sabato 6 marzo 2010

Susanna, Frammento 59


Qualche anno dopo quell’incontro romano io stavo in Calamagna, ospite del cognato e famiglia, nonché commissario di filosofia alla maturità scientifica del paese di Boccalino, a pochi chilometri da Letizia Marina, luogo di residenza dei cognati. La cognata (come ho già ricordato) s’era messa in testa di riprendere gli studi universitari interrotti anni prima, e mi chiedeva spesso di spiegarle, registrando, certi argomenti più o meno asprigni. Stavamo in una sala del primo piano della loro “grande casa” (suggestione verbale da letture recenti, ma niente a che vedere con ...le “grandi case” cinesi di Pearl’s Buck), e io dipanavo la sillogistica aristotelica, con tanto di dettagli su “schemi” e “modi”, depositando la mia (non proprio paradisiaca) voce sul nastro magnetico, quando sul “terzo modo della prima figura”, il Darii, picchia un fulmineo tamburo di nocche sulla porta interna avvolto e travolto da un lampo di vento. Il tutto in due secondi, e piomba in sala la nipotina, cellulare in mano e luce di sorridente malizia negli occhi: “C’è una signora che telefona dalla Salerno-Reggio e cerca del professore Paolo Assaggi”. Salto su, punto da una non vaga sensazione di presentimento: “Come t’ha detto che si chiama, la signora?” Mi stuzzicava il cervello l’idea che la nipotina, già signorinella, e non ignorando il nome di Susy e relativo contesto, ben noto alla famiglia, avesse taciuto il nome per godersi la mia risposta emotiva e l’immancabile domanda. Accentuando quel sorrisetto, e spargendolo su tutto il bel visotto paffutello, rispose: “Mi pare che si chiami Susanna Castrato. Ma forse non ho capito bene”. Salto su, senza sottrarmi del tutto al gioco: “Hai capito benissimo, birbantella!” Mi passa il cellulare e rispondo, non senza un tremito nella voce e un turbinio di umori per tutti i canali, grandi e minimi, del corpo squassato. “Sono Paolo Assaggi, sei tu Susy?” Dall’altro “capo”: “Oh, che piacere risentirla: sì, sono io, sto per arrivare, diciamo fra un paio d’ore al massimo: possiamo venire a farvi una visitina?” “Ma certo, come no! Ti passo mia cognata”. La quale, agitata da più conscia malizia, non vedeva l’ora di blablare su quel telefonino.
Parlarono pochi minuti, le due dame, e si confermarono promesse e inviti. Susanna ricalcolò le probabilità del tempo frapposto tra quel contatto tecnologico e la reciprocità incuriosita della presenza corporale e corresse in parte la prima indicazione: fra un’ora e mezza-due ore. Il bel dialogo con il Maestro di color che sanno subì uno scompiglio dal quale tentai di risollevarlo, con successo soltanto parziale. Ma bisognava, al punto in cui si era giunti, concludere almeno l’esposizione della logica. Non era necessario esaurire la noiosa tiritera dei modi di tutte e quattro le figure sillogistiche: bastavano i quattro della prima, e pochi esempi di applicazione. La cognata ascoltava con diminuita attenzione, e fremeva d’impazienza: diversa dalla mia, ma di comparabile intensità, chiedendosi quali novità potesse recare quella visita piombata sul nostro routinario quotidiano come il proverbiale fulmine a ciel sereno.
Era trascorso un altro decennio dall’ultimo incontro calamagnese (ma solo qualche anno da quelli romani). Rivederla nella cornice ambientale della nostra love story, questo, sì, era un vero ritrovarsi. E sia pure mutilo e deformato. Quelli romani erano una specie di para-incontri, un’imitazione approssimativa. Non privi, certamente, di un loro fascino, no, perché nell’Urbe venivano a congiungersi, in qualche modo (il solito modo memorial-sentimentale dell’amarcord introverso) le tre-quattro storie del mio ultimo quarto di secolo in love. Come ho già sospeso a un fugacissimo cenno precedente. Ma Susy doveva stagliarsi nel glorioso rilievo della singolarità incomparabile: e per questo ambizioso target [sic] occorreva la magica mitica tragica Calamagna jonica. O meglio, quel tratto che pullula di pulsanti ricordi.
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L’impatto “olistico” con Susanna fu un fiotto di emozioni compresse: l’uomo al suo fianco non mi impediva di vedere ascoltare baciare sulle guance odorare (stavo per scrivere sniffare) e stringere mani, ma filtrava quelle sensazioni ed emozioni. Che ne venivano alquanto mortificate. Compresse, appunto. La prima fase dell’incontro si esaurì nelle reciproche informazioni sulle rispettive famiglie. Susanna parlò delle figlie, la maggiore incredibilmente già laureata in medicina e in via di specializzazione neuro-psichiatrica, la seconda diplomata in ragioneria, studiava economia. Notai che non accennò, in presenza degli altri, alle difficoltà e sofferenze della sua vita di madre separata con una figlia anoressica. Naturalmente, io assecondai il suo riserbo. Mia cognata, Luisa, parlò della sua “bambina”, ancora alle prese con gli studi medio-superiori, ne decantò gli ottimi risultati, e via elogiando. Quando rientrò il cognato, altri saluti e sorrisi e cerimonie. Luisa non si era sbilanciata con inviti e complicazioni, ma il capo famiglia sparò subito l’invito a cena. Indispensabile condizione per una chiacchierata espositiva esauriente del problema che, dopo lo scambio delle ritualità verbali, era affiorato come reale e ponderoso movente dell’inatteso evento: il signor Marco Crivelli, buon amico della signora Castrati, si trovava in difficoltà con la burocrazia di quel ministero che sappiamo e la buona amica Susanna, spremendosi il cervello in cerca di aiuto, aveva pensato al suo ex professore di filosofia e al suo intraprendente cognato come persone cui poter chiedere soccorso. In realtà Susanna non poteva aver dimenticato che il sottoscritto, alieno dalla politica attiva e militante, non godeva di fiorenti amicizie altolocate. Insomma, io le servivo solo da ponte per arrivare a mio cognato, del quale doveva ricordare le frequentazioni politiche (e forse anche le massoniche?). Certo, sperava, anzi contava, con tranquilla sicurezza, sul mio personale appoggio presso il fratello di Rina, tornata sua buona amica dopo le riferite tempeste degli anni ormai lontani. Così, anche il mio ruolo era necessario, e non secondario. Già prima di conoscere i dettagli del complicato impiccio, Salvo si dichiarò disponibile.
La cena fu grandiosa (come disse mia nipote). Salvo non badava a spese, quando si trattava di fare bella figura. Massime se con una bella donna. E ancora di più se la bella donna era stata così importante per il cognato sottoscritto, al quale non aveva mai lesinato comprensione solidarietà e, occorrendo, complicità. Dal ristorante di fiducia aveva drenato, via telefono, un menù ricco e vario, a prevalenza marina: pesci crostacei scampi e quant’altro di meglio, per qualità e freschezza, il noto locale potesse offrire a persona di riguardo e a famiglia amica. I due ospiti mostrarono di gradire qualità e quantità, e la serata si sviluppò in gaia armonia masticatoria e ciarliera. Volendo dettagliare, furono soprattutto l’amico di Susanna e mio cognato a onorare la traboccante cornucopia mangereccia. Il qui scrivente, come si conviene a un occasionale dispeptico di capacità gastro-enteriche forzatamente modeste, si limitò ad assaggiare questo e quello del “gran varietà”. E fu presto incapace di ingurgitare fosse pure un ultimo gamberino. Tre qualità di vino innaffiarono il simposio semi-pantagruelico: anche qui, con prevalenza decisa dei due buongustai appena elogiati. Io sorseggiai qualche centimetro cubo più del solito, tanto da contrastare con qualche successo la componente atrabiliare della vibrante ambivalenza in atto. Né mancai di saettare sguardi furtivi alla mia Susy ciacolante in spensierata allegria. La nipotina mangiò, anche lei, più del suo solito, ma ebbe netta preferenza per i dolci finali. E sono certo che il faro curioso del suo sguardo piccato, esplorando l’orizzonte prossimo, puntò più volte sulla direttrice zio–Susanna. Mi chiedo: chissà quanto del mio interesse sfuggito all’incostante autocontrollo avrà colto con birichina soddisfazione di cacciatrice fortunata. Ne avrà fatta esposizione e commento con la ciarliera mammina? Come dubitarne? L’unica, ma debole, incertezza sta nella domanda: ha iniziato la madre la “trattazione” dell’argomento? O la figlia?
Mangiando, si parlava della situazione tecnico-burocratica del Marco postulante via Susanna. Il cognato confermò di potere rivolgersi a persone di peso e fiducia. Ed era quasi commovente il brillio di libidine cratofila nei suoi verdi occhi da favola: se ne aveva, lui, di amicizie forti! La serata si concluse dunque con soddisfazione degli ospiti e dei padroni di casa. Il meno coinvolto nell’affare, cioè io, era anche il più “pensieroso”: pensavo che alla fine della serata eccezionale, ci sarebbe stato un seguito di letto dionisiaco per i due viaggiatori. E, in qualche modo, eccezionale anch’esso: paese nuovo, nuove condizioni alberghiere, e via segnalando. “Pensavo” questo invidioso dolore: “pensum”, peso. L’origine arcaica del pensare-pesare mi si accese nella mneme fisicalistica spontanea con perentoria pressione neuronale. Pensum, peso, appunto. All’occorrenza, dolore. Per me, solo la speranza di chiudere nel sonno propiziato dal buon vino e dalla nutriente cena d’eccezione le fantasie beffarde su quel “dopo” separato.
A meno che... Già: un folletto sgambettante in ilare danza tentò di sgonfiare un po’ la nube di malinconia: a meno che, insinuò ciarliero e benaugurante, l’eccesso dell’ingombro gastro-enterico, e un convergente effetto sedativo dell’ottimo vinello troppo bevuto, non abbiano fiaccato le forze operative del “rivale” fortunato. Forze che la sciagurata Salerno-Reggio (faticosa, la sua parte, e a quel tempo in fase di iniziale cantierizzazione non-stop) aveva pensato, di suo, a provare con severità. Lo speravo sinceramente. Magari nella species di un beffardo flop copulatorio. Un’erectio mancata? troppo breve? molliccia? Alla buona sorte la scelta del medium vendicatore. Vendicatore di che? Ma della mia dabbenaggine, passata e presente. E sia: ma le congetture filano. Sarà stata notte di riposo. Pronto a scommetterci.
Last but not least, mica si può dimenticare, come stavo facendo, quel bendiddio di veleni tabagici ingoiati nel vulcanico ingolfarsi delle stramaledette fumate. Confermo la scommessa. Ma disturbata. Che ne sapevo, io, della resistenza fisica di certe complessioni? Io, così esposto agli scherzi degli eccessi. Ba’. Convochiamo anche l’età del soggetto, che, dopotutto, non era più un giovanotto di trantacinque-quarantacinque anni. Poi un ghignetto allegramente sadico: e le altre notti del soggiorno?
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Quanto precede è l’espansione narrativa di un gramo appunto sulla pagina 27-28 giugno dell’agenda del compiuto decennio, anno dell’ultima mia avventura scolastico-esaminale nella Calamagna. La pagina, divisa in due metà, per il sabato la domenica, non poteva contenere più di quel forzato estratto fugace della registrazione mnestica interna, in sé fin troppo folta di vario materiale. L’agenda è un ritrovamento recente che mi consente di correggere e riscrivere la seconda parte di questo ricordo scheggiato dalla lontananza cronotropica.
Ho scritto “ritrovamento recente” Si impone una divagazione. Recente quanto? con quale referente di anno mese e settimana? quand’è che sto scrivendo queste righe? E quante volte le ho riviste e modificate? Quante ancora, e quali, torsioni subiranno nel prossimo futuro? Ma ecco lo scarno appunto agendale.

