sabato 31 ottobre 2009

Susanna, frammento 43


Sabato, 23 settembre
Ore 23,30
Dopo due ore e mezza di degustazione televisiva. Il punto fisiologico. Salute. Palpitazioni cardiache. Trafitture in zona mediastino-intercostale. Ronzio alle orecchie. Naso intasato (peggio del lavandino – che lo è ancora una volta). Rimedi? Eccoli: sigarette, dispiaceri affettivi, tensione nervosa. Veglie: forzate e volontarie. E altro bene farmacologico. Sentimenti: si svolge l’infezione della “gelosia” amicale. Inutile nasconderlo: ce la sentiamo di brutto, tanto mia moglie che io. Io, poi…
Forse è meglio commentare il pasto televisivo. “Studio Uno” è un piatto ricco e gustoso. Gli ingredienti ci sono tutti: da Mina alle gemelle Kessler, da Dorelli a Panelli, dagli ospiti (Sordi, Gassman, Walter Chiari... ) ai balletti (“Che gambe”!), da Nino Manfredi a Bobby Solo, e compagnia bella, nessuno “sgarro”, e soltanto qualche caduta di tensione qua e là. Ma è anche vero che come allucinogeno deviatorio funziona poco: troppi rimandi alla “perfida” Assente. Come ascoltare guardare gustare Mina senza saettarmi nella magia di quella sera sul lungomare di Siderato? senza bruciare nell’accensione di quell’estasi che ce la rapì durante l’esibizione della cantante adorata? Come sentire la voce calda e un po’ nasale di Jonny Dorelli senza svegliare ore di presenza nella casa di lei, intenti, io e Rina, insieme a una parte della sua famiglia (di solito: l’irrequieta Tina, la madre stanca, qualche sorella in transito, il “cacanido” Giacomino-peste); o il tranchant “ghe pensi mi!” di Tino Scotti, o qualsiasi altro “brano”, sketch, scampolo e personaggio di una puntata qualsiasi dello stesso spettacolo? E smettiamola qui, o finirò con lo scivolare ancora più in basso. Ad ogni modo, tanto di cappello alla squadra dello show: Falqui,Wertmüller, autori e registi; Lelio luttazzi e gli altri musicisti e suonatori. E insomma a tutti gli operatori in campo.
Ma così torno al Tema. Ed eccolo di nuovo qua, il Tema. In metafora e in viva carne di ricomposizione mnestica da flash improvvisi. Insomma: non mi riesce di stare saldo su una scelta: o parlare in maschera o spiattellare a… maschera nuda. Tanto, nel guazzabuglio che si viene a pasticciare, ciondolando di qua e di là, questo quaderno non potrà rifugiarsi che in luoghi a rischio minimo e improbabile: vi saranno scivolate sopra chissà quante allusioni bucate.
Ma possiamo parlare pure in chiave amicale. Dopo quello che abbiamo fatto per lei, l’atteggiamento di Susy è (l’ho già scritto?) come una specie di tradimento. “Vi sarò sempre vicina. Non cambierò mai. Non mi sposerò per starvi vicina. Vi aiuterò, vi assisterò quando avrete bisogno”: queste frasi risuonano alla memoria acustica in tutta la loro carezzevole assurdità. Le diceva Susy a mia moglie. La quale ripete che non legherà più con nessuno: non vuole altre delusioni. La prima, in questa terra “bella e amara” (per dirla con uno dei suoi figli più entusiasti ed esuberanti), è stata la rottura con la famiglia La Mela; se n’è consolata, ma ne aveva sofferto meno, perché responsabile, in buona parte, la sua insofferenza per gli eccessi “confidenziali” della sorella Silvana. Questa, con Susy, sa ben più di tosco, e non sarà facile consolarsene. Oh, Susanna!
