sabato 6 dicembre 2008

Susanna frammento quattro


21 agosto, ore 23,30

Giornata intensa, oggi, Stamane sono stato al mare (frazione cittadina del Faro) con mia moglie. Nel pomeriggio, alle 17, ho ricevuto una telefonata dal prof. Rama, ritornato a Liotria dalla capitale, dove ha una seconda dimora (un doppio appartamento condominiale). Alle 18 ero nella sua casa di Liotria, via Contea 36. Vi ho trascorso quasi due ore, in piacevole conversazione, spaziante per decine di argomenti: letterari e di relazioni umane (in quel d’Accademia). Ha accennato, tra l’altro, alla carriera troncata del suo amico e collega Gulizza. Partito col vento in poppa, costui è stato bloccato alla libera docenza. Eziologia di tanto accanimento, giudizi controcorrente su idoli del Parnaso di ieri e di oggi. La disinibita demolizione di troppi contemporanei, critici e narratori, in vari saggi specifici, ne ha scatenato la furibonda reazione. A una prima sventagliata di critiche negative seguì un silenzio polare, così vasto e plurale, da far pensare a una vera e propria “congiura del silenzio”. Solo da critici non coinvolti nelle sue analisi severe, anche se lontanissimi dalle sue idee di ateo riflessivo, ricevette segnalazioni di meditato consenso, con lodi particolari per la sua indipendenza di giudizio: è il caso di un autorevole gesuita. Da allora, riferisce Rama, il povero Gulizza è rimasto un libero docente, e un incaricato annuale protetto da un paio di amici esterni al coro dei silenti pugnalatori. Il riverbero dell’avversione corale si è fatto sentire anche sulle nuove edizioni delle sue precedenti opere, tra le quali una Storia della letteratura italiana a suo tempo apprezzata, incidentalmente, da Benedetto Croce. Rama sembra sinceramente dispiaciuto di questa persecuzione, anche se non riesce a reprimere un sospiro di rammarico verso il “benedett’uomo”, che avrebbe potuto essere un tantino più cauto, almeno fino al conseguimento della cattedra. Ma per concludere, poi, che molto probabilmente non gli sarebbe bastato, non essendo, Gulizza, un lecchino accodato a nessun “barone”. Infine, aggiunge che la svolta biologistica (così definisce il Pantrofismo dell’amico) lo ha isolato ancor di più (se mai fosse possibile). Quando stavo per congedarmi da Rama, una telefonata da Gulizza offre l’occasione all’ospite di informarlo della mia presenza. Me lo passa e lui mi invita a casa sua, “se non ho impegni cogenti”. Prometto di andare a trovarlo: da casa sua telefonerò a Rina che ritarderò un po’per la cena.
E così, uscendo dalla dimora di Rama, sono andato a trovare Gulizza, che abita in una via del centro cittadino. Anche qui, rimpatriata, ricordi, impegni di lavori prossimi e sollecitazioni non nuove contro la mia (presunta?) pigrizia.
Mi ha regalato un suo volume, che non possedevo: una raccolta di saggi (più o meno sintetici); titolo Rapsodia romantica: scrittori e poeti francesi. E un suo recente articolo apparso sul quotidiano di Liotria, La Sicania. Domani dovrà recarsi a Zancle per lezioni all’Università, dove i pochissimi amici gli hanno procurato un incarico per quest’anno accademico; e poi a Villa Jonica per il Premio Calamagna (fa parte della giuria). Gulizza ha due figli, una bella ragazza bionda (di ventiquattro anni) e un ragazzo (venti), entrambi studenti universitari; la prima prossima alla laurea in filosofia, il secondo al primo anno di legge. Prima di ricevere la telefonata stavo per spedirgli, a Roma, un bustone con tre articoli: tra cui una recensione severa (che dice di voler ospitare nella sua rivista) al D’Annunzio di Curzia Fernari. Un saggio, questo, pieno di adorazione imbambolata per l’Idolo, e di autentici strafalcioni, anche lessicali e sintattici. Come mai il prefatore Quasimodo non li ha eliminati? Non avrà letto con attenzione il “manoscritto”. Gli altri due, glieli sottopongo per giudizi e suggerimenti.
*
Il telegiornale della notte ha dato la “dolorosa notizia” della morte di Togliatti. Ne ha parlato per un buon quarto d’ora, tracciandone un profilo politico e biografico. Un fatto tutt’altro che usuale, ma consentito dal clima politico di questi ultimi due anni, agitato dai tentativi di spostare moderatamente a sinistra l’orientamento del governo. In altri tempi, questa morte non avrebbe impegnato il notiziario per più di tre minuti, e chissà con quali riserve (più o meno contorte) sull’ispirazione democratica del leader comunista. Immagino, insieme alla gioia per la morte del nemico n.1, il disappunto dei democristiani più bigotti, e soprattutto dei fascisti, per tanto riguardo. La rievocazione storico-biografica mi ha commosso: una vita di battaglie, fede ideologica, illusioni, delusioni, tenacia. E qualche rospo indigesto da digerire comunque, per “etica della responsabilità” e priorità della Causa. Telegrammi di condoglianze da varie parti: dal presidente supplente, Merzagora, da Moro, dal presidente della Camera, dal segretario Dc... La morte fa tacere rivalità e rancori, onorando l’umanità e l’ipocrisia insieme. “La sacra maestà della morte”: è un’espressione che si è sentita stasera e si sentirà ancora nei prossimi giorni, elevata a promotrice del “cordoglio unanime e sincero” per il “grande estinto”. Si è ricordato anche l’“insano attentato” del ‘48 e la saggezza del ferito nel frenare la rabbia dei compagni pronti al peggio. “Merito” di Yalta e dell’altra saggezza: quella predatorio-staliniana.
