mercoledì 8 aprile 2009

Susanna frammento 21


Giovedì, 10 marzo, ore 7

Ma certo: come potrei accusare, con i miei lai replicanti, la monotonia grigio-perla del mio quotidiano? Il monotono grigiore scorre sopra uno sfondo agitato da ininterrotta ansietà. E da questo ininterrotto fondo balza, non raro, uno zampillo di luce che riverbera un sorriso caldo contro le variazioni ruotanti delle lancette. Ma s’alza, pure, ahimè, qualche spina di ghiaccio, buona a gelare l’anima con punture improvvise. Breve paralisi del vivere, mi scorre neve dentro le vene quando la Sfinge scolora e assottiglia i tratti dello scheletro facciale.
Certo, certo, né più né meno, parlo di lei, della Paura. Domina e madonna della mia sgangherata inutilità esistenziale, la mia Signora possiede tutto di me: i baci di luce e la gioia di mio figlio, l’intesa con mia moglie e la serenità del lavoro. Quando un’allumacatura della sua bava non sfregia le mie gioie, è merito, timido, di uno zoppicante oblio.

Mi chiede il medico: “Ora perché è agitato?” – Sono tentato di dirgli che la domanda giusta sarebbe: “Ora perché non è agitato?” – E sarebbe una domanda rara, dalle occasioni incerte, improbabili.
Animo: mio figlio sta meglio, sembra riprendersi, e la tristissima domenica è passata. Forse non ritornerà la febbre, né il vomito. A scuola, dunque. Dove la signora Paura attende l’altro turno. Fratel Kierkegaard, che sei nel mio cielo encefalico, anzi in tutte le mie cellule (pur se sconsacrato), come capisco, sulla mia pelle e nel flusso delle mie arterie instabili, il tuo sentimento del possibile. Del possibile negativo, intendo: quello che straziava la tua sensibilità malata. Un vento di minaccia aleggia sopra il mio capo troppo esposto, troppo sguarnito. Vivo, riesco a barcamenarmi fra simili (cosiddetti) e dissimili (reali), solo in grazia del ricorrente oblio, sopra lodato. E sempre sia lodato.

Ore 21, 30

Continua la disintegrazione. Sono a pezzi: vuoto d’entusiasmo creativo, incapace di applicarmi ad alcunché, privo di appoggi, da qualunque parte mi volti. Insomma, ancora un periodo nero della mia esistenza. Non trovo appigli, e ne ho tanto bisogno; non forze, e mi mancano da morire; non conforti, con tante presenze care che me li offrono invano.
Albert Camus ha scritto che la luce del sole, a forza di illuminare, bianca, confonde tutto in un barbaglio nero (o qualcosa di simile). Verissimo. Tanta luce di armonia genetica e tanta lucidità di coscienza, identiche in un solo deserto di evidenze funeree. Hanno il potere di paralizzare ogni mio gesto significativo. Devo cercare il passo di Camus. Mi pare di averlo riportato in uno dei miei articoli su di lui. La pigrizia si fa avanti anche in queste piccole cose.
Potessi almeno fare onore liberamente a questo impegno di carta e penna! Ma non è solo la paura a bloccarmi: è anche la stanchezza fisica. Quando ho spremuto una pagina, pare che abbia scritto un romanzo: ne ho la stessa stanchezza.
Accidenti all’ira enfatica: correggiamo “un romanzo” con “un capitolo”.
Così prosegue il gioco mortificante dei rimandi, degli eterni rinvii. A domani, a domani. Sempre. Sempre così: da un anno all’altro, da un lustro all’altro. Come se mi fosse concesso un autentico domani. Un futuro, cioè, diverso: euforico, elettrizzato, denso di compiti, folto di opere, instancabile, refrattario a questi iniettori di nervino psichico, agli oscuri propellenti della mia ricorrente fuga astenica.
E scorro questi giorni sul treno della banalità più squallida, forandola di sorrisi innocenti, di desideri imbavagliati, di attese mancate. Scuola, casa, bambino, moglie, amicizie, attività culturale; qualche screzio coniugale (o scintilla caratteriale), qualche lettura più o meno distratta; qualche segmento di tensione meno ovvia, meno infelice. Il tutto attraversato da questa bassura tensiva, da questo understatement umorale, dal maledetto umore quaresimale.
E la vecchia “fattura” di vivere la vita in attesa di scriverla, di viverla per scriverla, di essere costretto a tentarlo senza mai riuscire a farlo. A farlo decentemente, voglio dire. E conclusivamente. Ogni minuto, ogni goccia di tempo e di occasione “guardato” in funzione di questo quaderno, che ne rimane, regolarmente, privo. Non sempre, dici? esagero, accusi? E vabbè, correggiamo di nuovo: con le poche eccezioni che invano gridano aiuto da questi fogli traditi.
“Gli altri” scrivono, pubblicano, si fanno strada, conquistano fama e benessere. Anche con prodotti scadenti o mediocri, e senza storia. Alcuni, assistiti dalla buona Musa. Dalla Musa buona. La mia dev’essere capricciosetta. E sadicuccia. C’è anche la questione delle amicizie giuste, quelle che ti possono “aprire la strada”. La mia timidezza orgogliosa me ne tiene regolarmente lontano. Se qualche eccezione fa capolino fra le mie fatiche recensorie, non mi ci vuole molto a esaurirne la pazienza. Mi sento sempre “non pronto” (così mi recito, in coscienziosa modestia) a sfidarne temuti giudizi e giochi del Caso.

