lunedì 17 novembre 2008

Susanna e la metafisica



PASQUALE LICCIARDELLO


SUSANNA E LA
METAFISICA

ROMANZO


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C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo.
LUIGI PIRANDELLO, Uno, nessuno, centomila
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Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente, non hanno neppure bisogno di parer verosimili, perché sono vere.
LUIGI PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore


Nelle epoche di civiltà rozza e primordiale l’uomo credette di conoscere nel sogno un secondo mondo reale; è questa l’origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe trovato alcun motivo
di scindere il mondo.
FEDERICO NIETZSCHE, Umano, troppo umano


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Per quanto amare, dolorose, angoscianti siano le cose di cui si scrive, lo
scrivere è sempre gioia, sempre “stato di grazia”.
LEONARDO SCIASCIA, La strega e il capitano

PREAMBOLO

* * *
Qualche tempo fa ho ricevuto un insolito dono: un pacchetto contenente quaderni scolastici. “Scritti” dove più dove meno, raramente pieni, spesso con molti fogli bianchi, e tanto di data all’inizio di ogni blocco di pagine: un diario, insomma. Discontinuo, incostante, non privo di ripetizioni. Ma soprattutto composto di “materiali” diversi, tra loro incoerenti, casuali: dalla cronaca privata alla trascrizione e commento di notizie politiche, dalla meditazione filosofica al moralismo occasionale, su fatti e misfatti del giorno. E poi: minute di lettere indirizzate a questo o quel personaggio di spicco, abbozzi o veri e compiuti articoli di giornale: da terza pagina e politici; o di costume. Fra quelli culturali, recensioni, commemorazioni, polemiche. Rapsodica ma insistita l’analisi interiore, e soprattutto l’autoanalisi. Entrano ed escono da queste pagine le figure più varie: familiari, amici, colleghi, studenti, politici, letterati, filosofi e uomini di cultura in genere. Gli studenti sono quasi tutti di sesso gentile: l’autore, infatti, insegnava in un istituto magistrale, dove, com’è noto, la preponderanza femminile è proverbiale, e spesso intere classi erano composte di sole ragazze.
Nel diario figurano molti nomi, e anche quello dell’autore; ma credo si tratti di nomi posticci (almeno, in parte). Magari allusivi, a volte (e chissà in quale misura), della realtà coperta, ma, per la maggior parte, credo del tutto fittizi. Il perché di tanta prudenza affiora dal carattere di certe pagine, di certe confidenze non coerenti con lo stato coniugale del diarista.
Leggendo questi sfoghi vieppiù intriganti cercavo qualche indizio che mi orientasse sulla identità del collega misterioso. Credo di averne trovato più d’uno: certi dettagli, certe parole ricorrenti, e precisi stilemi, ma, soprattutto, alcune circostanze adombrate, e più che adombrate, in certe “giornate”, mi riportano alla memoria un collega col quale, in anni lontani, quando insegnavo nella Magna Grecia ionica, c’era stata un’amicizia alquanto mossa, ma sincera, fatta di consonanze e divergenze. Un rapporto più dialettico, si può dire, che “pacioso”: garantito, però, da una reciproca stima. Le défaillances caratteriali non le ignoravo, né lui ignorava le mie. Questa reciprocità, anzi, alimentava una sorta di complicità morale, che, nei momenti buoni, ci permetteva di perdonarci limiti e colpe (più che altro, negligenze e pigrizie). Capitava che ci dicessimo (a consolazione reciproca?): “A volte sembriamo l’uno l’alter ego dell’altro”.
Una settimana dopo il pacco mi arrivò una lettera di chiarificazione. La trascrivo:
Carissimo,
molti anni fa ti confidai che tenevo un diario: un coacervo di cose varie, una specie di Zibaldone, con certe marcate prevalenze. Ti dissi pure che mi ripromettevo, da pensionato, di elaborare parte di quel materiale grezzo in uno o più racconti, o in un lungo romanzo autobiografico. Ti dirò, anzi, che ho cominciato a pensarci da prima che entrassi, come dice il burocratese, in quiescenza. Ma tutte le volte, l’impresa s’è interrotta. Spesso, appena agli inizi. Ora sono in pensione da quattro anni, ma non ho trovato la serenità necessaria alla continuità compatibile con un lavoro del genere. Che ho ricominciato e sviluppato fino a un certo punto, arenandomi come per il passato.
