martedì 24 novembre 2009

Susanna, Frammento 47


Akiskene, Sicania.
26 dicembre, Ore 16,30

Multa paucis. Resumé di una cronaca saltata. Arrivati sabato pomeriggio da Zefiria. Viaggio in macchina, la Millecento bianca dell’avvocato Carolui, suocero virtuale del cognato. Con noi anche mio fratello Saverio detto Sasà, venuto a trovarci in Zefiria rientrando da Roma. Viaggio tranquillo, malgrado l’atmosfera natalizia.
Esplosione di felicità in casa dei miei genitori. Mamma non finiva più di baciarmi. E’ stata una di quelle “incontinenze” che s’incidono nella memoria emozionale con solchi indelebili. Aveva le lacrime agli occhi, di felicità a sorpresa. Si era temuto, infatti, che non venissimo, che fosse “accaduto qualcosa” a impedircelo. La stessa “carica”, naturalmente, su mio fratello. Ma non ci giurerei: lui, lo vede più spesso di me, che non vedeva dai primi di novembre. E poi: verso il primogenito ha avuto sempre un’inclinazione speciale: non per preferenze capricciose, sì piuttosto per una specie di compensazione alla mia minore saldezza fisica. Mi sa più debole, più vulnerabile, ero il bambino che si ammalava più volte l’anno, e sono rimasto il più fragile. E’ questa condizione di ansia apprensiva verso la mia complessione “cagionevole” che le ispira il piccolo supplemento di tenerezza. Non ero, aggiungo, soltanto meno saldo organicamente, ero anche meno bello. Sensibilmente meno. E se pure valga le regola che ogni scarafuni è bellu a mamma soi’, non credo che la mia sottovalutasse le differenze fra me e il secondo maschio (penultimo rampollo della nidiata). In sintesi, mamma è la sola persona di cui io possa dire sempre: ex abundantia enim cordis os loquitur (Vangelo di Matteo!). Citazione coerente con la sua ingenua fede. Anche mio padre era commosso; ma non è (questo è banale, lo so) la mamma. Felici, poi, gli ancora non proprio vecchi nonni, di rivedere, un po’ più grande, di volta in volta, il nipotino. Che pur essendo il quarto dei nipoti, in ordine di arrivo, ha il non piccolo vantaggio di essere il primo del primogenito. Minuzie, ma non senza peso nella coscienza affettiva di questi teneri avi, così ligi alle tradizioni. Giampiero è l’unico che porta intero il nome del nonno paterno. Naturalmente, li rallegra e rassicura anche la “buona tenuta” di Rina, mia moglie. Che però non è sangue del loro sangue.
Dopo l’incontro e la sosta lunga dai miei genitori, l’impatto con la nostra casa e i parenti di Rina: il padre e la seconda moglie, a loro volta molto affezionati a noi e innamorati del bambino. L’emozione del rientro, in me, è un po’ deteriorata, ma resiste. Molti libri sono a Zefiria, non c’è più il televisore, anch’esso trasferito nella Calamagna. Mancano, dunque, alcune condizioni del clima più caldo delle volte scorse. Ma va bene lo stesso: quanto rimane, basta a scaldare quel fesso del mio cuore matto di intenerita nostalgia per le mie povere cose, che l’affetto anima e vivifica. Soprattutto, le “cose di carta”: libri, ritagli, riviste; i miei articoli pubblicati, raccolti in carpette distinte per anno e giornale (o rivista) ospite.
Faceva freddo nella nostra casa sicanica. Tanto che ci siamo infilati, con gli abiti addosso, sotto le coperte. Io a leggere l’Espresso, mia moglie a riposare. Giampiero si era inserito a modo suo, facendo un gran tramestio tra la sua culla e il nostro letto. Così ci aveva trovati la zia Mara, sorella minore del suocero. E così ci ha trovati mio fratello, venuto a prenderci con la sua macchina, appena buio, per riportarci in casa dei genitori. Avevamo perduto la speranza di uscire; lieti, dunque, di poterlo fare. Ma soprattutto lieta Rina, che vive più di contatti corporali che di astratte letture, a lei non molto congeniali. E, nella logica delle corporalia, i contatti con i parenti primeggiano. Specialmente se c’è, come stasera, aria di festa e movimento di possibili novità. Ma altresì, feste a parte, per la fame di notizie parentali, di novità nella vita di cognate e cognati, nipoti acquisiti, suoceri e via seguitando. Disposizione, codesta, comune forse a tutte le donne sposine, nella misura di Rina o diversa che sia.