Il quale Caso, da qualche settimana, sembra una maligna volontà cosciente ordinatrice d’inganni e complotti: manda all’aria ogni progetto di sfogo, ogni combinazione di esiti concreti. Pro bono corporis, s’intende. Anche stasera. Tutto per aria. Indubbiamente, gran parte di tanto scacco ha un lessico e un’anagrafe precisi: insuperabili come la mia condizione di marito e di padre.
Aspettiamo. Che cosa, non so.
Eppure, basterebbe che riuscissi a rinunciare alla penna per vivere meno infelice. Forse mia moglie ha ragione: la mediocrità ha sagacia. Se consiglia la rinuncia, è perché ha capito. Ha capito che non ce la faccio, che mi manca qualcosa per farcela, qualcosa di decisivo. Ha scoperto la mia inettitudine al lavoro di lunga lena, all’impegno faticoso, che vuole tenacia, decisione, forza di carattere. Ha capito che oltre gli articoli, qualche breve saggio, le varie collaborazioni giornalistiche non riesco ad andare. A modo suo, deve averlo capito. Temo…
Ho sempre interpretato questa sua indifferenza al mio lavoro intellettuale come cieco egoismo di una mente gretta: meno lavoro per me, più tempo per lei, per la famiglia, per la quotidianità degli affetti e delle banalità pratiche, o di svago. E magari sarà così, prevalentemente; ma non credo più si tratti solo di quello: ora avverto nel suo consiglio di rinunciare, nella sua perorazione, vorrei dire, anche la spinta di un’intuizione: quella intuizione che mi fotografa come non-concludente. Forse nel suo metro sta anche la delusione per i compensi ridicoli che mi fruttano le collaborazioni. Immagina, quaderno, un successo editoriale, un bel romanzetto che vendesse bene. Allora sarei redento, riabilitato, irradiato di sorrisi complici e stimolanti. E non avrebbe torto. Non ha, già ora, torto: la rinuncia, non è un cattivo consiglio. Dopo tutto, ogni grano di esperienza mi sibila che il mio destino (ma che parola maiuscola) è inscritto nelle mie cellule, è scolpito nel tridimensionale viluppo delle mie eliche desossiribonucleiche. Si chiama fallimento. O “impotenza”, se preferite, improbabili fantasmi-lettori del futuro. Non resterebbe che quella sessuale. Ma qui non c’è pericolo. E chissà delle due quale mi sarebbe più pesante.
Rinunciare: come se fosse possibile. Come se non ci provassi, ripetutamente e vanamente. Siamo inchiodati alla necessità biochimica come al vecchio Ananke. Tutti i movimenti che facciamo, ogni nostra azione, fisica e mentale, qualunque espressione della nostra libertà di pensare volere e fare non sono, in realtà, che concessioni del Dittatore triplettaro. Né più né meno che i nostri raffreddori e il colore delle nostre iridi. Il Dittatore filtra tutto, anche le occasioni buone e cattive dell’ambiente (latu sensu). Anche, ahimé, l’attitudine letteraria.

12 marzo

Avanti, scarica.
Non ha nessunissima importanza: svuotati. – Ma del vuoto? Ah già. Be’ aspetta. Fruga un po’ meglio, qualche ciottolo troverai. Forse.
“Voglio la solitudine, voglio il silenzio, la tranquillità”. Ed eccomi accontentato: sono solo. Moglie e figlioletto, a Siderato, con i nostri amici e quasi parenti. Sono solo, dunque lavoro: questo doveva essere il “sillogismo”. Invece! Ma, appunto, la mia esistenza, investimento fallimentare, è fatta, si sa, di tanti invece.
Invece di essere “felice”, sono qui, trapassato da parte a parte da spilloni di speranze deluse e rimorsi sterili di rimedi. Invece di lavorare, raglio la mia squallida infelicità. Invece di continuare il lontano, caldo, zampillante trotterello produttivo dell’estate scorsa (che viene a titillarmi la fantasiosa impotenza mentale delle ore serali, non di rado anticamera al sonno turbinoso) sono qua, a gingillarmi con la ferita, a grattarmi la rogna. Invece di godere le caste gioie della famigliola che fa la passeggiata e gli acquisti nei paesi vicini, sto in questa pace , a condensare fumo di sigarette sopra simbolici binari di un viaggio nell’immobilità.
Invece di, invece che…Invece di essere un uomo, sono un tanghero astenico, abulico, dispeptico, pappamolla, tenioso e opaco. Mentre intorno a me gli altri si realizzano, producono, si moltiplicano. Decisi, convinti, duri di scorza e spina dorsale. Anche quando, putacaso, cantano di anime molli. Né l’invidia dell’altrui successo, questo sentimento degli incapaci, funziona da stimolatore energetico.
*
L’infinita vanità del Tutto? Sì, ma ci si è costruita sopra una gloria immortale e un culto universale (nonché un interminabile pretesto scolastico). Giusto oggi la valorosa collega di lingua, signora Spanòla, ha dato un tema su O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi? E mi ha invitato a leggere i temi delle ragazze (tra cui, dunque, Susy), a darle una mano nella valutazione degli “elaborati”. Forse potrò dare, così, una mano più a Susy che a lei.
Certissimo: “e involve tutte cose / l’oblio nella sua notte”. Ma se la Specie ha costruito polarità mentali cosiffatte che ti viene vergogna a non fare certe cose; se la Natura madre-matrigna ti ha messo dentro la sarabanda molecolare dei neuroni certe esigenze che non puoi ignorare senza contrappasso di pena; se il Disordine del Mondo, che certi privilegiati del genere homo sapiens sapiens s’ingegnano di tradurre Ordine, ha stabilito che snobbare quelle tali costrizioni sinaptiche chiamate esigenze (meglio appetiti?) porti disagio, malessere, sofferenza: che fare?
Subire, protestare, sproloquiare in sfoghi solitari e simili onanismi mentali. Magari bluffando, tentando vie oblique di illusione, coprendo di melassa verbale, cioè di belle frasi, i vuoti della sostanza mancante: nascondere il nulla sostanziale sotto la schiuma frasaiola spacciata per sostanza, spinta a forza nei buchi con la tacita pretesa di trasformarla in pulsante realtà viva: di brani narrativi veri, di invenzioni, di alchimie costrette alla metamorfosi letteraria di questi fogli malnati. Lo sgomento di Kafka mi si riproduce dentro spesso.

