martedì 3 novembre 2009

Susanna, frammento 44


24 ottobre,
ore 5,45

Mi perseguita l’insonnia: sono sveglio dalle tre e mezza. L’ultima pagina di questo diario parlava di Susanna: continuiamo, dunque, sull’argomento. I sospetti di rottura fra la mia e la sua famiglia si sono rivelati fin qui, infondati. La sorella Tina si è fermata più d’una volta da noi; il padre mi si è accostato in varie occasioni, sempre cordialissimo; la sorella Rosina mi ha salutato anche di recente, sia pure senza fermarsi. Ma questa omissione ha una sua logica: la giovane signora, provvisoriamente priva di marito, lontano per lavoro, deve guardarsi dai pettegolezzi dell’ambiente non facile. La stessa sera, infatti, ci siamo incontrati di nuovo, e lei era con la madre: nessuna difficoltà a fermarsi, dunque, e a scambiare le solite quattro chiacchiere. Io ostentavo la massima cordialità, loro altrettanto, ma, certo, s’avvertiva il vibrante “taciuto” di un ovvio imbarazzo: troppe previsioni sbagliate, nel nostro comunicare monotematico: Susanna sta ancora lontana, presa chissà in quali vortici di delizie e sofferenze (perché, sia detto fra noi, quaderno, io non dubito affatto dei suoi mali fisici e, soprattutto, psichici: dubito delle amplificazioni camuffanti, del margine strumentale delle eventuali esagerazioni). Ovvio, insomma, l’imbarazzo di chi si è preparato per altre attese, e se le aspetta, e teme, anche quando, come quella sera, io non tocco, neanche a sfiorarlo, il tabù Susanna. Sì, ne avevamo fatto un tabù, io e Rina, per le conversazioni con i parenti di lei. E non solo non ho parlato di Susanna, in quest’ultimo incontro, ma ho movimentato le chiacchiere in modo da impedire che fossero loro a tirarlo fuori (come era accaduto, finora). Così ho fatto con il padre, per un paio di volte. Ieri sera, però, è stato lui a domandarmi se ci fossero novità. E, alla mia risposta negativa, ha voluto precisare, anzi esplicitare: Susy non vi ha scritto? Il tono era sinceramente sorpreso. Che potevo fare? Gli ho detto la verità, che non mi ha scritto. La pausa di silenzio tra questa mia malinconica ammissione e la sua ripresa vocale alitava un malcelato disappunto: è capace di cantargliene quattro anche via telefono, pensai (come ricordavo le loro liti, a volte furibonde! E, sullo sfondo, quella cosa brutta...). La ripresa, dunque: ha detto che ai primi di novembre verrà il figlio. Sottinteso: e chiarirà tanti dubbi, farà rivelazioni. La strozzatura del suo dire allusivo mi dette qualche brivido: verrà il tenente e avrà ... i tuoi occhi? Che novità ci sarà da aspettarsi? Se Susanna, messa alle strette, avesse spifferato tutto? Se, in un momento di stanchezza, di minore vigilanza e self control distratto ha creduto bene di rivelare, no, non tutto, ma anche solo quanto basta a giustificare la sua stranezza nei miei, nei nostri confronti? Se avesse detto che la sua lontananza da me, per quanto dolorosa, è necessaria? Pensieri neri e turbinosi, insomma, nel cielo interno.
Ieri sera, altro incontro con la famiglia. Con la sua parte più tenera: Tina e la nipotina. Alla giostra. E ho badato io alla piccola, mentre la vivacissima zietta dalle forme sehr appetitlich faceva lotte in coppia sulla pista dell’auto–scontro con maschietti stuzzicati. Due ragazzine-super contro due ragazzini volenterosi ma alquanto imbarazzati. La lotta (impari: hanno vinto le ragazze) m’è costata mille lire.
Pochi minuti dopo, scendendo sul corso verso il cinema, incontro col resto della famiglia: la madre, la sorella Rosina e il fratello Alfredo (secondo dei maschi). Andavano giusto al secondo cinema, gestito dallo zio materno: “per dargli una mano”, chiarì, non richiesto, Alfredo. Ci fermiamo e parliamo un po’. Anche troppo, in ogni caso, per l’importanza dell’argomento (ma che stronzate dico? Eccolo qua, ancora: il solito oscillare fra abbandono fidente e sospetto ritornante. Intendo dire il sospetto-timore che tu possa cadere sotto occhi profani, povero diario.)
Anche con mia moglie loro mostrano quell’imbarazzo che ormai non possono nascondere con me. Anzi, ne mostrano di più: come dimenticare la disponibilità di Rina verso la pazzerella di casa? Neanche una sorella... Così dicevano ai bei tempi. E sono convinto che lo direbbero ancora se ne fossero richiesti. Se io, magari, chiedessi come si sia comportata mia moglie con la loro figlia e sorella, non avrebbero difficoltà a ripetere che neanche una sorella affezionata avrebbe fatto per lei quello che aveva fatto Rina.
La madre chiede a Rina se Susy le abbia scritto. E, alla risposta negativa di mia moglie, la signora aggiunge: “Ma voi, le avete scritto?” Facendo capire, così, che probabilmente le aveva detto Susy di stare ad attendere la risposta di Rina alla sua ultima letterina piena di lai e guai. No, Rina non le ha risposto, ma le ho scritto io, e non certo per mio solo conto. E abbiamo snocciolato il rosario delle spiegazioni, dei chiarimenti mendaci e delle contro-spiegazioni; delle accuse e difese: d’ufficio e di convinzione. Salta fuori un pezzo di verità scheggiata: la madre, da buona chioccia, insinua che forse Susy non ha scritto perché offesa con me. Ho replicato l’ovvia verità che non è una scusa: offesa con me, avrebbe potuto, anzi dovuto, rispondere a Rina, dopo avere letto (e non apprezzato) la mia rampogna. La quale, poi, non è stata un capriccio bizzarro, ma una sacrosanta reazione agli inganni della figlia ingrata. L’orgoglio, con me, anzi con noi, era fuori luogo. Con linguaggio più enfatico, ma anche cauteloso, avrei detto fuori della grazia e in pieno peccato, se è vero che abbiamo ben meritato da lei e famiglia ben oltre i limiti della comune amicizia.
Alla fine, anche Rina ha rotto le dighe e s’è abbandonata al sacrosanto sfogo liberatorio. Ha ricordato un intero anno di sacrifici di ogni genere al servizio dell’amica-sorella, che ora fa la misteriosa, e più la fa meno si rivela riconoscente e amica sincera. Che senso hanno tutti i misteri sul soggiorno, i sotterfugi, i continui rinvii malmotivati, tutta quest’atmosfera di diffidenza menzogna segretezza sospetta? Se questa non è ingratitudine!, sbotta Rina. E io? Che altro potevo fare se non darle ragione e pieno appoggio? L’imbarazzo loro si taglia col coltello. Annaspando, non sanno che aggiungere un altro pretesto sciocco per il ritardo del rientro: Susy ha deciso di prendere la patente di autoguida. Come se a Zefiria mancassero scuole-guida. Ogni giorno che passa si fa sempre più chiaro che non rivedremo più Susanna. Se, e quando, ritornerà, noi, forse, non saremo neppure più in Magna Grecia; forse saremo tornati a magnare nella bella Sicania che caliga non per Tifeo ma per nascente solfo. E il modo ancor m’offende. Quando si è ridotti ai poeti, vuol dire che la va di brutto. Vero quaderno? Tra noi ci si capisce. Ora scusami per queste gocce sfuggite al poco britannico self-control; per queste stille di liquida vergogna che dovrai asciugare sulle tue righe, dove vado spargendo il mio inchiostro nero.


