martedì 16 febbraio 2010

Susanna, Frammento 57


In Calamagna ero solo, nel periodo-esami di quell’estate, e quindi dagli incontri con Susy restava esclusa e lontana Rina, rimasta in Sicania con la famiglia. Ma ritornammo tutti e quattro un mese dopo circa. Le vecchie padrone di casa del mio primo soggiorno magnogreco (quando, prima da solo poi con Rina e poi ancora anche col bambino, abitavamo a Siderato) ci misero a gratuita disposizione di pura amicizia nostalgica un appartamentino verticale: tre stanzette fra piano terra e secondo piano, ad angolo tra due viuzze nemmeno asfaltate o piastrellate. Risultato di un utilizzo obbligato del poco spazio occupato per anni da una vecchia casuccia demolita, a lungo usata come pollaio, quell’industre povertà in abbandono era stata promossa dall’inerte sterilità a un decoroso assetto abitativo turistico-stagionale di sicuro successo locativo. Il soggiorno non superò i venticinque giorni (per nostre esigenze di rientro sicanico), ma bastò per onorare l’estate con regolari bagni di mare quasi quotidiani. La casetta distava dal margine esterno del lungomare una cinquantina di metri (in linea d’aria) e dall’inizio della spiaggia una sessantina. La spiaggia, come più o meno tutte quelle della jonica, era molto larga. Della lunghezza non si può parlare perché le spiagge di quei paesi marini sono un solo continuum senza cesure che non siano rari letti e foci di fiumare: non proprio delle cesure, dunque, specialmente nella stagione dei bagni e del turismo, già sensibile in quell’anno. Tra i lungomari della zona, quello di Siderato era (come avrò già detto) il più lungo, largo e ricco di accessori di gradevole impatto e comodità: ampi marciapiedi con sedili di pietra bianca levigata, scale di ferro che dal marciapiedi lato mare scendono sulla spiaggia, piazzuole pubbliche, villette laterali ricche di piante (locali ed esotiche) e generose di ombre rompi-afa, con fontane dalle acque fresche di ottima qualità montana, sedili sparsi tra i rientri dei “sentieri”, bar e chioschi di vari rinfreschi a punteggiare gli spiazzi liberi del marciapiedi parallelo alla ferrovia. Larghe aiuole si aprivano sul marciapiede lato mare culminanti in alte palme qua solitarie là in coppia con altre specie arboree. In una parola, il più ricco e bello, non solo della zefiriade, questo felice parto dell’ingegneria stradale, ma, a quel tempo almeno, dell’intera spiaggia ionica. Altri ne sono stati costruiti, negli anni recenti, dai paesi vicini, e qualcuno degno di gareggiare col primo della serie. Del resto, è noto, nella regione, che questi ultimi campioni dell’orgoglio paesano nascono da uno spirito emulativo-agonistico di lungo corso. Che poi questo “spirito” si sia alimentato anche di tanta “materia”, lecita e meno lecita, locale e regionale, italiana ed europea, con intrecci mammonici di dubbia provenienza (anzi, chiara), è un altro discorso. Meritevole, in questa sede e occasione, di essere lasciato a un silente sonno.
