martedì 28 aprile 2009

Susanna, frammento 25


4 aprile

Si respirano le vacanze imminenti. Ma le sento già finite. Questa fretta del tempo mi deprime. Soprattutto per le cumulate défaillances scritturali.
Il professor Gulizza mi chiede un articolo sul libro di Prezzolini, Storia di un’amicizia. Il vecchio “apoto” lo cita in una nota di pagina 114 (mi ha mandato il libro). La nota riporta due paginette di Novalis (Federico von Hardenberg) tradotte dal Prezzolini e accolte nel suo saggio sul poeta mistico e filosofo. Nelle meditazioni novalisiane vi è l’intuizione dell’eros fagico: una coincidenza che fa trillare di gioia Gulizza. Ecco il frammento:
“Intorno al desiderio, alla ricerca del contatto carnale, al piacere della nudità umana. Non potrebbero essere un appetito dissimulato? / Quanto più vivacemente resiste quello che si deve divorare, tanto più vivace sarà la fiamma del piacere. / Lo stupro è il più forte piacere. /La donna è il nostro ossigeno./ Come la donna è il supremo nutrimento visibile che forma il punto di passaggio dal corpo all’anima, così i membri sessuali sono i supremi organi esterni, che formano il punto di transizione dagli organi visibili agli invisibili. / Lo sguardo, il discorso, il contatto, la stretta di mano, il bacio, il contatto dei seni…, l’atto di abbracciarsi, questi sono i gradini della scala giù pei quali discende l’anima, ma opposta a questa vi è un’altra scala su per la quale sale il corpo, fino all’atto di abbracciare. Dovunque una forza, o azione (quod idem est) si rende transitoriamente visibile, la quale, assolutamente diffusa, sembra non manifestarsi e non operare che sotto certe condizioni (o contatti). Questa forza mistica sembra essere la forza del piacere e del dolore, le cui impressioni eccitanti noi crediamo di provare principalmente nelle sensazioni voluttuose. Teoria della voluttà, l’amore è ciò che ci riunisce insieme. In tutte le funzioni sopra ricordate (ballo, nutrizione, parlare, lavoro e vita in comune, ecc.) c’è in fondo la voluttà, è quasi la funzione assoluta, quella che conduce alla comunione totale, alla miscela chimica.”
Postille. Il “venerando” ha visto bene (e non era difficile): le parole di Novalis preludono a una visione erotofagica. Fatta la tara al romanticume inevitabile del corpo che sale all’anima e dell’anima che scende pei canali degli organi corporei, del misticismo a mezza strada tra Naturphilosophie e scontato spiritualismo idealistico; rimessi, anche, i peccatucci dell’ammucchiata aforistica, difficile dubitare della chiara intuizione fisiotrofica dell’eros. Il distacco dal teorizzare fagologico è solo nella velatura panteisticamente misticheggiante del Novalis rispetto all’asciuttezza empirico-materialistica del Gulizza. Il quale, peraltro, non è che rifiuti il misticismo, se lo si intenda in senso prettamente naturalistico: anche per lui la comunione totale, “la miscela chimica”, nei suoi possibili gradi empirici, fino all’ingurgitazione e assimilazione fagico-molecolare, sono un fatto mistico. Ma non del misticismo maiuscolaro, cioè spiritualistico e dualistico-metafisico.
C’è qualcosa di repellente, in questa radicalità ermeneutica, qualcosa che accende una reazione di rifiuto immediato. Ma se si matura la pazienza di sondarne tutte le implicazioni e potenzialità esplicative di una vasta fenomenologia criminale, convenzionalmente relegata nel comodo limbo inesplicato del “mostruoso”, lo sforzo di testarla more geometrico diventa meno impervio. Se ne ricava, allora, luce di chiarificazione del binomio sadismo-masochismo, dello stupro, del delitto sessuale, fino al non plus del teriomorfico, il cannibalismo amoroso.
Il passo parzialmente trascritto sopra non è l’unico testimone di questo orientamento fisiotrofico; sempre nei “Frammenti” curati dal Prezzolini si possono leggere altri passi: “Ogni cibo, ogni appropriazione e assimilazione è un mangiare, o meglio, il mangiare non è altro che un’appropriazione. Ogni cibo spirituale può dunque essere espresso mediante il mangiare. Nell’amicizia si mangia infatti del proprio amico e si vive di lui. E’ un tropo quello di sostituire il corpo allo spirito e, durante il pasto in memoria di un amico, inghiottire ad ogni boccone la sua carne e a ogni sorso il suo sangue, con fantasia ardita, ultrasensibile. Certo, al gusto molle del nosdtro tempo ciò appare barbaro...” Ancora: il pasto, per Novalis, è il nucleo basale e il simbolo della vita in generale; tutte le epressioni e modalità del vivere sono riportabili al nutrimento. E non stupiscono, perciò, i ben noti effetti ‘espansivi’ della tavola