Buchi. Un buco qua, in luogo della virile conquista. Un buco là, al posto della serenità domestica. Un buco al centro, invece della salute fisica. Un altro al lato, dove starebbe legittima la sanità morale. Altri buchi? Evitiamo altre ripetizioni.
La sanità morale, quaderno, è cosa assai notevole, e non abbiamo fatto bene a disfarcene così leggermente. Che cosa abbiamo messo al suo posto? L’estetica? L’estetica di marca kierkegaardiana, un tempo esaltata, contro il “pastore” danese (che condannandola con dovizia descrittiva la faceva amare), e sulla spinta di un libro stregato? Roba passata. La fame gulizzana, totalizzante primum movens di ogni moto gesto pensiero del despota fallace della creazione, non meno che di ogni vivente? E allora perché non sfuggi a questi morsetti rabbiosi, che la vecchia terminologia chiama rimorsi? “Un rimorso, mi sembra una specie di malocchio”, scriveva Nietzsche (se mal non ricordo): lui si vantava di esserne immune, io ne sono pieno. Contro ogni logica terapeutica. Abbiamo collocato, al posto di tanto collaudata guardia del corpo, soltanto la sua nemica numero uno, che ha occupato quel vuoto: la Paura.
Perché si tratta, in sostanza di questo: “mangiare quel che piace” al posto dei decrepiti “tu devi”, “non fare agli altri…”, “sii te stesso essendo gli altri”, e simile scaltrume. Salvo, poi, a scoprire che non si hanno i denti giusti. O il coraggio per affondarli, i denti, fino alla polpa. E ci si rassegna, beoti e scontenti, a leccare la buccia del frutto. Che essendo, in fattispecie, frutto biblico, secerne nel sangue l’angoscia per le rappresaglie possibili. No, non di Dio, che è lontano quanto l’Assenza fatta sostanza; né della Coscienza, che ha smesso i panni di broccato e indossato vesti di umile lana; ma del “prossimo”. Che è sempre troppo prossimo.
Tutta qui, allora, la morale? La nobile, antica, veneranda Morale, costruita da venticinque secoli di meditazione occidentale? Be’, non è difficile riconoscere che quella radice del tutto biologica (paura della reazione altrui ai nostri vagabondaggi predatori fuori campo) possa introiettarsi  come dicono gli esperti di nominalismo cogitante  e diventare l’illusoria voce della Coscienza pura, dell’Imperativo categorico, e d’altro platonume di sogno, più o meno “aggiornato”. Anche l’amico Gulizza e il suo nobile semi-complice, professor Rama, sanno che il radicarsi di obblighi e divieti nella polpa neuronica lungo l’infanzia può produrre una sorta di “seconda natura”, e insomma un sistema di riflessi condizionati, che scattano, ad ogni infrazione, senza perciò ri-proiettare sullo schermo mnestico la storia fisiologica del radicamento. Quella “seconda natura” è così autorevole, che perde peso (corporale) allo sguardo interno del “sapiens” incauto, e sale al cielo della metafisica, depurata e leggera quanto una sacra farfalla teologale.
*
Ma che barba. Torniamo alla cronaca. La giornata. Ore 8-9, lezione in quarta, spiego Spencer. La presentazione del positivismo “in generale”, la settimana scorsa, ha appassionato la gran parte della classe. Certo per via delle “escursioni” in campo letterario, europeo e nazionale. Ma che fatica. Oggi l’attenzione è stata meno assorta: Spencer non è un autore affascinante, specie per le ragazze. Ore 9-10, lezione in seconda: interrogazioni. Con pieni e vuoti. E mezzi vuoti con mezzi pieni (questi ultimi, con l’ovvia promozione dei primi da parte delle interessate). Ore 12-13: colloqui con i genitori delle più formose alunne di terza. Intervallati da deambulaggi lungo i corridoi per lo più deserti; o attraversati da fanciulle in viaggio verso i bagni. Qualche sosta, tra un genitore e l’altro, in sala professori, a tentare di leggere, disturbato e distratto, la Fiera letteraria. Dove si trova anche un interessante Diario di Ionesco.

Citazioni piccanti. Per conquistare la propria morte, bisogna divenire un uomo libero. La morte non deve essere uno sgravio, né una trappola. Deve essere una conquista, una scalata. La buona strada della morte passa per quella della libertà. Il geniale istrione della Cantatrice calva e del Tueur sans gage (tradotto in Italia con Assassino senza movente) oracoleggia come il vecchio Heidegger: Freiheit zum Tode, Libertà per la morte. Ci mette pure l’angoscia: Non bisogna uccidere nessuno. In compenso, se si riesce ad accettare l’angoscia e la morte dell’altro, si può a propria volta morire. Come si può accettare la morte dell’altro? Dicendosi che è, in fin dei conti, la cosa migliore che possa accadere a chiunque. Come posso sopportare la sua pena, il suo fardello? Dicendomi che ciascuno deve portare il proprio fardello, dicendomi che l’altro pure deve portare la propria parte di infelicità del mondo.