Nella vecchia casa paterna troviamo gli zii di Santa Faustina con le tre figliolette. Altri baci e abbracci, e come stai, come state, e bene o non c’è male, e così via. Clou dell’incontro con zii e cuginette: la meraviglia di noi parenti, e dei maschi in particolare, per l’eccezionale sviluppo fisico della figlia maggiore. Poco più che dodicenne, e forme da adolescente prosperosa. Un po’quello che era capitato con la mia seconda sorella; ma lei non aveva la robusta armonia anatomica della cuginetta: questa Giusy è alta quanto me, più ricolma di mia moglie, bella di viso. Insomma, l’orgoglio di mamma e papà. Di questo soprattutto, che se la porta in giro nei suoi spostamenti di lavoro, a riscuotere i complimenti degli amici. Piccolette le altre due, o piuttosto normali, di fronte all’eccezionalità della prima. La quale le stacca di appena due anni la seconda, e di quattro la terza.
Abbiamo cenato insieme, a base di salsiccia suina con pane e frutta. Poi giocato per poco meno di un paio d’ore a carte. Precisamente, a sette e mezzo, il gioco del periodo natalizio, secondo tradizione. Con “simboliche” lirette in campo.
Abbiamo anche guardato la televisione: canzonette e comiche di Charlot. Infine, verso le 23,30, il fidanzato della mia sorella minore ci ha riportati a casa, me e la famigliola, con la sua macchina nuova fiammante, una Giulia bianca-argento .
Ieri, a pranzo dai miei genitori. Invitata pure mia sorella Valeria, secondogenita e prima delle tre sorelle. Naturalmente, con la sua famiglia al completo: due più quattro. Così a tavola siamo stati 14 persone (incluso il ragazzo di Sonia, “la minore”). Prima del pranzo siamo stati a Realpolia, anzi quasi soltanto alla villa comunale, un luogo di grande attrazione per tutti i bambini, e non solo. I due Giampieri, il mio e quello di Valeria, quasi coetanei (il secondo di sei mesi “più grande”), se la sono goduta lanciando pezzettini di gallette ai due cigni nella vasca, sempre disponibili al gradimento. E si direbbe che le care bestiole non godano soltanto del cibo facile, ma anche di un gioco coinvolgente con i bambini che li sollecitano. Naturalmente i nostri due pargoli non erano soli alla “balconata” della grande vasca: una piccola folla eccitata di bambini, soli o accompagnati da adulti, facevano gara a nutrire le mitiche creature. La vasca semicircolare è mezzo ingrottata al suo diametro, e all’ingresso della grotta verdeggiano piante acquatiche. Per il tetto roccioso della grotta si attende, da anni, una scultura con soggetto sul mito di Giove fatto cigno fra le gambe della Leda.
Per il mio Giampiero, questo con i cigni è il divertimento d’obbligo ogni volta che si torna in Sicania dalla Calamagna. Una specie di rito. Quando si sono stancati del gioco con i nobili alati naviganti, i due piccoli scavezzacollo si sono lanciati a scorrazzare per i viali del parco. I quali, oltre ad essere tortuosi, sono anche slivellati, e alcuni con pendenza molto ripida. La “Villa”, infatti, si sviluppa sulla fiancata di un altopiano partendo dal livello medio del centro urbano, condiviso dalla fascia centrale del parco, ben pavimentata, e digrada fino a quello di una strada sottostante, circa 15 metri più giù. Il che ci procura un po’ d’ansietà per i rischi di cadute durante le corse dei bambini. Che per fortuna, nostra e del Natale in corso, stavolta non hanno avuto incidenti. Anzi, hanno trovato ancora energia per tirare calci a un pallone colorato ciascuno, da noi comprati sul momento.
A completare del suo acme più appassionante la festa dei due bambini è intervenuto un delizioso imprevisto: l’incontro con Babbo Natale. Il mio Giampiero era sbalordito sovreccitato confuso. “E’ Babbo Natale quello vero, papà?” “Sì, certo, quello vero”. Ma la fiducia nel sacro Verbo paterno non bastava a rintuzzare la sua congenita insicurezza, a placarne la conseguente diffidenza e perplessità: la domanda si ripeteva: “Babbo Natale quello vero, papà, quello vero?”. Ed io a rassicurarlo dell’autenticità del rosso-bianco e super-barbuto personaggio della sua mitologia, replicando alla sua replica ansiosa. Quasi mi convincevo anch’io di avere davanti “Babbo Natale quello vero”! Il piccolo se lo mangiava con gli occhietti avidi e sbarrati, la boccuccia aperta, tutto il corpo teso al miracolo. Avrai capito, quaderno, che era “la prima volta” di Giampiero: fino a quel