“Dies inaudita. Ore 17 c.: s’avviava alla conclusione una lezione sulla logica aristotelica che la cognata mi aveva chiesto di registrare per lei (non ben vedente) quando la nipotina L. ci porta il telefonino con una chiamata di Sa, l’Assente-presente in my life. Omissis. Verso le 21 era con noi. Purtroppo, con il suo “amico”. Veniva a chiedere aiuto al cognato per difficoltà nel suo lavoro. Sono rimasti a cena. Abbiamo trascorso una serata out of usual: piena di buoni cibi, vino e, ohimé, nicotina e catrame in fumo dannato. Fino a mezzanotte et ultra. Lei sempre chiacchierina, prorompente. Un po’ meglio della volta scorsa. Lui un po’ peggio. Quel loro fumare come diavoli!”
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Nei giorni seguenti Salvo contattò il primo anello della catena protettiva, il barone Macarì, noto proprietario terriero della Calamagna, Venerabile della locale Loggia (rito, Grande Oriente d’Italia), buongustaio della mensa e del letto, spregiudicato finanziere, politico di area repubblicana, già deputato al parlamento nazionale e a quello regionale. Il barone avrebbe consultato e attivato gli amici romani, i più adatti dei quali si sarebbero impegnati a concepire e attuare una strategia di contrasto sui nemici interni dell’amico di Susanna. Il cognato informò del movimento l’interessato in una sorta di preludio alla seconda grande cena di quell’estate. Stavolta, su invito dell’ingegnere Marco, che aveva prenotato nel migliore ristorante del paese. Fu un’altra serata memorabile, per me, che vivevo lontano da simili tentazioni ed occasioni. Ma ancora più che per la fastosa cena (dato il mio già denunciato consumo riduzionale di cibi e bevande), per il “preludio” che la precedette nella Grande Casa.
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Ecco la pagina dell’agenda-diario dell’8 luglio di quell’anno.
“Clou: il secondo incontro con Sa. Il suo Mensch und Herr va all’incontro per soli maschi massoni; Sa resta con noi (moi e cognata). Ad un certo momento, verso le 21,30, rimango solo con Sa. Mi racconta i suoi più recenti guai di salute e di vita. Di nuovo la cisti alla tiroide: dice che non si farà operare più (ha subito ben sette interventi, conteggiando i due cesarei). E la gola è bruciata dal fumo. Il padre soffre tanto per il tumore alla prostata. Omissis. Ripenso, da quel balcone-ballatoio dove si incontrarono lei e Rina, e da dove le vidi (ancora giovani, nel 198...) passeggiare da buone amiche ritrovate (lei confidava a metà la nostra intesa degli anni 60), al passato remoto e meno remoto; alle mie prurigini romanzesche, al mito Sa… Le confesso che cosa ha rappresentato per me, quanto ho scritto su di lei… And then I asked her for a kiss lips to lips…even light. She said that it would be dangerous. Why? It could be make up the ancient fire…And it should be dangerous for two persons…Stuffs! Ricordo anche la mia dolorosa rinuncia di allora; e lei precisa che tanto grande questa rinuncia non la si potrebbe proprio dire…Omissis. Più tardi, la cena: opulenta. Al Charlie Brown. Offre il suo man. Ero senza digestivi. Pazienza. Sa allegra. Si vive così, fra la dolorosa coscienza e l’oblio “terapeuta”. Dice (mi aveva detto quando eravamo soli nello studio, e poi nel salone del cognato) che vorrebbe lasciare lui per smettere di portargli jella. Ricorda che aveva avuto corteggiatori ricchi e li aveva sempre respinti. Rimpiange di non avere scelto un partito del benessere sicuro e senza problemi. “Tanto, sono finita sempre così” Eh, sì, sei jellata cara la mia Sa. Che tristezza! Ma non credo a quel rimpianto: troppo pulita per quella vendita.
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Questo lo scheletro narrativo di quella serata ricca: di emozioni e parole, ricordi e confessioni. Ma pure di omissioni. Bisogna che attinga al serbatoio mnestico interno per appiccicare un po’ di carne allo scheletro poco coperto.
Quando la cognata si allontanò dallo studio lasciandoci, così, soli (la nipotina stava fuori con le amiche) ci furono le confidenze di Susy accennate nel diario, e poi le mie, meno condensate delle sue e attente ai punti chiave della ruminazione introversa sulla nostra (e soprattutto mia) avventura.”Soli eravamo e sanza alcun sospetto”. E’ pur vero: non avevamo in mano nessun libro galeotto, ma dentro i cervelli ferveva un brulichio di memorie remote, che il sottoscritto immaginò di uguale temperatura nei piani alti (e bassi?) dei due corpi. Leggevo, in fondo, io, il libro virtuale delle mie memorie. E parlai, traducendo a sprazzi da quei quaderni, a una Susanna attenta e lusingata; dissi il mito ch’era stata nella mia esistenza scomposta e complicata, non garantita abbastanza negli affetti da un vicendevole amore coniugale. Le parlai dei miei diari segreti, del cassetto sotto chiave in cui depositavo emozioni e pensieri legati a lei, profumai di languide gardenie questa seconda vita sotterranea, alimentata, per un paio d’anni, dalla nostra reciprocità desiderante e sottostanti furtivi contatti consumati largamente e variamente minacciati. E poi, dopo l’infausta sua “fuga” senza ritorno, dalla sofferenza dell’“abbandono”. Bruciante sofferenza, con estrema difficoltà contrastata, perfino ricorrendo a un palliativo ambiguo: parlare di lei con Rina, sia pure criticandola insieme alla famiglia. Un mezzo spinoso per sentirmi in qualche modo vicino all’Assente, che da lontano mi tormentava: con i suoi silenzi, le sue promesse non mantenute, le sue bugie (o mezze bugie) sulla salute che ne ostacolava il ritorno. E perfino con le novità seduttive di quel soggiorno-destino, le nuove conoscenze, l’accoglienza calorosa, e via graffiando. Non le nascosi neppure che speravo di fare un romanzo della nostra vicenda. Sì, lei ascoltava con lusingata attenzione, probabilmente frastagliata di flash memoriali. Alla confessione, finalmente libera dopo ventisei anni di quasi totale silenzio sul vibratile tema, seguì quel mio tentativo di strapparle un bacio lips to lips. La sua reazione l’appuntai in inglese per il solito timore di un eventuale (ma così poco probabile, invero) incontro dei begli occhi di Rina con quelle righe rugose. Anche quell’inglese è uno scheletro, ma avrei poco da incollarci ad augendum. Susy temeva di far torto a due persone, Rina, la cui amicizia non voleva più tradire; e Marco, che era tanto buono con lei. Io dissi “sciocchezze”, ma non ebbi tempo di organizzare una replica saldamente motivata. E cioè, (sottinteso) meglio attrezzata per fare breccia sulla...roccia. Che poi così rocciosa non era se potè avvolgere il rifiuto in un dolce sorriso di ostentata saggezza e disse che era meglio di no, che ormai la nostra storia apparteneva al passato, che era preferibile non risvegliare sopiti fantasmi facendo torto a vive presenze corporalmente assenti, ma non perciò meno reali e titolari di diritti. E nominava Rina, l’amica pluritradita, alla quale, disse, le rimordeva di avere rifilato mezze verità e grandi omissioni. In conclusione, il bacio non ci fu. E forse ne mancò il tempo di maturazione operativa, visto e considerato che la cognata ritornò in sala prima del previsto poco vagamente agognante. Comunque fu un vuoto opaco della luminosa serata. Una specie di sberleffo, anche, per Paolo e Francesca. Non solo non ci furono mortali trafitture di infernali metalli, ma anche “quel giorno più non vi leggemmo avante” sarebbe una bugiarda violenza all’alta poesia del Massimo: via telefono, qua e là, il “vibratile tema” fu toccato, “riletto”, sia pure per cenni.
Non trascorsero, davvero, molti minuti prima che ritornasse la cognata. Che forse ci aveva lasciati soli spiandoci per cogliere sviluppi piccanti di quell’occasione ghiotta. Era il tipo da farlo, e lo aveva fatto più volte, nel recente passato, a danno e scorno del marito farfallone, che più d’una volta aveva sorpreso in flagranza di fellonia galante. Sì, era diabolica la piccola polputa Luisella ciarlona. Difficile dubitare che anche in quell’occasione non abbia ascoltato nascosta le nostre parole. Almeno in parte. E magari, quando avrà sentito che Susy non mollava il bacio invano propiziato da tanto amarcord, decise di rientrare. In sintesi: non c’erano le condizioni per un sia pur piccolo strappo, necessario, pur sempre, di quel contrattacco convincente che mancò: né di spazio né dell’altro polo del… relativistico cronotropo! Ci fossero state (così prova a dettare, non sappiamo se la vanità o la perspicacia), lei, certamente, no, non mi avrebbe negato quel bacio per troppi anni desiderato nell’interminabile digiuno. Vanitas vanitatum...
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La serata al ristorante mi vide seduto di fronte a Susy, e io mangiavo gustosa materia di cibi molteplici: paste e carni e pesci e via moltiplicando con bocca mediocremente dentata; e con avidi occhi, vanescenti ma non meno ghiotti ectoplasmi: di viso seno movimenti e mimica loquace dell’ “antica” Susanna ragazza, nella nuova e “vecchia” ancora vistosamente reperibili. Avidi, sì, i miei occhi affaticati dal troppo leggere e scrivere: quasi volessi farmene una provvista per i lunghi anni del digiuno prevedibile. Ma in verità, non previsto, poi, di tanto lunga durata. Fui tentato di fare piedino, ma mi frenai, non trovando la cosa compatibile con la mia età e posizione (sociale e conviviale).
Si fece tardi, consumando e parlando: non più di affari, argomento già esaurito nel preludio, ma di cibi luoghi usanze e cucine locali e politica. Mi pare di ricordare anche una passeggiata finale (dopo la mezzanotte) sulla vicina, sconfinata spiaggia di sabbia e minuto ciottolame levigato. Ma credo che il deambulo si sia svolto quasi tutto sull’asfalto usurato del lungomare e le sue banchine di cotto. C’era la luna? Non la trovo nel rabberciato ricordo dell’agenda.
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La pagina del 9 luglio ospita ancora un cenno a Susanna. Anzi a lei e a Didia, e dunque a quell’area dello spazio-tempo che la dea Mneme custodisce sotto il segno della mitologia umana troppo umana del mio privato cosmo-poetico. Trascrivo la pagina.