Quanta nobile saggezza. L’acuto Ionesco, in tante cose che si dice, in tanti deve e può che decreta, dimentica la cosa più importante; l’arguto inventore del teatro (dell’) assurdo ignora i deve e può teoricamente più incisivi e radicali. Dimentica la morte come altra faccia della vita, e condizione strutturale del cosmo-caos biologico. Dimentica che vivere è, sempre, uccidere: in un modo o nell’altro, in un campo o nell’altro. Piante animali bipedi parlanti articolati, tutti integriamo l’equazione senza scampo, senza eccezioni: vivere è mangiare, mangiare è uccidere. Né è necessario essere (ancora) cannibali o carnivori “immediati” per verificare l’equazione fondante: si uccidono piante, si uccidono animali, si “uccidono” composti organici e inorganici. Oggi a te domani a me; e viceversa. Il problema nasce sul come e quanto, sul dove e a quali condizioni: etica politica religioni lavorano su quei parametri. Fallendo in
modi estrosi e banali, ma soprattutto assai frequenti. E qualche volta imbroccando sequenze di eventi e comportamenti individuali coerenti con i principi e le regole stabilite per la comunità. Tante, quante sono le comunità di fatto e di estensione storica.
Sull’accettare la morte altrui: be’, non sembra un passo difficile, né questo gran fardello proprio. Né i fardelli degli altri cambiano gran che quella difficoltà poco aspra: dire che ciascuno deve portare il proprio fardello, e la sua parte di infelicità del mondo, senza precisare misure e dettagli, è un comodo sofisma, un infantile escamotage auto-consolatorio, auto-promozionale. Ci sarà una bella differenza fra nascere storpio e nascere sano, vivere da handicappato più o meno grave e vivere da atleta; morire fra atroci sofferenze in lunghe agonie e passare dal sonno alla morte: le parti del fardello, le porzioni della infelicità planetaria o cosmica sono troppo mal distribuite e pessimamente assegnate. Giudizio moralesco, o soltanto umano troppo umano? Indubbiamente. Ma forse che l’asciutta neutralità dello sguardo scientifico (questa lenta conquista filogenetica e personale) ignora quelle differenze, pur nella rinuncia a moraleggiare?
E poi, siamo seri: prima (e dopo) l’uomo di scienza c’è l’uomo: ossia, un complicato meccano molecolare di appetiti e rifiuti; un composto dove la parte più antica del cervello, laboratorio di emozioni compulsive, domina la sua dinamica generale e fornisce la pulsante sostanza ribelle alla parte più giovane, la neocorteccia, che tenta, mediando e computando, di orientare e frenare la pulsionalità appetitiva bivalente. “Ad maiorem gloriam mei” (non Dei)
Sono, quelle differenze indigeste alla nostra sensibilità addomesticata, secrezioni del puro Caso (comunque si voglia intendere questo Ananke sbilenco). Fra i quaranta bambini circa che la fame uccide ogni minuto nel cosiddetto Terzo Mondo e le patologie dell’ingordigia occidentale, vogliamo fare un calcolo del più e del meno nel tale “fardello”? Tra i sepolti vivi di un terremoto che moriranno lentissimamente nella maniera più atroce che ci sia dato immaginare e l’infarto, pur doloroso, di un sessantenne ben curato, quale rapporto o confronto possibile, nel segno della “porzione” del fardello e dell’infelicità del mondo?
L’angoscia. Bel tema letterario e speculativo. Si sono vinte fior di cattedre a meditarci (e magari sproloquiarci) sopra, col culo sul soffice e l’aria condizionata nello studio privato. Appunto, un tema da letterati, da speculoni in verbis, da parolai più o meno eleganti. Una frode, insomma: una delle tante che la cultura, anzi Cultura, produce a ciclo continuo, decollando verso i cieli cartacei delle suggestive formule, allontanandosi da realtà empirica, fattualità percettiva, vissuto personale. Perché l’angoscia di cui si disserta, non è affatto “angosciosa”, e quella vera è il sudore freddo che non si può contemplare quando gocciola e t’imperla la fronte. E’ il panico che ti strozza incontrollabile, il marasma nel quale naufraga senza salvagente né soccorso pubblico la compatta congruenza del nostro organismo. Mi chiedo se gli Heidegger, gli Jaspers, i Sartre, i profeti tutti dell’angoscia teoretica (in gergo, anche
ontico-ontologica) hanno mai provato vera angoscia. Forse solo Kierkegaard.. Forse lui e Kafka. E Leopardi: prima che teorici, vittime di quello spasimo sconvolgente.
E la libertà? Splendida cosa, radiosa corona sul capo del vero filosofo, quando si realizza in doppia chiave: come liberazione dalle maiuscole (parole metafisiche), e come accettazione della fatalità del morire. Entrambe le modalità non sono soltanto questione di teoria e teoresi: sono impegni totali, da verificare sul banco dei fatti, delle azioni coscienti, dei comportamenti fedeli alle convinzioni teorizzate. Al momento della grande prova, nell’impatto con il morire, col sentirsi morire, si saprà se avrò conquistato la libertà dalla paura della morte. Che per me significa anche dal plagio infantile e adolescenziale delle bugie consolatorie ma tanto costose, della maiuscoleria religioso-metafisica. La morte non deve essere uno sgravio? Prova ad agonizzare per mesi lavorato da strazianti metastasi, e vedrai se è possibile “concepire” la morte diversamente dallo sgravio, dalla liberazione. La morte non deve essere una “trappola”? Può esserlo, se ti coglie nel bel mezzo di un progetto in fieri, di un appagante operosità mirata. “Deve essere una conquista, una scalata”: può esserlo, ci si può proporre di renderla tale. Ma, ancora una volta, solo in quel “momento della verità”, nell’incontro terminale si scoprirà quanto siamo riusciti nell’impresa, in quale misura la nostra sarà “la bella morte” della conquista e dell’ascesa.

