venerdì 9 gennaio 2009

Susanna frammento sette


20 dicembre

Sulla Gazzetta d.S. dell’8 dicembre è uscito un mio articolo su Abbagnano “interprete” della scienza. L’occhiello è Scienza e filosofia in Nicola Abbagnano, il titolo Alla ricerca di un dialogo. L’articolo approva l’atteggiamento di Abbagnano nei confronti della scienza, valuta come lecite le sue “deduzioni” epistemologiche dal “Principio d’indeterminazione” di Heisemberg (a sua volta indotto dalla “fisica dei quanti”), e concorda sull’uso “largo” della categoria di possibilità. Me lo ha ispirato un saggio dello stesso filosofo salernitano, Il problema dell’osservazione nelle scienze, apparso su Cultura e Scuola. Il saggio di Abbagnano riassume (con la consueta chiarezza) e discute il bel libro di Niels Bohr, Fisica atomica e conoscenza umana (traduzione francese, 1961). Il nocciolo di questi scritti è il ripudio del principio di causalità nella sua forma classica (perfezionata nel secolo scorso) di determinismo rigido.
Ho mandato un ritaglio del giornale con l’articolo al prof. Abbagnano, pregandolo di “gradirlo malgrado i suoi limiti giornalistici”. Mi ha risposto con la seguente letterina:

Torino, 12 dicembre 1964
Al Prof. Assaggi, Siderato M. (RC)
Caro professore,
La ringrazio molto del ritaglio e della Sua cortese lettera. Le sono molto grato di prestare un’attenzione così intelligente e simpatetica ai miei scritti, e colgo l’occasione per mandarle il mo cordiale saluto e il mio augurio.
Suo Nicola Abbagnano

La letterina è scritta su un candido foglio in testa al quale sta, impressa in lucente rilievo, una lince circondata da una ghirlanda d’alloro che finisce, in alto, con una regale corona. Sotto il disegno brilla una scritta con lettere tutte maiuscole: ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI,
Identico “apparato” sta sul retro della busta. Non sapevo che Abbagnano fosse anche lincèo. La lettera, inutile negarlo, mi ha dato soddisfazione e commozione. Non credevo, o appena osavo sperare, che un uomo della statura cultural-sociale di Abbagnano potesse “scendere” fino alla mia imbranata modestia.

Il 15 dicembre, sempre sulla Gazzetta d. S., è apparso un mio articolo filosofico che tenta un confronto para-conciliativo tra l’Husserl di Paci e quello di Abbagnano a proposito della scienza (soprattutto, fisico-matematica. Che poi è la “forma”cui tutte le altre tendono). Abbagnano considera Husserl l’ultimo avversario intimista della scienza; Paci, al contrario, un difensore della scienza autentica contro la scienza alienata (e alienante), feticizzata: insomma, dimentica della Lebenswelt (o “mondo della vita”) e di altre cosette rimarchevoli di vago (ma poi tanto?) sapore cripto-idealistico.
Ho mandato un ritaglio a entrambi. Ad Abbagnano ho scritto anche una lunga lettera, nella quale gli faccio sapere di avere scelto come argomento della mia tesi di laurea l’esistenzialismo italiano, puntando prevalentemente sul suo pensiero; gli chiedo indicazioni su alcuni suoi libri giovanili, gli manifesto il desiderio di pubblicare la parte della tesi che lo riguarda tematicamente, previe integrazioni e aggiornamenti sugli ultimi sviluppi della sua attenta ricerca e relativi scritti. Che cosa ne verrà fuori? Attendo (non senza un certo batticuore).
A Paci chiedo grazia per il tentativo di conciliazione. L’articolo mio si intitola Polemiche sulla scienza, e prende lo spunto da un articolo di Abbagnano apparso sulla torinese Stampa (che da anni si onora della sua ghiotta collaborazione culturale).
*

Akiskene, 28 dicembre, ore 11, 45

Davanti al televisore, per la ventesima replica di un identico spettacolo: lo scrutinio della votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. In questo momento i due maggiori concorrenti hanno questa quotazione: Nenni, 322 voti; Saragat, 275.
Saragat accelera: ha guadagnato terreno in pochi giorni. Ma forse non la spunterà neppure stavolta. Ambizioni e rivalità personali, camuffate da interessi ideali e culto dei supremi valori, hanno ridotto la Camera dei rappresentanti del Popolo sovrano a una malinconica arena di scontri infantili. Le “nobili eccezioni” si contano sulle dita di una mano. Ancora 100 schede bianche! Ancora i soliti caldarrostai mascherati da onorevoli, che votano Pastore, Leone, Fanfani, Paolo Rossi. O Pella, addirittura.