25 ottobre

Il figlio tenente, dunque, verrà tra il 6 e il 7 novembre. Starà qui, dicono, una settimana o poco più, “per lasciare libere Susy e la fidanzata di studiare in vista dei prossimi esami”. Poi condurrà i genitori al primo incontro con i nuovi parenti. Infine, dopo qualche giorno di permanenza a Taranto, riporterà tutti a casa. “Meno Susanna” – ho precisato io. E loro, mamma e sorella, vivacemente pronte: “Come no?! Susanna verrà di sicuro. Verrà con noi, che deve stare a fare ancora là?” Insomma, le care congiunte, bene informate, a loro dire, respingono ogni sospetto di “altri motivi” dietro ritardi rinvii motivi passati e probabili altre code future. E io (sempre così poco inglese) replico di non credere al ritorno di Sa: “Non che io dubiti della vostra buona fede, care signore, ma Susy avrà altri buoni, anzi ottimi, motivi per prolungare ancora il suo apprezzato soggiorno nella vecchia Apulia”. E chissà come e perché, mi vengono in mente i Romani, Pirro, i suoi elefanti, la “nostra” vittoria di Malevento, poi, per grazia ricevuta, ribattezzata Benevento. Che c’entravano Pirro e gli elefanti? La bestiolina dell’inconscio si augurava una punizione per la città che mi rubava Sa? Che accostamenti! Rosina, la ghiotta sorellina polputa, vedova bianca pro tempore, disse che era pronta a scommettere sul ritorno di Susy insieme ai familiari. “Scommettiamo?” Io: “Perdereste la scommessa, signora”. La madre interviene in aiuto alla figlia: “Scommettiamo”, ripete: “Susy tornerà con noi, appena dato l’esame...”.
“Cara, carissima signora, vostra figlia ha preso gusto alla vita di città, ha conosciuto gente “aristocratica” (lo ha scritto), ha stretto amicizie “altolocate” (!): che ci verrebbe a fare in paese? Per voi familiari? Vi incontrerete là, nella sua nuova casa e città .”
“Voi vedrete che a dicembre...”
“Ah, ecco, da novembre siamo già passati a dicembre!”
“Ma deve studiare” – aggiunge sister Rosina, sempre più rosata in volto.
“Studiare per che cosa? Per gli esami i quali, nell’ipotesi augurale che sia ammessa (e non è scontato), si terranno a giugno? Andiamo, voi lo sapete, Susy non tornerà più qui.”
E via ancora su questa corda stridula, che ora consegniamo a un bell’omissis.
*
Intanto io tremo per le possibili novità legate alla venuta del tenente. Temo siano pervenute chiacchiere alle orecchie di qualcuno di loro. Purtroppo, le buone lingue paesane hanno fatto pettegolezzi sul conto mio e di Sa. Forse, addirittura, qualcuno ha visto entrare Sa in casa mia mentre Rina era dai vicini neo-parenti. O magari addirittura mentre erano tutti, loro e Rina col bambino, fuori a rifornirsi della buona acqua di fonte montana, come capitava a volte. E ha creduto suo dovere, questo qualcuno o qualcuna, (e sentito come suo piacere) riferirne in giro. E così, di bocca in bocca, il chiacchiericcio, magari via via abbellito, avrà raggiunto casa Castrati.

