generale. Susanna aveva un compagno. E non era un marito. Non lo sarebbe stato in nessun futuro, prossimo o lontano: era un uomo sposato, un padre e un marito legato alla famiglia. Almeno dalla sua paternità.
Ci raccontò la storia. Marco, il suo partner, era un ingegnere di bella inventiva, che lei aveva conosciuto nell’ambiente del suo lavoro. E l’aveva conosciuto come vittima della solita canaglia burocratica ministeriale, tanto vittima che aveva risvegliato in lei la nativa vocazione alla giustizia; o, se si preferisce, alla resistenza pugnace contro le ingiustizie spudorate. Gli avevano promesso di acquistare un suo ingegnoso sistema di allarme elettronico capace di neutralizzare i tentativi di sabotaggio, ma al momento di firmare il contratto erano sbucate, come i serpentoni cannibali di un allucinato film horror, strane difficoltà dilatorie e di complicata soluzione. Pretesti, insomma, che forse alludevano a nuove bocche protese nell’ingordigia tangentizia. Io non ricordo se l’uomo avesse già unto ruote e ingranaggi, e dopo resistesse a nuove pretese; o, fin dall’inizio, avesse escluso il vile pedaggio e allora sbattesse la capoccia contro quel collaudato “apriti sesamo”. Fatto sta che Susanna prese a cuore il suo caso e si batté per aiutarlo come poteva. E da cosa nacque cosa. L’uomo non era né brutto né malfatto; portava bene la sua cinquantina o poco più ed era un lottatore tenace. Ma voleva esserlo soltanto nell’arena della legalità solare (così,Susy). Intento ambizioso e impresa disperata. Si era ancora a qualche anno di distanza dall’inizio della “primavera dei popoli” chiamata “Mani pulite”, e i mazzettari navigavano a gonfie vele sui poco agitati mari della corruzione onnipresente. Marco e Susanna, tuttavia, vollero credere nella legge o almeno nella correttezza dei contraenti ministeriali.
Al tempo di quell’incontro al ministero la vertenza era ancora aperta e filava sui binari del Giure. Evidentemente né lui né lei conoscevano abbastanza l’ignominiosa fama della Giustizia romana, definita, con acconcio lirismo espressionistico, “porto delle nebbie”. Quando mai un’inchiesta, una vertenza che minacciasse un vip dell’intrallazzismo politico-vaticano s’era conclusa, in quel porto di sabbie e fango, con il successo della verità e della giustizia? Anche gli osservatori appena attenti ai telegiornali sapevano che le rogne giudiziarie scendevano o salivano in quel porto di garanzie losche perché fossero non risolte nel lampo sacrale del Giure e di Giove, ma dissolte nella nuvolaglia pretestuosa ladra (anche di documenti super-custoditi) truffaldina impudente e arrogante delle prove sottratte, dei cavilli battezzati “rinvii tecnici”, delle testimonianze ritrattate, dei testimoni eliminati in misteriosi e provvidi incidenti o (nei casi incruenti) trasferiti nel vasto e vario oltremare. Per tacere di altro campionario della legalità appestata. Era il fervoroso mondo di Tangentopoli, il paradiso mondano della corruzione pandemica.
Aveva appuntamento al ministero, Susy, con l’uomo, che aveva annunciato, via telefono, di volerci presentare. E avvenne, l’incontro. Piacere, piacere. Energiche strette di mano. In me, a livello enterico una stretta gelosa, al cuore un balzo extrasistolico, nel limbo subcorticale un corto circuito di assoluta impotenza dolente. Rina, invece, ebbe altra luce negli occhi sempre belli e spirituali: un lampo di interesse-curiosità squisitamente femminile. E non certo di severità estetica. Nel corso della vicinanza parlante, mostrò anche una specie di sollievo simpatetico verso l’amica ritrovata e finalmente “accompagnata”. Non era in una condizione che la sua moralità cattolica le permettesse di approvare del tutto? Sia pure: era abbastanza in là con gli anni, anche lei, per trovarsi nella condizione etico-mentale di potere, se non accettare, rassegnarsi a certi “progressi” della socialità sessuale. Certo, dirà poi, sarebbe stato meglio che lui non fosse sposato. E’ quanto diciamo tutti gli amici, e avranno detto i parenti stretti, se e quando l’anno saputo. Ma la “rivoluzione sessuale” degli anni settanta qualche traccia di elasticità meno rigida ha lasciato in tutte le menti e le sensibilità morali. Anche le più ispide.