Lo spoglio è finito: nessuno dei votati ha raggiunto la maggioranza costituzionale dei 482 voti. Le mandrie mescolate dei rappresentanti del Popolo brontolano e rumoreggiano: pretendono di essere indignati. Lo speaker non ha saputo impedirsi una mezza epifania di sorriso tra l’amaro e l’ironico. Il presidente della nobile Assemblea, Bucciarelli Ducci, scampanella. L’atmosfera sarebbe più aperta all’ottimismo: si spera nel pomeriggio. Speriamo pure.
Votanti 932. Nenni, 385. Saragat, 323. Martino, 59. De Marsanich, 40. Fanfani, 7. Paolo Rossi, 7. Dispersi, 11. Schede bianche, 100. E, in fondo allo spoglio, la solita formula: “non essendo stata raggiunta da nessun candidato la maggioranza richiesta, occorre procedere a una nuova votazione, che avrà luogo nel pomeriggio alle ore 17.”
Nenni è votato ancora dai socialisti e dai comunisti; Saragat dai socialdemocratici e da una larga fetta della Dc, che si è ostinata a non votare Nenni. Naturalmente, per una questione di ferma coerenza e austera coscienza. Eppure alcuni di questi signori coscienziosi sono più a sinistra dei “saragattini”. La coscienza coerente, si vede, non glielo consente: votare un non credente? Vade retro. E così la componente confessionale snatura l’ispirazione politica di tanti “socialisti cristiani”. Aggiungi che molti ci tengono a testimoniare una sterile fedeltà oltranzista al candidato “retrocesso” Amintore Fanfani.
Ripensandoci: Saragat ha, forse, mai detto di essersi convertito al Cristo? Al momento, non mi pare. No, non può essere questione di fede religiosa, sì di fede politica. Che è poi la sola che conti in questa matter.
La situazione è questa. I socialdemocratici hanno chiesto i voti ai comunisti, ma questi pongono la condizione di una formale richiesta del partito, o di una “autorizzazione” della Dc. La Dc li vorrebbe pure, ma senza esporre la candida faccia immacolata. Ossia, li vorrebbe come offerti al candidato socialdemocratico, che non essendo del loro partito, le permetterebbe di onorare (sono onorevoli per nulla?) la pregiudiziale discriminatoria verso gli scomunicati della falce e martello. E sia pure attenuata. In queste torpide e torbide acque i comunisti fanno bene a non voler navigare. Prima o poi, è logico, l’impasse sarà sciolta, ma bisogna pur fare un po’ di melina e di teatrale gioco delle parti.
La sinistra moderata italiana, confessionale e no, ostenta ancora troppa diffidenza verso il Pci. Ed è inutile obbiettarle che, così facendo, non si accelera l’auspicata “evoluzione democratica” di quel partito. Evoluzione che loro stessi, i “sublimi maestri perfetti” della democrazia laica o della Madonna, riconoscono come già in movimento, salvo definirla, di volta in volta, insufficiente, incompleta, incompiuta, incerta, e via sottraendo. Con logica naturaliter candida. Anzi, bicandida: cioè ispirata alla diffidente aritmetica di Casa Bianca e Bianco Padre, suggeritori coscienziosi. Ma che si vuole di più? Mica questi campioni di Libertà con la maiuscola possono spiattellarvi in faccia, chiaro e tondo, che il Campidoglio transatlantico, questo sacrario incontaminato della radiosa dea, non vuole riconoscimenti pericolosi! Al massimo, qualche flirt occasionale, qualche proverbiale giro di valzer, e tutto finalizzato alla gloria della Minerva alata.
Peccato che le fila della presente situazione elettorale le tengano quei fuori casta. Tutti lo sanno, ma nessuno lo dice. Cioè, nessuno vuole ammetterlo coram populo: non sarebbe come riconoscere ufficialmente che il Pci rappresenta una grande forza dello schieramento politico italiano? Ohibò! Più facile mentire che lo siano i liberali. E’ l’ora del Pci: speriamo che le sue “teste d’uovo” sappiano sfruttare la sua “forza contrattuale” (e non tralignino in teste di c…). La Dc, invece, dovrebbe scadere ancora nella considerazione “popolare”: dopo le figuracce che ha fatto, vorrei vedere che non perdesse parte dell’ultimo elettorato. Ma è probabile che “lo vedrò”: il Popolo con la maiuscola è un mito ideologico, un’astrazione maiuscolara (direbbe il prof. Gulizza). La realtà sono le varie parti di una mobile massa in maggioranza colonizzata dalle paure religiose (leggi, fede) catalizzate dal convergente particulare guicciardiniano. Le speranze di un’evoluzione vantaggiosa per una possibile democrazia solidaristica riposano in quelle “varie parti”, in quanto suscettibili, alcune di esse, di influenze socio-politiche ed economiche contingenti e non solo nazionali.

