domenica 12 aprile 2009

Susanna frammento 22


16 marzo, ore 21

“Basta, basta! non ce la faccio più, la finirò!” – Dai bagni delle ragazze queste parole drammatiche arrivarono, scavalcando il muro che li divide (al di sotto del soffitto), in quelli dei professori, dove svuotavo la vescica. Aspettai nel corridoio la fanciulla che le aveva gridate, con voce incrinata di rabbia e dolore, alle sue compagne più care, e le chiesi che cosa intendesse dire. Intendeva quello che diceva. Alla lettera? Sì, pensava al suicidio. Era disperata – confessò. Ma perché, di che? Difficoltà in famiglia e con lo studio, Liebe, e altro ancora. Provai a confortarla. Riuscii a calmarla un po’, perfino a farla sorridere. Ah, questa scuola!

Postilla di un trentennio dopo: era Susanna? Il dubbio, minimo, e quasi di puro scrupolo, s’è spento in un flash: certo che era lei. Un appunto a parte, casualmente ritrovato tra le pagine di un libro molto metafisico, me ne dà certezza…postuma. Il libro è il teutonico Hollzweg del grande Heidegger, tradotto in italiano col titolo Sentieri interrotti (qualcun altro l’aveva tradotto con Sentieri che si perdono nel bosco: troppo “plurale”.)
*
Ho fatto (ancora!) sogni tremendi stanotte. Un mosaico di figure e situazioni simboliche perfettamente calzanti con altrettante mie ansie e timori, e con gli stimoli reali che li avevano provocati. Invidio il filosofo e pedagogista Gino Ferretti: aveva la pazienza di scrivere i sogni che faceva subito dopo averli sognati. Era capace di alzarsi anche più volte nel corso della notte, per evitare la cancellazione, anche soltanto parziale, del sogno, così facile a una certa età.
Il sogno, dunque. O piuttosto, un condensato. Perfino caotico, fatto più di sensazioni e lembi di visioni, immagini sfocate o a brandelli, che di sequenze coerenti e integre. Mia moglie esposta alla maldicenza, il bambino malato, ridotto a una maschera della fame indiana (riemersa in questi giorni sui media); o quasi; il corpicino rimpicciolito, bagnato, sporco. Gli occhi, già così belli di viva luce, ora sbarrati da un terrore profondo e come rassegnato. Dentro, il mio cuore in subbuglio disperato. Lacrime incontenibili mi accecavano di pena e paura. Degli imbecilli, semplici conoscenti e colleghi euforici di chissà quali immaginari successi, contrapposti a non sapevo bene quali miei errori e fallimenti; la loro allegria e la mia tristezza di piombo, senza barlumi di speranza, senza ragioni e conoscenza. Che volevano, dove eravamo? Perché quel confronto penitenziale? E poi, trasferimenti di fisionomia da un imbecille all’altro, in un vortice di metamorfosi, sullo sfondo di un’ oscura percezione della loro comune imbecillità. Ma percezione impotente di fronte alla sfrontata baldanza irridente di quella stupidità diabolicamente trionfante. Dove eravamo? A Roma, fu chiaro a un certo punto. Ma una Roma di fantasia, con strade sporche e sporchi abitanti pasoliniani. Stavamo, io mia moglie quei colleghi, in una pensione strana, vagamente fantomatica. E poi incontri su una terrazza, con quegli stronzi ignoranti, che però avevano preso trenta e lode alla prova scritta del concorso a cattedre di filosofia. Il solito branco di raccomandati, pensai. Un corridoio lungo, con me che corro in cerca di mia moglie, seguito da uno stuolo di alunne, che io temevo come pericolose testimoni possibili di eventuali situazioni imbarazzanti. E dunque soffrivo di non poter eliminare quel codazzo non richiesto. Mia moglie, infine, eccola là, sulla terrazza di una compaesana di pessima fama, con un nastro civettuolo intorno alla fronte, un’aria di semispavalda noncuranza, quasi sprezzante. E con questa aura nuova, temibilmente insolita, anzi del tutto estranea alla sua normale fisiologia, mi mostra il bambino, malato e derelitto. Io grido disperato, chiedo che cosa e come sia successo, e lei, Rina, la mia dolce Rina dal viso di Madonna, sfigurata dalla sfacciataggine, risponde con disinvoltura accusatrice. Come volesse dirmi: vedi a che bei risultati si viene con i tuoi comportamenti? A questo punto mi sveglio, gridando. E mi ci vuole un po’ di tempo per ritornare alla realtà. Così consolante, così teneramente rassicurante, dopo l’orrore dell’incubo. Rina era accanto a me e dormiva il sonno dei giusti. L’ho svegliata io, con le mie grida, e mi ha a sua volta aiutato, scuotendomi, a svegliarmi del tutto. Ero sudato e ancora in tachicardia, mezzo dentro e mezzo fuori di quell’orrido senza sconti. Lenta, ma vieppù beata, la ricomposizione mentale ed emozionale. Sì, piacer figlio d’affanno.
Nella ritrovata realtà, invece, lei è angustiata, più modestamente, dal timore di una gravidanza non desiderata, né desiderabile: sarebbe troppo presto, con il bambino ancora piccolo, appena tre anni e nove mesi. E lontani, poi, dal nostro paese e da tutti i parenti.
Qui ci starebbe un mio atto di dolore, lo so. O almeno, uno spietato esame di coscienza. Dallo per compiuto, quaderno. E rimandiamo l’ingrata operazione a giorni meno agitati.
*

