sabato 29 novembre 2008

SUSANNA Seguito. Frammento 2


3 agosto


La Gazzetta letteraria, sezione settimanale della Gazzetta dello Stretto, quotidiano zanclese, nel numero del 28 luglio, ospita il mio articolo su Mastronardi. Ciaccò lo ha sistemato bene: posizione centrale, su 4 colonne. Ma ha messo titoli di sua libera scelta e privato piacere personale: Uno scrittore che non sa ritrovarsi (occhiello) Il maestro Mastronardi è tutto da rimpiangere (titolo). Il meridionale di Vigevano, scritto per l’ottanta per cento in dialetto, offre non poche pagine felici. L’insieme è però di una sconsolante aridità (cappello e catenaccio). Insomma, Ciaccò ha accentuato le mie riserve sul nuovo Mastronardi e ha goduto di sventolarle, esagerate, sui pennoni dei suoi titoli (non tutte presenti nel mio testo le espressioni da lui usate). Poco male. Non poco, invece, nell’altra abbondanza: ben 21 refusi seminati nella mia sudata prosa. Con un picco di nonchalance nel mio cognome, deformato da una s fantasiosa dislocata davanti all’ultima lettera. Quasi un attentato. Vuoi vedere che ci sono miei nemici nel corpaccio redazionale della opulenta Gazzetta? Scherzo, naturalmente: per siffatti esiti, basta la cialtronesca pigrizia di qualche correttore di bozze, e una congrua ignoranza della lingua italiana. Eppure il gazzettone ha un ricco (relativamente alla latitudine) mercato tra la Sicania orientale e la Calamagna: potrebbe, la proprietà, tenerci un po’ di più alla correttezza linguistica.
A ripensarci, l’ipotesi dell’attentato non è poi così peregrina. Ne riparleremo. Non tutti mi vogliono bene in quel covo di vanità e servilismo plurale.
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Titolo su nove colonne nella prima pagina della Gazzetta dello Stretto: Primi risultati della ricognizione del Ranger. La superficie lunare è solida. Possibile lo sbarco dell’uomo. Davvero esaltante. A parte il titolo, che, d’amblé, farebbe supporre una mai pensata possibilità che quel suolo fosse liquido (o pasto-gassoso, come quello di Venere e Giove?). Mentre non sembra si sia neanche temuto fondatamente che potesse presentarsi come profonde masse di mobile sabbia (che è quanto quel titolo vorrebbe sottintendere). Tre grandi fotografie della superficie lunare riempiono buona parte della pagina. L’intera “sequenza” di queste foto sarebbe costata 17 miliardi di lire! E qui un altro brivido di malinconico disagio: con tanta fame e sofferenza nel mondo, sono queste le priorità del progresso?
Si andrà presto sulla luna, dunque. Un altro effetto collaterale di siffatte conquiste della scienza sul mio cervello è un certo disgusto per le civetterie dei letterati (più o meno) puri: con le loro avanguardie e retroguardie, le loro polemicucce, la suscettibilità da numi incompresi. Un tempo consideravo il letterato come il culmine della specie homo sapiens sapiens (una vecchia pretesa umanistica): da qualche anno, non più. Progredisco.