imbandita. Ma ecco ancora Novalis: “Il mangiare suscita lo spirito e l’umore – per questo ghiotti e gente grassa sono così spesso arguti e mangiando sorge così facilmente lo scherzo, la gaia conversazione! Esso influisce anche su altre solide capacità. A tavola si discute e si ragiona volentieri e più di una verità è stata trovata sedendo a tavola. L’arguzia è elettricità spirituale – per questo occorrono corpi solidi. Anche amicizie si stringono a tavola, più facilmente fra la gente più rude: chi non presagisce qui un magnetismo dell’anima? L’ora della mensa è il periodo più meraviglioso del giorno, e forse il fine, il fiore del giorno. La colazione ne è il bocciuolo. Gli antichi si intendevano anche qui assai meglio della filosofia della vita... – Tutto deve diventare alimento. Arte di trarre vita da ogni cosa...”
La stessa sensibilità tematica si coglie, variamente atteggiata, nei novalisiani “Inni alla notte” e nel suo “Inno alla comunione” (trad. italiana, Milano, Ceschina, 1959) ––
*
Stamane, a scuola, aspettando che dalla classe di Susy uscisse il collega di Disegno, m’è accaduto di guardare dentro l’aula, attraverso la porta socchiusa. E ho avuto un tuffo al cuore. Anzi, allo stomaco. Ho visto alcune ragazze in pieno abbandono di risate gaudenti. Il nesso subito postulato dal lampo visivo fu un rapporto tra quelle grasse risate e ignote battute umoristico-pruriginose del collega artista. Che è giovane, non brutto, scapolo e…disponibile. Dirai, quaderno: che t’importa delle alunne solleticate da un giovane professore di arte e disegno? Ti spiego, quaderno (tardo di comprendonio): tra quelle alunne, non meno agitata delle compagne, stava lei. Lei, sorridente, anzi di più, ridente e sghignazzante, allegramente, in coro con le altre. Così la registrò la corteccia occipitale, servita dal doppio ingresso ottico degli occhi, dal primo all’ultimo lampo. Susy si divertiva, era allegra, sentiva, come le altre ragazze, la presenza del giovane maschio. A sua volta, allegro, e sorridente. E, ovviamente, “stimolante”. Che cosa stava dicendo, cosa aveva detto appena prima? Lo so che basta poco, assai poco, in, e da, un giovane professore per eccitare delle normali ragazze di diciotto, diciannove, venti anni. Ma la curiosità mi bruciava le meningi. Più correttamente: la gelosia. La quale secerneva una curiosità tutt’altro che svagata. Anzi, assai vigile e problematica.
Insomma, un po’ di analisi. Che cacchio pretendi, Paolo della Damasco capovolta? che una ragazza, sol perché non insensibile all’interesse di un uomo, debba chiudersi a ogni interesse per altri? anche di sola e semplice eccitazione epidermica occasionale? che debba blindare la propria naturale sensibilità? Proibirsi perfino di farsi una franca risata a qualche battuta di un giovane professore che non si identifichi con la tua magnificenza loquace ma scarsa di “alimento novalisiano” (o, almeno, incompleta)? Sei geloso che lei rida davanti a un altro, alle parole di un altro, che risponda agli stimoli di altra, e corporalmente più quotata, fonte e sorgente di naturale polarizzazione sessuale? Vergognati, Paolo senza Pietro.
E mi vergogno, sì. Ma l’operazione non ha dato, non dà ancora, tangibili e soddisfacenti risultati curativi. La scenetta mi brucia stasera come mi bruciava stamattina. O quasi. Lei allegra lontano da me, addirittura davanti a un possibile concorrente bene armato; Lei viva e reattiva fuori di me, della mia casa, del globo invisibile, ma realissimo del mio interesse occhiuto e meticoloso: mi è sembrata quasi una bestemmia, una profanazione, una specie di sacrilegio…
Va be’, calmati. E va’ con dio. L’età per tornare, di tanto in tanto, coi piedi per terra, ce l’hai. L’età e l’esperienza. Usale. E non rompere. Le ultime battute salgono dal quaderno. Sembra sghignazzi lui, ora, dalle sue righe nere, dalla faccia bianca, che si viene maculando con gli sgorbi della mia penna (stasera, verde). Ad maiora.