momento il suo Babbo Natale aveva avuto la diafana consistenza delle figure su albi e volumetti a colori per la sua fascia d’età; e quella, meno irreale perché semovente, delle immagini televisive, che tuttavia appartengono anch’esse all’ “altrove” dell’irraggiungibilità corporale. Ora quella sorta di Verbo astratto bidimensionale gli si incarnava davanti agli occhi, diventava corpo, realtà piena, verità tangibile. Ma a toccarlo esitava, il piccolo, scioccato da tanta sorpresa. A poco a poco, comunque, incoraggiato dall’estroverso e ciarliero Babbo Natale e un po’ aiutato dal meno traumatizzato cuginetto, venne assimilando quella specie di trascendenza fenomenizzata. E mise in allerta tutti i sensi, tatto incluso, a sfiorare con le manine tremule quella stoffa di fiamma e le barbe di candida neve finta. Quanto all’udito, le orecchie venivano carezzate dal suono molle e dolcemente lamentoso delle cornamuse che seguivano, imbracciate da giovani suonatori specializzati. Non solo, c’era anche la voce del Babbo Natale “vero”, il quale gli parlò e ci parlò, augurandoci “Buon Natale, buon Natale a tutti, e tanti auguri, tanti buoni auguri, specialmente ai bambini!” Io feci per cavare qualche moneta dalla tasca, ma quel Babbo Natale rosso dalla bianca barba di stoppa mi fermò dolcemente la mano (sacrilega?) e con soddisfatta voce di convinzione profonda, sorridendo, mi disse: “No, niente soldi!” E tirò fuori dei cartoncini colorati offrendoli a noi adulti. “E non debbo pagarli?”, dissi io, forse per annacquare l’idea mortificante dell’elemosina. “No, non si pagano”, rispose il Babbo Natale che aveva preso l’iniziativa (intanto ne sopraggiungeva una copia non meno reale e movimentata). E diede un cartoncino a me, uno a mia moglie, uno alla nipotina Rosanna (sorvola, quaderno, sulla spinosa rima e quasi omonimia: non maculiamo l’innocenza), e due caramelle ciascuno ai bambini. Insomma, il miracolo era un filato di sorprese in successione “fatale”: così Giampiero mangiò, o meglio succhiò indugiando la caramella del Babbo Natale vero. L’apparizione del secondo Babbo complicò ancora un po’ l’emozione del piccolo introverso. Domanda e chiarimento: sì, Giampiero, i Babbo Natale sono tanti, tutti fratelli. Avrebbe dimenticato mai quell’autentico prodigio, quella mezza giornata magica?
Qualche minuto dopo la mitofania, un po’ discosto dagli altri, lessi in un lampo, sul mio, la scritta dei cartoncini: “L’onorevole Pino Galappo augura Buon Natale e felice Anno Nuovo”. Potei farne a pezzettini uno solo, l’altro, di Rina, era la reliquia di mio figlio. L’onorevole, cioè consigliere regionale, era uno dei politici più chiacchierati del collegio elettorale, anzi dell’intera provincia, anzi dell’intera Regione. Praticamente mio coetaneo, l’onorevole era stato un quasi amico della mia fanciullezza e adolescenza, un compagno (ai miei tempi d’infante e di boy si diceva così: compagno) di Azione Cattolica, un compaesano. Con l’ovvio appoggio della Innominabile, era diventato, come tanti personaggi della Diccì, una piccola potenza locale: un notabile da blandire con tributi di voti per posti di lavoro e favori diversi. Ci cascò un mio cugino, spinto dai poveri genitori dolenti, che riceveva promesse ad ogni tornata elettorale, e oltre a sommette di denaro “per le spese” del suo galoppinaggio, non riuscì a strappargli mai altro. Insomma, un mediocre esemplare di traffichino, la figura più diffusa delle nostre contrade; più della parietaria sui nostri muri di campagna e di cortile. Aveva sguinzagliato i suoi Babbo Natale per la città.
Vulpem pilum mutare, non mores (Svetonio). E la Sicilia di Sciascia, sempre più pervasiva, colonizza anche l’innocenza.
La sera, a casa, Giampiero pensosamente condensò in domande precise un’impressione rimasta allo stato fluido durante l’incontro magico.