Interessante articolo-recensione di Walter Tauro su un gruppo di libri che parlano di alcuni retroscena dell’ultimo conflitto mondiale. Uno di questi, I generali del deserto, di Barnett, è tutto una requisitoria, ben documentata, contro i generali inglesi operanti, appunto, nel deserto africano. Barnett smentisce le affermazioni calunniose di Montgomery sui soldati italiani “pessimi combattenti”, presenta lo stesso Montgomery come un “pallone gonfiato”, definisce Cunningham “inetto”, Ritchie un “ottuso professionista fedele ai regolamenti quanto incapace di efficaci iniziative personali”. O’Connor e Auchnileck appaiono “i soli veramente in grado di condurre una guerra, messi tuttavia di continuo in ombra dalla prevaricante campagna pubblicitaria orchestrata da Montgomery. Al quale ultimo [continua Tauro] l’autore dedica un capitolo a parte, nel quale mette l’accento sulla natura ambigua di questo generale, che gli impedì di sfruttare a dovere la schiacciante superiorità di uomini e di mezzi e di non (sic) arrischiarsi a cogliere i frutti della vittoria, permettendo così a Rommel di organizzarsi indisturbato”.
Quest’ultimo periodo di Tauro, variamente brutto, mi suggerisce alcune (amare) considerazioni: comincia con un Al quale cui fa seguito a troppo breve distanza il cacofonico nel quale. La natura ambigua di questo generale che gli impedì di sfruttare, ecc. è una combinazione sintattica non meno brutta; ma quando a gli impedì si fa reggere la subordinata di non arrischiarsi a cogliere... siamo alla matita blu: protestano la grammatica e, più ancora, la logica stretta. E se quel permettendo non è, tecnicamente, sbagliato, resta pur sempre inelegante, mentre direi improprio quel natura ambigua messo lì a denunciare le esitazioni e rinunce del generale verso lo sconfitto nemico: non sarebbe stato più coerente un “poco intrepida”? La natura ambigua andrebbe bene per far sospettare un tradimento. Ma è questo che si vuole insinuare? Non pare plausibile.
Di questi pezzi di prosa alquanto sbracati se ne incontrano spesso negli articoli e nei libri di Tauro. E di tanti altri collaboratori delle pagine culturali. I quali, tuttavia, collaborano indisturbati, pubblicano quello che vogliono e nessuno gli rompe l’anima. Quando offro qualcosa io, almeno per la quotidiana terza pagina, affiorano spesso inconvenienti: mi fanno aspettare troppo, se mi pubblicano scaricano nello scritto un buon numero di strafalcioni, qualche volta non me lo pubblicano proprio. Le alate ragioni sarebbero quelle che l’amico Ciaccò mi illustra da sempre: io scrivo troppo difficile per una normale terza pagina, faccio articoli lunghi, scopro idee sinistrorse, sono poco prudente in materia di religione e competente (folto, anzi straripante) contesto socio-antropologico. Questi due ultimi motivi sono credibilissimi, dato quell’incanto di contesto. Per lo stile, invece, non riesco a capacitarmi: io mi sono sforzato di adeguarmi al livello medio dell’elzeviro, e sono persuaso di esserci riuscito. Il più delle volte. Riuscito, preciso, senza rinunciare a quel gusto ritmico e quel tanto di eleganza lessical-sintattica di cui sono capace (senza pretendere di essere un campione di écriture artiste e un parnassiano della prosa). Quanto all’estensione degli articoli, be’ mi sembra di essere riuscito anche in questa difficile auto-disciplina o censura che sia. So che non sono ben visto per via delle mie idee, e non ignoro che, per quanto mi sforzi di mascherarmi e costringermi, il mio pensiero, più o meno, affiora sempre. Anche quello critico, cioè la severità, in parte connaturata in parte catalizzata dalla frequentazione dei professori Rama e Gulizza. E così mi tocca vedere un Bombardi Sartani rifilare indisturbato nei suoi articoli espressioni fieramente tecniche a base di “trascendenze ontologiche”, “datità esistenziali” e simili cime verbali. E anche leggere articolesse lunghe tre colonne buone e magari con la coda del terzo o quarto di colonna: e nessuno blocca simili eccessi (e talvolta ascessi).
Ancora (lagne). Nei primi tempi della mia collaborazione riuscivo a far passare articoli piuttosto “duri”, cioè di tono saggistico: perché in seguito non mi è stato più possibile? Soppesando tutte le ragioni probabili, credo che quella ideologica sia la prevalente e decisiva  nel determinare, voglio dire, l’ostilità dei gazzettieri di peso.  A neutralizzare, o ridurre drasticamente, la quale non ci sarebbe altro che l’antidoto di un protettore autorevole. Proprio quello che mi manca. Ciaccò fa quel che può, e se mi nasconde qualche dettaglio non dovrei imputarglielo a colpa. Mi disse una volta che il direttore Camarco preferiva “passare” articoli di sicura fede, anche mediocri, anziché i miei, che pure apprezzava: quelli, non era costretto a leggerli, i miei sì; e attentamente, cioè sciupando tempo e sforzando il cervello per coglierne l’eventuale veleno ideologico da spremere via. Questa attività censoria lo stanca, e perciò capita che i miei scrittarelli siano costretti a lunghe attese (qualche volta fino a perdere attualità). Triste, ma inevitabile. Intanto Ciaccò non è più tornato sull’argomento: forse s’è convinto che io faccio del mio meglio per “emendarmi” sui due o tre fronti (ideologia, lunghezza, stile) e che ormai la situazione s’è stabilizzata e spetta a Camarco ammorbidirsi un po’ di più. Chi lo sa?