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Intanto, guarda caso, ieri si è verificato un fatto che fa pensare agli inizi della sua amicizia con Susanna. E’ venuta a trovarmi Didia, compagna di classe di Susy, l’alunna che, dopo Susy, mi ha mostrato più affetto filiale (e qualcosa di più). Siccome io non ero in casa, s’è intrattenuta qui con mia moglie. Hanno parlato per circa due ore, aspettando me, che non rientravo (ero a una riunione d’istituto straordinaria). Didia ha chiesto a Rina di darle del tu, proprio come fece, a suo tempo, Susy. E fu così che la grande Assente cominciò a conquistare la simpatia della pur diffidente Rina. Ora il caso si ripete con Didia. Ma le circostanze divergono per altri versi. Didia abita lontano da qui: dal suo paese, Monasterìa, a Zefiria ci sono circa trenta chilometri. Non è facile frequentarsi con tanta separazione in mezzo. Ad ogni modo, Rina starebbe più guardinga. Così mi ripete. A proposito, ti confido, quaderno, che non ho potuto evitare a Didia il rinvio alla sessione di settembre per le scienze. Ma è stata una scelta sua: per mancanza di tempo, mi confidò, aveva sacrificato quella materia. Altro flash memoriale: Lella La Mela non aveva mai chiesto a Rina di darle del tu: donde, una certa riserva mentale verso di lei, rimasta sempre un poco in ombra rispetto a Susy. Fin dai primi tempi della nostra frequentazione.
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M’è riuscito di lavorare, oggi, in due riprese, nelle ore meridiane e nel pomeriggio, a due articoli in cantiere: uno su Banfi, l’altro su l’Heidegger di Pietro Chiodi. Destinazione di entrambi, la rivista di Volpicelli, I Problemi della pedagogia. Potessi concludere e spedirli domani! Ma so già che non ci riuscirò. Due giorni pieni di seguito? E quando mai è andata così liscia col mio passatempo cultural-pubblicistico? Oggi, comunque, è stato un giorno soddisfatto.
Il che non mi salva da certi ritorni di fastidi nevrotici. Continua ad agitarsi, per esempio, come sfondo emozionale delle mie nugae esistenziali, il fantasma vago della morte. Il fenomeno è più frequente durante il poco tempo del riposo diurno post-prandiale. E’ la vecchia esperienza del “sentirsi” già finito, con appena un’apparenza o residua traccia di vita in chiave di burla tragica. Uno stato intermedio tra essere e non-essere, un fluttuare fra insidenza e lontananza, una corporeità rastremata in denso variante ectoplasma. Ma vedo che non riesco ad esprimere la particolare “sensazione” che mi angoscia. Esprimere: bella pretesa!
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Chi si separa e chi si unisce, così la vie écoule. Ci consoleremo della mia separazione dalla Presenza evaporata in fantasma con l’unione, o riunificazione, dei due partiti socialisti? Che magra consolazione sarebbe, se pur fosse accessibile. Ma come credere alla durata di tanto coniùgio quando tutto suggerisce diffidenza e severità di giudizio? La “nostra” unione è durata quasi tre anni, se la trasferiamo al primo anno della conoscenza scolastica; quella di socialisti e socialdemocratici quanto durerà? Alle prossime elezioni l’ardua sentenza.
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Ragazze tentatrici, stamattina, agli esami di maturità riparatori. Una mi ha stretto addirittura il braccio con la sua bella mano sinistra accompagnando il gesto a uno sguardo acceso di ambigua disponibilità (dio, che occhi! E di iride gattesca, poi.). Un’altra mi si è strusciata addosso con le sue solide prominenze femminili. Ahimé, maliziose attentatrici! Siete belle, lo so. E quanto mai appetibili. Lo vedo. Ma no, non sono disponibile. Per tante ragioni. Una migliore dell’altra (o peggiore). Dimenticavo: non si tratta di alunne mie, ma dell’altro corso che “rappresento”. Le mie sono più sicure della funzione protettiva del loro professore. Le altre, un po’ meno. E allora... Si combatte con le armi che Natura ci ha dato. Le vostre, carissime, sono di sicuro effetto, ma lontane, in questo caso, dal traghettare emozioni in azioni. Vi aiuterò, certo, ma non potrò fare miracoli. Grazie, comunque, degli assaggi.