E’ troppo presto per porsi simili problemi? No, non è mai troppo presto. E non per ripetere la trita frase ad effetto, che “appena nati si è già maturi per la morte”: solamente perché nel mezzo del cammin di nostra vita, com’è il mio caso, le possibilità della morte sono già tante. E assai varie (ma sì, penso anche a quella possibilità di scandalo, e mi frizza un brivido per tutto il corpo). Un’altra dimenticanza del panciuto Jongleur è la relatività cromosomica delle possibilità individuali. Se nella doppia elica dei nostri nuclei manca una certa sequenza, o sequenzialità, di adenina citosina guanina e timina, o uracile, non c’è barba di bei discorsi che possa conquistarci la “buona” morte. Tanto meno la “bella”. Nemmeno eroici sforzi di mente cuore volontà e moralità (per usare il lessico corrente), tutti insieme mobilitati (magari a esibire muscoli e ciglio duro davanti alle estasiate fanciulle dell’istituto magistrale). Esibizione, infatti, solamente di sonanti frasi e cipigliosi accenti, troppo lontani dalla prova del fuoco. Che altro?
Codicillo finale: non dimenticare la crudeltà insita nella pratica dei sacrifici umani, denominatore comune di tutte le religioni: comunque regolato sublimato o mascherato. Leggere la Bibbia per sostanziare il veloce riferimento. Sempre apoteosi della superdea fame sono, quali che ne siano le maschere e i maquillage.
*
ore 23

Mi sono riletto quanto ho scritto due ore fa, prima di cena. Mi soddisfa, ma con qualche riserva. Dovrei rivedere, cancellare qualche parola o frase, modificare qualche modulazione concettuale, ma insomma, nel complesso regge.. Ora. Magari domani potrà sembrarmi una pretenziosa cicalata alla luna. Certo, l’argomento è di quelli che non si esauriscono in qualche pagina: né di diario né di saggio filosofico. Ho riletto anche le pagine dei giorni precedenti: l’ennesimo sfogo, l’ennesima lagna. Con qualche enfatizzazione, tutt’altro che insolita. Ma anche con tanta verità: cioè, sofferenza autentica.
Ma perché, per quale eccesso di malumore e malagrazia, ho squalificato come “trita frase ad effetto” quella constatazione “radicale”, troppo ripetuta, forse specialmente in casa (anzi, nel condominio) esistenzialista, ma non perciò meno vera? Non foss’altro, per rispettare l’orrore dell’eccessiva mortalità infantile: che è capovolto privilegio di ogni epoca e spazio planetario. Ieri, come osceno tributo della prima rivoluzione industriale (le orride filande e miniere della vorace Albione, nobile senza morale!), oggi nel Terzo mondo sopra richiamato dentro quel macabro numero quaranta/a minuto.

Vorrei capire bene il senso di questi periodici sfoghi. Sono un atto di masochismo, da autontimoroumenos, o qualcos’altro? Voglio dire: masochismo autosufficiente, cioè, come si suole, dire, “fine a se stesso”, o finalizzato a intenti terapeutici? Un’autoflagellazione catartica? Non manca, davvero, il gusto rabbioso di autopunirsi, denunciandosi, scoprendo e grattandosi le piaghe; ma, tutto sommato, si avverte, dentro la fiamma propellente dello sfogo, non a caso “esagerato”, il fiato della speranza. Tanto più resistente quanto più negata. La speranza di “guarire” di questo “male oscuro” strisciante, di superare, attraverso una specie di cura omeopatica, questa infermità umiliante, la “debolezza della volontà”.
Anni fa ho letto in un libro di psicanalisi (credo) che la nozione di volontà è “un’invenzione da cavernicoli”, che non esiste nessuna volontà. Con buona pace di Chi disse e scrisse voglio, fortissimamente voglio. La traduzione di volontà con fame, e fame selettiva, cioè appetito è nell’orizzonte di una “visione del mondo” che mi tenta: è così asciutta, così rastremata, così onesta (al cospetto degli dèi e del loro plurimillenario sconquasso planetario). Niente volontà, niente libertà nel vuoto, né sentimenti originari: solo fame, soltanto appetiti: più o meno grezzi o civilizzati, immediati o traspositivi, direttamente fisici o sublimati. Ma sempre fisiologici (se è lecito ricordare la fisiologia encefalica come fabbrica di sublimazioni). Sempre radicati nel core evolutivo del vecchio rinencefalo, l’amigdala, opificio delle emozioni. Lei e il contorno limbico tutto.
Ma la traduzione sposta, non risolve il problema. Debolezza di volontà sarà reso con debolezza dell’appetire. E la facile resa alla stanchezza, la ricorrente demotivazione paralizzante non verranno azzerate per questo. Il dittatore cito-nucleare continuerà a “dittare” e demolire, anche dopo avere ribattezzato fame e appetito la detronizzata volontà. L’unico spazio di resistenza resta confinato nella logica della “possibilità bifacciale”: possibilità che si, possibilità che no. L’infelice Severino per antonomasia (ma ora, a fare concorrenza al Danese, in Italia comincia a brillare un astro dello stesso nome elevato a cognome) ha insistito sulla seconda; don Nicola salernitano, grande teorico della categoria fondante (la possibilità, appunto) richiama all’obbligo di considerare entrambe le facce. Cotesta bidimensionale, peraltro, è tarlata, nella sua personale faccia positiva, dai ripetuti insuccessi, dalle reiterate prove negative. E dunque l’ancoraggio di salute diventa sospetto. Come se una voce ghignasse: che kazzo ti racconti ancora? Non hai chiaro quel che è chiarissimo? Sei un buono a nulla. Almeno, rispetto alle grandi cose, alle realizzazioni decisive, alle grandi opere glorificanti. O, più modestamente, a un best seller qualsiasi. Azzo!
Verissimo. Ma resisto e insisto. Segno è, allora, che, illusione o realtà, placebo o farmaco, la medicina, in qualche misura funziona. La medicina consiste nel ripeterci: non sono vecchio, ho del tempo, non tutto è perduto, non ho esperito tutte le mie risorse, forse verrà un tempo più propizio alle buone imprese, forse cambierò, diventerò più deciso e costante, meno fragile e più tenace. Forse, forse… Perché porre limiti alla divina “improvvidenza”? Nel giuoco misterioso delle forze buie che controllano i nostri destini ci può essere un angolino di convergenze favorevoli anche al sottoscritto. ¿Quien sabe? Aspettiamo ancora qualche anno, lustro, decennio: non si sa mai.