Parlo di serenità mancante, ma dovrei, più probabilmente, dire, e confessare, carenze caratteriali, remore genetiche. Quali? E quante? Troppo lungo, e sgradevole, sarebbe uno sforzo bastante a esaurire l’argomento. Meglio sintetizzare, semplificando, con la formula “incapacità di concludere”. Fossi dotato (gratificato) di quella capacità, la serenità me la sarei conquistata, magari a forza di contrasti domestici. Paradosso? Non del tutto: le mie poche conoscenze accademiche, e in generale i “riusciti”, sono tutte persone che attraverso iniziali conflitti intra moenia sono arrivati a conquistarsi quella “serenità”. Come dire: un tempo di lavoro garantito. Certo, ci sono anche le malattie, e si offenderebbero se non le ricordassi. E gli interventi chirurgici. Ma il vulnus decisivo sta nel piccolo dittatore bi-elicato.
Che fare? La soluzione migliore sarebbe di bruciare l’intero malloppo. Non lo dico per civetteria esorcistica: ne sono convinto. Ma so anche, con quasi assoluta certezza, che non ho abbastanza carattere neppure per un esito così drastico. Stavo per scrivere virile: non ho mai raggiunto una vera maturità caratteriale.
Breve, ho pensato di affidarti i miei quaderni. Per farne cosa, mi chiederai. Quello che vuoi. Un romanzo, due, tre. Una serie di racconti. Non so. O nulla, li lasci come sono, me li restituisci. Nel caso tu decidessi di usare il materiale per un tentativo di narrazione coerente, hai piena libertà d’intervento: taglia, aggiungi, sostituisci, modifica, come ti pare. Insomma, ti propongo l’elezione a mio editor. Unico limite, la salvezza della sostanza: di fatti, emozioni, sentimenti, pensiero (soprattutto). Precisazione, me ne accorgo, superflua: ma ormai sta lì. Correggermi? A che pro?
Allora, vuoi provare?
A quest’ora avrai (forse) letto, se non tutti, buona parte dei quaderni: avrai trovato indizi per identificarmi. Io però non ti aiuto oltre, e ti lascio nel dubbio: per piccolo che possa essere. E forse neppure tanto piccolo, se consideri che altri colleghi tenevano diari: per lo più convenzionalmente sentimentali, ma almeno altri tre o quattro avevano accennato al modello Zibaldone. Ne avevano parlato a me, ma qualcuno di loro anche a te (mi pare). Eravamo il drappello dei dotti (così ci sfottevano gli altri colleghi, i praticoni della mediocrità prevalente), e uno o due di essi hanno intrapreso con successo la carriera universitaria. Del più robusto e rubizzo del cenacolo lo so per certo, e fa linguistica all’università del Bruzio; non sono sicuro dell’altro, orientatao alla pedagogia. Dunque, chi ti scrive, oggi? Indaga, metti a frutto tutta la tua sagacia di inquisitore pirandelliano, e vedremo se avrai saputo indovinare. Quando, fra qualche mese (o anno?), mi avrai telefonato a questo numero di cellulare per comunicarmi la tua decisione sui quaderni, forse mi toglierò anche l’ultimo velo. Ammesso che possa resistere ai molti indizi.
Non ignoro le difficoltà enormi del pubblicare presso un editore almeno di media importanza, in questa nostra società (meglio: non società)letteraria frammentata in camarille e piccole-grandi mafie pronte a spensierate e spocchiose esclusioni. Non scrisse, una volta, Umberto Eco che un autore il quale si offra a un editore senza, almeno, una presentazione di Moravia o di Flaiano, non solo non ha speranza di essere valutato per la pubblicazione, ma non la merita proprio. Allora la disinvolta impudenza del super boss della fortuna editoriale mi indignò e stimolò un mio articolo polemico. Allora...
Lo so, è una sciocchezza, questa segretezza del cavolo. Tanto più che non sono così sicuro di avere evitato tutte le tracce della mia identità reale. Considerala un’altra manifestazione della mia residuale immaturità. O l’effetto cattivo di buone letture (che poi è un altro modo di dire la stessa cosa).
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Non avevo ancora finito di leggere il quaderno n.1 che mi arriva, sei giorni dopo la lettera, un altro pacco, appena più grosso del primo: sono fogli di videoscrittura e contengono la trascrizione parziale, riveduta e corretta, qua accresciuta e là ridotta, di una parte dei quaderni e di pagine sparsamente saltuarie di agende scolastiche (omaggi dei librai e delle case editrici), che negli anni più recenti erano diventati i nuovi contenitori degli sfoghi solitari (Cristo, com’è facile cadare nell’ironia dei doppi sensi involontari!) del collega misterioso. I fogli delle agende editoriali sono fotocopiati, e non sono moltissimi.