27Dicembre,
sera tarda

Continuo la cronachetta iniziata ieri.
A casa dei miei, prima del pranzo, una visita alle stanze del primo piano e all’attiguo terrazzino panoramico (la già descritta stanza mancata): insomma, l’ambiente del sognone raccontato più sù. La rituale visita-dei-rientri ai luoghi della mia infanzia, e adolescenza, e prima giovinezza. Insomma, ai “miei luoghi”. Il tempo a disposizione dell’idillio era scarso, perciò le solite emozioni sono rimaste strozzate dalla fretta: spalmo un rapido sguardo memore sulle fotografie grandi, incorniciate, dei nonni paterni, appese alla parete di sinistra entrando nella prima stanza; su quelle piccole dello zio Silvio, l’Africano, posteggiate sul ripiano del comò; sulle carte nei vecchi cassetti, i libri, miei e dello zio, giornali, riviste; uno scatolone di cartone pieno della stessa roba. Un armadio screpolato dal tempo, paziente roditore, coadiuvato da mini-parassiti xilotrofici, pieno di vecchi indumenti smessi di vari familiari. Un secondo armadio, diverso dal primo, ma, come quello, addossato a una parete, e con l’identico ruolo di ripostiglio del passato. C’è pure, nella prima stanza, il desco da calzolaio di mio padre: talmente vecchio e rattoppato da suggerire l’idea di un ectoplasma della Vecchiezza in persona. E nero, poi, tutto punteggiato di chiodi e “semenze” (chiodini sfaccettati di varia minore misura) infissi a diverse latitudini del monumento; di buchi, e tagli, e screpolature di servizio o di puro capriccio. Quest’ultima qualifica vuole introdurre la confessione che buona parte di quei ricami (chiodini, in particolare) erano opera della mia mano di ventotto o trent’anni fa; taluni, forse, meno remoti, ma di poco. Da trent’anni quegli interventi infantili, non proibiti da papà, mi aspettano, come per un appuntamento sottinteso: piccoli scrigni di ricordi spenti e non più localizzabili. E ora mio figlio, questa parziale riedizione corretta (spero in meglio in tutto) si accosta al deschetto come l’Atteso dell’appuntamento generazionale. Per cavarne cosa, poi? Niente di preciso: solo un confuso rimescolio umorale, una specie di strappo alla gola, una fittarella allo stomaco, al cervello una specie di prurito, in un conato o illusione di continuità aperta a vaghissime speranze. Ancora una volta: di che? Forse di rivincite, di recuperi, di correzioni alla “prima edizione”, così carente in tenacia e ambiziosa assiduità. Forse solo la certezza fisiologica della continuità organica comunque garantita in faccia all’Esattore crudele dell’ultimo approdo, o naufragio che sia. Ho già detto al piccolo che quelle capocchie di “tacce” e chiodini e “semenzine” le ha ficcate in tutti quei posti il suo papà quando aveva la sua età o poco più. Labirinti dell’“anima”!
*
E quei giornalini illustrati, ancora; quei fumetti che accesero per anni la mia fantasia in crescita. Gli eroi dei miei dieci, dodici, quindici e sedici anni, inerzialmente confermati fino ai venti e passa, che mi agitavano il sangue infiammabile: Topolino, e la sua “corte”; Raf, la perfezione umana negli spazi planetari; e Gordon, il precursore straniero di Raf (e di lui tanto più famoso), e Cino e Franco, L’Uomo mascherato, Mandrake, Leardo... Le trame, certo, affascinavano, l’avventura avvinceva; ma erano le illustrazioni a sedurmi di più. Tra le tavole primeggiavano nel mio incanto quelle di Raf, creazione del pennarello magico di Vittorio Cossio. Divoravo le sue figure umane, robuste e con certe braccia e gambe e pettorali da prendersi tutta la mia ammirazione sospirosa di corpicino magrolino, con strutture osse poco “espanse”. Altri illustratori eccellenti, nel mio firmamento personale, erano Alex Raymond (al meglio del suo raffinato meriggio), il padre figurativo di Gordon (che conobbi molto tempo dopo Raf), Rino Albertarelli, con i magnifici quadri del “Faust” topolinesco; e successivamente, Aurelio Galleppini, disegnatore di racconti storici su Topolino e poi del fortunatissimo Tex Willer. Galleppini (in firma, Galep): l’artista dei marcati rilievi, dei chiaroscuri sbalzanti. Ma potrei citarne tanti altri ancora. La preferenza per le vignette ha una radice genetica: certa mia non spregevole attitudine al disegno figurativo (a scuola si distingueva come “ornato” dal geometrico). Quante scenette copiai da quei fumetti incantatori! E quante ne composi mescolando elementi di vari originali, alcune funzionali a tentativi incompiuti di racconti per un progetto-sogno di giornalino mai arrivato in tipografia.
Per qualche inafferrabile attimo riemerge dai miei anfratti psico-molecolari l’emozione intatta del loro arrivo settimanale. E l’attesa febbrile del giorno segnato, col risvolto della delusione cocente da qualche ritardo nell’arrivo. In questo angolo mnestico, l’emozione più deprivante, quasi di angoscia, la ebbi alla sospensione sicanica dei giornalini durante l’estate del ’43, il drammatico periodo dell’emergenza bellica: sbarco degli Alleati (la notte tra il 9 e il 10 luglio, con l’impegno di 3000 navi), bombe a gogò, l’Italia tagliata in due, la guerra che ci venne a stanare dalle nostre case. Non più soltanto sporadici agguati aerei ai civili delle città inermi (cominciati già del novembre del ’41: per errore, si disse e pretese.), ma eserciti di terra supermetallizzati a calpestare le nostre contrade seminandovi morti in divisa e senza, proiettili di mitraglia e bombe (perfino incendiarie) dal cielo, speranza e disperazione. Chissà quanto è durata quell’emergenza e quella sospensione, scolpita così indelebilmente nel ricordo di certe sue scene-madri.
Mi viene naturale associare questo tipo di esperienza emozionale con altre di pari intensità ma diverse per genere e genesi: per esempio, l’emozione del primo sì amoroso, il sì, di voce o, più probabilmente, di sguardi e stretta di mano, della prima ragazza amata, l’arrivo della fidanzatina all’appuntamento, il primo contatto col seno nudo della prima fiamma, quel celeste pomo di Eva che riempì la mia mano tremante: et coelum digito tetigi. Ma anche all’emozione del primo scrittarello tradotto in caratteri di stampa: un ampio articolo su Malaparte (polemico con i corvi sacri cacciatori di anime in transito) pubblicato nel giornalino universitario, Ateneo studentesco (con strascichi di vibrate proteste di provenienza bigotta). E poi, più forte, l’emozione del primo saggio apparso sulla rivista del prof. Lastrada, trimestrale di Filosofia teoretica fin dal nome. Trattava di Kierkegaard, ed era un capitolo della mia tesi di laurea. Mi sentivo sollevato nell’empireo dell’immortalità. Magari al suo primo e più basso gradino, ma pur sempre su quella scalinata dalla cima ancora nebulosa, ma disponibile alla conquista, sol che avessi voluto, fortemente voluto. Come non era, purtroppo, il mio caso (ma allora non lo sapevo). Analoga anche l’emozione della mia prima collaborazione alla terza pagina del quotidiano sicanico, Gazzetta dello Stretto. Emozione, quest’ultima, che rinnova, ancora in questo segmento di Crono magnogreco, la sua magica presa ad ogni approdo di un mio scritto su quel foglio non facile (per me, eretico). Lo stesso accade con le recensioni che mando al prof. Volpicelli, che mi consente estensioni del testo meno anguste del quotidiano. E, particolare non secondario, mi regala dei preziosi estratti che mimano e surrogano il libro ancora latitante dalle mie contrade di “seconda vita”.
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28dicembre,
ore 22,30