26 ottobre
ore 22,30

Al tavolo dello studio-soggiorno, sotto la stenta luce della lampada elettrica che vi pende sopra, leggo articoli del Corriere della sera e di un vecchio numero di Epoca (5 luglio ’64). Mi disturba, da una radiolina transistor Philips, Johnny Dorelli col suo “Gran Varietà”. Ma col dubbio, e la tentazione, di immaginare la sostituzione della prima sillaba di quell’indicativo presente...
Ho delibato un lungo epicedio di Augusto Guerriero su La fede di De Gasperi: una specie di recensione, in chiave di commento sentimentale, al libro della figlia, De Gasperi uomo solo (Mondadori). Guerriero dice cose plausibili e altre, al solito, molto faziose. De Gasperi, scrive, ha salvato l’Italia dal socialcomunismo, dall’ingerenza clericale, dal fascismo: e chi più ne ha più ne ammucchi. E lamenta, il tignoso Guerriero della penna, che gli eredi politici di don Alcide (e suoi detronizzatori impazienti) non ne abbiano seguito fedelmente la politica. Ammette: le cose erano cambiate, forse era necessario cambiare anche l’atteggiamento di diffidente chiusura verso i socialisti; ma con minore fretta e più oculata prudenza internazionale. Comunque, egli non “pretende”, dice, “biasimare né condannare. Qui non faccio che constatare”. Ma, si sa, di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno: proprio qui, in questo articolo, “protestato” anodino e innocente, Ricciardetto non fa che condannare, altro che puro e semplice constatare. Eccone un brano esemplare: “De Gasperi domandava: ‘Quali garanzie ci offre Nenni di volere associarsi alla difesa della libertà?’ Se lo domanda oggi la D.C.? No, non se lo domanda. Si è associato Nenni, e si guarda bene dal chiedergli garanzie per timore di guastare un’alleanza che le permette di superare le piccole difficoltà della vita parlamentare”. E questo sarebbe il vituperato “cammino a ritroso” della nuova Dc. “Come è stata possibile tanta involuzione?” – si chiede, deluso questo crociato della Libertà maiuscolata. E risponde, concludendo l’articolo: “Al tempo di Pio XII, la Santa Sede avrebbe voluto che i cattolici si alleassero con i fascisti. Sarebbe stato un errore, e de Gasperi salvò la Chiesa e l’Italia da quell’errore. Al tempo di Giovanni XXIII Agiubei fu ricevuto in Vaticano. Chi lo fece ricevere? Forse, un piccolo prelato intrigante, forse uno screditato personaggio della D.C. Fu un grande errore. Ma de Gasperi non era più là per salvare la Chiesa e l’Italia da quel grande errore”.
Postille. Quella che, semmai, è stata una (piccola) evoluzione della Chiesa, Ricciardetto la chiama involuzione; il gesto più grande che un papa abbia compiuto da secoli, l’udienza al genero dell’anticristo Krusciov, Agiubei, l’Implacabile lo squalifica come “un grande errore”. Perché mai? Forse perché ha dato vita al nuovo semantema “clerico-marxismo”? Un democratico sincero, cioè sensibile alle sofferenze degli emarginati, non dovrebbe rallegrarsi che la Chiesa esca dalla sua anchilosi plurisecolare, si allontani non solo dalla destra nazionalista (e nostalgica), ma anche dalle oligarchie del denaro, e tenti di associarsi le forze dell’ateismo umanitario, in coerenza con l’implicito e l’esplicito messaggio del Vangelo? Il fatto è che il loico Guerriero si ritrova col senile strumento cerebrale appannato dal fanatismo anti-marxista. Come Pio XII, esattamente. Che il guerriero acciaccato, infatti, difende calorosamente dalle accuse di Hochhuth e di quanti deprecano il suo silenzio al tempo dei forni nazisti.