Levata, ore 6 circa, a causa della cena pesante di ieri sera. A scuola, due esami di filosofia: una bene e una mediocre. Serata: cena all’Hotel President, offerta dai proprietari, i coniugi Giovanna Diamante (Gianna) e Dario Mammoliti. La cognata, all’ultimo momento, dichiara forfait: non viene. Dice di sentirsi male. Andiamo io, il cognato e la figlia Lorella. Compriamo 9 rose per la signora Gianna, color rosa pallido. Pago io: lire 27.000! Avevo già speso 7000 di Essen. Di questo passo sarò sotto, anche rispetto a un’eventuale spesa (ridotta) d’albergo (quello dove figuro alloggiato per gli esami in corso).
Menu: tagliatelle al salmone, spaghetti alle vongole, antipasto con prosciutto crudo di vario tipo, salmone e limone; secondo con pescespada, gamberi, eccetera; frutta varia, vino bianco siciliano, amaro di varia marca, a scelta… Tanto bla bla su ovvietà: figli, nipoti, ecc.. Sandrina, la maturata sprint dell’anno scorso, ha fallito la sua prima prova universitaria. Mi ricorda sempre Silvana. Era elegantissima. E’ venuta a cena finita, mentre sorseggiavamo l’amaro, sotto la tettoia, seduti davanti allo spettacolo di animazione.
Sono venuti , rientrando, anche Sa e il suo hombre. Il quale le aveva appena comprato un abito, spendendo salato! Soliti casti Küße auf die Wangen e presentazioni. Alla fine rivelo a Sa che la proprietaria dell’albergo è sorella di Didia, la sua compagna di classe. Grande svelamento: Gianna si ricorda di Sa (“ mi dicevo: ma io l’ho vista prima d’ ora…!”). E giù con i ricordi (Adele Tallario, Stella Cirunzo, ecc.), i pettegolezzi su di me e le alunne preferite. Fumo un’altra sigaretta e bevo ancora. Saluti con Küße alla fine (ore 24). A casa. Leggo un po’, mi viene sonno, spengo. Ps. Parlato di Didia con Gianna. Mi dice che il figlio alla maturità ha risolto tutti i quesiti di matematica. Ha avuto 10!
In testa al foglio, a parte: Tel.ta a Rina. Disdetto, a causa di ricor., invito a cena da Frag.ni