Stesso giorno, sera. L’ha spuntata Saragat. Certamente, una “capitolazione” soddisfacente per il Pci ci sarà stata. Anzi, c’è stata senz’altro: non potrebbe essere altrimenti. Don Peppino “pane e vino” (meno pane con più vino) non mi è tanto simpatico: troppo americanisant, troppo allineato (e ben foraggiato). E soprattutto, credulone sulla perfetta (o quasi) democrazia statunitense. O troppo cinicamente realpolitiker? In un caso o nell’altro, l’odore di frode che lo circonda, mi intralcia un po’ la peristalsi. Ma, in mancanza di meglio, vada per Saragat. E’ pur sempre un candidato laico, un antifascista militante e convinto: se socialista lo è con modestia di attese e pretese, non è però un “sognante liberale”. E poi, forse ci ha aiutati a liberarci di Segni, l’aristocratico ultrà demo-liberal-cristiano. Anzi, cattolico.
Auguri al neo-presidente. E all’Italia parzialmente laicizzata.
*
Con l’elezione di Saragat si chiude un periodo piuttosto agitato della nostra vita nazionale e istituzionale. Agitato, con particolare coerenza codina, dal quarto presidente della giovane Repubblica, Antonio Segni. L’ex consigliere nazionale del Partito popolare (nato nel febbraio 1891), in sonno durante il Ventennio, nella rinata democrazia parlamentare, come capo della corrente dorotea, era stato tre volte ministro e due presidente del Consiglio. L’elezione a capo dello Stato (il 6 maggio del ’62) lo coglie in carica come ministro degli Esteri. Ne accetta l’onore e l’onere con spirito missionario: la missione indossata è l’intralcio, con ogni mezzo, dei peccaminosi sponsali fra demo-cattolici e socialisti. A buon diritto, dunque, si sente, e lo si definisce, l’anti-Gronchi. Se ne compiace, un paio d’anni prima, con sua eminenza il cardinale Siri, arcivescovo di Genova: “Spero – aveva scritto all’eminente – che la mia rinuncia all’incarico di formare il ministero impedisca la formazione di un governo con l’appoggio dei socialisti”. Durante la crisi di governo, dopo le elezioni del maggio ‘63, il suo interventismo polarizzato batte colpi innovativi di chiara ispirazione missionaria: non riceve soltanto leader politici, ma anche personaggi “laterali” come il governatore della Banca d’Italia Guido Carli e il generale e capo dei carabinieri Giovanni De Lorenzo. Ma se il primo, uomo di sicura fede democratica, non meraviglia più di tanto, il secondo accende fondati timori e vibranti sospetti. Alimentati, a torbida ragion veduta (chissà quanto spruzzata di acqua benedetta) dalla diffusione mediatica (giornali e televisione) della notizia. Non stupisce, pertanto, la corrispondenza romana del Figaro che scrive papale papale: “Roma è pervasa da una strana psicosi da colpo di Stato”. E nemmeno il fatto che Botteghe Oscure, nel luglio, ordina ai suoi dirigenti di non dormire in casa. Il pericolo di un “colpo di forza” viene segnalato da Nenni ai suoi compagni più restii al contentino democristiano: o accettare quella minestra (e chiudere le trattative con la Dc per l’ingresso nel governo) o aspettarsi che il “tintinnìo di sciabole” maturi in tempesta golpista.
Particolari convergenti di uniforme color fumo di Londra: alla sfilata delle forze armate il 2 giugno ’64 il Presidente viene colto da un raptus di intenirimento lacrimoso mentre sfila la nuova brigata corazzata dei reali Carabinieri repubblicanizzati. Così ne riferì Vittorio Gorresio. E meglio ne ventilò il possibile utilizzo fuori dai campi di battaglia il solito Tempo (che per l’occasione sfida il ridicolo parlando di ladri e non di eventualità bellica): “I carri armati pesanti non sono utilizzabili per la cattura dei ladri; possono servire, potrebbero servire anche ad altri impieghi, ove ve ne fosse bisogno.” Ove ve ne fosse...: cacofonia stridula dal sen fuggita? Ma no: lampante minaccia allusiva al satana rosso. Non prevalebunt.
Con questi begli argomenti, il 22 luglio si chiude la crisi e nasce il nuovo governo di centro-sinistra annacquato. Che è sempre meglio dell’ennesimo budino di centro. E tanto più di un golpe dagli sviluppi imprevedbili (o assai prevedibili). Due settimane dopo, il 7 agosto, il capo del governo, Aldo Moro, e il ministro degli Esteri, Saragat, sono in formale visita al Quirinale. Non può essere, e non sarà, un colloquio tranquillo: anzi, il climax sale fino al “tempestoso” usato perfino dai media meno sguinzagliati. Durante la tempesta, che ha ventilato fulmini da Alta Corte, il segaligno Segni (cacofonia voluta) è colpito da un collasso cardiocircolatorio: ne viene paralizzata la parte destra del corpo e spenta l’abusata parola. Inutile il soccorso dei due visitatori-inquisitori, nonché (a parere diffuso) causa scatenante del colpaccio. Cesare Merzagora, presidente del Senato, assume i poteri presidenziali. E quattro mesi dopo, il 6 dicembre, il malato rassegna formali dimissioni. Il resto è attualità in corso. Facile pensare che la vicenda e i suoi intrecci-intrighi avranno un seguito nei prossimi, se non mesi, anni.
*
Qui, in basso, nel privato e in casa (terrana), continuiamo a goderci le vacanze natalizie. Alla meno peggio: tra intoppi influenzali, passeggiate col sole (quando c’è), e con la famigliola (che c’è quasi sempre). Molte letture personali, qualche articolo, già pubblicato o in attesa (come testimonia questo quaderno). E un po’ di televisione, quando più quando meno, a seconda delle sollecitazioni occasionali. Le elezioni presidenziali, per esempio, mi hanno sottratto diverse ore di lettura a vantaggio del tubo catodico.