Se penso ai primi tempi, che nostalgia! In quei primi mesi su questo fanatico giornale centro-destrorso sono riuscito a far passare una serie di pezzi abbastanza eretici: un elogio di Gramsci (in polemica con fior di baroni in cattedra supercattolici), due “celebrazioni” dell’ateo Camus, un Kierkegaard polemico con la Chiesa ufficiale del suo Paese (e gli “dèi presenti”), due Sartre comunisteggianti, un Kafka anti-brodiano, cioè “irredento” e tragicamente laico. E altre cosette non prive di frizzante appeal.
Ora alla Gazzetta giacciono, di mio: due vecchi articoli (quelli che lamentavo sopra come probabili cestinati), due altri più recenti, su Aldo Capitini (e la “pietà” gesuitica) e su un ghiotto saggio intorno agli sviluppi della filosofia matematica; due recensioni. Di queste ultime, una pizzica la signora Curzia Fernari, che intanto si becca i premi letterari senza sapere scrivere; l’altra bacchetta un esaltato filosofante, che pasticcia con mitologia pagana e antropologia, religione ebraica e cristiana, fisica quantistica e biologia molecolare per sbrodarsi in un enfatico prolisso clamante salmo di mera propaganda cattolica. Poi, avrei in cantiere due altri scritti (non sarà vero che scrivo troppo?): il più avanzato è una recensione al candido Leonida Répaci, autore di una raccolta saggistica, Calabria grande e amara; l’altro è uno sfogo (ma ben documentato) su Goldwater e compagnia non bella (anzi, bellicosa).
Previsioni sul materiale in campo. Sono quasi sicuro che i primi due siano ormai “superati”. Dei successivi, quello sulla Fernari sarà in sofferenza, dato che la signora è una beniamina di don Salvatore Quasimodo, amico e pupillo del rettore Pugliatti, a sua volta in ottimi rapporti con il giornale e con Ciaccò; e dato, altresì, che la stessa autrice ha regalato il suo libro a Ciaccò con tanto di dedica. L’altro pezzo, su e contro il dottor Cusmana Calerca, l’eclettico folle, sarà sembrato, o sembrerà, troppo aspro come stroncatura a un autore zanclese. Dei due più recenti, quello su Capitini, per cautelato che sia in virtù di auto-censura obbligata, sarà apparso troppo impietoso con La pietà dei gesuiti. La recensione-esposizione su Mutamenti del pensiero matematico, dell’ottimo Meschkovskij è troppo tecnica per una comune pagina letteraria. Dell’ambo da finire e mandare, la recensione a Répaci, ad onta della severità del rupestre calabrese verso la santa Chiesa maculata, potrebbe passare, in omaggio a quel bacino di lettori gazzettari (magari con qualche taglietto o sostituzione minimale di lessico). Nessuna speranza, invece, per il Goldwater, troppo “antiamericano”, per lorsignori. Cioè, spavaldamente onesto.
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Continua la Decima rassegna cinematografica internazionale di Messina -Taormina. Sherley Mac Laine, “madrina” della Rassegna per il decennale, ha spento le 10 candeline. Vorrei fare un salto alla “Perla dello Jonio”, ma non so se ce la farò a sganciarmi dal vischio familiare.
A pagina 10 della Gazzetta una notizia allarmante per gli occidentali: Prossima in Cina una prova atomica. Eh sì, è solo questione di tempo: prima o poi tutti i grandi Stati avranno la loro atomica. Si faranno tentativi di arginarne la proliferazione, ma gli effetti non saranno né generali né soddisfacenti. Ad maiora.
Agiubei torna dalla RFT. Butler chiede all’India una mediazione per il Laos. Due militari americani uccisi in un bar a Saigon dallo scoppio di un ordigno. Inconvenienti del mestiere. Di “liberatori” col pelo sulla pancia (non alludo ai soldati, ma a chi li manda). Sono morti anche sei civili sudvietnamiti. I guerriglieri comunisti alle porte della capitale. Situazione esplosiva nello scacchiere Sud-orientale. Se ci sarà un conflitto, la miccia sarà il Vietnam.
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Nella trepidante attesa, cerchiamo di fare qualche buon bagno di mare. Bisogna che cominciamo a portare a Nettuno anche il bambino. Ma oggi siamo andati soli, io e mia moglie Rina: il piccolo lo abbiamo lasciato con la nonna, mia madre, e la zia ancora nubile, la piccola delle mie sorelle. Con loro Gianpiero si trova bene. Siamo passati a prenderlo al ritorno dal mare di Akulia.
Arriva qualche cartolina di alunne calamagnesi. Cartoline illustrate, con distinti o affettuosi saluti “per lei e famiglia”. Una, con un suggestivo scorcio panoramico dell’entroterra silano, mi giunge particolarmente apprezzabile: è di una efebica Venere nero-chiomata dagli occhi rapinosi (impossibile da ignorare). I suoi saluti sono altrettanto distinti che affettuosi (ovviamente, sempre “per lei e famiglia”). La classe di questa alunna è particolarmente fortunata quanto a belle figliole: nessuna racchiotta e una decina di soggetti variamente attraenti.