Che fare? Me lo chiedevo man mano che procedeva la lettura. Che mi interessava abbastanza, sia pure con ovvi alti e bassi. A volte mi eccitava intellettualmente con sollecitazioni coinvolgenti, specie nelle sue escursioni filosofiche, altre volte mi disorientava.. Ma soprattutto, mi convinceva (anche se non sempre, com’è ovvio) stilisticamente. Al punto che mi sembrerebbe un vero peccato non provare a valorizzare una prosa così “vibrata”.
Sulla quale, perciò, ho cercato di usare una delicatezza parsimoniosa, rispettandone molto di più la qualità che la quantità. Insomma, sono intervenuto meno parcamente soltanto per eliminare certe ripetizioni troppo vicine, correggere qualche svista, aggiungere una parola chiarificatrice, sciogliere qualche nodo sintattico troppo sofisticato, o soltanto oscuro. Beninteso, la misura della “manipolazione” varia a seconda delle pagine: nei quaderni ve ne sono di già corrette e pronte per l’eventuale stampa; ma anche del tipo opposto: semplici appunti frettolosi, abbozzi di dialoghi, canovacci di narrazioni mai compiute, schizzi veloci, notazioni grezze, con qualche disinvoltura linguistica tipica. Sono le pagine prevalenti, e danno quel senso di provvisorio e di incompiuto che caratterizza l’insieme. Del resto, che altro può essere un vero diario? Quel che mi pare di dover ribadire è il valore letterario globale. Mi pare: ma quanto può pesare questo parere nel mercato competente? Forse dovrei aggiungere Ai posteri...
Giudizio, dunque, forse incauto. Comunque, soltanto personale. Provare per credere? Ma ognuno prova e sente come gli ditta dentro compare Dna e relativa acculturazione dipendente. Così, almeno, direbbe l’amico del diario. Per onorare il quale al massimo delle mie capacità, ho deciso di lasciare, dove c’è e finché si conserva, la forma diaristica (spesso così occasionale). E che altro potevo fare? L’idea sola della fatica immane implicita in una diversa soluzione mi fa tremare le vene e i polsi. Neanche lo scrivente è un mostro di energia e tenacia. Tanto vero, che la presente premessa viene scritta quando il lavoro, già a buon punto, bensì, resta, tuttavia, a “notevole” distanza dalla conclusione bloccata. Quale distanza? Ah, saperlo! Ma saperlo vorrebbe dire essere oltre le insidie ricorrenti dello scoramento astenico. Che vedrai non capère in questi giri
A me non resta, intanto, che augurarmi (anzi, augurare al mio amico) buoni lettori. Ma, già: a me o al mio amico? A entrambi, direbbe il testimone imparziale: il “romanzo”, non appartiene a entrambi? A pari merito? Forse. Ma forse no. Come misurare le percentuali spettanti all’uno o all’altro? Nel dubbio, non sarebbe opportuno, ingrediens nel non casto mondo dei lettori (ingenui e scaltri) celarsi sotto uno pseudonimo? Ci penseremo. Intanto, chiudiamo la catena dei forse.
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Ps. Calma, lettore scaltro. Lo so che l’espediente del manoscritto è vecchio quanto il cucco: che sia trovato a Saragozza o tra polverose cartacce secentesche d’archivio; che sia “di un prigioniero” o mandato da un mezzo finto ignoto per pacco postale. Né io sono disposto a smentire o confessare, precisare e illuminare. Ti dico soltanto che la vita, a volte, è, pirandellianamente, più incredibile della realtà. E con ciò, amen. E buona lettura.
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Ps. Bis. Ho riletto questa premessa (o introduzione?) mesi dopo averla scritta. E dopo cento interruzioni: più o meno lunghe, più o meno motivate, ma quasi sempre infette di ricorrente sfiducia nelle virtù del nostro mondo letterario. Virtù etiche, di onestà intellettuale e non preconcetta equità. Ed estetiche, disperse, come si presentano, fra divergenti indirizzi (?) teorici, e soprattutto incollate alle dominanti ragioni del business editoriale. Che cosa vuol dire, poi, “nostro”? Soltanto italiano, o anche europeo, o dell’intero celebrato Occidente? Scegli pure liberamente, ipocrita lettore (con quel che segue). Scrivere solo per aggiungere carta alla carta, inedito a inediti, velleità a velleità? Grosso problema.. Ma siccome ne conosco di più grossi, lasciamolo lì. Insoluto e abbandonato. Alla peggio, sarà (il futuro allude all’ancora incompleta “stesura” del totale) l’ennesimo manoscritto (anzi, manoscritto sul manoscritto). Il fatto che si tratti, qui, di video-scrittura non cambia nulla della sostanza (almeno, si spera. Ma poi chissà).
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Ps 3. Ho ancora riletto il (presunto) Preambolo. Dopo molti mesi dal secondo post scriptum. Incredibile? Macché: coerente con quanto sopra esposto e squadernato. E, nella rilettura, si capisce, qualcosa è volato via, altro si è aggiunto, o sostituito al cassato. Non senza echi sottesi a contingenze, letterarie e no, influenti in un modo o nell’opposto sul work in progress sempre appeso a un filo (a un fragile filo). E immerso, più che mai, nelle nebbie del possibilismo kierkegardiano e musiliano. Preambolo in progress, insomma.
A proposito della comproprietà problematica e del nomen auctoris nell’ultima pagina scritta dell’agenda-diario 200… l’ignoto mezzo-rivelato mi suggerisce di usare, intanto, uno pseudonimo. Poi si vedrà..
Naturalmente, ora so chi ha mandato il malloppo. Non era difficile, leggendo i diari, isolare fra i pochissimi possibili, l’autore vero. Si chiama Paolo Assaggi.

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