p. s. [La parte di diario riguardante la scenetta scolastica con Susy al centro, scritta in quel quaderno con frettolosa incoscienza, era stata stralciata successivamente e nascosta: viene recuperata in occasione di questa trascrizione in videoscrittura]


5 aprile

Leggendo Storia di un’amicizia, e spigolando tra le perle papiniane.. Eccone una tipica: “Per certe azioni l’incoscienza raddoppia la forza, e le nostre più belle vittorie furon quelle di cui ci avvisammo dopo” (lettera del 30 / 3 / 1902). Verrebbe fatto di postillare: Vittorie a parte, l’incoscienza, parziale e a volte quasi totale, sembra essere stata la condizione psicologica normale del Papini giovane. E forse ne contagia l’amico, che dei due sembra il più realista e concreto (pur pagando lo scotto allo “spirito del tempo”). A sentire queste lettere, i due amiconi, modesti quali sono, inseguono il piccolo sogno di farsi dio. Don Giovanni vagheggia di potere, un giorno vicino o lontano, ma più vicino che lontano, dire come Geova: “Io sono quello che sono”. O giù di lì. E scrive a don Peppino: “Io sono ansioso di sapere a quale nuova opera hai dato mano – intendo opera interiore e non di segni e parole. Finché noi saremo uniti ci sarà dolce seguire il nostro cammino – noi passammo insieme per le borghesi pianure positiviste e per le fratte dello scetticismo – noi ascendiamo insieme le cime della vita e della libertà” (Ibidem).
Sì, delle “parole in libertà”. Questi puledri scomposti si pascono di droghe verbali e le scambiano per distillato nettare elisio. Opera interiore! Masturbazione della fantasia eccitata, piuttosto. Le cime della vita e della libertà: eiaculazione di parole sceme di peso concettuale, pure sonorità che vellicano l’orecchio della vanità.
Non mi riferisco tanto al Papini di queste lettere, ancora parzialmente scusabile per la giovane età (costipata di frettolose letture onnivore), quanto al Papini adulto, al Papini di poi e di sempre. Quello che, mutatis mutandis, ma non mentalità, incontrerà, sotto diverse apparenze, lo sproloquiante di queste altre frasi: “Io ho bisogno di essere forte, ed è già un aiuto il credersi forti”: vis verborum! Nessun dubbio sul rischio di certe scivolate, o ruzzoloni. O amari risvegli.. Questo Parsifal d’un santo Graal cartaceo suggerisce al degno compare “la calma della cosciente superiorità – la serenità di colui che sa di essere perfetto”. Va bene la giovinezza e la malcerta coscienza, ma qui siamo al clownesco. Se poi si pensa che ci sarà, quarant’anni dopo, un certo Giaime Pintor che più o meno alla stessa età sa, sente, ragiona, e soprattutto opera come un adulto virilmente compiuto, e insomma, cosciente, responsabile e coraggioso
(oltre che veramente colto, e non solo arruffatamente erudito), il confronto s’impone e non suona pietoso per il clamante Papini. Pietoso, e più che tale, il pensiero di Pintor, martire di una fede che gli ha rubato la vita.
Dalle emissioni sonore papiniane, tuttavia, ci si allontana con rammarico, tanto sono buone a curare certa ipocondria. Senti, quaderno: “Chi vive in mezzo ai lebbrosi senza contaminarsi è più forte di colui che ne sfugge il contatto”. I lebbrosi sono gli uomini comuni, chi li fugge per aristocratico disgusto demiurgico è Prezzolini. Il quale, evidentemente, non sa, come invece sa l’amico, che “nessuno è solo, e per quanto si fugga lontano noi portiamo dei pezzi di catene e degli echi indomabili” (6 / 4 / 1902). Nel trionfale climax si sgonfiano anche queste vescichette di verità e monta il clangore delle sparate. Il papà del Leonardo non coltiva dubbi sulla perfezione: “Se chi leggerà non dirà, caro mio, che con questo numero del Leonardo l’Italia ha quello che da secoli gli [sic] era mancato / dopo il gran secolo XIV / è un cretino definitivo e immutevole, incatenato e inchiodato a una idiozia immisurabile” (18 / 3 / 1905).
Insomma, vita di chiacchiere rotonde, questa dei due compari euforici malati di juvenilite acuta; libertà del capriccio irresponsabile per mancanza di coerenza cognitiva e di maschia dignità. Giusto quella che consiglia modestia, senso del limite, del relativo comparativo. E del ridicolo. Coordinate, dentro le quali soltanto si può apprezzare quel che di buono si possa realizzare. Anche da giovani non annebbiati da overdose di dopamine narcisistiche.
Che altre espressioni potrei usare nel programmato articolo? Vedremo. E terremo presente le scudisciate di Gramsci, naturalmente. Eccole, godibili come dolce cassata sicula, a postillare quella pomposa quanto buffa damasco. “Anche come gesuita, il Papini non sarà mai più che un modesto apprendista. Questo è un vecchio somaro che vuol continuare a fare il somarello, nonostante il peso degli anni e gli acciacchi, e sgambetta e saltella turpemente” (Letteratura e vita nazionale, Einaudi, pp.161-164). Naturalmente, non sarò cieco davanti a qualche buona pagina del Papini meno “dopato”: per esempio, a quelle di “Schegge”. Ma non soltanto.