Non si sa mai. O si sa fin troppo, ma si rimuove. Per continuare
Rileggendomi, mi capita di accostarmi a figure letterarie di inetti abulici sognatori inconcludenti timidi introversi refrattari all’incontro-scontro con la realtà antropica e mondana. Mi sento un po’ Rubè, un po’ Totò Merùmeni, un tantino Momolo, tanto Zeno Cosini (e fratelli in romanzeria sveviana), “Uomo in bilico”, “Uomo nel labirinto”, “Uomo senza qualità” (che, secondo il suo inventore, equivale al capovolto “qualità senza l’uomo”). Sono un Carlo indifferente più attrezzato, un ansioso Franz meno imbranato in praticalia (e, purtroppo meno fornito di ingegno creativo), un personaggio manniano del tipo introverso-inattivo, un “uomo inutile” cechoviano, Uomo del sottosuolo, e Adolescente e tanti personaggi minori dei Racconti del Giocatore Fiödor; e via piagnucolando: ad infinitum.

Il male oscuro: ho citato, sopra, senza badarci, nel corso della confessione, il titolo del fortunato “romanzo” di Peppino Berto, bi-vincitore di premi letterari. Ne ho letto, in prestito, qualche pagina. Tema affascinante. Come può esserlo un noir della sventura psichica. Ma sarà difficile che lo riprenda, in un avvenire prossimo, per una lettura continuata e conclusiva. Quella mimesi della cosiddetta stream of consciousness mi scoraggia: pagine e pagine senza un punto fermo una virgola un punto e virgola! Ma è poi questo l’andamento del “flusso di coscienza”? Non ci sono pause, cesure, modulazioni ritmiche e casuali in quel fluire? La mia esperienza personale non conferma l’assunto. Ma non è argomento per questa occasione. Passiamo ad altro (non senza un pensiero-promessa al grande Joyce: ci incontreremo, o responsabile ignaro di troppi flussi. Ma più in là). Quanto al fascino del libro bertiano, sta nello spudorato coraggio della confessione catartica, in quella sincerità auto-esplorativa e penitenziale. Nonché terapeutica.
Al Gazzettino mi chiedono un articolo d’apertura su qualche aspetto della politica estera italiana. Comincerò a buttare giù un canovaccio su queste pagine. Servirà, l’articolo, da sfogo e da riposo dalle questioni magne. E dall’ossessione susynica.