Parole e atteggiamenti di de Gasperi degni di rispetto, e persino di lode. Tra questi, la fiera risposta a sua santità poco santa (e molto mondanamente politica) Pio XII. L’aristocratico “Pacelli il taciturno” aveva rifiutato un’udienza e il relativo colloquio politico a un de Gasperi che aveva dignitosamente respinto il paterno consiglio di allearsi con i neo-fascisti del Msi. Il primo ministro italiano avrebbe voluto più pacatamente spiegare al suo massimo referente religioso i gravi motivi di quella scelta, ma il papa, sdegnato per quella fermezza che aveva mandato a monte l’“operazione Sturzo”, non aveva esitato a opporgli quell’incredibile e poco evangelico rifiuto. De Gasperi si sentì in dovere di replicare in faccia alla Storia [un lapsus saviniano m’aveva fatto scrivere “Stroia”]: “Come cristiano, accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla. Come Presidente del Consiglio italiano e Ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento [...] mi impongono lo stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di stato un chiarimento”. “Suprema dignità”, commenta Ricciardetto. Suprema o no, certamente meritevole di sincera lode: una testimonianza limpida del senso dello Stato che fu uno dei tratti più rispettabili di quell’uomo politico. Tanto più lodevole quanto meno confortato da un entourage cattolico poco incline a contrastare Sua Sommità. Anzi, piuttosto uso ad obbedir tacendo. Salvo, magari, il caso di un troppo stridente contrasto con la propria vocazione guicciardiniana. Che tante volte finisce per coincidere con la fedeltà più servile al potente Alleato transoceanico. Specialmente là dove questo fa pesare più rudemente la sua prepotente politica estera. Forse quel sereno sentimento della necessaria laicità dello Stato sarà materia di rimpianto nei decenni a venire. E perfino nel primo del XXI secolo.
Notevolissimi anche i suoi dubbi di credente problematico, che stenta a zittire le voci dell’evidenza contraria alle sirene della fede. Ecco le “parole del dubbio” rivolte alla figlia Lucia, futura monaca. “Vedi, tu sei giovane, hai una verginità di sentimenti che ti fa sentire la presenza del Signore. Io sono vecchio, e spesso devo lottare sul dubbio [...] Dimmi tu qualcosa che mi faccia passare questa angoscia. Se hai una chiave che apra quella porta... Com’è terribile! C’è una parete davanti a me [...] Se tu hai la chiave di quella porta, dietro la quale c’è la luce di Dio, dammela. La luce che illuminerà la mia coscienza al momento del bisogno”.
Acuti anche i suoi giudizi sugli italiani. Eccone alcuni: “l’amore eccessivo delle piccole libertà porta alla mancanza di resistenza di fronte a una imposizione, si chiami comunista o altro.”
Poco accorta, forse, la sua fobia comunista. De Gasperi avrebbe detto: “La ricostruzione del nostro Paese sarebbe stata certo molto più facile se i comunisti fossero stati collaboratori sinceri”. E forse allora non lo erano, non potevano esserlo del tutto; ma perché non tentare? Perché non metterli alla prova, disponendosi a concessioni concrete, a una maggiore attenzione operativa verso operai, emarginati, svantaggiati in genere? Si dirà che le pressioni di Washington non consentivano i neccessari spazi di manovra, e questo è fin troppo vero: il “mondo di Yalta” era disegnato nelle sue grandi linee, e poco si poteva opporre a quella logica di inclusioni ed esclusioni ideologiche. Le due parti di quel mondo dualistico s’erano irrigidite dopo gli anni della collaborazione anti-nazista, e le terze vie, appena delineate, venivano calamitate dolcemente da una parte o dall’altra. Per lo più verso il mondo sedicente libero. Perché “sedicente”? Perché ospita ancora (e prevedibilmente per sempre – il “per sempre storico”, sia pure) troppe disuguaglianze discriminazioni emarginazioni ingiustizie. E fetenzie varie, scontate sempre dalla carne debole degli esclusi, dei troppi marginali, dei figliastri di madrenatura e dei nipotastri di nonnastoria.
Ho scritto “mondo di Yalta” usandone la vulgata, dunque prescindendo dalle distinzioni “effettuali” sugli accordi spartitori, che non avvennero in quella famosa conferenza, e che non furono mai espliciti. Yalta avrebbe ascoltato solo discorsi sui modi più efficaci di ripulire il mondo dai residuati nazistici.
Torno a Guerriero. Ne ho lodato pubblicamente, cioè in qualche mio articolo, la sobrietà, e perfino la secchezza stilistica; ora bisognerà aggiungere, a modesto correttivo, che tanta secchezza a volte si inumidisce. Ecco degli esempi.
“Menzogne delle cerimonie ufficiali. I piccoli vivi cercano di farsi sgabello dei grandi morti. Ma de Gasperi non si commemora così. De Gasperi dovrebbe essere ricordato con animo commosso da tutti gli italiani, così come lo ricordo io, in questo momento, io che quasi non lo conobbi in vita [...] ma che ora ne scrivo con le lagrime agli occhi [...] Sperai che questo Paese così bello e così pazzo, e che tanto amo, potesse, in un ritorno al buon senso, affidarsi ancora una volta a lui e mettersi nelle sue mani [...] Il giorno in cui morì le mie speranze morirono con lui. Una parte di me stesso morì con lui”
Umido Ricciardetto! Capace di sputare veleno in faccia ai suoi oppositori, siano “corposi” politici o sconosciuti lettori in dissenso, si fa spuntare patetiche lacrime agli occhi per un suo mito privato tradito e detronizzato. Che poi i traditori siano gentaglia, o semplicemente uomini meno dotati del grande Scomparso, è un fatto: complesso e variegato. Ma il mito non fu esente da pecche e costrizioni oggettive che non mi fanno rimpiangere il famoso o famigerato centrismo, al quale non riesco a legare alcun miracolo, né economico né culturale, tanto meno di giustizia sociale di larga diffusione e consistenza.
Come faccio (si obietterà) a obliterare il primo di quei miracoli, osannato da tutti? Risposta. Tutti, chi? Tutti i gazzettieri bene stipendiati? D’accordo. Ma poi intervistiamo gli emarginati di cui sopra, esclusi da tanto bene: operai sotto-pagati, operai disoccupati, diplomati e laureati, idem; emigranti (usati e disprezzati) dal Sud al Nord (e oltralpe) per costruirgli quel miracolo selettivo, in condizioni personali di vita grama e umiliata. E via seguitando, ma con suoni striduli a disturbare la musica taroccata dei miracolisti. Personalmente, posso gettare sul piatto della bilancia truccata la condizione di noi professori di medie inferiori e superiori con stipendi da fame. E che dire degli eroici propiziatori del miracolo, i capi della Dc di buona memoria, “ammanicati” con “pezzi da novanta” e il resto della gerarchia mafiosa nel prospero mercato di voti e favori? Che dire dei concorsi pubblici truccati per le assunzioni clientelari che facevano strame di meriti e legalità? Ma non si finirebbe con la recensione dei mille volti del miracolo.
Si obbietterà (?): ma forse che tutto questo “bene” democratico è finito? No, ma si comincia a vedere uno spiraglio di luce disturbante sulla lebbra che allora prosperava indisturbata: con la complicità silente della gerarchia ecclesiastica e la benevola distrazione del Grande Alleato, anzi Fratello e Liberatore. Ma sono stanco, e del resto queste cose le ho scritte, in parte, nei miei articoli politici (anche se dedicati più alla politica estera che all’interna).
E lasciamo riposare il Ricciardetto sentimentale, con le sue banalità rugiadose sul “Paese così bello e così pazzo, e che tanto ama”. Dopotutto, anche una lacrima può rivelare una certa dose di umanità in chi si riteneva un puro robot ideologico.
Naturalmente, anche questo sfogo diaristico (e terapeutico contro il rodìo della “grande assenza”) è destinato alla fusione publicistica.