3 agosto, tarda sera

Allarme nel mondo: Nave da guerra americana attaccata nel Golfo del Tonchino. Il presidente Johnson convoca i capi militari e politici alla Casa Bianca. Brutto affare: la miccia è accesa. Riusciranno a spegnerla? Vorranno spegnerla? Ho paura che ci siamo già: sarà l’inizio di una nuova guerra locale, come quella di Corea di dieci anni fa. Cioè di quelle che non sono meno micidiali e crudeli delle guerre totali, se non per il minore coinvolgimento di Paesi.. E anche, quando va bene (cioè, meno male) per il minore numero di morti malmorti feriti mutilati. E psicotici.
Naturalmente, a leggere i nostri giornali, a sentire i nostri telegiornali, la colpa è tutta comunista, e le buone ragioni interamente americane. Si accetta per buona, da noi più che nel resto dell’Europa natificata, qualsiasi iniziativa americana: per cinica e illegale che sia. Protestano soltanto i comunisti e una parte dei socialisti; ma loro, si sa, sono sempre in malafede: per definizione. E’ il verbo dei nostri moderati, cattolici o laici che si dicano. Una volta, i nostalgici del glorioso ventennio erano abbastanza antiamericani da saper dubitare delle loro “spiegazioni” e pretendere una “terza via” fra gli schieramenti planetari opposti e prevalenti: oggi tendono, (almeno in parte, ma in sempre più larga parte) se non a fondersi, almeno a civettare con la benemerita Democrazia Cristiana, baluardo di libertà, non meno del transatlantico Campidoglio, casa madre delle nuove democrazie europee, e specialmente della nostra.
Pare normale e naturale, ai nostri democratici bi e tri-colore che le navi americane facciano la ronda giorno e notte lungo le coste nordvietnamite con i cannoni puntati sulle città di un Paese sovrano, riconosciuto e garantito da trattati internazionali; che gli aerei a stelle e strisce sorvolino incessantemente il territorio di quello Stato; che continuino a provocarlo. Per noi benemeriti del destino, che ci ha assegnati al “Mondo libero”, la provocazione è sempre del mondo comunista, questi tartari del ventesimo secolo. Ora si dà per scontato che la nave americana navigasse in acque internazionali, come proclamano quelle massime autorità. Chi ne dubita, chi sospetta una montatura è preso per imbecille o plagiato dalla “propaganda comunista” (questa, sì, sempre bugiarda e incessantemente all’opera, per confondere gli ingenui). Di tanto in tanto mi lascio tentare dal bisogno di comunicare alle mie allieve magistraline considerazioni di questo genere. Gli effetti? Discreti, direi. Per delle classi femminili, s’intende. Spicca un gruppetto della quarta classe per sensibilità indotta. Quella soprattutto.
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4 agosto

I minatori francesi sempre bloccati nel ventre della miniera. Tento di immaginare lo stato d’animo di questi sventurati sepolti vivi. Di immedesimarmi con le loro menti sconvolte dal terrore più squassante. Morire da sepolti vivi è la morte più straziante che io riesca ad immaginare.
Tuttavia, mi nutro lo stesso, rido alle situazioni comiche, guardo gli spettacoli d’evasione alla tivvù, vado al mare. E spalmo una mia estetizzante cupidigia visiva sulle appetitose nudità di giovani bagnanti stese al sole sulle sabbie dorate o sulla minutaglia ciottolosa delle nostre “variegate” spiagge (magari badando a non farmi sorprendere da mia moglie).
Qualche volta, ma non troppo di rado, mi avviene di pensare al destino di crudeltà casuale e di indifferenza assoluta che incombe sugli uomini, anzi su tutti i viventi sensibili. Ogni giorno – penso – in tutte le ventiquattro ore, in ogni minuto di queste ore, e in ogni secondo di questi minuti accadono nel mondo cose atroci. Ogni attimo del nostro tempo è colmo di sofferenza, in questa o quella parte del nostro pianeta (e chissà in altri lontani); ogni battito del nostro polso coincide con mille gemiti di dolore sparsi per il mondo. Non scatta minuto ai nostri orologi senza che una certa quantità di esseri umani vi vengano uccisi feriti mutilati: in guerre, rivolte, insurrezioni, agguati personali, incidenti su strada o sul lavoro. Né il peggio è la morte istantanea: questa, se capita in età “compatibile”, è un dono del...cielo; quello, il peggio, sta nelle torture che una parte dell’umanità subisce ad opera di un’altra parte. Negli inferni delle prigioni politiche, nei Paesi delle dittature fasciste come (purtroppo) anche in alcune di quelle comuniste (o del “socialismo reale”). Ma lo si fa, e non si dice, anche nei Paesi ufficialmente democratici: dove più dove meno, le garanzie giuridiche sono sub conditione, ed è facile trovare o inventare emergenze che “impongono” di sospenderle. A danno delle vittime e per godimento dei sadici sempre presenti fra le cosiddette “Forze dell’Ordine” (che spesso sono quelle di “un determinato ordine” e di un correlato disordine). Quand’ero ragazzo credevo che la religione funzionasse da freno pressoché infallibile sulla crudeltà umana; oggi so, dalla storia e dall’esperienza, altrui e personale, che le religioni funzionano meglio come catalizzatori e moltiplicatori della naturale inclinazione sadica degli uomini. E non abbiamo accennato alle morti a volte non meno crudeli provocate dalle malattie, da certe mostruose varietà specialmente. Lunghe agonie tormentose sono ordinaria quotidianità in certe forme di cancro (tra l’altro, in florida crescita). Ma anche altre non scherzano: peste lebbra cirrosi sclerosi a placche ... Insomma, tutto il mondo è un solo carnaio di uomini e bestie che urlano di strazi, e l’infinita messe di sangue sofferente che riempie gli ipocriti granai della Storia cresce senza tregue, senza intervalli che non siano semplici ondulazioni di intensità, un più o meno nel continuum del dolore.
Nello stesso tempo, dentro gli stessi spezzoni di Crono, altri godono, mangiano, bevono, fornicano, gridano e sfiatano di ben riusciti orgasmi. Come sottrarsi a questa “legge”? “Dio d’amore, perché permetti questo?” – gridava l’altro ieri un mio ex professore di latino al liceo scientifico di Realpolia. Colpito da una malattia atroce, che lentamente lo paralizza in tutte le sue funzioni e capacità, cominciando da quelle motorie e in esse giocando con lenta perfidia, l’infelice, sta conoscendo l’assurdo multiforme della fede consolatrice e ne ha moti di rivolta. Ritengo, tuttavia, non radicali né destinati a durare e solidificare. Troppo intriso di educazione catechistica, il buon Beppe Spoda.
Il dio d’amore permette questo e altro fin dal primo giorno che atomi e molecole si organizzarono in assetti viventi. Solo che non è lui l’autore di tanto miracolo e sfascio. Lui, che è soltanto favola e invenzione di tardi cervelli umani troppo spaventati dalle mortali minacce degli spinosi ambienti in cui si trovarono a vivere, cioè a lottare per la sopravvivenza, tra prede e predatori spesso incombenti minacciosi e invincibili. Cervelli, in fondo, ancora infantili, se afflitti da tutte le categorie della mentalità infantile (vedi Piaget).
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E penso anche al Dio di Tennessee Williams nella commedia Improvvisamente l’estate scorsa: rivedo le “aquile del mare” volteggiare nel cielo sopra le assolate spiagge oceaniche dove si schiudono le uova delle tartarughe marine e mi si riaccende la sequenza visiva delle minuscole creaturine appena sgusciate dall’uovo che fuggono disperatamente verso l’acqua salvifica del mare vicino: sanno, per memoria genetica, che devono farlo per sfuggire a quei predatori incombenti, anch’essi stampati nella memoria specifica insieme al loro moto di morte. Vedo il loro brulichio affannato, già esperto del destino di catastrofe che le attende sulla soglia della vita, e le aquile planare in cerchi di nembi neri e rapide avventarsi, in un ultimo guizzo, sulle tenerissime carni. Si è calcolato che scampino a quel mattatoio dall’1 al 10 per cento al massimo delle ghiotte bestioline in fuga: un intervallo beffardamente breve, fra la trepidante nascita e la morte atroce. Come la durata di moltissime specie viventi. Questa visione non mi ha più abbandonato dalla sera che ho visto per la prima volta la commedia tradotta in film con la radiosa e carnale Elisabeth Taylor. E mi risuona da allora la frase rivelatrice: “Ho visto il volto di Dio”. Riferita appunto al banchetto di cui sopra.
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5 agosto, sera tarda