Salute. Trafitture nervose alla regione cardiaca. E forte ronzio alle orecchie. Umore: prevale il senso di insoddisfazione. E di inutilità inguaribile. Tempo sciupato. Quanto! I soliti bei propositi librati nel cielo delle buone intenzioni non realizzate. Nausea para-sartriana. Reiterazioni varie di crisi asteniche.

Ma anche l’eco insistente (musicalissima eco) del last saturday full with her. Ah, l’operosa hand, insinuante e reticente! E le ricolme tazze dell’ambra di Afrodite. Ancora il vecchio mélange di piacere e dolore. In questo, nel soffrire, oltre al “non compiuto”, al freno che priva e sanziona, anche l’impossibilità di dire. A chiare note. E magari squillanti (del rinnovato prodigio, tuttora consegnato alla meraviglia).
E che resta? Che cosa resterà di tutto questo? Il morso del Tempo.
L’orologio del municipio suona le nove e mezza.
Eheu, Postume, Postume, fugaces labuntur anni! Caro Orazio, prima che “satiro”, scrutatore attento del tedium vitae vitando. Fugaces labuntur, sì, anche i mesi. E galoppa il Tempo verso la Grande Prova: maturità magistrale.



17 marzo, ore 17

Il giorno declina, sono le cinque della sera. Non mi sovviene di Ignazio e delle sue terribili cinco de la tarde. Frugo, invece, Leopardi. Lo spiego a una mia alunna.
L’infinito. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle/ e questa siepe che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. L’ostacolo che limita l’orizzonte apre, per contrasto, spazi sconfinati e silenzi attoniti, dove l’immaginazione dilaga, nutrita di pensiero e sentimento. Vaghi moti del pensiero rimemorante, vaghissimo tremito del sentimento. Dalla quiete delle cose intorno si comunica all’anima una tenera serenità. Il fruscio del vento tra le piante, il saltuario trillo d’un uccello, magari nascosto agli occhi, lo schiocco di foglie secche mosse dall’insetto o dal serpe che avanza invisibile incidono quel silenzio di evocazioni soavi, iridate di simboli. Si pensa alla storia, anche, al suo fragore di epopea e tragedia, alla vita ambigua, ora dolce ora terribile. Ma qui tutto si appiana, un desiderio vago, senza oggetto, cioè non vincolato a un ben definito contenuto, circola nel sangue, si vorrebbe cedere a un’illusione d’eternità, mentre ogni moto intorno è mentore severo dell’universale scorrere e finire. Ogni realtà chiusa e conclusa perde consistenza, si apre, si scioglie in un magma confuso: volti, fatti, attese, dolori e gioie, fluiscono nell’indistinto, una sorta di respiro cosmico che instilla un languore voluttuoso, un dolce, pacificato cupio dissolvi. Si accende, il pensiero, di obliviose certezze vissute, di panteistiche promesse di eternità spersonalizzata, ma dolce, appagante: “E il naufragar “ci” è dolce in questo mare”. Miracoli del misticismo. Brevi, peraltro, e non legittimanti extrapolazioni metafisiche o ebbrezze positivamente religiose (pur tante volte tentate e maldestramente proposte da campioni di un cattolicesimo militante e, di più, arrogante). Nient’altro che questo sentimento panico, questo sentirsi vivere nel gran Tutto e come sua parte integrata, convinto frammento che piega verso il grembo delle mitiche madri: disponibile materia cronotropica per nuove combinazioni strutturanti. Non è questo l’autentico misticismo? Non per caso, nei secoli, la Chiesa ne ha sempre diffidato: l’intenzionalità naturale dell’atteggiamento mistico è il panteismo fusionista, disindividualizzante, non la quiete conformistica nelle distinzioni canoniche: l’anima semplicetta e bene individuata, l’al di là personalizzato, il giudizio singolare, il redde rationem tribunalizio e antropocentrico, come il dio personale dell’infantilismo credente.
“Vedo con sgomento questi spazi dell’universo che mi rinserrano”. Così Pascal. E come può lo sgomento mutarsi in godimento, in vaga, silenziosa voluttà? Che capiti al credente, è normale, si capisce: lui si tuffa nella fiducia sconfinata, nel grembo protettivo del divino garante. Ma capita anche al non credente, di sentire lo sgomento capovolgersi in delicata voluttà. Come mai? Forse perché nell’immersione mistica finisce con l’infilarsi uno spiraglio di speranza. Un tenue filo che, sotto la certezza empirico-matematica dell’eterno circolo consumatore di forme e corpi e memorie, faccia respirare un vago chissà. Magari rivolto al futuro della scienza, e della tecnica, al futuro del mondo, alla zona d’ombra che limita il meriggio (del resto, sempre chiaroscurato) della conoscenza sicura, del sapere garantito dal controllo fattuale e algoritmico. Chissà? Non sempre è facile penetrare le ragioni più profonde del cuore umano.