13 marzo

L’atteggiamento dogmaticamente filoamericano dei socialdemocratici italiani non era un mistero neanche per gli osservatori più distratti; tuttavia è da supporre che non tutti potessero prevedere la posizione squalificante del segretario del Psdi in occasione del dibattito alla Camera sulla fiducia al nuovo governo Moro. Secondo l’onorevole Tanassi, gli Americani, nel Vietnam, “difendono la libertà di tutti”.
Che meraviglia, dunque, se le avventate parole del leader socialdemocratico hanno suscitato le sdegnate proteste di quanti hanno a cuore veramente la libertà dei popoli? I comunisti hanno esagerato nel manifestare la loro riprovazione? Può darsi. Ma è difficile convincersi che si pecchi di eccessivo rigore quando si accusa di servilismo verso il grande Alleato-padrone un socialista che difende, senza nemmeno le sfumature congeniali agli stessi “naturali” sostenitori dello zelo americano, una politica aggressiva, tracotante, in buona parte criminale, al servizio, non dei mitici “tutti” tanassiani, ma di precisi gruppi socio-economici, e semmai contro la volontà e le aspirazioni delle maggioranze popolari. Lobbies per le quali la radiosa parola Libertà significa soltanto possibilità di buoni affari, assenza di freni e cancellazione di limiti nello sfruttamento del lavoro altrui, profitti e rendite ad libitum. In una parola, libero culto del dio Mammona. Anzi, di Mammona-Moloch, divinità bifronte e cannibale, grande mallevadore di stragi e strazi al servizio del business über alles.
L’impagabile paladino della “libertà di tutti” non ha sentito nemmeno il bisogno di modulare il suo giudizio mediante qualche onesto distinguo: per esempio, tra mezzi di “difesa” leciti e mezzi infami, tra modi (relativamente) ammissibili e modi disonoranti. E magari deplorando che i cavalieri della libertà del Mondo abbiano usato e continuino a usare mezzi e modi del secondo tipo, quali bombardamenti indiscriminati, bombe al napalm e al fosforo giallo, defolianti alla diossina e altro micidiale materiale chimico. Questo, per il “trattamento a distanza”; per gli “incontri ravvicinati” c’è la tortura, di varie ed estrose forme, una più atroce e moralmente schifosa dell’altra. Magari affidata agli “alleati” sudvietnamiti.
Né le proteste sono venute solo dai banchi dei comunisti e dei socialisti del Psiup: meno sonora, ma ugualmente decisa è stata la reazione del segretario del Psi De Martino, che ha lasciato in silenzio l’aula nel momento in cui il collega paladino della Libertà americana pronunciava le storiche parole, e ne è rimasto fuori fino al compimento dell’imbarazzante serenata.
E’ evidente, dunque, ancora una volta, che i socialdemocratici italiani sono più filoamericani, non diciamo della sinistra democristiana, ma perfino di certi strati dello schieramento doroteo. E c’è di più. Mentre negli stessi Stati Uniti (Paese “plurale” per fortuna) la resistenza dell’opinione pubblica alla politica asiatica dell’Amministrazione Johnson è una realtà quasi quotidiana di proteste molteplici, cortei e dimostrazioni spettacolari, dichiarazioni di personaggi pubblici e intellettuali, attività pubblicistica underground e variamente libera, testimonianze di scrittori e studiosi, religiosi e accademici (dall’insigne linguista Noam Chomsky alla scrittrice Mary Mc Carthy); mentre negli stessi ambienti politici ufficiali si alza la voce dell’opposizione e della critica patriottica ad opera dei fratelli Kennedy, del senatore Fulbright, di Kennan, e altri valentuomini, ricordati, in parte, da De Martino, l’onorevole Tanassi, e chi gli sta dietro e al fianco, esprimono una solidarietà piena, un consenso idolatrico, privo di riserve e sfumature. Più realisti del re, più americani degli stessi americani, questi socialisti democratici “al soldo”. Un centrosinistra che ospita siffatti zelatori non turberà certo il sonno del presidente Johnson. Né i sogni dei generali del Pentagono, dei fabbricanti di armi e contorno dinamico-logistico, dei Goldwater e altri duri all’atomo.
Viene naturale chiedersi: che specie di unificazione potrà essere quella fra un partito socialista che, con tutte le sue ambiguità, è pur sempre, onestamente, in posizione di dissenso verso l’aggressione americana – o come altrimenti si voglia chiamare questo pertinace esercizio di violenza sanguinaria spoglio di qualsiasi legittimazione etica – e un partito che sente il dovere e la voluttà di solidarizzare pienamente con quell’aggressione? Il contrasto su un punto di tale importanza può essere marginale nella prospettiva di quell’unità d’intenti e d’ispirazione che dovrebbe giustificare la conclamata unificazione? O per molti socialisti dell’uno e dell’altro campo si tratta di particolari irrilevanti?
Ci paiono interrogativi gravi, dietro i quali premono dubbi e timori che non è bene lasciare inespressi, magari in omaggio a non si sa quale “carità di patria”. C’è il timore, assillante, che l’unificazione si risolva in una meschina manovra tattico-elettorale, destinata a disarticolarsi in una ulteriore umiliazione scissionistica del socialismo italiano. C’è il timore che essa approdi a un pallido establishment socialdemocratico, e insomma a un nuovo slittamento involutivo della già tanto svigorita condotta politica del Psi. E c’è il dubbio (o non piuttosto certezza?) che la pregiudiziale anticomunista del “socialismo democratico” si faccia ancora più miope, chiusa, sterile, anziché attenuarsi, o comunque seguire nella sua scansione dialettica l’innegabile movimento evolutivo del Pci nel senso di una più chiara disponibilità democratica.
E’ il caso, in un parola, di temere che tutta la complessa “manovra a sinistra” realizzi l’esito malinconico di un esperimento gradito al Corriere della sera e ai suoi mentori. I quali, appunto, non risparmiano moniti e consigli ai grandi artefici della “svolta storica” perché la sua direzione risulti convergente con la linea degli interessi che il giornale milanese esprime con assennata duttilità e oscillante souplesse.
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Invece di una pagina di diario ho scritto un articolo di giornale. Capita. Ero partito con l’idea di appuntare alcuni fatti e detti; poi, strada facendo, la cosa mi ha preso la mano, ed eccolo qua l’articolo. Potrebbe essere l’editoriale del prossimo numero del Gazzettino d. g.. Sì, credo che vada bene: lo proporrò al direttore. Stasera o domani lo batterò a macchina e lo porterò in redazione.

Del resto, della cronaca spicciola e del quotidiano ruminare, non vale la pena di scrivere. Mi ha stancato troppo quella tormentata “spremuta”. Né ci sono fatti degni di rilievo scritturale, oggi. Come dici, quaderno? Oggi no, ma ieri e ieri l’altro e via retrocedendo? Lasciamo perdere: ci ripetiamo già troppo.