Dunque, ancora Sa, cioè Susy. Con pieno gradimento, al primo inatteso impatto (non sapevo, forse, che alloggiavano all’Hotel President). La paginetta rastremata mi riaccende la fiammella emotiva dell’epoca remota: i Küße auf den Wangen ebbero il soffio bramoso del solito registro. Il pieno gradimento si raggrinzò un pezzetto alla notizia dell’abito costoso in campo: io non avrei potuto fare mai un tale dono alla beneamata. Tutta la mia cultura e bravura era e sarebbe stata sempre esclusa da tanto riscontro. Miserabile Stato e vacca società del santo Capitale. Umiliato? Sospiro. Un sospiro che annuisce. Ancora, dopo trentacinque anni? Ancora. Ma con le sottrazioni imposte dal cumulo di Crono sulle spalle.
Ghiotto anche l’amarcord su Didia, Adele, Stella, Mimma, le compagne confidenti, la scuola, quel tempo perduto ripollante dal sottosuolo del limbo mnestico. E il gossip, i cari e temuti pettegolezzi sul mio conto e persona e predilezioni pupillari…Tutto saporito, il pasto che si sommava all’altro, che forse ne faceva il digestivo appropriato. Didia. Sapevo di questo suo figlio prodigio. L’avevo conosciuto bambinello di sette-otto anni, in un viaggio con Rina e Manuela, ospiti di un amico e collega rimasto vedovo, e del suo unico figlio di dodici anni. Didia s’era rallegrata con noi del fanciullo super. Aveva anche una bambina, di qualche anno più piccola del maschietto, e rivedo una tenera scenetta balneare: il bambino dell’amico Beppe Cavalli e la bambina di Didia sdraiati, i loro teneri corpi vicini e innocentemente attratti, curiosi l’uno dell’altro, sulla sabbia assolata della spiaggia jonica calamagnese. Fortunata, la maestrina Didia, con la sistemazione borghese: un marito fisicamente gradevole e innamoratissimo, due figli benedetti dagli dèi. Me ne compiacevo per lei con la sorella Gianna. La quale era alquanto bella e più sexy della magrolina Didia, anche lei fortunata nel matrimonio, un po’ meno con la prole, forse troppo libera. La Sandrina venuta nell’albergo in svampante mise era la maggiore delle due figlie di Gianna. Viziate dall’eccesso di benessere.
Pur districandola dal cespuglioso intrico del suo adolescenziale contenzioso, stentavo a pensare Didia madre di un diciottenne maturando. Che oggi sarà un laureato, forse un ingegnere. Didia anziana: quello scricciolo in love col professore “troppo in alto.” Ma un pensiero ancora mi si sveglia da sotto il compiacimento per la fortuna sentimental-borghese di Didia: non era stata lei a confidarmi, in uno di quei dialoghi serrati, a voce e per lettere, che un difettuccio l’innamorato l’aveva pure lui? era un po’ “mammolino”. Come avrà curato questo handicap la brava Didia? Certo, lo stare lontano dalla suocera avrà facilitato il suo programma di nuora indipendente. Ma va a sapere i dettagli. Un punto certo: la destinazione romana, ottimo coibente.