“Alle volte l’anima desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi…La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora, in luogo della vista, lavora l’immaginazione, e il fantastico subentra al reale…”
Aveva ragione Schleiermacher di esaltare l’immaginazione, e Huysmans di celebrarne i trionfi? Forse. Creatrice di mondi, l’immaginazione. Tanto più appaganti, quanto meno la realtà effettuale risponde ai nostri desideri. O accarezza le nostre delicatezze egolatriche. Ma che la realtà offra lo spunto, affili lo stimolo: allora le certezze via via abbandonate alla macina del tempo riprendono la vita larvale e indecisa del sognare apertis oculis, delle vaghezze ottative dell’emozionalità disinceppata. Che proietta il tutto nelle lontananze brumose di un imprecisato futuro privo di puntelli empirici. E balenano domande appena accennate, mai del tutto formulate: “Si conserveranno questi attimi di tregua strappati alla noia, queste scaglie di gioia sottratte alla molteplice sofferenza delle mille impotenze? Rivivrò, rivivrai, come che sia? Resterà un briciolo di consistenza rimemorante, un micro-cuore molecolare capace di coscienza, del macro-tutto destinato allo sfascio?
Storie. E coriacei indizi di ostinata speranza. Tout malgré. Questo soltanto. Nient’altro vi si trova. La certezza dei fatti e delle formule riprende il suo giusto dominio. E va bene così. Va bene che metta argine alla cavalcata dell’immaginazione al servizio della brama di vita senza scadenze. Altrimenti si finisce nella metafisica. Vade retro. Dopo secoli e millenni d’immaginazione ragionata e ragionante e relative invenzioni fantasmatiche, se ne ha abbastanza. Ci viene incontro ancora Lui, il piccolo gigante del pensiero onesto quasi nano di corpo: queste fantasie ricorrenti, non sono altro che segnali del nostro vano desiderio di piacere infinito, uno scacco infilato nella nostra fabrica, uno scherzo della Madre-matrigna, potente, ma anche pasticciona e sadica. Niente affatto onnipotente.
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“Innanzi a lui non ci sono idee, ma ombre di idee; non c’è il concetto dell’infinito, ma c’è il sentimento. Appunto perché la contemplazione è opera combinata dell’immaginazione e del sentimento, e non giunge fino al concetto, e non dà alcuna spiegazione, vi alita per entro un certo spirito proprio delle visioni religiose. Il mistero aggiunge all’effetto…Queste ombre e questi sentimenti sono immediati e inconsapevoli…” (F. De Sanctis)
“Immediati e inconsapevoli”? “Non giunge fino al concetto”? Distinzioni troppo rigide. Qui, sensazioni immaginazione suggestioni e concetti sfumano in un “migma” refrattario alle distinzioni perentorie. Se “non giungono fino al concetto”, forse è perchè ne partono e se lo lasciano alle spalle. Ma poi: quale concetto dell’infinito, che non sia quello, del tutto convenzionale e utilmente operativo, della matematica (eppure, quanta fatica a farlo accettare!), potrebbe essere mai ben definito e circoscritto, chiaro e distinto? Prima che essere una contradictio in adjecto e un ossimoro, un tale concetto finito dell’infinito è un’impossibilità fisiologica, neuronale. Sarebbe, per usare un paragone grosso, come voler contenere il mare in una vasca. Un concetto dell’infinito sarà sempre, per forza, approssimativo, modificabile e in progress. Ed è più facile determinarlo in negativo, cioè negando determinazioni finite, spostando (con l’immaginazione e il desiderio) limiti e confini.
Qui soccorrerebbe Kant con le sue antinomie: qualsiasi finito spazio-temporale è troppo piccolo per il nostro intelletto, ma l’infinito è troppo grande (dunque, inconcepibile). Quanto a Leopardi, quale sintesi più armonica si può concepire tra sentimento e razionalità, immaginazione e rigore logico, disposizione lirica e attitudine filosofica? E perciò come attaccare un qualsiasi brivido emozionale “inconsapevole” a quella mente sovranamente lucida e cosciente?