Il piano di una nuova dimostrazione dell’esistenza di dio registra questi progressi: Tre persone, presso La Spezia, schiacciate da un autotreno. Sempre in incidenti, due altre, Padre e figlio, morti a Venezia. Sembra la parodia di un celebre titolo: Morte a Venezia. Ma certamente le due vittime ignoravano la coincidenza e forse avevano fatto il callo anche allo scenario fantastico di Piazza San Marco. Seguitiamo. Una donna perde la vita sull’Autostrada del Sole, nel Casertano. (Gazzetta dello Stretto). Qualcuno giudica che la famosa A18 abbia accumulato già meriti sufficienti per un nome alternativo: “Autostrada della morte” . Dal commento, ritorno ai fatti: Annegano dieci persone (ibidem). Ancora: Ragazzo francese ucciso da un leone. Ci fermiamo qui.
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Ho ricevuto, oggi, un pacco da Gulizza. Contiene un libro postumo del filosofo Luigi Ferratti messo insieme da lui, che fu suo allievo, con gli appunti manoscritti del suo maestro; una lettera di mezza risposta alla mia ultima, speditagli circa un mese fa, e il dattiloscritto di un mio articolo sul suo pensiero con qualche richiesta “intromissione” personale. Il libro ferrattiano si intitola Linguaggio del sogno, ed è un pingue volumotto di 350 pagine, ivi compresa l’introduzione del curatore (dieci paginette scarse). Naturalmente, devo leggerlo e recensirlo. Nella missiva Gulizza mi fa tante scuse per non avermi risposto prima. Sono convinto di averlo irritato con le mie due ultime lettere schiette. Ho preso l’abitudine di parlargli chiaro: sto diventando un buon allievo, no?
Quanto al mio articolo su di lui, posso proporlo, se mi va, al direttore e fondatore della rivista La Procella, che si stampa a Reggiùli. Vedremo.