Altri ricordi convitati nella stessa pagina: Frag. si completa agevolmente in Fragomeni, si tratta di una ex alunna, di gradevole volto e di corpo un po’ robustella, sposata, con marito vivente, e figli.
Non minore l’effetto magia mi formicola nell’interieur al contatto con queste pagine dalla frettolosa scrittura a penna nera, con questa agenda del ventiseiesimo anno. Della quale sono tentato di (anzi, costretto a) rileggere e qui trasferire la pagina successiva a quella della cena d’albergo: l’umore che ne trasuda è tutto interno alla bassa del “dopo festa”, alla sua psico-fisiologia.

Luglio / 10 / venerdì.
Levata, ore 5,30. Pass.ta – caffè offerto. Scuola. Oggi, 4 “filosofie”: tre scarsi e una ottima (Letizia Marando). Cognato e famiglia a Me. Per controllo oculistico. Su e giù con l’umore. A volte, voglia di chiudere. Tutto e subito. Voglia di apocalissi indolore per tutta la baracca planetaria. Anzi, cosmica. – A scuola, oggi, seguito esame di francese.- Confidenze con la graziosa collega, Marisa Catenota: i miei studi e scritti di letter. francese, i suoi dubbi prima di accettare la nomina a commissario (per via della letteratura, che lei non ripassava da dieci anni: insegna al tecnico; ecc.). Qualche mia battuta durante un infelice esame di filosofia (messaggio scritto, con successo umoristico). Passaggio in macchina: da Angela. Che oggi era vestita con spropositata indecenza: da una gonna aderente e corta traspariva lo slip e le cosce e il sedere abbondante…

La pass.ta è la consueta passeggiata supermattutina sul lungomare, con lo show dell’aurora, il caffè al bar Miramare o in altro locale degli impianti balneari sparsi lungo l’immensa spiagga. Offerto, significa che qualche amico me l’ha offerto: ma chi? Ah, saperlo! L’umore lugubre e altalenante non ha bisogno di ulteriori chiose: dopo la “festa Susanna” è normale risposta. Conversazione con la collega di francese, umorismo compreso: armi di distrazione di massa. L’imput, la graziosa giovane professoressa. I miei scritti di letteratura francese: a quell’epoca avevo già pubblicato, come “servizi speciali”, sulla terza pagina del quotidiano La Sicania due mini-saggi su Camus, due su Stendhal, uno su Flaubert (il mini è forse un po’ avaro: si trattava, in effetti, di sei o sette colonne per l’intera pagina, non ancora infetta dalla moda riducente degli ultimi anni). La diabolica Angela trasparente doveva essere la collega di educazione fisica: bel pezzo di gnocca. Starle seduto al fianco mi guariva dalla susannopatia incidentale. Cosa si dicevano queste vicinanze brillanti di malizia? La pagina non riporta nulla. E dire che non è esaurita dal poco scritto versatovi. La fretta che cassa i ricordi. Così non conservo un chiaro disegno del volto.
Striminziti anche i souvenirs dei giorni successivi, memorabili per spanciate para-luculliane su graziosi inviti di amici. Giorno 11 ospiti di un ex alunno del quale avevo esaminato con vero piacere la figlia Anna, bella ragazza ben preparata, di pronte ed esaurienti risposte: da Kant a Marx, da Hegel a Dewey… Video-scrivo la paginetta non priva di elementi titillanti in vari sensi:

Scuola. Nessuna candidata con filosofia, oggi. Però: tre su cinque scarsi e due accettabili. Nulla da certo Pal.ra. Siamo urtati. Il rappr. Chiarisce e peggiora: è figlio di mafiosii. Ci si incazza. Lo bocceremo?
Poi a pranzo da Cuzzaglia, insieme al cognato, che mi viene a prendere al liceo di Boc.no. Aria pura, silenzio, colline coperte di stoppie gialle sul declivio e di arbusti verdi e pini in cima. Cibi squisiti, abbondanti. Annaffiati da ottimo vino. Caldi di premure femminili: la giovane (sotto i quaranta) wife, le due daughters (15 e 18 anni) in shorts. Poi gita a Brunzino vecchio. E, icredibile dictu, salita fino alla cima della roccia incastellata, fino ai ruderi delle due stanze residue. Con rischio e stress. E che spettacolo! Al ritorno: ci ferma la polizia stradale. Solo un furtarello di tempo: qui si cerca sempre il mariuolo latitante. Omissis. E poi ci incontra il collega Mod.ri che mi portava doni… Serata in casa con la dolce Gioelina (Lina), ospite dei parenti. Lina è assistente all’università zanglese, facoltà di Storia moderna. Ha avuto una love story con un barone di cattedra, impostore e sposato. Finita (6 anni) con ”bruciature”. Ora è in forte crisi. C’è un tizio tira e molla.