6 aprile

Lavoro all’articolo su Papini-Prezzolini. L’ho già annunciato al redattore della pagina letteraria, l’amico Ciaccò. Il quale mi raccomanda di non superare le tre cartelle spazio due. Impresa per me difficilissima. Logorroico come sono, tendo sempre a smarginare da ogni proposito di “contenimento forzoso”. Sarà la solita piena, e dunque la consueta sofferenza, una vecchia conoscenza: rinunciare ripudiare tagliare mi somiglia a una mutilazione organica. E non mi dire basta volere: sono vent’anni e passa che “voglio” senza riuscire a evitarmi tagli e dolori (miei e altrui).

*
Nel pomeriggio, lezione di italiano a Susy. Argomento, Manzoni, La Pentecoste, Il Cinque maggio. Forte tentazione di liberare il malumore contro l’enorme “rimozione” sottesa alla prima composizione, questa serenata teologica vaiolata di omissis spudorati sulla “creazione” e il “senso del mondo”. Ma resisto: non c’è tempo (neanche per qualche fugacissimo cenno polemico); e non ne varrebbe la pena. Meno indigesta la seconda, pur nella sua mediocrità melensamente pensosa e strombettante. E soprattutto malgrado la sicumera farmacologica del “Bella, immortal, benefica…”, e relativo trionfalismo bigotto: chi garantisce l’ultimo trionfo?
L’attenzione di Susy è oscillante e crivellata di sbandamenti. Riesce a irritarmi, a volte. Pur conoscendo, il sottoscritto, la ragione principale (e radicale) delle distrazioni ricorrenti. Come dici, quaderno? La vorresti sapere anche tu? No, non è il caso. Magari un’altra volta. Oppure le rivelerò a qualche tuo fratello. O figlio (foglio) di questo ventre. Vedremo. Intanto, sta’ buono. Anzi, ripassati le pagine precedenti: in qualcuna troverai la risoluzione dell’enigma.
Lezione a Susy. Si torna a Leopardi.
Variazioni (collaterali) su tema. Mistici cocktails novalisiani, con ritmi di presenze tridimensionate e curve di onde mnestiche materializzate in attualità pulsanti. Fusione di minitempi a sbriciolare chances tattili sulle dita gentili inarcate a premere il rubizzo turgore del mistero ontologico. Ah, il mysterium magnum così perentoriamente onticizzato nel suo cilindroide infebbrato! E l’intelligenza prensile di lei, come bene afferra il concetto del soffrire leopardiano! Occhio di Dio, tu brilli nel rosso del sangue estuoso, e la tua morte che si appressa nel simbolo della ricorrenza scandisce attese profane bestemmianti di santità rubate.
Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel, consorte / ai lugubri miei giorni, / pensier che innanzi a me si spesso torni, / di tua natura arcana / chi non favella? Il suo poter fra noi / chi non sentì?
Eccoti nel bozzolo dell’allusione mimetica, “possente dominator”. Col sapore di morte che completa il binomio: Amore e morte, Eros e Thanatos, Leopardi e Freud, e magari l’eros fagico. Ma qui Il pensiero dominante evoca sinergie più prosaiche. Che, da un lato, guardano al “brutto / poter che ascoso a comun danno impera”, dall’altro a eventuali svelamenti di altari e tabernacoli infra ed extra-moenia. Tanto, di allarmi e memento, suona il sartriano nulla, pieno di contingenza, insomma, il disincanto scheggiato di A se stesso. Intanto è droga che circola nel sangue questo sapore di morte che accompagna, ombra fedele, le estasi strozzate del preliminarismo coatto e beato.