Che poi il suo sentimento sia, prevalentemente, la sua fame sessuale insoddisfatta, è cosa che la vecchia critica antifisiologica (platonizzante, idealistica, spiritualistica e comunque camuffata) non può ammettere e trova sconveniente attribuire al grande infelice. Ma è anche, quella fame frustrata, evidenza fattuale operante, più o meno chiaramente, in quasi tutta la produzione matura del poeta (che non riguardi questioni tecniche, come linguistica, filologia e simili). Ho detto prevalentemente, non assolutamente e totalmente. E pertanto se ne può distinguere quella sublimazione di ogni appetire che diciamo “sentimento dell’infinito”. Ma purché il distinguere non venga frainteso e confuso con l’identificazione categoricamente alternativa, con la separabilità assoluta dalla fame erotica. E forse dalla sua prossima eppure antichissima matrice, la fame alimentare, che nella pulsione sessuale pur s’insinua, o si ramifica, a colorirne modalità e trasposizioni (più o meno sublimanti). In sostanza, mi tenta l’idea che lo stesso impulso mistico e panico, come il sentimento religioso, sia un volto della tendenziale bulimia filogenetica che caratterizza la nostra specie. Ultima pennellata: sarà senza rapporto con la detta fame erotica inappagata la passione leopardiana per i gelati, che succhiava avidamente in quel di Napoli? O un inconscio moto sostitutivo spingeva a quel consumo eccessivo?
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Ma tutto questo diluito discorrere (in un “resoconto” ben lontano dalla originaria lezione su Leopardi) che c’entra con il grumo di desideri imbavagliati che mi torcono viscere e micro-cinematica in disegni precisi sulla stoffa dell’essere? In questi margini gira il vuoto della mancanza, che inghiotte attimi di proteine erotofagiche e dopo il pasto ha più fame che pria. Nella polarità di queste masse articolate, che la legge di Newton spinge all’incontro e il Super Ego allontana con coibenti di fifa ragionevole, in questa polarità si muovono leopardi e felini vari, meno nominabili dell’Innominato. Ed è spasimo di sensi e frescura di sorsi rapiti. Povero e infelice Leopardi. Potessi resuscitarti e confidarti alla ninfa qui allusa.