Seguito della cronachina. Ancora un deposito di caldi affetti: la stanza dello zio Silvio. Le sue cose: il tavolo di lavoro, la Olivetti Lettera 22, le sedie, i quadretti alle pareti, la corrispondenza nei cassetti e nel portacarte... Il bagno, il piccolo bagno con doccia e bidè, specchio con mensola e contorno per la barba, voluto da lui, che amava la pulizia e del corpo aveva estrema cura: lo aveva fatto costruire in un angolo del terrazzino, a ridosso del muretto basso, verso sud. Pulizia e indipendenza, da garantirsi appunto con un nuovo locale-bagno personale. Necessità moltiplicata, in seguito, dalla tremenda malattia, che, ormai conclamata, lo costringeva a frequenti abluzioni per via delle vene emorroidali spesso emorragiche. Anche iniziativa sua erano stati gli altri interventi al primo piano della vecchia casa paterna: restauro di fenditure murarie, ritintura delle pareti, sostituzione delle vecchie mattonelle con nuove e più eleganti. Questa stanza, insomma, è la testimone logistica della sua personalità, del suo stile di vita: lavoro, ordine, pulizia, precisione, coraggio nelle avversità (anche le più dolorose)
Il suo diploma di “capitano di lungo corso” alla parete. Un’altra puntura sulla carne dell’anima. Avrebbe dovuto percorrere una carriera di comandante navale, ma la vita lo aveva sviato su altri sentieri. Eppure, dovunque si applicasse, riusciva. Pensarne l’attuale realtà di poltiglia fetida è stato un lampo di amara vergogna. Infondata? Certo. A lume di logica. Nel fuoco occulto delle emozioni revoltées, una specie di mortificazione tentacolare: perché non ne abbiamo disposto la cremazione? Ma come potevamo? Una cosa tanto remota dai costumi locali. Perché, forse, non lo abbiamo protetto come meritava? E’ una possibilità. Ma si può proteggere qualcuno da una cirrosi avanzata? Perché si è avuto qualche moto di insofferenza in seno alla famiglia per i pesi imposti dalla sua presenza malata in crescente espansione di bisogni ed esigenze? Da parte femminile, soprattutto, dove invidiuzze e gelosie allignano favorite dalla fisiologia uterina. La quale constatava come gratuita ingiustizia subita il fatto che la zia Vanna, colei che più aveva goduto della protezione finanziaria di lui, e ne aveva determinato la rovina economica (o ne era, almeno, la causa principale), se ne stava lontana e al sicuro in casa sua, nel paesello subetneo, mentre le nipoti e la cognata, cioè le mie sorelle ancora nubili e mia madre, eterna martire di casa, dovevano reggere l’intero peso della sua non leggera assistenza.
Ma la fretta non concede alle mie cellule di fermarsi sul vischioso stagno: solo una lunga, quasi indolore trafittura per tutti gli angoli del corpo, che ora, sul quaderno, si è stirata in questo filato verbale reticente. Magari con la coda di una velleitaria promessa di dire un giorno più a lungo questo groviglio. Un giorno: ma quando?

27 gennaio
ore 23,30

Una notizia tragica dal mondo allegro dello spettacolo: Alle due e trenta di questa mattina Luigi Tenco si è sparato un colpo di pistola in una stanza dell’Hotel Savoy di Sanremo. Così dai notiziari radiofonici di oggi. Seguiti dai servizi televisivi. La notizia mi colpisce come un pugno allo stomaco: un giovane che rinuncia alla vita fa sempre impressione. Fioriscono le domande sulle probabili cause, ma con un convergere prevalente sulla bocciatura al festival: il suicidio come gesto di protesta contro l’ingiustizia del duplice verdetto, del pubblico e della giuria. E’ troppo presto per azzardare un giudizio ponderato sulla canzone “incompresa”, a una prima lettura emotiva “Ciao amore, ciao” non mi pare brutta, e la sua esclusione sa di incomprensione. Ha un’allure quasi epica con venature struggenti in quella ampiezza di sonorità iterativa del titolo-saluto. Non seguo molto le vicende del genere canzonetta, ma dal poco che mi è capitato di ascoltare della non folta produzione di Tenco mi sento di dire che era un ragazzo serio sensibile intelligente e con buona disposizione ritmica. “E lontano lontano” è una buona canzone, e anche nelle poche altre che in parte ricordo Tenco ha coraggio di protesta e denuncia delle magagne sociali. Canzoni impegnate, le sue, che hanno dato fastidio alla brava gente che conta. Al punto da farsi escludere dai baci di mamma Rai per un paio di anni. Lo ricordo nel film di Luciano Salce, “La cuccagna”, di qualche anno fa. Niente di eccezionale, ma pur sempre un test della sua versatilità.
Stasera non parlerò delle mie lagne personali.