Manuela stava con noi, in quella vacanza, ma Giampiero veniva, restava qualche giorno, e poi tornava in Sicania, a frequentare gli amici (ex compagni di liceo per lo più), di giorno; a far compagnia al nonno materno e alla sua seconda moglie, di notte. Susanna aveva ancora qualche settimana di vacanze da consumare in Calamagna, così potemmo vederci tante volte, con le figlie al seguito. Le sue avevano ormai 13 anni e mezzo la prima e undici la seconda; la mia 14 e 8 mesi. Fraternizzarono presto, e fecero qualche nuotata insieme. Mentre le mamme sciorinavano le loro confidenze. Il rancore di Rina per le rivelazioni (incomplete) di Susy, sette anni prima, era svaporato (o almeno, il prevedibile residuale restava compresso sotto un discreto controllo): la cordialità era piena e sembrava convinta. Io me ne stavo alla larga, durante le loro conversazioni, per evitare l’immancabile risentimento dell’umbratile consorte nel caso mi fossi mostrato “appiccicato” (come, un tempo, diceva lei) alla nostra amica. Ma quando le portavo al bar, stavamo tutti seduti intorno allo stesso tavolo, e allora ero naturalmente “autorizzato” a partecipare. Intervenivo, compativo mamma Susy e figlie per le malattie, e tutta la corona spinosa di guai molteplici, non mi sottraevo al bisogno di giudicare il marito fellone, che aveva rinunciato alle care creature in cambio di un miserabile risparmio di denaro. E dire che guadagnava bene, oltre lo stipendio statale: con una sua scuola privata per “recupero anni perduti” e costosi “aiuti ai bisognosi”. Un’attività, mi pareva di capire, del tutto illegale: senza “licenza” ministeriale o del provveditorato. Dunque con guadagni esentasse.
Ecco un elemento di giudizio perentorio per valutare una persona: subordinare i sentimenti a un qualsiasi vantaggio materiale, peggio se vilmente monetario. Così la pensavo, così la penso. Almeno dal germogliare di quella sensibilità ragionante che introduce alla maggiore età. Confortavo Susy. Lei si aiutava facendo supplenze in scuole elementari statali e qualche lezione privata. Ma era in cerca di un lavoro più solido. Chiuso in via definitiva il doloroso capitolo matrimonio, si sarebbe trasferita a Roma, dove già abitavano la sorella Tina e il fratello Carlo, ormai sposato, congedato, impiegato come comandante presso una compagnia aerea privata, padre di due ragazzi dell’età delle cugine ultime venute: le figlie di Susy, appunto. Sarebbe stato un conforto, comunque andassero le cose, sapere presenti nella stessa città, per quanto grande, familiari così stretti. Un conforto e una possibilità meno remota di frequentazione parentale per i ragazzi.
*
Tra i ricordi confusi, spiccano pochi episodi più netti. Il nostro primo invito in un bar sul lungomare di Zefiria, seduti a uno dei tavoli esterni, protetti, contro il solleone, da una cribrata tettoia di cannucce secche con pergolato. Fu l’occasione delle più drammatiche confidenze da Susy a Rina (io le avevo già avute, in buona parte, nel primo incontro, il luglio degli esami di Stato in corso). Oltre alle sofferenze coniugali, Susanna ci parlò (di nuovo, dopo le narrazioni del settennio) dei parti cesarei (e conseguente divieto di altre gravidanze), dei due interventi alla tiroide, di certi disturbi cardiaci di origine nervosa (indicazione vaga, ma non ne ho sentite altre). Malanni, che non bastavano a imporle la rinuncia alle sigarette, calorosamente consigliata da Rina e da me. O almeno a suggerirle una consistente riduzione del consumo e del danno. Per la verità, lei ci sorrise un “lo farò”, ma l’impatto con le nostre orecchie non distillò convinzione e tranquille certezze.
Nel ritorno a casa, Rina ripeteva la sua “filosofia” del “bella e sfortunata”, secondo il senso del pessimismo popolare, che lega bellezza e sfortuna come uno scivoloso destino. Il che certamente vale per una non piccola parte dell’umanità femminile baciata dalla dea. Ne scaturì un mio mugugno verbalizzato sulla natura umana, la sua vocazione basale, la sua sconcia storia. Nella quale parte non piccola, la storia insegna, la crema gerarchica delle varie società, da quelle antiche (estremo-orientali, ebraica e medio-orientali, greca, romana...) a quelle feudali europee, e moderne, via via salendo fino al nostro Ottocento e propaggini novecentesche, pescava i più ghiotti bocconcini di Venere per allietare feste mense e letti delle aerate mega-dimore e ville, dei turriti castelli, dei gonfi e debordanti palazzi barocchi. Per tacere, poi, delle drammatiche promozioni socio-economiche delle borghesie europee, odiate emule delle aristocrazie ridimensionate in privilegi e vizi. E meno male che il tragitto era breve, da Zefiria a Siderato.