Lunedì, 14 marzo

Leggendo “Certi romanzi” di Alberto Arbasino, ricevuto sabato in omaggio per la recensione a “Grazie per le magnifiche rose” (che invece non mi hanno mandato: già esaurito il lotto destinato alla stampa?) nella quale citavo questo cafarnao bulimico, la tentazione di “prendere appunti” si fa irresistibile.
Si conferma il giudizio che ho già dato pubblicamente di Arbasino: un voracissimo mangialibri, un narciso esibizionista maniaco della citazione ad oltranza; un “dilettante di sensazioni”, un D’Annunzio formato ridotto, ma gonfio di ben altre letture, un malato dell’enciclopedia. E anche un barocco sui generis, a volte corrivo ed eccessivo nell’uso della metafora e del traslato in genere. Con una forte propensione per i concetti-immagine “personificati” (“Agamennone borghese chic”!). Molto snobismo, tanta preparazione reale, una maggiore spocchia da “aristocrazia dello spirito”. Qui rilevo la sua esterofilia. Che vorrebbe essere l’esorcismo della “provincialità”, ma riesce, tutto sommato, abbastanza provinciale (malgrado l’esprit rampante). Ecco alcune sue trovate:

“E noi? Privi di un retroterra culturale di narratori e critici utili anche oggi (Manzoni e Nievo, e Verga e Svevo: si capisce: ma equivale a una letteratura che possieda – si fa per dire – Kenilworth, The Princesse Casamassima, Women in love, e null’altro all’infuori dei Canti di Leopardi e della Domenica del Corriere). Sprovvisti di una tradizione nazionale capace di offrire qualche esempio o qualche alternativa, un Balzac o uno Stendhal, un Flaubert o un Sartre, un Dickens o una Jane Austen o un Lawrence o un Henry Green, un Kafka o un Mann o un Musil, un Edmund Wilson o un Dr. Lewis. E soffocati invece dai falsi maestri, dai falsi bei libri. Di giorno in giorno dobbiamo inventarci antenati, supporre ‘fonti’ o ‘radici’, tracciare e cancellare sempre nuove Carte del Tenero, costruirci una tradizione a posteriori. Non è stato facile. Passate le confusioni ridicole del dopoguerra, cala la cappa di piombo dell’immobilismo degli Anni Cinquanta. La restaurazione naturalistica impazza, sia sexy sia edificante.. Viene il boom, poi passa, ma intanto finisce per prolungare economicamente l’agonia delle retoriche, mercificando ogni esercizio di neofilisteismo…”.

Dove quel tanto o quel poco di vero che si può isolare nello scintillio congesto della “denuncia” non riscatta l’esibizionistico “iperbolismo” fracassone, né legittima l’idolatrico esotismo letterario, dilatato al punto da nascondersi anche il bello e buono che nella nostra letteratura non manca certo. Arbasino, mi pare, confessa, senza volerlo, i limiti bizzarri della sua vigilanza critica quando ostenta di non gradire certe espressioni e forme letterarie, liquidate con una smorfia di aristocratico, o snobistico, disgusto. La “restaurazione naturalistica”, tanto deprecata, può riuscire un fatto di retorica e di nuova arcadia, ma può anche dare buoni e ottimi frutti: forse che non ne ha dati? Da Moravia a Pasolini, da Cassola a Pratolini, da Vittorini a Bassani (a parte i campioni del verismo ottocentesco, qui seppelliti nell’anonimato). Per Arbasino, invece, deve essere un fatto retorico. Né pare accorgersi, il liquidatore, che la
retorica, anche nel senso più letterale e litterato, riaffiora, e come, nel “suo” “Strutturalismo” (secundum quid), moda del momento, non meno ambigua e velleitaria di altra arcadia. Che ricorda, in certi teorici, e applicazioni, le medievali artes dictandi. E perfino la rigida precettistica del trobar clus (che, beninteso, ai loro tempi erano cosa tutt’altro che frivola). Arbasino, come tanti eroi della nuova cultura enciclopedica e onnivora (Eco o Ripellino, per fare qualche nome) ignora che fior di antropologi hanno ritrovato presso i “primitivi” il gusto per l’oscuro, il segreto, il difficile lambiccato e l’esoterico, che tanto affascina come cosa modernissima i moderni super. Questa passione per il segreto e il mistero si risolve in una mascheratura protettiva abbastanza infantile. Lo stesso sovraccarico di informazione, più che cultura tradisce esorbitanza adolescenziale, esibizionismo da ragazzotti vanesi.
C’è una cultura di estensione e una cultura di profondità, dice il professor Rama. E credo non sbagli. L'ostentazione nozionale, di per sé non fa cultura: fa, al più, vetrina e cognizionismo. La cultura autentica vuole profondità problematica, meditazione e macerazione personale, esplorazione innovazione sofferenza. Vuol essere conquista faticosa, aspra disciplina. E modestia propositiva. Senso della misura, soprattutto. Starei per dire, anche nell’eccesso. Quel che manca alle stars del nuovo Olimpo cartaceo. Così saputo, così mostruosamente erudito da non lasciarsi tempo e spazio per vivere, cioè digerire e assimilare la mera quantità nozionale. Ah, le avanguardie! Ci mancava il Gruppo ’63! Proprio vero: le astuzie della ragione arcadica gareggiano con quella hegeliana.

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