6 febbraio

Un pianto mi piove nel cuore/ col bruir della pioggia sui tetti/...Che è mai, questo dolce languore, / che tutto mi penetra il cuore?/ O dolce bruire di pioggia,/ per la terra, le strade, e sui tetti!/ Oh! Per un cuor che si aduggia/ il pianto che piange la pioggia.
Verlaine, Romanza senza parole1

Non posso riportare i versi che seguono, quaderno, e tu sai perché: il nostro pianto (senza lacrime, ma non meno cocente) è tutt’altro che “senza ragione”; il mio “cuor che s’accora” non frigge di “inesplicata passione”, ma di passione abbagliata da un sole plurimo; e da alcuni suoi volti bruciata. Ah, traditrice spergiura e mentitrice senza fantasia!

Magari, continuando a sfogliare il grosso volume, fermarsi su un’altra e congruente composizione. Per esempio, questa:
Oh, la pioggia! Oh, l’autunno! Le sere sconsolate!/ Oh, la pioggia! Oh, la pioggia! Oh, quelle strisce lente!/[...] E’ una rete, la pioggia, pei sogni trapassati./ Con l’ali prigioniere nelle maglie, crudeli,/ quei divini usignoli dai gorgheggi accorati/ muoiono pel rimpianto di luminosi cieli./ E’ una rete, la pioggia, pei sogni trapassati/ Vessillo intriso d’acqua che sull’asta si affloscia,/ se la pioggia spietata risveglia il suo dolore,/ e la penetra e inzuppa quanto d’inverno scroscia,/ non è l’anima nostra che uno straccio incolore,/ vessillo intriso d’acqua che sull’asta si affloscia.

George Rodenbach, La pioggia, (ivi)

Insomma, piove. Da ieri sera. E ha piovuto tutta la notte. Tra i suoi molteplici effetti cattivi (ci sono pure quelli buoni: per la campagna, per esempio), c’è che ha rovinato il Carnevale della vicina Realpolia: una tradizione ferrea, un appuntamento atteso, oltre che dalla città promotrice, da un hinterland vasto e variegato, che dai monti sotto Mongibello scende alla marina, una settimana di festeggiamenti, con carri allegorici, macchine infiorate, gruppi mascherati, tenere sbandieratrici adolescenti in sventolanti gonnellini colorati, danze esotiche. E sudamericane bellezze quasi nude (ghiottissimo pasto visivo per un maschilato vasto e vario quanto il territorio coinvolto). Poi tanta musica, giochi di coriandoli e scherzi meno innocenti, per folle strabocchevoli che riempiono le principali strade del centro storico e sciamano anche nelle secondarie, magari in cerca di ristori trofici. Insomma, un evento paragonabile ai saturnali viareggini, e un po’ al più antico e aristocratico rito veneziano. Del quale copia i balli al chiuso (alberghi e altro) fino al mattino.
La pioggia, dunque. Anche qui, con un ventaglio di pieghe diverse: ha rovinato il piacere a lungo atteso della festa nelle piazze e per le strade; e passi; ha rovinato la soddisfazione dei politici del comitato organizzatore; e strapassi. Ma, soprattutto, ha rovinato i venditori di coriandoli e degli altri gadget saturnini Chi li risarcirà? Giove pluvio è lontano (anche nelle sue versioncelle politiche, così mediocri e poco solidali). Meno precaria la sorte dei costruttori di carri e macchine infiorate in gara: magari con ritardo, ma avranno la loro fetta di finanze stanziate per l’occasione. Naturalmente, con lo scontento di ogni anno sui verdetti della giuria, risparmiato soltanto ai vincitori dei primi e secondi premi.
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Ero indeciso fino all’ultima ora: partire o non partire? Il dilemma oscillava inceppato nell’equilibrio tra la pressione coniugale orientata al rientro sicanico, e la memoria atterrita del viaggio sotto la pioggia e per contrade non nuove a disastri alluvionali. A risolverlo, spezzando l’impasse, è intervenuta la spinta decisiva del bisogno di rottura. Rottura della deprimente routine dei giorni zefiresi tutti uguali negli ultimi mesi di deserto amicale. E invano tentati al superamento del grigio-cenere dal surrogato della magna Assenza. La quale continua a invadere le mie lande oniriche, con frequenza svergognata di provocazioni derisorie. E ogni giorno di più s’accosta al margine lungamente trasceso dell’eros distruttivo (quello, per intenderci, che la lingua comune chiama odio). Tanto che fa fatica, il mio cervello intossicato, a fermare a mezza strada il godimento calcolatorio di un’eventuale chance demolitrice di argini fisici fra l’Incognita e il mio corpo deluso.
Troppo ermetismo, quaderno? Capisco, ma come osare la luce del sole con tanto scintillare di recettori puntati? Ho accumulato troppa fifa nei miei micro-buchi neuronici dagli ultimi eventi, e non sento affatto il bisogno di peggiorare le cose con penose conseguenze di fatue imprudenze. Alle solite? Lo so.
Ripigliando. Non che goccioli nel cuore il pianto di Verlaine, né mi canta dentro la melopea di Rodembach; ma certo “E’ una rete, la pioggia, pei sogni trapassati”. E la cosa non muta granché se facciamo le debite traduzioni e al posto del cuore “metafisico” mettiamo la pompa muscolare semovente che manda il sangue dal cervello ai genitali. Né se i sogni si denudano in bit di informazione elettronicamente circolanti dai corpi cavernosi alle papille tattili dei polpastrelli, e da queste alle ciglia vibratili della mucosa olfattiva. Potremmo quasi concludere con un “Ah, la tua presenza circolante in sciami di ioni molecolari fra le distanze intrecciate dei distretti corporali!” Troppo “letterale”, il verbo scientifico? E allora torniamo all’anima “vessillo intriso d’acqua che sull’asta s’affloscia.”
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Postilla del trentennio. Virtualissimo lettore del Tremila, se mai ti fosse toccata in sorte dal distributore random del Dna la pazienza di un medio lettore del medio ventesimo secolo; o, detto altrimenti, se ti fossi avventurato in discreta salute fino a questa pagina, dovresti essere già abbastanza vaccinato contro il prurito indotto del “ dire in chiave” e del confessare cifrato, tanto presente in questo coacervo narrativo. Perciò ti basterà il seguente cenno che aggiungo alla trascrizione appena corretta della pagina parzialmente riprodotta. Avrai capito che ero incavolato nero con la mia affascinante traditora, e cominciavo ad averne abbastanza delle sue incursioni nei miei sogni. Tanto da non sentire il bisogno di raccontarli come nei primi mesi del suo “trasloco”? Non lo so: le tracce scritte di quell’avventura continuano a sbucare da nascondigli dimenticati, a riemergere da masse cartacee compresse in cassetti fuori mano. Magari un giorno troverò altri appunti, come questo quaderno ignorato fino a qualche mese fa, e vi leggerò dei sogni meno lontani, ma oggi non conosco altri appunti sull’argomento.(Oggi: quale oggi? Come si fa a dirlo se, da un mese all’altro si ritorna sul detto, che non viene sempre confermato?). Se mi capisco bene a tanta lontananza dall’essudato ermetico, mi auguravo addirittura di riuscire a odiarla. E fantasticavo, pare, di un possibile, anche se non probabile, incontro futuro in circostanze tali da farmi rimediare alle rinunce etiche dei giorni radiosi con una rabbiosa aria di rivalsa punitiva. Mi concedevo, perfino, poco virilmente, un anticipo virtuale di piacere “calcolatorio”. In sostanza, ero proprio ridotto maluccio.