29 ottobre,
sera tarda

Nello stesso numero di Epoca: recensioni di Luigi Baldacci a La nausea media di Carlo Villa (Einaudi); L’incompleto, di Francesco Leonetti; Le donne matte, di Furio Colombo; Hilarotragoedia, di Giorgio Manganelli (gli ultimi tre, eroi del rumoroso “Gruppo 63”). Baldacci critica in Villa “civetterie”, “vezzi snobistici” (“limitati per fortuna all’impaginazione”), “qualche gratuità e sfrenatezza, soprattutto sulla fine”; ma nel complesso “consente”, e conclude mettendolo “al sicuro da qualsiasi sperimentalismo a vuoto”, per via di presunti e “precisi obbiettivi di conoscenza” (il libro naviga sub specie diarii). Di Leonetti scrive: “L’incompleto mi sembra essere la conseguenza logica di Conoscenza per errore [...] Il linguaggio è pericolosamente astratto. Le analisi delle situazioni, i calcoli delle possibilità possono essere [la cacofonia è tutta del recensore] acuti, ma restano freddi. L’incompleto è, in fin dei conti, un’eco della cultura e delle letture di Leonetti”. Ancora: nel libro si trovano inserti sui “problemi sessuali nell’Unione Gametica” [sic: starà per sovietica?], sulla rivoluzione cubana, “su Freud, Fromm...” [non sono questi alcuni dei miei intenti per l’eventuale libro in rapsodico cantiere?]. Delle Donne matte di Colombo: “La visione informale e frammentaria della realtà, che è implicita nel libro di Leonetti, si aggrava, con risultati di accademia nel caleidoscopio nevrotico offertoci dalle Donne matte”. Anche in questo libro, “la tecnica dell’inserto: la crisi di Cuba del ’62, il processo Sacco e Vanzetti... E su tutto, il rovesciamento del concetto tradizionale di romanzesco. In un clima di paranoia, sono infatti i particolari minimi che costituiscono eventi...” [ancora “incontri” con le mie intenzioni: paranoia e minimi a parte]. Dice Baldacci: “In tutto questo, non si nega, c’è una qualche bravura, ma mi pare che al di là non si vada.” [si prefigura il futuro destino del mio improbabile libro?]
Più generoso il recensore è con Manganelli, “scrittore di eccezionali qualità”. Tra le quali, “l’imprevisto, il segno dell’unghia [sic], l’evocazione e l’invenzione della parola [...] allo stato superlativo”. Trascrivo: “Il mondo linguistico di Manganelli è allo stato magmatico, tocca il registro del trattato d’amore platonico-ficiniano e la corpulenza delle perifrasi gaddiane, passando attraverso le levità giocose del primo Palazzeschi [...] La letteratura che circola nella nostra avanguardia resta per lo più allo stato di idea. In Manganelli diventa scrittura”.
Che dire? Io non conosco ancora il Gadda magno, qualcosa di Palazzeschi ho letto, ma non abbastanza, e non so se leggerò prossimamente Manganelli. Di magma, conosco soltanto quello serio, della mia Etna. Insomma, i superlativi e le frasi “unghiute” nel discorso critico non mi piacciono. Anzi, mi ispirano diffidenza. Sia detto con tutto il rispetto che si deve a un veterano come Baldacci. Del quale, peraltro, condivido la “rastremazione” della letteratura “avanguardistica”.1