Ma che tipo di rapporto era questo, fra Susy e Marco? Un tipo che sottraeva al mio malumore una parte dei suoi alimenti: non convivevano, si incontravano lontano dalla città (non ricordo più quale) dove risiedeva la famiglia di lui, facevano qualche viaggio insieme per esigenze di lavoro e, in tali occasioni soltanto, dormivano (e, ahimè, vegliavano) in alberghi di lusso. L’incontro di quel pomeriggio romano conobbe il suo clou in via Veneto: il signor Marco ci portò al Café de Paris, come dire in uno dei locali più snob della famosa via della Dolce vita. Chiacchierando rapsodicamente, ordinammo quattro tè. Eleganza di materiale e di minuzie contornali, abbondanza di acqua bollente a disposizione delle bustine coloranti, e chissà che altre inutilità. Al momento di pagare il conto discretamente sottratto alla vista degli ospiti, io, coscienziosamente attento, ho visto con sguardo caudale ma chiaro, un bigliettone de centomila infilarsi sotto la tazza di Marco e lì rimanere, mentre il quartetto si congedava dal troppo esoso e vellutato Café. Se non altro,  mi dissi  ho fatto un’esperienza che non mi sarei mai sognato di poter fare. Ma me lo dissi con un vago ridicolo sciocco senso dell’amante tradito che accetta gadget compensativi dal rivale fortunato. Sì, in fondo alla gola stagnava un fantasma di nodo ostinato a resistere contro ogni luce di pacchiana evidenza. Quell’uomo si godeva un tesoro che io, avendolo a disposizione per mesi e qualche anno, mi ero proibito senza esitazioni e contro ogni pressione dei sensi. Era giusto? In fondo, era sposato anche lui. Anche lui ha una famiglia, e non la molla. Né lei lo pretende. In fondo, sì, in fondo...
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Ma che sciocchezze scappano di mente (e penna): la Susy di venticinque anni prima era una pulzella, un imene intatto, una ragazza con diritto a un futuro di sposa e madre, legale e “tribalmente” condiviso; la nuova Susanna di quel nuovo presente era una moglie separata legalmente e sulla via del divorzio (o già divorziata? Ah, memoria!); una madre impegnata sul benessere delle figlie; una donna libera da vincoli sociali e barriere istologiche sacrali. Era... Cos’altro era, la nuova Susanna? Ancora un ghiotto bocconcino da letto, malgrado le ferite infertele da una sorte crudele? Certamente. E che altro ancora? Un campione di certo determinismo di oscure connessioni genetico-ambientali, di quelle insondabili pulsioni e contraddizioni che diciamo cause: era un donna in posizione sociale irregolare. Poco scandalosa, nelle attuali aperture da rivoluzione sessuale ormai largamente assimilata: dagli ambienti grandurbani del centro nord, quasi totalmente, e parzialmente anche da certi settori della borghesia meridionale (grande media e piccola). Ma pur sempre una posizione irregolare, non certo in organica fitness con la famiglia d’origine. Che probabilmente la ignorava. O più precisamente: potevano, quei peccatori, nasconderla ai genitori di lei, che se ne stavano in un paesotto di quel profondo Sud magnogreco, ma non all’altra componente della famiglia originaria: sorelle e fratelli romanizzati. E questa parte certamente la subiva, non potendo intervenire e impicciarsene. Fosse almeno scapolo, o vedovo, quel benedetto Marco!