Un pomeriggio andammo in gruppo nel vicino paese di Roccabella, il “paese delle belle donne” (belle, e anche, a giudizio popolare maschile, non troppo esigenti in moralibus). C’eravamo io Rina e Manuela, Susy con le figlie, mio cognato con moglie e la loro bambina di nove anni, e un paio di amiche della cognata. Si passeggiò sul lungomare (allora meschinello, oggi estrosamente competitivo per originalità di accessori e soluzioni spaziali scenografiche) un’oretta circa, poi mio cognato ci portò, suoi invitati, in un bel locale con piano-bar e comoda pista da ballo. Dopo le consumazioni, naturalmente si ballò. Io fui prudente nell’invitare prima Rina, poi la cognata, e infine Susy. Ma quando mi rintanai dentro la bolla isolante di quella specie di miracolo situazionale, tenere fra le braccia l’icona onirica pluriennale rifatta corpo (dopo quell’altro lungo black out), la curva della prudenza calò rapidamente. La strinsi più dello stretto (e pure largo) necessario, mi accostai al suo viso a ridottissima distanza di garanzia per istantanei ma ripetuti contatti di pelle, le sussurrai parole di riacceso amore. Lei rispondeva con sordina di assennato allarme: “Calma, non siamo soli” .– “Sto controllando, ti stringo solo quando loro non guardano” –“Non è prudente” – “Via!”– “E nemmeno giusto. Non voglio guastare la ritrovata amicizia con Rina” – “Non la guasterai” – “Sì, se continui a schiacciarmi contro la tua pancia” –“Scusami. Allento la presa” – “Ma stai per spezzarmi le dita della mano che stringi” – “Quante, quante volte ti ho sognata, vissuto questo momento nell’inganno benefico e costoso del sogno!” Sorrideva. – “Perché costoso?” –“C’era un prezzo da pagare: l’amarezza del risveglio, la ripresa della realtà degradata, spoglia di te...”
E poiché la curva “attrattoriale” non si avvicinava gran che all’asse delle ascisse, lei insisteva nell’esercizio della saggezza rinunciataria. “Sono lusingata, cosa credi?, il tuo buon ricordo mi è caro e...” – “Buon ricordo? Chiamalo febbre, invasione, ossessione.”– “Ehilà, siamo alle parole grosse. Dimentichi che hai avuto una figlia meno di due anni dopo il nostro ultimo contatto.”– “Che c’entra?” – “Continui a dire che non c’entra, ma ...” – “Continuo?”– “Hai dimenticato che la ‘questione’ fu trattata, diciamo così, nove anni fa?”.– “Ah, già: sì, me l’hai rinfacciato.”– “E c’entra, non dire di no.” –“Caspita, dovevo pure difendermi, dopo tutto.” – “Ma non ti sono bastati i soli rapporti coniugali.”– Sorrisi. –“Come sei ... disincarnata, stasera.” – “Sono, come?”– Arricciai il nasone sopra un secondo sorrisino satanico: “Voglio dire che non usi le parole spicce di una volta: rapporti sessuali, per esempio, invece del ripulito “coniugali.”–. Sorrise anche lei. –“Andiamo, non siamo nella situazione giusta per...”– Provocai. “Per usare l’esplicito? Un tempo non avevi questi riguardi.” – “Sono cresciuta, maturata. Sono due volte madre, pare che tu non ne voglia prendere atto.”
E difatti, stentavo nell’impresa. Susanna “doveva” essere la ragazza di sedici anni prima, bella, splendente di sensualità, leggera di pesi biografici ed esistenziali... Almeno, per qualche ora, per quella parentesi che me la concedeva fra le braccia, ballo o non ballo: non era pur sempre un bel contatto corporale, un minimale assaggio fisico? Così, pressappoco, esternai il mio impunito candore sognante. E lei, fra le rose di un aperto sorriso di buon avorio, tornò a punzecchiare con la storia dei rapporti coniugali non sterilizzati.