6 agosto

Titoli di 1a pagina su La Stampa: Johnson ordina alla Marina di distruggere “qualsiasi unità che attacchi le nostre navi” L’annuncio del Presidente in una conferenza stampa alla Casa Bianca.”Questi ordini – ha detto con voce ferma – saranno eseguiti” La VII Flotta rafforzerà il settore nel Golfo del Tonchino: una potente squadriglia aerea da combattimento proteggerà le navi da guerra. Washington è decisa a dimostrare alla Cina che gli Stati Uniti non sono una “tigre di carta”

Ci si preparano giorni di afa supplementare. La Stampa riporta il commento del francese Le Monde all’incidente del Tonchino. Il giornale francese teme che la tendenza russa a un disimpegno in quel settore possa incoraggiare “la Destra del Laos” e “i suoi padrini americani” a “intensificare le operazioni militari e riguadagnare il terreno perduto”. Teme, del pari, un’estensione del conflitto nel Vietnam del Nord. “Ci si può chiedere – continua il giornale – se l’attacco all’incrociatore americano non avesse precisamente il fine di far sapere a chi di dovere che non ci si spaventa ad Hanoi o a Pechino di uno scontro con l’imperialismo americano”. Ipotesi plausibile. Resta da sapere, comunque, se l’incrociatore americano navigasse veramente in acque internazionali. Cosa che non credo affatto.

Nella 3a pagina La Stampa del 3 agosto ospita un articolo di Nicola Abbagnano, L’animale che parla. L’articolo tratta della filosofia del linguaggio, e rileva l’opportunità che i filosofi del neopositivismo logico non dimentichino, col loro assolutismo linguistico, la natura originariamente strumentale del linguaggio, la costituzione ugualmente legittima di molti linguaggi e la necessità di vedere il linguaggio nei contesti non linguistici dai quali emerge come mezzo di orientamento (biologicamente motivato). Ecco un passo particolarmente significativo per certe espressioni che denotano, appunto, una non trascurabile sensibilità biologica):

[...]il più delle volte il linguaggio viene considerato e studiato in se stesso, prescindendo dall’uomo che parla e dalle situazioni in cui parla, in espressioni e frasi analizzate indipendentemente dal contesto non linguistico in cui esercitano la loro funzione e dai fini cui sono dirette. Ma se il linguaggio è lo strumento fondamentale di cui dispone per la costruzione del suo mondo quell’animale che è l’uomo, in esso è sempre un animale che parla: un animale, cioè un essere fornito di bisogni. Dipendente dal mondo, soggetto a limitazioni di ogni specie, errori e illusioni”.
Ciò esclude la possibilità (almeno attuale) di un “linguaggio perfetto”, secondo la pretesa di alcuni filosofi e linguisti. Pur restando vero che il linguaggio della scienza, e particolarmente quello matematico, sia, oggi, il linguaggio più perfetto (o meno imperfetto). Il discorso di Abbagnano risveglia in me l’idea (non proprio recente, ma sempre “rimandata”) di un articolo (da Terza pagina o da rivista culturale) sulle Convergenze filosofiche. Lo scritto dovrebbe accostare alcuni pensatori contemporanei (Abbagnano, Camus, Merleau-Ponty, Nietzsche, Paci, Russell, Rensi, Schopenhauer... a Gulizza), mostrando la tendenza prevalente del pensiero contemporaneo più vitale verso una rivalutazione della corporeità e animalità dell’uomo, della mondanità e naturalità assoluta del mondo umano, e di un empirismo duttile come metodo filosofico coerente con quella tendenza. La rivalutazione è favorita dagli sviluppi delle più recenti e fortunate scienze biologiche, dall’etologia alla genetica e biologia molecolare, a loro volta soccorse e alimentate dalla fisico-chimica e dalla cibernetica. Sarebbe un omaggio al “vecchio” e un tentativo di avvicinargli alcuni astri dell’odierno firmamento di Sophia. Lo farò? La mia fucina è ricca di idee e buoni propositi, ma povera di esecuzioni.