“Ho fatto tanto, ho accettato sacrifici e rinunce per evitarlo, ed eccomi qui, nel disordine che non volevo”: così mi disse un giorno, non ricordo se per telefono o di presenza. Comunque, diceva, a quest’uomo “mi sono affezionata e legata perché l’ho visto bersagliato dai prepotenti della burocrazia e della politica”: una massa di ipocriti ingordi che controllano, con o senza copertura di leggi malfatte e cavilli legali, la vita politico-economica della capitale. Quest’ultima “postilla” è, ovviamente, una mia libera interpretazione del pensiero susynico. Come, e più, di tutta l’Italia – aggiungevo ancora. Non si sa che il proverbiale pesce comincia a puzzare dalla testa? Testa era un tempo Roma, di un impero-mondo, caput mundi, poi di uno Stato vaticano, quindi di un’Italia mal-riunificata, monarchica e indipendente, poi miserabilmente imperiale e fascista. E dal secondo dopoguerra, caput degradato di una para-colonia americana verniciata da paritaria alleata: ma sempre, nei secoli, mercato di valori civili e morali, samarcanda della corruzione e del mercimonio senza limiti. Né l’altra Roma, quella vaticanesca, si salva dal cancro roditore dei bei principi e nobili sentimenti dai pulpiti tuonanti. La corrispettiva realtà dei quali è sempre e soltanto appannaggio di esigue minoranze, di lodevole coerenza e di forzatamente limitata incisività sociale. Limitata, a volte e settorialmente, fino al grado zero.
Quei pensieri non uscirono dal mio teschio, se non in un rapido cenno monco di replica alle accuse anti-Roma di Susy: ci mancava che le facessi una lezione di etica e storia patria. Tornando al tema scottante: diceva, la mia Susanna, che non era proprio amore, il suo, ma questo miscuglio di affetto e di solidarietà fra vittime (anche il suo posto al ministero era sotto continua minaccia, e non mancavano punzecchiature allusive a un futuro incerto). Chissà, forse negava l’amore, parlando con me, per evitarmi un di più della sofferenza che certamente intuiva nella mia sorridente rassegnazione al “fatto compiuto”. Stupidamente, mi accorgevo che il pensarla a letto col marito mi faceva soffrire meno che il pensarla con l’amante (ah, l’odioso lemma!). Specialmente, negli alberghi da miliardari. Be’, tentavo poi di togliere tossico alla pillola: dopotutto, anche lei ha avuto qualcosa che non si sognava da ragazza e da legittima moglie di un professorino “liceale”. Qualcosa cui poteva vantare diritto, specialmente dopo le sofferenze della breve vita matrimoniale.
Ma che razza di consolazione s’inventa, a volte, l’impotenza ciarlona. In realtà, la gelosia mordeva ancora la mia carne stanca. Sed non satiata. Perfino la condizione di non convivenza stemperava un po’ la mia stizza.
Alla quale distillava qualche elisir di modesta consolazione il mobile ricordare che pascolava fra le mie poche ma incisive avventure galanti ambientate nella capitale. Via Veneto: passeggiate romane con Antonella, mescolate a scene della Dolce vita. Fontana di Trevi: Anita Ekberg che vi si bagna vestita, Marcello Mastroianni che ne lecca volto e forme con occhi estatici e trepide mani. E via rimemoramdo e combinando: l’Eur, Susanna che in quel quartiere abita.

Qualche ulteriore dettaglio solleva il capino dalla coltre di oblio disordinato e mi suggerisce che in quell’occasione io portai a Susy un libro di saggi di una studiosa (Lucia Prosperi) che ne dedicava due a me in quando autore di un libro su Diderot e di un originale saggio su Goethe uscito nella rivista del prof. Rama (con titolo coerente all’ispirazione di quel trimestrale fanaticamente puntuale: De corpore goethiano). Lei, tempo dopo, mi disse che li aveva letti entrambi, con piacere, ma io non le ho chiesto quanto ne avesse capito e apprezzato. Tanto meno se li avesse letti interi o solo in parte: dopo tutto, la sua esperienza esistenziale non le aveva lasciato tanto tempo da dedicare alla cultura e lettura. Epperò quel libro era bene una parte di me nelle sue mani. Una parte, in certo modo, di noi, che la riportava al nostro passato. Un rinvio che rendeva impossibile l’ininfluenza di quel dono.
In conclusione, inclino a crederle: li avrà (e dàgli!), li ha letti per intero. E magari riletti. Per rivivere quel tempo sgozzato. Ripensarsi in quelle gioie paure attese trepidazioni estasi. E magari sofferenze di molteplice conio. Ma non velenose al punto da guastare il sapore del copioso dolce che ci coinvolse.

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