29 dicembre, ore 23 circa

Grossi titoli, oggi, su tutti i giornali, per il neo-presidente appena eletto. Cerco di immaginare la bile rabbiosa di certi figuri e ambienti. Quella degli scelbiani della Sicania è esplosa in un velenoso articolo di Enrico Mattei, propugnacolo granitico di tutte le libertà anticomuniste (non escluse, dicono, quelle mafiose). Il Corriere della sera è più “diplomatico”: sfuma, smussa, snoda con serpentina flessibilità il suo argomentare, ma non si lascia sfuggire la “vittoria comunista”: deplorevole vulnus (in quel côté) della democrazia imperfetta.
La vicenda s’è svolta come previsto (era facile, la previsione): ogni discriminazione verso i comunisti è saltata. Lo stesso Saragat ha chiesto i voti a Longo, segretario del Pci, con un appello formale a “tutte le forze democratiche e antifasciste”. Ci si potrebbe chiedere: la “diade” democratiche e antifasciste è soltanto una distratta ridondanza o si trova lì a salvare una minimale distinzione? Come sottintendere: i normalmente discriminati comunisti si dicono democratici, e ne prendiamo atto; ma logiche di schieramento e prese di posizione socio–politiche contingenti denunciano la non maturità piena di quella conversione. Nessun dubbio, invece, sull’ispirazione antifascista, che è, pur essa, componente non secondaria della democraticità compiuta. E della nostra Costituzione. Al servizio di un padrone, anche i politici, non brillanti, in generale, per finezze ermeneutiche, diventano altrettanti doctor subtilis. Se, poi, il padrone è doppio, come in fattispecie (Vaticano e Casa Bianca), quei “dottori” diventano sottili fino al sofisma (esplicito o pudìco-implicito che sia).
Elezione sudata quant’altre mai prima d’ora: fieri contrasti, di ovvia e meno ovvia giustificazione (e mistificazione) hanno sballottato il neo-presidente per ben ventuno votazioni (contro le nove del predecessore). Fra i contendenti più coriacei spicca il giurista napoletano Giovanni Leone, ex capo del governo. Che però non piace né al tignoso Fanfani né a Giulio Pastore (ministro della Cassa per il Mezzogiorno): indi, dispetti e sgambetti. Le prime sette votazioni registrano l’impasse: Leone bloccato sui 300 voti, Saragat intorno ai 140. S’incavola l’inventore del partito socialdemocratico, e si eclissa. Né la “fuga” sblocca Leone. Anzi, l’antipatia di cospicue parti della Dc ne complica la scalata fino al grottesco, opponendogli nuovi improbabili concorrenti: perfino il non sommo ma stimato poeta Ungaretti e l’antropologo Giuseppe Tucci. Filano i giorni nella scarsa serietà delle contrapposizioni da cortile, finché il Pastore s’illumina, non di immenso, come il poeta, ma di burlesca evidenza: non può spuntarla. Con rammarico, raccoglie le pecore e ritorna all’ovile; non senza un sospiro di delusa mestizia: “Peccato, credevo che la mia candidatura incontrasse le aspirazioni dei ceti popolari”. O qualcosa di simile. Santa madre Chiesa s’innervosisce e striglia il cavallo di razza n.1: don Amintore raccoglie la paterna sollecitudine e dichiara di attenersi, da allora in poi, “alle decisioni degli organi responsabili del suo partito”. Lo segue, nella ritirata, il Leone burlato: con piccata delusione del suo sponsor, il segretario diccì Mariano Rumor. Tanto piccata, da fargli punire, con sospensione dal partito, due non secondari campioni della sinistra interna, Ciriaco De Mita e Carlo Donat Cattin. L’accusa? I due capetti si sono resi colpevoli di scarsa coerenza con l’immagine del partito osando “atti