La pagina 5 dello stesso quotidiano ospita un articolo di Carlo Arturo Jemolo sulla Crisi degli italiani nel 1914-15. Un anno, poi l’intervento. Mi permetto di dubitare del presunto “stato d’animo” che “venne a crearsi per i più degli italiani”, secondo l’illustre giurista e storico: “di schietto, sincero entusiasmo, di fede, sia pure ingenua, ma sentita, nei valori ideali della guerra che si combatteva da parte dell’Intesa” contro “la barbarie tedesca, l’autoritarismo e così via”. I più forse piangevano e maledicevano la guerra e chi la imponeva ai poveri operai e contadini; forse imprecavano contro l’indistinta congrega dei responsabili di entrambe le parti per essere stati brutalmente strappati alle loro case, terre, lavoro; alla serena o tribolata, ma sempre più sopportabile, vita domestica del tempo di pace. Come avviene, nella realtà dei più, sempre, quando gli fanno scoppiare sopra la testa una guerra. La quale, fra le varie forme e occasioni di barbarie, non teme confronti. Quella fede entusiasmo eccetera poté nascere, sotto la spinta della propaganda, dopo, quando era inutile piangere e conveniente darsi un conforto purchessia, una forza morale che reggesse l’immensa fatica dell’anima nei rischi sacrifici sofferenze quotidiani del corpo. Ma che c’entrano, pur sempre, i più? L’articolo finisce, poi, in gloria Dei. Ed io mi stupisco come un intellettuale, una mente repleta di cultura informazione memoria storica possa trovare compatibile con tanta consapevolezza e coscienza etica una fede religiosa, e quella cristiana e cattolica in particolare. Come non bruci di sgomento, un uomo di normale sentire e sapere, al cospetto dell’orrore sconfinato di sofferenze inenarrabili che mondo e storia, e proprio la guerra in primis, oppongono alle eiaculazioni verbali sui mirabolanti attributi del Dio giusto misericordioso amoroso onnipotente. Per tacere degli orrori stragisti pullulanti in quell’Antico Testamento, e, a pimento-contesto del sadismo teoconico, le contraddizioni e favole.
La guerra, le guerre: la prova maggiore fra le massime che mostrano il guasto originario del mondo, la sua assoluta nudità contro le ciarle mistificatrici, il vero male radicale che attossica l’uomo. Eppure è nelle guerre che s’alzano al cielo le preghiere più accorate e le più spudorate ruffianerie; eppure dopo l’immane macello dei cinquanta milioni di morti e lo sconfinato seminario dei feriti e mutiliati della seconda guerra mondiale un revival religioso senza precedenti portò al potere dei Paesi occidentali partiti cattolici. E che non ci furono tentativi di inquinare la Costituzione italiana col nome di dio, pretese di agganciare al progetto ignominioso la complicità vaticana? Che non ci furono fior di risvegli spirituali e santi frenetici prestati alla politica dell’Italia rinsavita (in parte) dalla sbornia fascista? Nell’occasione i marpioni del Vaticano furono più saggi dei cervelloni proponenti il dio costituzionale. Sì, l’uomo è davvero capace di qualunque paradosso, di qualsiasi irrazionalità.
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Lo so quaderno, lo abbiamo già notato e annotato sulle tue pagine, mi ripeto, ci ripetiamo: in gloria Dei, anche noi. Sia pure in modo dialettico (vedi, usiamo una parola aristocratica, di alto lignaggio). E torniamo, con questi intenti imperativi e igienico-sanitari, alla nostra piccola privata e inutile Dimostrazione dell’esistenza di dio attraverso la cronaca nera. Dal quotidiano La Stampa. Pag. 6: Quattro ferrovieri svizzeri in permesso s’uccidono precipitando per 700 metri sul Massiccio del Bianco (titolo) Sono già 34 le vittime di quest’anno sulla tragica montagna (occhiello). Ma sorvoliamo sul resto: per risalita esofagea di nausea metafisica.
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E cambiamo argomento. All’Esposizione di Losanna meno visitatori del previsto. Cinque milioni di persone in tre mesi: se ne attendevano 7-8 milioni. Spiegazioni eziologiche? Pare che i padiglioni siano troppo culturali e poco folkloristici. Eppure ho visto in un documentario televisivo la grandiosa bellezza della manifestazione. Losanna: il gomitolo di Mneme svolge il filo di dolci ricordi e scioglie nodi di rimpianto. Sono passati sei anni da quel viaggio nel meraviglioso di Bruxelles, Expo 1958, Viaggio-premio per la media più alta della facoltà di filosofia, io, il primo, e il secondo, a notevole distanza, il caro Enzo, amico e collega che da un paio di anni non vedo e non leggo (nella sua nervosa grafia epistolare). te. *