Quel pranzo fu una delle esperienze più incisive di quella breve stagione congesta di eventi. Le tre donne, tutte e tre di gradevole aspetto e gentili, erano una squadra instancabile di cuciniere determinate a preparare e offrire il meglio in quell’agape d’impegno. Io ero, in quanto commissario alla maturità della figlia Anna, il motore un po’ mitico di tanto interesse, il cognato, in quanto, anche lui, ex professore del marito, un invitato di gradito complemento. Che giornata! Non sapevano cosa offrire alla mia limitata capacità ingestiva e digestiva. E al palato, disposto all’assaggio, sia pur frenato, di ogni leccornia e sollecitazione gustativa. Particolare non secondario: gran parte di quelle meraviglie del palato erano di rigorosa preparazione domestica. E precisamente, di prevalente impegno femminile, con perno operativo sulla madre delle due girls.
Gli altri cenni, più meno strozzati, gravitano sul clima locale di quell’esame. Il tizio che non rispose a nessuna domanda, o quasi, era l’avatar occasionale di un vizio regionale: alla ‘ndrangheta non si può dire di no. Qualunque sia il favore richiesto. Anche nell’inespresso del solo presentarsi. Il rapp. È il rappresentante di classe, il quale, illustrando di luce chiarificatrice la situazione, urtò, se non tutti, alcuni commissari certamente. Tra i quali, il più incazzato mi sentivo io. E forse lo ero.
Mod. è il collega di matematica Modafferi, che mi recava doni in casa del cognato, a Letizia Marina: un capicollo e del buon vino. A che titolo? Non ricordo se qualche suo parente o protetto fosse stato premiato da un buon esame. Ma il collega era anche tipo da fare regali a un amico forestiero per il solo piacere di donare e di leggere l’ammirata gratitudine negli occhi del fortunato.
Gioelina: ospite sulla mezza pagina dell’agenda per il suo charme discreto e attrattivo. La cognata ne lodava apertamente il fondoschiena “a mandolino”, io sentivo quella imspiegabile attrazione che si suole dire “attrazione delle pelli”. A parte il topos invocato, quel suo incarnato tra luna e albicocca mi attizzava abbastanza per un dialogo non epidermico. Anche se forzatamente strozzato.
La men che mezza paginetta della domenica 12 annota più che fugacemente un altro specialissimo invito a pranzo. Recita l’appunto:

Matinée solita. Poi, clou del dì: pranzo a Guardavalle, ospiti della famiglia Sapato. La figlia, Rita, ex alunna del cognato, è anche amica della moglie Luisa, ed è, come si suol dire, “di casa”. Salvo l’aiuta nelle materie universitarie a lui accessibili. Stamattina è stata qui. Siamo andati al suo paese con la nuova Punto del cognato. Si era in cinque, perché Gioelina è stata invitata, anche lei, da Rita. Prima del pranzo, un piacevole bagno (per me, il secondo della stagione). Mare calmo e pulito, spiaggia stile jonico-calamagnese: larga, lunga, comoda da stendercisi e godere il sole filtrato da un ombrellone smorza-furori. Dopo l’abluzione sal-iodata, una bella doccia fresca di acqua pura. Quanto di meglio si potesse predisporre per una festa del serpentone trofico: pranzo sontuoso (ancora uno!), con tante, perfino troppe, portate: antipasti con frutta di mare, ostriche, risotto ai funghi, gamberoni, spiedini di carne, e peperoni fritti e arrosto e ripieni, funghi e altro bendiddio che non ho spazio per ricordare. Dopo il grande torneo ingurgitorio, un assaggio di amaro locale (squisito), caffè (forte) e sigaretta (leggera), per me, cognata e Lina. Viaggio di ritorno: le donne sono andate per conto loro con Rita, io e il cognato siamo rimasti soli. E lui ha dato la stura ai ricordi galanti di fattura recente. Che faccia tosta.
A Letizia Marina, dopo la siesta, bicicletta con Lina e la nipotina. In serata, telefonata da Susy. Avevano fatto un buon viaggio, il suo Marco aveva appuntamento con gli amici del barone, e via notiziando. Ha chiesto di me, le ho parlato. Brividi fra le fibre nervose e muscolari. Qualche pizzicotto anche alle parti inferiori solleticate dalla sua voce leggermente, piacevolmente roca. Nonché “fraternamente” affettuosa. Dentro l’aura coatta dell’avverbio, il filo del prurito memoriale sottinteso.

La pagina del 13 luglio registra sensazioni distraenti dal collagene mnestico. Gioelina, contratta in Lina, vi gioca un ruolo di causa efficiente con le sue forme e il suo charme “solistico”. Trascrivo.