18 marzo, ore 23

“Noi leggevamo un giorno per diletto / di Lancillotto come amor lo strinse; /soli eravam e sanza alcun sospetto. /Per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso; /ma solo un punto fu quel che ci vinse. /Quando leggemmo il disïato riso/ esser baciato da cotanto amante,/ questi, che mai da me non fia diviso, /la bocca mi baciò tutto tremante. /Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante.”

Miseria della mìmesi coatta. Ma diventa un gioco. Quasi piacevole, se non fosse costretto ad abusare della reticenza. Al “fatto personale” il rimemorare incolla l’immagine scolastica delle alunne, sempre così attente quando, in qualsiasi modo, si parla d’amore. Si tratti dell’eros platonico, che, è vero, dal corpo sale e vola all’eterna idea, ma poi al corpo ritorna e si riferisce. O del ben diverso amore di Schopenhauer o Nietzsche, di Feuerbach o Freud e seguaci. Si parli di Enea e Didone, di Lancillotto e Ginevra o di Paolo e Francesca, l’attenzione vibra per tutta la durata della lezione. Lo notava la collega di italiano, l’ho constatato io (anche divagando dalla storia filosofica alla letteratura), con Dante o Leopardi o che. Stesso fenomeno, in lezioni private. Fatale consonanza di diapason compatibili.
Non criticare l’insistenza, quaderno pettegolo: non voglio comunicarti una rivelazione: ma anche le ovvietà, di tanto in tanto, piace scriverle. In un diario, poi! Come dire, la tentazione più scusabile. E scusami anche quest’altra codicilla: Semiramide accende lampi di malizia pruriginosa in quelle iridi così sensibili: ‘La prima di color di cui novelle / tu vuo’ saper’, mi disse quelli allotta, / ‘fu imperadrice di molte favelle. / A vizio di lussuria fu si rotta, / che libito fe’ licito in sua legge / per tòrre il biasmo in che era condotta.
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“O graziosa luna io mi rammento…”. Dinanzi a te, poeta del corpo che si torce nella pena del desiderio umiliato, tace ogni diffidenza. “Gli accordi struggenti del violino leopardiano” che il Maestro della parsimonia elogiativa (intendo, il prof. Gulizza) riconosce appieno sono un documento di rara lealtà critica. Lo stesso “sfarfallante causeur” nazionale, Arbasino, campione dell’avanguardia maxi-erudita e ciarlona, trova modo di lodare i versi e “il sublime ciglio asciutto del Leopardi”. Benissimo. Asciutto a parte, si capisce.
Il mio non è sublime, ma nella sua asciuttezza, è gonfio di ansie timori rimorsi. E appetiti che scuotono l’intero volume congesto del mio sgangherato composto pluridirezionale. “Dolce e chiara è la notte e senza vento,/ e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna…”. Come mai, in questi trentaquattro anni di mezzi aborti operativi e dimidiati successi, di velleità accese e bei propositi mutili, tanta eco di questo poeta dell’adolescenza lontana? Lo spiegherò con una frase convenzionale, il sublime dono della Poesia? L’incanto di quella misura, di quel ciglio asciutto (e dàgli!) che canta e grida e freme, e non annacqua mai la sua ferita? Ma no: altre ragioni premono.

(Trent’anni dopo: Oh Susanna!)

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