Lezione di italiano a Susanna. Vaghe stelle dell’orsa, io non credea / tornar ancor per uso a contemplarvi […]. Eppure, eccoci qua: a sorbire nettare olimpio e miele dell’Imetto.
Ahimé, sconcia crudeltà del tempo che ci sfoglia, tremule margherite ad esaurimento allotrio. Come rotolano questi giorni, che tenue cera al sole estivo, queste ore. Quanti anni sono passati dall’ultima volta che vi lessi, o Ricordanze? E cosa è rimasto del vostro accumulo scomposto? Ah, che questo turgore di realtà realissima non sarà, domani, che attossicati fantasmi di sbrindellata memoria.
*
Trentaquattro anni. Dieci da che ci siamo conosciuti, Rina. Dieci lunghi, accidentati rosari di giorni, o mogliettina. Trascorsi come una settimana, volati come il fumo velenoso di questa sigaretta, che scandisce nuove attualità. Nuove, nuovissime, eppure stranamente simili ad altre già seppellite nel “pozzo del passato”: alle nostre di tanti anni fa, per (magno) esempio. Ad altre, prima (e non solo) di te, per esemplarità meno grandi. Dieci anni, dieci mesi, dieci giorni: una volta trascorsi, questa sensazione avara restringe e pialla ogni misura e distinzione. Sia tu maledetto, ordine disordinato del mondo sbagliato. Vorrei non svegliarmi più, stanotte.

Pensiero scemo, pensiero bugiardo. Al massimo, riscattabile con questa piccola infinita integrazione: che il mondo tutto sparisse. O almeno, il malfatto abortume animale al di sopra della minimale complessità strutturale che consente il dolore.

Ho fatto una piccola reprimenda a Susy per la “scenetta” col collega di disegno. Sinceramente sorpresa, lei chiese a cosa mi riferissi.. Spiegai, e lei si fece una eburnea risata a piena oralità di suono e seduzione. Tritolo? Raccontava solo barzellette, a lezione finita e in attesa del collega, cioè di te. Affascinante, lui? volevo scherzare, io? Ma se noi alunne lo chiamiamo “Caron dimonio”! E perché mai lo chiamereste così? Ma perché ha “gli occhi di brace”, non lo vedete, voi colleghi?
Sì, lo vedo: ha una blefarite che gli arrossa le palpebre. E i globi oculari gli sono un po’ sporgenti (ovati, direbbe Don Luigi agrigentino). Ma questo lo renderebbe meno appetibile, signorine? Andiamo! Lei appare ancora sincera quando assicura che, in ogni caso, non è il suo tipo.. Sì, ammette (se proprio insisto) che, tutto sommato, non è da buttare; e che a tante sue compagne solletica la fantasia. Ma, appunto, non incontra i suoi canoni estetici. Senza contare, precisa, risentita, che il suo cuore “non è un albergo dove si possa entrare e uscire a piacere ”.
Touché. Riprendiamo la lezione.
“Io gli studi leggiadri, / talor lasciando e le sudate carte…”.
A chiusura di quest’altro episodio didattico, il mediocrissimo Mister Hyde che mi abita sguscia dalla cute della serietà cattedratica e (particolare dirimente sull’originale) dietro la maschera-volto del Dottor Jeckill imbraccia il pugnale del desiderio e tradisce il suo tempo traditore. Spasimi senza domani, bagliori nella notte di un altrove non coordinato. Resterà il rimpianto. Ad alimentare anni e consolare danni. A volte ho la sensazione di lavorare esclusivamente per la memoria: approntare materiali per il trattamento mnestico. Naturalmente (o in prevalenza), filtrato e risolto in traduzione verbale, scritturale, letteraria. Illusione, probabilmente. Anche Giacomo di Recanati confessava di scrivere per ereditare conforti nella tristizia dei (degli eventuali) provetti giorni.