Solite ore 5.30-6.30. Passeggiata marina. Scuola: nessuna filosofia, stamane. Si fa vivo Seby Marano per la serata da passare insieme. Tanta Lina to day. Gesprächsubung a pranzo, con lunga coda salottiera, dopo il pasto. E tanta grazia visiva di ghiotta carne in esposizione innocente: up and down, de la poitrine jusqu’à les appetissantes jambes, insofferenti del caldo afoso. E’ sempre in crisi, anzi sempre più: tempo ed età di grandi decisioni e di correlate incertezze. Tra l’altro: andare in Brasile o no? Sera. Gran movimento in casa per lavori tra un bagno e l’altro, quello di lusso e il suo servo modesto, ma assistito da comoda doccia (l’ho usata tante volte in questo soggiorno di lavoro, che forse sarà l’ultimo della mia carriera). C’è stato anche uno scambio di specchi fra i due siti dell’intimità protetta.
Alle 8,30 p.m., io e il cognato Salvo siamo in casa dell’ex alunna Fragonemi, ospiti a cena sul di lei caloroso invito. Ci aspetta alla stazione di Boccalino il figlio maggiore, studente in legge, che ci porta a casa sua. Calda accoglienza dalla famiglia quasi al completo: lei, il marito (entrambi maestri elementari), i due figli maschi. La femmina è fuori con il ragazzo: l’antica “gelosia” dei genitori è un ricordo del passato quasi remoto. Si sfogliano i ricordi di scuola, le notizie sulle amiche e compagne. Cena varia, con ottima insalata di riso ricca di ingredienti e tante ghiotte piccole cose, spesso specialità della cucina locale. Una foto del 1959 mostra la sua classe, in quell’anno la seconda del biennio magistrale. Riconosco tante ragazze che ho trovato, tre anni dopo, in quarta, cioè l’anno finale del corso. Tra loro, la graziosa, mite sensitiva del primo banco, di cui non ricordiamo il nome, né io né Salvo né lei. Meglio rinnovabile il ricordo di altre, tra cui la Rina a quel tempo much in love with me. Io lusingato ma senza approfittarne troppo. Notizie giunte al cognato parlarono di un coinvolgimento indiretto della ragazza nei tragici fatti di Piazza Fontana. Si vociferò di un’ospitalità di Freda in casa sua, mediata dal suo ragazzo. Se la cosa è vera (e sembra di sì) me ne addoloro. Dice, anche l’ospite, che ne parlarono giornali e televisioni. Mi sembra strano che mi sia sfuggita una cosa tanto coinvolgente. Forse ero malato quando la notizia fu diffusa.
Abbiamo fatto tardi, e al rientro Gioelina era già a letto. Mi affaccio da solo sul terrazzino che sormonta e limita il giardinetto, e mi godo la luna piena che speravo di ammirare leopardianamente con lei.

Le note del giorno dopo appuntano il rientro di Gioelina nella sua città, un piccolo contorno di movimenti ed emozioni sull’evento, l’andamento degli esami al liceo boccalinese. Trasferisco qui sotto quelle note per un’integrazione non estranea all’Assente lontana.

Martedì, 14 luglio
Gioelina ritorna a Zancle: il cognato l’accompagna alla stazione, dove prenderà la corriera di Falarico che la porterà fino ai traghetti. Con lei, la cognata. Ero nel bagno quando sono usciti. Faccio in tempo, correndo, a raggiungerli prima della partenza. Saluti con Küße auf den Wangen. Alcuni minuti tra il mio arrivo affannato e quello placido del pullman consentono brevi scambi di parole e pareri: le rinnovo il consiglio di partire per il Brasile. Sarebbe un’esperienza e un’occasione di meditazione a distanza per decidere sulla tentazione del nuovo legame sentimentale. Per due giorni, intanto, saremo, se dio vuole, senza la co. fra i co. Che silenzio regnerà nella casa!
Interrogazione, stamane, della candidata in ospedale. Ha “dato” fisica come prima materia, e qualcosina ha detto. Poi, come seconda materia, filosofia. E mi ha raccontato un minuzioso Fichte. Poi ho chiesto qualcosa di Schelling, Schopenhauer, Feuerbach. Insomma, me ne ha detto più di tanti cialtroni di sesso forte non infortunati… Osservavo i movimenti delle sue gambe sotto il lenzuolo: l’emozione vi si scaricava tutta. Alla fine l’abbiamo salutata con baci e auguri. Ho dato un giudizio di 7, e in fisica ha avuto 6,5.