4 novembre,
piena sera

Notizie gravi sul maltempo. In Emilia-Romagna, nel Veneto, in Toscana la situazione è di allarme rosso. Si contano già vari morti. Dappertutto allagamenti, strade interrotte, straripamenti. L’Arno ha già allagato il centro storico di Firenze, l’acqua alta ha ridotto Venezia a un mucchietto di isolotti sparsi per la laguna. Pistoia è isolata, isolati i quartieri fiorentini; La Spezia annaspa fra straripamenti e allagamenti pluviali. Feriti dappertutto. Danni incalcolabili, a bilancio apertissimo.
Riflessione egoistica, ma ...salutare: meno male che non ci siamo messi in viaggio, oggi. A Roma piove dalla mezzanotte di ieri. Le voci dei cronisti in campo e degli annunciatori televisivi sembrano allegre. Voglio dire, hanno un suono eccitato che non trasuda commozione partecipe, ma piuttosto una segreta euforia anfetaminica: sì, questo clima di pericolo eccita piacevolmente chi lo guarda da lontano, in condizioni di sicurezza personale. Certo, poi si riflette, interviene l’impicciona per antonomasia, la coscienza morale (dove, e per quel tanto, che sopravvive al “logorio della vita moderna”): ci rimbrotta, comanda di empatizzare con le vittime, e noi ci si sforza di spremere qualche brivido di pietà. Ci si sforza. Mi sovviene un passo del De rerum natura in cui Lucrezio canta il piacere di chi guarda il mare in tempesta da una sicura costa pensando ai naviganti incappati nel nubifragio. Forse cercherò il locus nella casa sicanica.
Sicania: violenti nubifragi sulle quattro province occidentali; non immune neanche la parte orientale, seppure meno severamente colpita. Giove pluvio sta lavorando alla grande. Vento a velocità superiore ai 100 chilometri l’ora. Telegiornale delle ore 20: continuano le notizie allarmanti sul disastro meteo, con spiegamento di supporti visivi di varia drammaticità. Certe riprese sono sublimamente suggestive (intrusione del concetto kantiano di sublime).
Altre notizie, dall’interno e dall’estero. Saragat depone una corona di fiori, eccetera. Orgia di convenzionalità stamane a Realpolia, alla riunione patriottica commemorativa della vittoria (pardon, Vittoria) lorda di sangue innocente. Cantavano “il Piave mormorava...”. Che bello!, diceva mia moglie. Sì, ammisi: è un buon eccitante, ma anche degli istinti aggressivi e bellicosi. E’ con queste droghe che, in buona parte, caricano di adrenalina i giovani ignari disarmati per portarli al macello armatissimi e drogati di rombanti parole immancabilmente tradite nei fatti. Ad esclusiva gloria dei furbi e dei farabutti, capaci di sublimare in sterco satanico il sangue degli assassinati. Se penso a qualche contesto bellico particolare? Sì, un flash mi si accende da recenti riletture, ed ha un nome sinistro: Caporetto. Sinistro, più per le feroci e sbrigative esecuzioni interne (fucilazioni dei fuggiaschi) che per i danni subiti dal nemico.
Buone notizie. Il presidente Johnson sarà sottoposto a un duplice intervento chirurgico: ne parla sorridendo ai giornalisti. Che bravo! L’URSS ha lanciato un laboratorio spaziale per studiare le possibilità di volo guidato nello spazio. E’ accaduto a ottobre, ma ne danno notizia solo ora. Lentezza prudenziale contadina: antica eredità dei discendenti di servi della gleba riscattati a suon di privazioni e fatica.
Siamo sempre sotto il bombardamento delle notizie eccitate: in Val di Chiana, acqua alta da due a tre metri. La voce è sempre concitata e accesa. Trieste: piove da ieri l’altro mattina. Anche in Friuli. Raffiche di scirocco a 120 km l’ora.
Tra una notizia e l’altra, leggo Le italiane si confessano, di Gabriella Parca. Ho letto già la prefazione di P.P.P., sto per finire quella di Zavattini.
Dove sei, Susy? E soprattutto, cosa fai? Qui ci distrae l’Arno, ma non abbastanza. E non basta alla sete “metafisica” neanche il Friuli, che pure sembra a rischio di rivivere i giorni tremendi del 1951 (e speriamo di no).