In ogni modo, questa pioggia che mi ha impedito di raggiungere la grande Liotria, dove speravo di trovare i quotidiani irreperibili a Zefiria, mi ha rimesso in mano il bel volume di Vincenzo Errante, Parnassiani e simbolisti francesi, regalo della 4a E, anno 1962, dello stesso magistrale, (quell’anno vi insegnavo, da supplente annuale, italiano e geografia economica) protagonista, per ... sineddoche e metonimia insieme, di questo tormentato, sbilenco, divagatorio e pletorico tentativo di racconto. Dalle pagine del volumone sansoniano (1953), gli sciami fotonici sollevano risposte ioniche interne, e disegnano figure di quell’anno, volti di fanciulle di quella classe: miti e studiose e di serena bellezza acqua e sapone come Antonella R. (che rivedo, timidamente lampeggiante dai begli occhi platonici, seduta al primo banco); svelte e sveglie, perfino un po’ civette, come Rosalba L., con sguardi di risacca (ricordava un po’, ma senza valicarne la distanza, la prima “Bond girl”, Ursula Andress; quel 1962 è anche l’anno iniziale della serie bondesca: “007, licenza di uccidere”); in là con gli anni, come la Agata T., mia quasi coetanea ventottenne (che avevo fatto arrossire, segnalandole il presunto errore della sua data di nascita scritta sul documento scolastico – non senza divertito imbarazzo della classe); o come la Luigina S. ventitreenne, vergine (è doveroso supporre) in propensione maritale, alla cui “rampicante” mano devo la verticalizzata scrittura di una generosa dedica sul primo foglio bianco semicartonato dietro la copertina del libro. Che commoventi parole: “Al professore Paolo Assaggi, che con profonda dedizione ci ha seguite nel corso dei nostri studi, la IV E offre questo pensiero con l’augurio che la sete del sapere non venga mai meno”
La sete del sapere, forse, no. Ma la forza, probabilmente, sì. La forza di bere si logora, cara Luigina. Già nel quinquennio trascorso qualcosa è mutato, e non in meglio. Ma non voglio esagerare. Solo che mi fa paura il motore: lavora già da 35 anni e mezzo, e gli capita di dare segni di stanchezza.