Erklärung: sui due co. Il primo significa cognata; il secondo, lasciamolo intuire. I due convenzionali Küße sulle guance furono dati con una piccola lentezza reciproca. Il mio consiglio sul viaggio in Brasile non si scaldò in nessun vero interesse. Gioelina era stata una piacevole compagnia in quei pochi giorni della sua presenza in casa dei cognati.
La ragazza in ospedale era vittima di un brutto incidente: il ragazzo che la portava sul sellino posteriore della sua moto era stato investito da una macchina malguidata da un frettoloso stronzo in sembianze antropoidi. Feriti entrambi, lei a un paio di vertebre cervicali. Muoveva nervosamente le gambe sotto il lenzuolo. Impossibile bloccare quei balzi, quegli scatti improvvisi, quella ghiotta cinetica: veniva tanto la voglia di afferrarle un piede a titolo di incoraggiamento. Il tanto finì in un gesto quasi incosciente di presa digitale: il piede coperto si arrestò docile tra dita e palmo, con un moto di commossa sorpresa: “Non essere così nervosa, stai tranquilla, va tutto bene”. Queste, pressappoco, furono le mie sorrise parolette brevi. Poco beate e beatificanti, ma dette con un discreto trasporto: s’era sentito dire in giro che il padre era un tipo duro e che la ragazza, la sera dell’incidente, aveva detto che usciva con una compagna e amica. Il vuoto di notizie sul dopo mi comunica ancora un po’ di tristezza.
Quanti vuoti nelle nostre povere informazioni.
L’indomani cominciarono gli scrutini. Apprendo dal diario troppo breve che nella prima metà del giorno furono “fatte” le sezioni A e B e nel pomeriggio la C. Gli appunti dicono: “Grande battaglia scrutini. Il solito tira e molla”. Alla pausa del mezzodì i professori della commissione restiamo a pranzo in paese tutti insieme. Nell’agenda sono segnati i nomi delle colleghe rimaste con me. Una di loro ci suggerì un ristorante di sua conoscenza garantito, “La magnolia”. Si mangia bene e si paga appena 25.000 a testa. “Dura la ripresa pom. dopo sì folto pasto e sì largo spruzzo di vini” : così la nota del diario strozzato.
Il giorno appresso si continua con gli scrutini. Diario.
Qualcuno cerca di convincere il presidente a “rivedere” qualche trentasei. Ma non si può. Abbiamo dato solo tre 60/60: 2 in C e 1 in B. Nessuno in A. Ma la classe ha la media più alta. Preoccupazione del collega che rappresenta la V C, dove ci sono figli di notabili con pretese e un rampollo certo di temutissimo boss. Al figlio del sindaco, democristiano, è toccato un dignitoso 52 contro un 60 o, al peggio, un 58 atteso e sollecitato, mentre al suo diretto “concorrente” il rotondo 58 che è sfuggito a lui. Il solerte genitore sindaco aveva “programmato” anche il voto per il rivale: al massimo quel debole 52 che invece è toccato al figlio diletto. Così, nelle confidenze del rappresentante di classe, deluso e quasi preoccupato, poveretto, ma anche intimamente convinto della giusta proporzione che il politico viziato (e potenzialmente ricattatore?) aveva previsto capovolta e infiorata di presunta giustizia. Dove va a ficcarsi la boria familistica. Noi commissari esterni siamo stati piacevolmente piccati da questa obiettiva inversione di esiti.
Rientrando a casa. Notizia bomba: è morta la madre di Cuzzaglia, l’ex alunno che ci regalò quella radiosa giornata di gaudio rimuovente. Ha telefonato lui a casa del cognato. L’ha trovata morta rientrando dal suo viaggio a Letizia Marina, dove era venuto a portarci (a me e al cognato) il pacco-regalo promesso: un capicollo, una ruota di formaggio pecorino,10 litri di vino bianco, altri 10 di rosso-greco. Due pacchi, uguali. Io l’ho”rimproverato” per aver lasciato la madre morente, ma lui dice che doveva farlo…Un buco di lutto nella trama dei programmi. Salta, così, anche il progetto di accompagnamento a Zancle.
Il 17 luglio è una pagina piena, a servizio di un pieno di eventi. La mattinata viene spesa in parte a completare la confezione del pacco-esami e del resto burocratico. Con seguito di consegna in segreteria, da dove il pacco viene spostato in presidenza e chiuso nella relativa cassaforte. Un’altra parte a incassare il secondo anticipo, 2 milioni. Lunga e tediosa l’attesa alla banca, dove mi porta la collega Virginia: che non è precisamente un incanto e perciò non ha titoli per alleviare la noia plumbea dell’attesa. Finalmente riesco e sbloccarmi. Mi congedo da Virginia e mi lascio prelevare dal collega rappresentante di classe della sezione C, Màllano, il quale mi porta in un ristorante immerso nel verde, “L’aranceto”. Bel posticino. Dove si muove, tra tavoli civettuoli e verdissimi aranci, una deliziosa polacchina, bionda, occhi azzurri, tratti fini, corpo snello e scattante, che mi ricorda Susanna a vent’anni. Fa la cameriera nel locale e ne allieta l’aura prosaico-mercantile d’un fiato poetico. In attesa del pranzo, si parla, con Màllano, degli esami appena conclusi, delle “battaglie” durante gli scrutini, e poi di altri argomenti, che svariano dalla politica alla ‘ndragheta, onnipresente invisibile. Che però in questi esami non abbiamo lasciato prevaricare. Si scambia qualche parola con la ragazza, che ci narra un po’ la sua vita recente di emigrata in cerca di lavoro.
Alla fine del lauto, vario, saporito pasto, spruzzato dei soliti vini speciali del luogo, lui, imprevedibilmente, insiste per offrirmi il pranzo. Io resisto per pagare la mia parte, ma alla fine, cedo alla sua insistenza leale e volenterosa. Nel congedarci dai proprietari, lascio (cioè, aggiungo ai suoi soldi) cinquemila lire di mancia per la polacchina. Che ringrazia, sorridente e con lieve rossore sulle guance delicate. Pensiero: chi dei giovani padroni se la porta già a letto o sta tentando di farlo? Pensiero triste, ma sciolto dall’imperativo categorico.
Non è finita: Màllano mi invita a casa sua, dove la simpatica moglie ci offre un gradito tonificante e denso caffè. Abitano in campagna, ma a breve distanza dal paese. Hanno tre figli: due femminucce e un maschetto, tra i 12 e i sei anni.
Sera. Telefono a casa. Con Rina concordiamo che mi vengano a prendere domani. Non dico nulla ai cognati. Ho telefonato da una cabina di fronte alla loro casa. Serata tarda: si va a Roccabella, a prendere la nipotina Luisella, ospite di una famiglia amica. Tutti e tre mi invitano a restare da loro fino a lunedì: mi darebbero un passaggio fino a Villa. Allora dico che, forse, verranno a prendermi i miei, domani. Clou del dì: visita, con il cognato Salvo, a Mimì Cuzzaglia, e ordinazione di un cuscino di fiori per il funerale della madre. Spesa, centomila lire. Ha voluto pagare tutto Salvo. Che corsa! Al ritorno, lui mi lascia al liceo, da dove Virginia mi porta alla banca: ut supra dixi.
L’indomani, nel primo pomeriggio, arrivano i miei: Rina, Manuela e il suo ragazzo. Restiamo un po’ in casa dei cognati, e poi ci trasferiamo all’albergo President, dove pranziamo e pernottiamo. Domenica 19 luglio, di mattina, colazione in albergo, poi bagno in un mare calmo e caldo. Segue doccia. Attesa pranzo, si mangia bene, gli amici proprietari ci trattano da amici anche nei prezzi. Tentativo di siesta fallito. Alle sei pomeridiane siamo sulla superstrada Jonio-Tirreno, in viaggio di rientro alla patria sicanica. Ed ecco, verso Villa, ci arriva in testa una mazzata incredibile: la radio di bordo ci dà la notizia dell’agguato di via D’Amelio. Il giudice Borsellino e la sua scorta sterminati nelle condizioni più sconciamente imprevedibili. Che perciò puzzano di tradimento e complicità istituzionali lontano un miglio. Resto squassato. Colpiti anche gli altri. Ma non quanto me, che mi sento toccato più direttamente per la mia attenzione professionale agli eventi e ne scrivo su rivistine e periodici locali. Il resto del viaggio è tutto un ascolto delle notizie aggiornate fornite dalla radio di bordo. Un’ombra nera si staglia su quella deliziosa carrellata di lavoro gradito e vacanza-premio.
Fino ai traghetti, non c’è che l’ascolto e i miei commenti infocati di rabbia furente e sbalordito dolore. Era stato incredibile l’assassinio del generale prefetto Dalla Chiesa: ma era avvenuto. Incredibile, ancor più, il quasi annunciato assassinio di Falcone, in quel sabato 23 maggio di quello stesso anno maledetto: ed era accaduto anche quello. Preannunciato, si può dire, dall’agguato fallito dell’Addaura (che alcuni, specialmente fra i politici, vollero diminuire in semplice avvertimento). Anche quel “messaggio” aveva avuto dell’incredibile: come avevano potuto depositare quella borsa esplosiva sullo scoglio frontale, in teoria sorvegliatissimo dalla scorta? Nel film Falcone Michele Placido, protagonista incazzato, fa serpeggiare in uno sfogo esplosivo una tacita insinuazione. Fare i conti non era difficile: simili imprese criminali non possono accadere senza complicità interne: senza il tecnologicamente attrezzato servizio dei Servizi segreti impropriamente detti deviati. Ne riparleremo.

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