11 novembre,
ore 23, 30

Un gran silenzio, e un forte ronzio alle orecchie. Una carezza di luce sulla guancia sinistra: scende calda dalla lampada sul tavolo. Rare le molestie, da fuori, delle macchine in movimento: l’autunno fa sentire la differenza con l’estate, che a quest’ora era sempre piena di rumori e suoni...
Da qualche giorno è in paese il fratello tenente di Sa. Non è ancora venuto a casa mia, e credo che non verrà. Speravo tanto, ma anche un po’ temevo, che venisse. Ci saremmo chiariti. Facciamo l’ipotesi che abbia saputo di me e Susy, da lei o dai pettegolezzi di paese filtrati dalla famiglia; io, in fondo, non ho fatto nulla che possa compromettere l’avvenire matrimoniale di Susanna. Né ho il minimo dubbio che lei possa avere confidato al fratellino non più che “casti baci”, a parziale, lieve correzione del molto rispetto per la sua integrità verginale da parte del mio senso di responsabilità professorale, nonché di padre e marito. E allora, non sarebbe stata meglio una bella cicalata chiarificatrice?
Il tono di celia compressa non è leale col mio umore profondo. La tensione continua a stringere viscere e cervello, e compromettere la fisiologia generale e digestiva. Mi aggrappo agli affetti domestici, è vero, e ne ricavo soccorso. Mi forzo a dedicare parte del mio tempo alle sofferenze del mondo, in special modo a quelle dei popoli vietnamiti (e anche, perché no? di qualche soldato americano mandato in quell’inferno controvoglia, costretto perché negro o assimilato proletario). Insomma, confronto le mie pene con il calvario, ben peggiore, di tanti altri umani. Specialmente dei bambini sparsi per il bel pianeta che ad amar sconforta, dei privilegiati in negativo del Terzo mondo falcidiati dalla fame e dalle malattie indotte... Me ne viene quel tanto di salutare vergogna che aiuta a sopportare le sofferenze personali. Argomento da approfondire, peraltro, se insinua il dubbio che anche questa mia attenzione commossa alle loro sventure possa vestire il pelo egocentrico di un uso strumentale: di un farmaco per le mie piaghe, appunto. Ah, l’ambiguità universale delle pulsioni umane!
Oggi ho “incontrato” il tenente: cioè, ci siamo incrociati con le macchine, io nella mia (di mio cognato), lui nella sua bella Giulia. Non ha salutato, o io, dietro il vetro appannato, non ho visto il gesto? Non potrei giurare sull’una o l’altra ipotesi. Sul fatto che non s’è fermato, invece, nessun dubbio. Come sono belle, a volte, le situazioni chiare, inequivocabili, impositive! Non s’è fermato. Già, ma anche qui qualche dubbio ronza dentro l’orecchio interno: forse, distratto da chissà cosa, non mi ha visto, o riconosciuto? Sì, una bava di dubbio rimane sopra la rotonda evidenza del fatto liscio e chiaro “non s’è fermato”. Dopo tutto, non è che egli abbia avuto modo di memorizzare bene il tipo di macchina che uso: non vive mica in paese! Insomma, non si è fermato. Forse aspettava che fossi io a fermarmi per primo? Io non mi sono fermato.
Ieri sera ho visto la sua Giulia bianca posteggiata accanto al cinema gestito dallo zio, e dove il padre va a passare qualche ora. Stasera l’ho rivista due volte. La prima, attraversando il paese per andare a Siderato con i miei: la macchina stava posteggiata di fronte al cinema Vittoria; la seconda, di ritorno da Siderato, l’ho vista sul corso. E ho intravisto anche il tenente, insieme al padre: stavano sulla soglia dell’altro cinema. Di Sa, nessuna notizia. Non incontro i suoi dal 25 ottobre. Che sarà successo, nel frattempo? Questo tunnel di silenzio mi ronza dentro le orecchie ambiguo e minaccioso. La certezza che lembi di verità siano emerse dal pozzo fondo del giusto segreto mi incalza contro sempre più fragili difese di dubbi. Troppo silenzio dietro troppe promesse di incontri ritorni chiarimenti e professioni di amicizia. Forse per sottrarmi all’angoscia che mi insegue sempre più veloce ho riscritto a Susy. Era il 28 ottobre quando ho spedito la lettera: le confermavo tutta la nostra amicizia e mi scusavo per certe espressioni forti usate nella famigerata precedente. Risultato? Niente: non ha risposto neppure a questa mossa irenica. Che dunque si rivela un errore. Un altro. Quale sarà il prossimo? Ma spero di evitarlo.
A questo punto, le esitazioni sul bilancio conclusivo mi paiono fuori luogo (e tempo massimo). Tout s’éclaire: vuole rompere. Anzi: ha già rotto (in quanti sensi, sa iddio). Una mortificazione inutile, perciò, la mia ultima lettera. Ma la famiglia? Cosa sa dei suoi pensieri? E’ sua complice o ignora le decisioni ultime? Come rimpiango questa mia estrema sortita di fiaccone incapace di macerazione muta. Rina non sa nulla di questa lettera. Non volevo darle altri dispiaceri. Non avrebbe approvato l’inutile gesto di mezza resa.
E si torna al punto: l’ansia che mi brucia. Perché questo comportamento assurdo? L’unico perché reperibile dentro il cesto delle possibilità divaricate sono quei lembi di verità che ormai si può pensare galleggino alla superficie del lago, spinte dal venticello del pettegolezzo paesano. O, perché no? anche dalle rivelazioni (monche, sia pure) della stessa interessata. Quanta verità schiumeggia contro gli scogli dei rapporti sociali e quanta soltanto dentro la famiglia? Non ci vorrà uno sforzo eroico per calcolarne quantità e qualità: il professore innamorato della divina, ma rispettoso (quanto?, avrà chiesto fratel tenente), e tuttavia intenzionato a sposarla con un cugino della moglie per averla in famiglia (chissà, forse perfino senza “cattive intenzioni”). Non credo ci sia da aggiungere molto (forse solo qualche innocuo bacetto?) a questo nucleo solido, capace di ben reggere l’impianto giustificativo della contorta fenomenologia comportamentale.
L’altra notte ho fatto uno strano, e strambo, sogno: lei era con noi, a casa nostra, si parlava come se tutto fra noi si fosse chiarito. Poi veniva il fratello tenente, e mi rimproverava per la lettera “di insulti” alla sorella. Lo faceva garbatamente, voglio dire, con tutte le cautele che il caso meriterebbe. Il caso non può comportare, per nessuna ragione, che si superi la soglia del rispetto dovuto a un’amicizia, personale e di famiglie, testimoniata, da parte nostra, con la simpatia la disponibilità l’assistenza prodigata da Rina a Susy nei suoi momenti neri. “Per nessuna ragione”: vale a dire, neanche per i rinfacci del sottoscritto alla smemorata sorellina capricciosa. Nel sogno non usavo questi termini, che implicherebbero una mia reazione infastidita, e peggio, alle contestazioni del tenente. Però il fatto che mi vengano, in questa veloce annotazione, alla penna (rossa stavolta: come l’amore o la rabbia repressa) mi risveglia un particolare del sogno coerente con quei termini. Insomma, anche nel sogno, i rilievi del tenente mi apparivano, diciamo così, sovresposti. Unica attenuante, per la disinvoltura del fratello brillante, poteva essere la sua lontananza dal paese e, pertanto, dalle nostre vicende di famiglia e di amicizia. Ma voglio rinunciare, almeno per ora, al racconto puntuale del sogno. Al quale, però, devo togliere subito gli aggettivi strano e strambo: a che deviazione li debbo, se, appena sfiorato, il sogno mi si presenta così spiegabile, così realistico. Forse la (doppia) voce dal sen fuggita (gli aggettivi sopra imputati) allude all’improbabilità effettuale dell’evento onirico: alla sua estremamente improbabile realizzazione.
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La pagina precedente a questa che vengo scrivendo risale all’ormai storica data funesta del 4 novembre: il silenzio interposto fra quei cenni al disastro diluviale e la presente non vuol dire che non ne abbia seguito sui media i drammatici sviluppi misurandone la quasi incredibile immensità. La televisione, soprattutto, ci ha inchiodati davanti a quel film dell’orrore: un impatto visivo fortissimo, vedere quelle strade mostruosamente gonfiate in veloci fiumare senza regole; quelle macchine trascinate dalle imprevedibili onde fuori posto, quelle case sommerse a metà. E i templi, della religione e della cultura, profanati da quell’Irrazionale incontenibile, da quella beffa di titani alle previdenze e provvidenze dell’uomo, sempre esposte al destino dell’insuffcienza, dell’imprevidente inadeguatezza. Toccante il parziale salvataggio di libri quadri statue e altri prodotti del genio (o anche dell’immaturità selvatica) di homo due volte (ma per molti aspetti inutilmente) sapiens. L’attrazione per lo spettacolo reiterato, uguale e diverso, per giorni e giorni, godeva, al solito, dell’inevitabile ambiguità emozionale che qualifica simili casi: commozione empatica e brividi di inconfessato piacere si sono mescolati e alternati durante le trasmissioni. Né è mancata l’ammirazione per i giovani volenterosi accorsi in affollata emulazione nella Firenze devastata dall’inondazione, forse la più spettacolare e tragica della sua storia fluviale. Bella e commovente, tanta partecipazione: da accrescerla di un’ulteriore unità con la mia presenza, se solo il mio corpo fosse stato un po’ meno fragile ed “economico”. Ma Rina si sarebbe in ogni caso opposta a questa sfida non compatibile con lo status di marito e padre di un bambino bisognoso della mia quotidiana presenza. E come lasciare la scuola per fare l’eroe? Parole sprecate: gli eroismi sono roba da giovani svincolati da obblighi cogenti.
Chiudiamo, con un pensiero alla vittima-eroe più esposta di questa tragedia (che pure ha avuto i suoi bersagli umani): il crocifisso di Cimabue.