Qualche dubbio su quella saggezza esala dalla gratitudine capovolta del moderatismo alto e medio borghese, confindustriale e vaticanesco, nonché, ovviamente, ligio ai suggerimenti del grande Alleato-padrone d’oltre oceano. Da quel ’48 che regalò alla Dc la strepitosa vittoria elettorale la storia politico-economica dell’Italia è stata tutto un regredire delle classi operaie e contadine a vantaggio della grande e media (e poi anche piccola) industria, della finanza speculativa, del commercio padronale. I recenti sforzi di migliorare le condizioni di vita dei ceti poveri sono, peraltro, osteggiati da un vasto sbarramento variamente conservatore, che ne teme derive populiste incontrollabili. Ma certo, una sollevazione rivoluzionaria non avrebbe avuto nel suo cielo che l’esito greco. E tuttavia la tentazione di ipotizzare altri scenari insiste.
Quel ’48, anno della svolta moderata o centrista, fu un momento di scontri all’ultimo sangue politico: i famigerati comitati civici inventati dal capo dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda, non badarono a mezzi nell’asperrima competizione: deformazione sistematica della realtà, “mostrificazione” del nemico di classe, minacce di inferni e altra punizione divina per chi avesse votato contro la democrazia la religione la civiltà e via strombettando. E dato che nel periodo della campagna elettorale, mentre le madonne d’Italia peregrinavano tra le case dei buoni cattolici (figurarsi un rifiuto!) per una santa notte di preghiera propiziatrice, il compagno Palmiro si fece venire la bella idea di rompere con la legittima moglie e stabilizzare la sua relazione con Nilde Jotti, la canea cattolica si scatenò contro i distruttori della famiglia, i dissacratori del sacro vincolo indissolubile. E giù dai pulpiti valanghe di improperi minacce previsioni fosche nel caso di una vittoria comunista (il famoso Fronte popolare tra Pci e Partito socialista); e altra artiglieria. Che, come non bastasse tanto aggressivo affannarsi, venne potenziata da una misura estrema, anzi di estrema indecenza: la minaccia di scomunica per coloro che avessero votato comunista, e perfino per chi non denunciava in confessione mariti e parenti di quel luciferino colore.
Tornando a quel momento drammatico, non si può non ricordare come il “vento del Nord” avesse risposto all’attentato contro Togliatti con una mobilitazione strepitosa e pronta a tutto: si arrivò a sequestrare il patron politico-amministrativo della Fiat, Valletta. Un assaggio di “primavera dei popoli” che ai miei sedici anni non capii, ma che mi appassionò in seguito, da giovane insegnante di storia. Ricordo la sensazione buia che mi suscitò un corteo di operai marcianti nella sera di quella primavera malata alla luce dei lampioni cantando Bandiera rossa e sventolandone una: vi sentii puzza di invasione straniera. Ero ancora dentro l’innocenza del plagio risorgimentale orchestrato dalla scuola di Stato, dalle elementari ai licei. E orientato dal contagio dell’Azione cattolica.
Né mancarono le zuffe crudeli in quel molteplice confronto con le forze del disordine capitalistico che, dopo la vittoria del 18 aprile, avevano cacciato i social-comunisti dal governo, con la benedizione della Santa Madre e della santissima Casa-madre del Libero mercato. Non furono pochi i morti dall’una e dall’altra parte: la polizia di Mario Scelba, ministro degli Interni, siciliano di ispirazione cripto-fascista e anticomunista teologale, picchiava forte. Ebbi il privilegio di provarlo sulla mia pelle: proiettato a Roma, quale vincitore di un viaggio-premio dell’Azione Cattolica (ero riuscito il più bravo ripetitore delle verità catechistiche acculturate!), giravo solitario per la città in uno dei tempi disponibili per l’uso personale; una dimostrazione popolare era in corso contro la svolta centrista e fieramente anticomunista imposta dal binomio Vaticano-Casa Bianca dopo il viaggio invernale (e penitenziale) di De Gasperi a Washington (gennaio ’47). D’un tratto mi trovai nel vortice del “conflitto”, una camionetta di celerini mi si avventò quasi direttamente contro, mentre portavo a spasso l’euforia adolescente del primo viaggio “continentale” (per giunta gratis e guadagnato dai miei meriti). Pochi secondi di caos cinetico, il mio balzo sul marciapiede e quella diavola che vi salta su come se mi puntasse a bersaglio: la evito saltando lateralmente e schiacciandomi contro il muro di un palazzo. A mente fredda, esclusi che ci fosse intenzione omicida in quell’assurdo “attacco”, ma restò, e resta, l’impressione di averla scampata per un pelo: quel figlio di buona donna, quel proletario plagiato (quasi certamente un meridionale) rischiò di travolgermi per divertirsi un po’ con l’azzardo terroristico. Avevo capito il senso di certe denunce sulle violenze dei celerini.
Ancora cartoline da alunne calamagnesi. Quella di S., alunna zefirese promossa in terza, è la preferita: né solo per il suo sincero affetto filiale.