Ma passiamo ad altro Grande, e gustiamone il vendicativo sadismo evocato da quel capriccio appellativo stuzzichevolmente uterino: Caron dimonio! Ed ecco verso noi venir per nave / un vecchio, bianco per antico pelo, / gridando “guai a voi, anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo /[...] Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, / cangiar colore e dibattero i denti / ratto che ‘nteser le parole crude. / Bestemmivano Dio e lor parenti, / l’umana spezie e ‘l loco e ‘l ‘tempo e ‘l seme / di lor semenza e di lor nascimenti. / Poi si ritrasser tutte quante insieme, / forte piangendo, a la riva malvagia / ch’attende ciascun uom che Dio non teme. / Caron dimonio, con occhi di bragia / loro accennando, tutte le raccoglie; / batte col remo qualunque s’adagia./(Inferno, c. III)
A definire la Divina Commedia “danza della vendetta” è stato il prof. Rama. Su input del prof. Gulizza.
*
“Ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela”. La mia mano è lenta e la faticosa tela mai non finisce. Cioè finisce male. Con la spinta del Caso e lo sprone tormentoso dell’Angst in regime di vaga randomness. Ah, fortunati momenti di aiuti inattesi, potessi inchiodarvi, imbalsamati, sul muro dell’eternità!
“Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno”. Infatti, come dire certi rivolgimenti molecolari che mimano rapimenti estatici e scusano i promotori ciarloni che nei secoli cianciano di muse cuori estasi anime e trascendenze? Il segreto della memoria li cancella nell’ineffabile vissuto. E panta rei. Ma “imbalsamati”, poi? No, anzi: vivi e caldi li vorrei, non inchiodati, come farfalle collezionate, sul drappo immobile dell’eterno. Intatti e pronti all’uso, al ritrovato uso. Al cerchio dell’eterno ritorno, insomma. Più correttamente: in sonno, ma ridestabili e chimicamente rivitalizzabili.
“Che pensieri soavi, / che speranze, che cori, o Silvia mia”. Che pensieri di carne, che speranze di liquidi approdi, che cori di ben costruiti esiti effusivi, o Rina mia! Né solo questo, oh no. C’è lui, il nostro piccolo lui sovrano. Che domina tanta parte della nostra vita. C’è questa specie di miracolo parlante, Giampiero, sgambettante e festoso “dono del cielo”, che ci vieta di rinnegare dieci anni di accidentati diagrammi sugli assi cartesiani del corpo accesi dall’amore. O da qualcosa di molto simile. Ah, “annate” di sere lontane, rosari di carne sotto l’occhio di Dio. Resurgit tempus? Ma sono trentaquattro. E quanti me ne rimangono? Mi capita di compitare ipotesi di durata: a volte lunga, altre mediana.
O improvvisata donna dello schermo, ti chiedo scusa di questo imprevisto ruolo, indotto casual della necessità. Capita che “la man veloce” percorra “la faticosa tela”. Simbolo nuovo della vita che fugge. “Ed alla man veloce…”. Ma lenta, piuttosto, ihr Hand. Sulla tela della poesia. E della sofferenza redenta del nostro Poeta. Oh lenta ginestra …

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