Il quale, per il suo... martirio, s’è guadagnata una divertente composizione poetico-drammatica tanto poco convenzionale e ortodossa da meritarsi l’ospitalità di una rivista tutt’altro che accomodante. La tentazione di copiarla in questo diario è irresistibile: mi arrendo. Eccola. La poetessa fiorentina autrice dello “scherzo” si chiamava Gemma Licini. Titolo “Invocazioni del crocifisso di Cimabue durante l’alluvione di Firenze, 4 novembre 1966.
(L’acqua sale ai piedi) Madonna mia santa, / fa’ che non passi le calcagna! // (L’acqua sale ai polpacci) Aiuto, gerarchie celesti, / arcangeli e serafini, / e un ci sono scalini... // (L’acqua sale ai ginocchi) O gente, qui si fa suisserio, / gli è straripato l’Arno!/ Avessi almeno un costume da bagno! // (L’acqua sale all’addome) O patrono delle burrasche, / attenzione alle tasche! // (L’acqua sale al costato) Padre che sei ne’cieli, /staccami daillegno, / voglio morire in piedi!// (L’acqua sale al collo) Affogo! Non resta che buttammi /nelle tue braccia, Domine/ delle alluvioni!/ Dell’altro noppieni i bottoni.”
(Aggiunta del ventennio dopo. La composizione è tratta dal volumetto “Canti famisti” (ed. “Fermenti”, Roma, 1981)

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