Trascrivo una perla della collana “Le Canzoni di Bilitis” di Pierre Louys (sez. III. Epigrammi nell’isola di Cipro) La pioggia al mattino. “La notte sbiadisce. Le stelle si allontanano. Le ultime cortigiane sono rientrate con i loro amanti. Ed io, nella pioggia del mattino, scrivo questi versi sulla sabbia. / Le foglie sono tutte imbrillantate di rugiada. Lungo i sentieri, i ruscelli trascinano via terra e foglie morte. La pioggia, a goccia a goccia, fa buchi nella mia canzone. /Oh, come son qui, triste e sola! I più giovani non mi guardano neppure. Gli anziani mi hanno ormai dimenticata. /Apprenderanno, però, a memoria i miei versi. E così anche i figli dei loro figli. / “Ecco ciò che né Mirtale, né Thaìs, né Glikera potranno dire, il giorno in cui le loro guance saranno avvizzite. Ma le coppie destinate ad amarsi dopo di me, canteranno le mie strofe a una voce”.
Ed ecco la motrice “associazione delle idee”. La settimana scorsa ho visto nella libreria Melato di Zefiria un volume elegante che conteneva la “Canzone di Bilitis tradotta e introdotta da Pierre Louys”. Non mancava neanche un fine cofanetto impreziosito da illustrazioni. Costava 5000 lire. Visto il mio interesse, il libraio mi incoraggiava a comprarlo, lo pagassi come e quando volevo. Ma io posso permettermi libri che costino, al massimo, intorno alle mille lire. Altro nesso associativo: in quella libreria, un lustro fa, capitava spesso Lorena, l’alunna che mi guardava con occhi languidi, mentre io le sorridevo e la trattavo paternamente (lei era senza padre). E non era brutta. Affatto. Ero io indisponibile: serio professionale sposo tranquillo e prossimo padre. Certo, non aveva neppure la seduttività travolgente dell’Infedele. Forse in quest’incontro plurimo con la pioggia assumo soprattutto l’aria di rivalsa del finale. Però io non scrivo più versi da dieci anni. Che c’entra? Anche un romanzo d’amore può essere letto dalle “coppie destinate ad amarsi dopo di me”. Ma con quel che precede, cosa c’entro, io? Trappole della suggestione. E delizia del quadretto poetico (elegia en revanche), con le stelle in dissolvenza, i ruscelli che trascinano foglie morte, gli amanti in rientro. E quella pioggia che fa buchi nella sua canzone.
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Come ogni volta che torniamo da Zefiria, anche ieri siamo stati ospiti dei miei genitori. In attesa del pranzo sono salito al primo piano. La stanza dello zio Silvio mi attira. Mi è venuto dietro mio padre. Entrambi, constatando l’ordine dei suoi carteggi, ne abbiamo lodato (non per la prima volta) la vocazione alla precisione, alla pulizia, al rispetto delle forme, inteso anche come rispetto degli altri. Quelle carte, quei mobili rinnovati, quelle pareti – se non fosse una sciocca frase fatta – direi che piangono l’assenza della sua anima. Non mi vergogno di dire che a volte mi si addensa in gola un nodo di pianto. Che forse faccio male a non lasciare fluire con infantile libertà. Ma c’è un altro ostacolo: un anno di Crono è un percorso lungo da smaltire senza indebolire emozioni e “memorie di giornata”. E il corpo, nel mezzo del cammin di nostra vita, ha da badare anche alla sua omeostasi. Tuttavia...
Altre vie della distrazione dal cuore della piaga: lo studio. Sto lavorando da qualche mese, a un tentativo di saggio filosofico propostomi da Gulizza attraverso Rama (arcades ambo!). Lo si vorrebbe snello e agile, nonché, ovviamente, di gradevole e facilitata lettura. E qui mi sa che cadrà l’asino. Troppa grazia, sant’Antonio (Rama). E San Giuseppe (Gulizza): troppe buone virtù in un sol colpo! Intanto confesso di lavorare poco e non bene. Anche se ho più tempo a disposizione. Le idee mi si gonfiano e slargano fra i tasti pigiati con furia; i buoni propositi di brevità e concisione mi puzzano di superficialità, e si afflosciano. E così vago e divago, oscillando tra questa puzza e la paura del troppo che non perviene a determinarsi. Per bulimia cartacea e scarso autocontrollo, il pendolo mi scarica i neuroni, pur sensibili al progetto, e i giorni piovono in sabbia di clessidra con rari coaguli di “saldo in gemme”.

Neanche questa volta, dunque? Neanche in questa occasione riuscirò ad assemblare in duri confini un libro, il mio primo libro? Neanche ora che ho saputo di quell’imberbe compaesano in carriera di prossimo approdo editoriale alto? Faticando e recitando, il cattolico militante Ciccio Savòna è riuscito a conquistare il fiero laico e marxista professor Busciacorto, e sotto la sua mano benedicente sta per stampare presso il Grande Editore (un’antologia pariniana). Lui, mio compaesano, protetto dal barone nemico del mio amico, ed eminenza grigia della grande casa editrice, avanza dritto e motivato sulla via solare dell’avvenire accademico; io, con al fianco un nume tutelare che non è buono a tutelare se stesso, non faccio che esitare, divagare, ingozzarmi di letture in vista del libro, ma non riesco che a scrivere qualche discreto articolo. Che ci vorrà mai per caricarmi fino ai torchi?
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Questa nostra casa del paesello sicanico: odi et amo. Ma più il secondo che il primo verbo veicola i miei sentimenti profondi. La stanza grande dove sto a scrivere: alta, un soffitto a “volta reale”, espansa in superficie e in volume quanto tre delle nuove stanzette condominiali, mi affascina. Parte di un vecchio palazzotto signorile, è una specie di anomalia edilizia: muri spessi poco meno di un metro, fondamenta su base lavica, fresca d’estate e mai tropo fredda d’inverno, è il cuore pulsante della casa tutta, che non ha altre stanze così spaziose. I libri, come tanti malinconici manichini colorati, stimolano il senso di vergogna e insieme l’appetito del cervello mai sazio di letture. Vorrei potermene stare per mesi interi a letto, scarico di ogni responsabilità, finché potessi leggerli tutti.
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FINE DELLA PRIMA PARTE

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