22 agosto, ore 23,30

Sono andato a cercare fogli di vecchi giornali che parlano dell’attentato a Togliatti riportando anche i comunicati Ansa:
Roma, 14 luglio – Stamane, verso le ore 11,30, mentre l’onorevole Togliatti usciva dalla porta del palazzo di Motecitorio, in compagnia dell’on. Leonilde Jotti, veniva affrontato da un giovane, che poi si è appreso essere tale Antonio Pallante, studente universitario venticinquenne, il quale gli sparava contro alcuni colpi di rivoltella – sembra quattro,– tre dei quali lo raggiungevano in varie parti della regione toracica. (comunicato Ansa, ore 12)
Roma 14 luglio – Il ministro dell’interno, on. Scelba, ha diramato tassative disposizioni a tutti i prefetti per impedire qualsiasi manifestazione, di qualunque genere (ib. Ore 13.05)
Roma, 14 luglio – la Camera del lavoro ha impartito disposizioni per la sospensione immediata di ogni attività lavorativa a Roma (ib. ore 14.30)
Precauzioni e misure inefficaci: le dimostrazioni ci furono, e gli incidenti non mancarono: provocati spesso più dalla durezza della “prevenzione” celerina che dalla rabbia dei dimostranti. I comunicati dell’Ansa mutano lessico e tensione emotiva:
Roma, 14 luglio – Incidenti a Roma, morti a Napoli, Livorno e Genova.– Incidenti si sono verificati a Roma, nel corso della manifestazione di protesta per l’attentato a Togliatti. Sin dalle prime ore del pomeriggio masse di dimostranti sono andate confluendo verso piazza Colonna. I manifestanti che tentavano di invadere Palazzo Chigi sono stati respinti dalle forze di polizia che, sotto la pressione della folla, hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco in aria: altri gruppi hanno disselciato in alcuni punti il manto stradale […] fatto barricate sotto la Galleria. Si sono avuti feriti e contusi tra i dimostranti e agenti di polizia. Alle ore 18 la massa si è concentrata in piazza Colonna…” (ib. ore 2)
A Napoli una grande massa di dimostranti giungeva in piazza Dante dove però veniva affrontata dalla “Celere” che cercava di disperderla. I dimostranti reagivano. Durante i tafferugli la forza pubblica sparava alcuni colpi s’arma da fuoco. Si deplorano due morti e un ferito grave[...]

I comunicati Ansa si fanno sempre più drammatici, ma non cambiano stile: la forza pubblica spara sempre in alto, e non si capisce come fa a uccidere e ferire. Scelba accusa i comunisti di “strumentalizzare lo sciopero per una insurrezione civile”, soffiando sul fuoco. Le “agenzie” s’ingolfano di incidenti e vittime, la tensione cresce ovunque. Una nota di colore, per così dire, marca quella del 15 luglio, là dove segnala l’occupazione della Fiat e il sequestro di Valletta: L’esercito vuole intervenire ma con grande senso di responsabilità Valletta rifiuta questa soluzione traumatica ritenuta quasi irresponsabile che potrebbe portare a conseguenze disastrose. / Esemplare il sangue freddo di Valletta, che nonostante il sequestro, rivolgendosi ai suoi dieci carcerieri, li apostrofa con un “intanto andate a lavorare altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci”