Vaghe piume di sospetto salgono da questo accidens inatteso: che svolazzino, nell’aria disponibile della chiacchiera zefirese in chiara fama di pettegolezzi, voci “calunniose” sulla sensibilità del professor Paolo Assaggi al fascino del gentil sesso? La calunnia è un venticello...

4 ottobre,
ore 7

“Se vuoi andare, vai, io non ti fermerò… l’amore viene e va…Io non capisco come…se mi volevi bene… perché m’hai lasciato…Non ti diverte più volermi bene...dici che stiamo troppo insieme… e te ne vai… Sogni amori da fotoromanzo…”. Canzoni alla radio. Ora vi si mescolano strilli di mio figlio, che mi chiama come sull’orlo d’un baratro: papà papà papà papà… Canzoni: “Se tieni un poco a me, amore, ascolta…” “Papà papà papà…” “Se busserai alla mia porta, sta certo amore che ti aprirò…Io t’amo, e poi la vita è corta,… se tornassi io ti aprirei…” “La Gazzetta, La Tribuna, giornali…”. Altri strilli: passa il giornalaio ambulante, sotto le finestre, sulla strada fresca del mattino sereno. “Un santo al giorno, a cura di Piero Bargellini. San Francesco d’Assisi… il giullare di Dio… morì sulla nuda terra…lasciò tre Ordini fiorenti…”. Compro la Gazzetta dello Stretto, sfoglio, cerco: Niente. Non c’è il mio “Nietzsche”. Disappunto. Colazione col bambino a lato. Che parla, e parla: “Quando finiamo di mangiare mi porti all’asilo, nell’asilo non ci sono le suore?” “No, oggi no”. “Domani?”, “Sì, domani”. “Non ci vengo all’asilo domani”. “Vedremo. Intanto pensa a mangiare”.
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James Joyce, pagine autobiografiche. Nel coktail in corso, mettiamo anche lui.
“Questa volta, come mai prima, il suo nome strano gli appariva profetico. Tanto fuori del tempo appariva la grigia aria tiepida, tanto fluido e impersonale il suo stato d’animo, che tutti i secoli erano per lui come uno solo […]Un uomo in forma di falco, che vola verso il sole, sopra il mare: una profezia dello scopo che egli era nato a servire, e che aveva seguito attraverso le nebbie dell’infanzia e dell’adolescenza: un simbolo dell’artista che rifoggia nel suo laboratorio dalla materia inerte della terra una nuova creatura, ascendente, impalpabile, indistruttibile?[…] Che cos’erano, ora, altro che bende cadute dal corpo morituro la paura in cui aveva camminato notte e giorno, l’incertezza che lo aveva circondato, la vergogna che lo aveva avvilito, interiormente ed esteriormente: che cos’erano altro che bende, sudari del sepolcro? /La sua anima era sorta dalla tomba dell’adolescenza, rigettando i suoi lini mortuari. Sì! Sì! Sì! Avrebbe creato superbamente dal fondo della libertà e della potenza della sua anima, simile al grande artefice di cui portava il nome, una creatura viva, ascendente e bella, impalpabile, indistruttibile. […]”

Deliri e altre juvenilia perdonabili al cospetto di un riscatto di tutto rispetto (cacofonia voluta). Intendo, “Ulisse” e i racconti, i Dublinesi, non certo Finnegan’s wake, mega-esempio di ingegno e tempo sprecati, macroscopico test di funambolismi linguistici ed ermetismi semantici esteticamente insensati e culturalmente sterili (salvo momenti di relativa “pacatezza”- e sia pure sempre tanto “enigmatica” : Anzi, “enigmistica” . Scriverò mai un saggio sul Joyce migliore? Ai posteri l’ardua... O la facile sentenza? Ma trascritti, quei voli lirico-titanici su queste pagine rigate, con penna biro a inchiostro verde, perché? Perché ingranano con il mio subbuglio interno: vi sento un’ironia punitiva e cattiva. Sulle mie aspirazioni letterarie. E le relative “espirazioni”
Tornando al Finnegan’s wake. L’unica “giustificazione” esistenziale è il divertimento che ne deve aver tratto l’autore. Difficile misurare con quale dosaggio sadico: di sicuro, una quantità superiore, e di tanto, a quella iniettata nel già sadicissimo Ulisse. Ho cominciato ad assaggiarne l’inizio più volte e me ne sono ritratto nauseato a poche pagine dal “proviamo!”. Magari quando sarò vecchio (“se di vecchiaia la detestata soglia”, ecc.) leggerò un saggio sull’ultraermetico testo per sapere quali e quante allusioni plurivalenti vi sono. Naturalmente, il sadismo di cui si parla qui appartiene al genere traslato-sublimato in dimensione interiore: emozional-traspositiva.