E’ stato pubblicato il Censimento delle vittime del Vajont: 2014 morti. Finora il più autorevole “sillogismo” nella presente “dimostrazione” dell’esistenza di Dio, creatore di questo mondo meraviglioso. Certo, un Dio che può “assistere” ad uno spettacolo come “il Vajont” è un’immagine da meditare anche nel cervello meno alacre e più contorto: ma la gente naturaliter credente preferisce litigare coi parenti increduli piuttosto che imparare e disimparare. Disimparare il dio gonfio di virtù benefiche e imparare, per esempio, gli dèi di pietra di Epicuro e Lucrezio, di Spinoza o di Camus: un’idea teologica che s’impone con schiacciante autorità. Ma la devozione degli umani è di buona lega: si chiama paura. Un argomentare alla prof. Gulizza suonerebbe, pressappoco, così. La paura teologica è il primo derivato dalla sostanza del mondo biologico: la fame. Come tutti gli animali, anzi tutti i viventi, gli uomini mangiano e, correlativamente, temono, per fisica necessità, di essere mangiati. Unificando in poche figure espanse la copiosa molteplicità delle minacce trofiche (grandi carnivori predatori, altri uomini di vario colore, ecc), si inventano gli dèi, potenze invisibili, ma variamente incarnate, e virtualmente assassine, cioè pantofagiche: perciò, da rabbonire con offerte sacrificali per ricavarne protezione e vantaggi materiali (salute, caccia feconda, vittoria negli inevitabili scontri fra tribù e via spalmando). Quando e dove al politeismo succede il monoteismo, questa logica si semplifica ma non crolla: gli dèi e il dio unico sono la stessa sostanza monistica modificata nella forma, nelle sembianze (sempre zoomorfiche o, “progredendo”, antropomorfiche). La stessa corona di attributi promozionali (potenza, giustizia, amore, misericordia...) fa parte del trattamento propiziatore. E’ bensì vero che molti credenti, a cominciare dai mistici confessionali, credono in buona fede di amare dio, ma in realtà lo temono. Al punto da ingannare se stessi sforzandosi di credere nel suo amore e di ricambiarlo. O che non si è arrivati al paradosso comico di dichiarare (al momento non ricordo quale campione della favolistica teologica l’abbia detto) che il proprio amore per dio fosse tale e tanto da offrirgli non solo la vita, ma l’anima addirittura. Bello, no? Uno dice al suo buondio: se vuoi una prova assoluta del mio amore, dannami pure. E certi beoti di accademia a ostentare rispetto per tanta offerta.
Insomma, il dio monoteistico, concentrato di virtù senza limite, è, nei fatti del culto, un Moloch bulimico variamente mascherato. Nella gloriosa Cartagine imperiale, quei comprensivi devoti, nei momenti di maggiore pericolo per la città-stato, offrivano a quel buongustaio la carne più tenera, quella dei bambini. I quali, a suggello della civiltà e del suo pilastro maggiore, la fede religiosa, venivano scaraventati vivi e croccanti nelle fauci incendiarie del dio antropofago. Pare che tale fortuna molto metafisica toccasse con precedenza assoluta ai primogeniti. E nelle contingenze di maggiore pericolo, erano i personaggi eminenti della Città a immolare per primi quella carne purissima. La pratica era diffusa presso i fenici, che, fondatori di quella città sventurata, nelle sue leggi la importarono, a garanzia di felice fortuna. Né la deliziosa teologia pratica era confinata sulle rive del mare nostrum: i classici dell’antropologia culturale ci hanno insegnato che diffusissima era anche presso le popolazioni del centramerica. Insomma, è falso che i credenti sentano un dio buono: lo sanno e sentono crudelmente cattivo, e perciò lo adùlano, lo blandiscono e vestono di eccelse virtù, contraddette invano dalla tragica baraonda della vita cieca: hanno un vitale bisogno di farselo amico, di scongiurarne la bulimia cronica, e non badano a spese in fatto di sacrifici: per millenni, prevalentemente umani, e poi animali e vegetali. Ma non è detto che i sacrifici umani siano del tutto scomparsi: a ben guardare, se ne potrebbero scoprire ancora abbondanti tracce e code, sotto mentite spoglie e con percorsi tortuosi. Ma questo è un altro discorso, per altri tempi e occasioni.
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E torniamo a leggere cronaca nera e al sangue. A pagina 9, della stessa Gazzetta, tre bambine e tre adulti uccisi dall’ennesimo incidente d’auto; e dieci feriti sempre in quel tipo di incidenti. Che, in periodicità annuale, pare sommino un totale di tutto rispetto: nella sola Italia, tra gli otto e i diecimila morti: in tutta Europa, sui centomila. Ci vuole troppa fantasia per associarli ai vecchi sacrifici umani, visto e considerato che l’auto è, tra i nuovi idoli, il più venerato? Sacrifici più spicci, privati della prosopopea rituale delle vecchie pratiche, surroganti il sacro altare e le marmoree o litiche statue dei vecchi dèi con l’anonimo asfalto delle seducenti arterie e gli inutili guard rail. Posso spendere, quaderno delle mie solitudini serali e notturne, un minuto, anzi tre, pensando alle tre bambine assassinate sui nuovi altari di pietre all’asfalto, a quelle sconosciute ostie immacolate per i nuovi moloch autostradali? Come saranno morte (anzi, volate in grembo al Signore, dicono i credenti loici)? Hanno sofferto molto? Spero di no. E si può confrontarne l’esiguo numero con quelle troppe affogate nel sonno dalla sovrabbondanza divina dell’acqua propiziata dalla sudiceria umana? Vajont: un altro sacrifico a Mammona, avatar dell’onnipotente pantocrator Moloch. Un monumento megaliquido di sacrificio, un pantagruelico banchetto. Altro che i giganti litici dell’isola di Pasqua, qui si va per le spicce, si risparmia fatica e tempo.
Ecco come, trascinati dall’onda della logica fluente, ci si dimentica dei propositi di tregua e rispetto della misura: siamo tornati alla lettura teologica della pandemia trofica. E dei suoi derivati: aggressività, lotta, guerra, scontri...

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