Qual è stato il contributo di Bartali nel dirottare la crescente tensione verso la gioia euforica per la vittoria al Tour de France? Difficile “quantificare”, ma è evidente un suo ruolo incisivo: a Milano, piazza Duomo è “una polveriera che può esplodere da un momento all’altro”, quando, verso le 17,15 le radio dei bar diffondono la notizia che Gino Bartali sta dominando la corsa nelle tappe alpine, recuperando, “di collo in collo”, ben 22 minuti di distacco dalla “Maglia Gialla”: si profila una vittoria a dieci anni da quella “nostalgica” del ’38 e la eteroclita folla si compatta in quella speranza che matura in quasi certezza. E vittoria sarà, con sedative conseguenze sui bollori rivoltosi e accensioni anfetaminiche nella gioia del successo nazionale che vola al di sopra della conflittualità politica. E pensare che la squadra italiana aveva deciso di ritirarsi dalla gara e rientrare in Italia dopo l’annuncio dell’attentato. Fortuna che le teste fredde non mancano: quelle del momento seppero cogliere l’occasione. De Gasperi telefonò il suo “vai e vinci!” a Bartali, il papa liberò la colomba della sua benedizione verso il cielo, il credente Bartali ne uscì galvanizzato. E realizzò quel prodigio di tappe sempre primo e in fine la “miracolosa” vittoria: “In piazza Duomo (ma anche in tutte le altre città d’Italia) comunisti, democristiani e poliziotti si abbracciarono tutti in delirio. Bartali aveva stracciato Bobet.” E qualcuno postillò: “Bartali, se proprio non aveva salvato l’Italia, certamente fece un gran favore a Scelba.” Col senno di poi, possiamo sospirare un forse: non è mai piacevole un bagno di sangue. Né facile da controllare nelle inevitabili code drammatiche.
Il quale Scelba (non va dimenticato) era ben colui che aveva dichiarato: “L’avvenire ci prepara giorni difficili. Non nutro la minima fiducia che gli avversari rinuncino alla violenza per scardinare con la forza ciò di cui non riescono ad avere ragione con il metodo democratico. Ma se il momento dovesse giungere, noi useremo la forza dello Stato contro ogni tentativo di violenza.” Il pessimismo del ministro si dimostrò infondato, anche se la molteplice e appassionata reazione all’attentato costò una ventina di morti e alcune centinaia di feriti. Le parole del leader comunista al suo risveglio, dopo il delicato intervento chirurgico del professor Valdoni, furono, sostanzialmente, ascoltate: “State calmi, non perdete la testa.” Yalta aveva vinto e scongiurato il bagno di sangue.
Nell’intreccio degli eventi, la droga religiosa definì drasticamente il dualismo Bartali-Coppi: il primo, benedetto dal papa, è lo sportivo perfetto, anzi, con suggello papale, il “perfetto atleta cristiano”, il secondo sarà il “pubblico peccatore”, il “rovina famiglie”, e la sua amante, la famosa Dama Bianca, subirà il ludibrio dell’accusa spietata e del carcare per “flagranza di adulterio”. Scrisse un giornalista: “Si volle demolire il Coppi di sinistra, ateo, e l’Italia si spaccò in due tifoserie; sportive, ma anche in un fanatismo ideologico; irrazionale, ma ben strumentalizzato”
Raccogliendo gli appunti del ’48 mi cade l’occhio sopra una sortita comiziale di “von Gaspar” (vale a dire l’ex deputato al Parlamento austriaco Alcide De Gasperi secondo gli avversari) nell’imminenza delle “fatali” elezioni del 18 aprile ’48: “Io non vorrei vedere quel giorno in cui al governo andassero coloro i quali si sono compromessi in una lotta contro l’America; non vorrei vedere quel giorno perché temerei che il popolo italiano, attendendo dalla riva le navi cariche di carbone e di grano, le vedrebbe volger la prora verso altri lidi…” Un concreto analogon dell’argomento invincibile dei filosofi delle medievali Scholae. Argomento cucinato in tutte le salse di tutte le cucine socio-politiche: dalla stampa moderata ai pulpiti. Con speziature varie, ora forti e cupe di minacce orripilanti intrinsiche a una (dio liberi) vittoria social-comunista; ora suadenti e sorridenti, come queste rassicurazioni di don Alcide: “Ho detto e ripeto agli operai: non avete nulla da temere, avete molto da sperare nella vittoria della Democrazia Cristiana, perché non rappresentiamo privilegi, non rappresentiamo la reazione, ma rappresentiamo il progresso e l’evoluzione delle classi operaie… Alla borghesia agiata io dico: non siate sordi, non siate ostinati, non tenete il capo rivolto all’indietro; il mondo cammina, il lavoro chiede la sua parte e l’avrà, riconoscetelo, collaborate anche con il vostro sacrificio…” Che peccato, la sordità della maggiore porzione di quella borghesia agiata.

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