di rilevante indisciplina politica”. Terreno sgombro per don Peppino? Mai fidarsi di certi mangia-ostie, ma come escludere una futura combinazione favorevole? E’ la vigilia di Natale quando Saragat riappare nei corridoi nella Camera, disponibile a cercare le condizioni di un rilancio personale. Paradosso poco paradossale, stavolta se la deve vedere con un candidato “interno” all’ideologia quasi comune: Pietro nenni, vice presidente del Consiglio, gia in possesso dei voti sinistri. Ma anche leale competitore e politico realista. Ritenti, Saragat, ma si rassegni a chiedere i voti degli odiati comunisti. Saragat riflette, accetta il consiglio del compagno separato, lancia il fido Tanassi, segretario del Pdsi, sul tavolo riservato della trattativa con i senza dio para-stalinisti e attende. Esito positivo, e se “Parigi vale bene una messa”, il Quirinale non può essere da meno di fronte a un’altra santa recita. Via all’appello fatidico: “Mi auguro che sul mio nome via sia la confluenza dei voti di tutti i gruppi democratici e antifascisti”. Ai colli-torti democristi non rimane che far buon viso a cattivo gioco (pena un isolamento poco appetibile), e, obtorto collo (appunto), versano le lacrime dei loro voti coatti sul candidato laico. Anche la Madre Chiesa abbozza. Festa presso i laici. Quasi lutto per liberali missini monarchici e contestarori diccì irrecuperabili. Dall’inizio delle votazioni erano trascorsi 12 giorni, a cavallo del santo Natale: un’elezione circonfusa di tanta santità si porta dentro un buon augurio.
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Nel privato, felice coincidenza (albo signanda lapillo): sulla Gazzetta d. S. nella pagina settimanale di Ciaccò, “Gazzetta letteraria”, è apparso il mio lungo articolo commemorativo di Galileo (4000 centenario della nascita), inframezzato da una riuscita foto di un suo celebre ritratto. Domanda d’obbligo: piacerà a Gulizza, che me lo aveva chiesto con convinta insistenza? C’è qualche refuso, ma niente di catastrofico. Sì, possiamo dircelo, quaderno: è un buon lavoro; è lecito esserne contenti (alla faccia della modestia). E ci puoi scommettere che sarà letto da parecchia gente alto-locata nei cieli della cultura: vi cito, infatti, molti nomi di pertinenza magna. Eccone alcuni: Abbagnano, Antonioli, Banfi, Battaglia, Bo, De Santillana, Geymonat, Paci,... Perno del mini-saggio (ché tale si potrebbe definirlo) il confronto fra Abbagnano e Gulizza, e più largamente, tra gli specialisti del Galileo scienziato-filosofo (a cominciare dal Geymonat, storico della scienza e autore di una celebre monografia galileiana) e il modesto (accademicamente deplorando) ma acuto Gulizza.
Piccola confessione inter nos, quaderno dei miei sospiri: lo scritto, così ricco di riferimenti, è anche un piccolo bluff. In che senso? Nel senso che dimostra e ostenta più letture dirette e cultura specialistica di quanto il mio troppo disperso cervello possegga realmente. Ma per un articolo di giornale va bene anche così. Doppiamente bene, anzi, perché quella sfilza di illustri personaggi saranno costretti a leggermi dal buon servizio della famosa o famigerata Eco della stampa. L’evento (!) mi sa di regalo natalizio (viva la faccia).
E’ il terzo articolo che esce sulla Gazzetta in questo mese. Per procurarmi quante più copie potessi del giornale (spedirò vari “ritagli”) ho percorso mezza via Etnea e tante vie secondarie della nostra bella Liotria. Sono contento.

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