*
Rinfacci. E non conoscevi altre difese, ben più stringenti: le occasioni extra moenia. Pochissime, e quasi sempre respinte. Ma due di esse furono pupillari. E con fior di fanciulle. Magari non altrettanto belle di Susy la bella, di Susanna l’“estrema”, ma più o meno comparabili. Queste verità gelose rimuginavo dentro la teca ossea del cerebro supereccitato. Non senza ricordare alla brontolona di casa, la cosiddetta coscienza, che, in entrambi i casi, non mi spinsi mai oltre la linea di confine dei contatti labiali e degli abbracci vestiti. Rinunce tanto più meritorie in quanto sarebbe stato facile approfittare della debolezza dei soggetti e, per il secondo caso, anche di ghiotte occasioni ambientali offerte da un “viaggio di istruzione” del nostro liceo nel ruffiano incanto di una inesauribile Firenze catalizzante. Dunque, “scambi” molto meno arditi di quelli intercorsi fra me e Susy: niente intimità tattili e soltanto calore controllato di rapidi baci praticamente casti. Dovevo pur curare la malattia susannica. Inutile dire che le due girls avevano cominciato loro con l’attenzione titillatoria (quante sonore t sfuggite al controllo eufonico! “t”, iniziale, ahimè, anche di “tradimento”, mon diable!). Altrettanto inutili, quei flirt “imposti” (e del resto, di non lunga durata, per mio resipiscente decreto e complicità ambientali), come farmaci contro la malattia susinica: sembrava sparire e covava sotto la cenere.
Non riuscì a spegnerlo, quel fuoco, neppure un’occasione ghiotta fino al liberato olismo corporale: una stagionale avventura romana incorniciata nella sessione autunnale dell’esame di maturità. Correva l’anno della Guerra dei Sei giorni, cioè il successivo al distacco dalla maja desnuda calamagnese. Ero pesto in tutte le fibre corporali e mentali. Non esagero se confesso che anche quella storica svolta bellica, così tranchante, così tracotante da parte ebrea, contribuiva al mio malessere bisognoso di cure. Ma ogni rimedio – di lavoro famiglia vita sociale amore coniugale ed extra – mi sollevava dal turbinio sconcio dei pensieri sterili soltanto per il tempo della la sua durata. Finito l’episodio, tornava a danzarmi nella memoria fantasticante l’icona sfuggente dell’Invincibile: che cosa faceva, cosa pensava, mi ricordava, e come, quanto, se sì? Del doppio “invincibile”: ero stato, meditavo, tradito umiliato mortalmente offeso: risarcirmi era un mio diritto. Altrettanto tradito umiliato e offeso il popolo palestinese: chi poteva risarcirlo contro quel tripudiante seminatore imbattuto di futuro nefasto? E non soltanto per l’area geo-politica locale, ma per tutti. Meno complicato un risarcimento personale contro il primo invincibile. Comparatio blasfema? Forse. O più semplicemente, compresenze della vita brada. Al solito. E forse sarebbe il caso di stendervi sopra un bel frego.
Ne fossi capace. Invece mi tentano altre mescolanze (naturalmente, offerte dagli appunti diaristici sulle agende scolastiche). Per esempio, l’anno del (già ricordato in questo lungo exursus) compiuto settennio fu anche convoglio di altre coincidenze e compresenze, di non meno grande avvenire, ma di segno opposto: il terzo giorno del suo ultimo mese iniziò l’era dei trapianti cardiaci. Christian Barnard trapianta all’ortolano Lous Washkansky, di 55 anni, il cuore della ventiquattrenne Denise Davall, stroncata da un’auto assassina. E giacché ci siamo, ricordo che il primo trapianto di pancreas, realizzato in America, risale all’anno magico della mia love story.

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