Ore 7, 45. Questo strano convergere allusivo di suoni e rumori, parole di canzonette e frasi di letteratura; di voci innocenti e strilli di strada; di sentimenti imbavagliati ed emozioni trafitte (sulla punta aguzza dell’inganno patito); questo piccolo impasto caotico ha avuto libero corso per distrarmi da altro, da “quell’altro” che rode.
*
Ieri abbiamo trascorso una giornata quasi intiera con il professore Dell’acqua e la moglie, nostri ospiti. Abbiamo pranzato al ristorante dell’albergo Panda di Buffalino (un altro dei paesoni costieri della Calamagna jonica), dove il presidente della nostra commissione ha alloggiato per la durata dell’intera sessione estiva degli esami zefiresi. Abbiamo mangiato bene e con modica spesa. Certo, per un riguardo al nostro ospite e signora. Un beneficio di riflesso per me. Clima di sentita cordialità conversevole (le donne e signore con più generoso slancio e molteplicità di temi). Prevalente, l’argomento esami e compatibile contorno. Siamo rientrati a Zefiria verso le quattro meno un quarto, e preso il caffè al bar “Arcobaleno”, di cui mi sono antipatici proprietario e personale. Vi abbiamo incontrato gente che ci ha fatto perdere tempo. Prima, un mio ex alunno. Ci vede fuori del bar, me e il professore, in attesa delle nostre mogli intente a consumare il gelato all’interno, e sente il dovere-bisogno di fermare la macchina accosto al marciapiede. E via con i “come state professore?”, e “bene, grazie, e tu?” Presento Dell’acqua: “Il professore, lo conosci?” “Oh, carissimo professore, non vi ricordate di me? Se ho preso il diploma di ragioniere, nel ’61, per il 95 per cento lo devo a voi!” Io, touché: “Ah, dunque voi siete stato presidente di commissione all’istituto tecnico di Siderato nel 1961: quell’anno, 1960-61 io vi avevo insegnato inglese seconda lingua.” “Come, inglese? Che c’entra con la filosofia e la pedagogia?” “Ma come, presidente, non conosce l’estrosa inventiva dei nostri generosi legislatori?” “Già, è vero: in Italia si sono fatte leggi per una sola persona, per esempio la nipote di un ministro.” “Vera o posticcia. O anche per l’amante più o meno palese.” “Ma lei, l’inglese...?” “Studiato quattro anni al liceo scientifico, tre all’università, e praticato sulle spiagge di Taormina” “Ah, ah! abbiamo fatto anche il latin lover!” “Oh, poca cosa, quanto al lover, ma insomma! Naturalmente, ho insegnato la lingua da supplente annuale” “Naturalmente. La sua titolarità di ruolo riguarda le discipline filosofiche, no?” “Certo. E data appena da quest’anno. Anche se il concorso è stato bandito due buoni anni fa.” Intanto si ferma un’altra conoscenza scolastica, con la coda di altro estenuante bla bla bla memoriale (si sente che sono di umore un po’ acido).
Si va a casa nostra, e vi sostiamo ancora una mezza oretta chiacchierando. La signora torna a parlare di Susanna, chiede notizie, con sobria reticenza le diamo sulle vacanze pugliesi di lei, fratre auctore, e sulle reiterate promesse di suo imminente ritorno. Poi la presidentessa ripete gli apprezzamenti estivi sulla bellezza rara di Susy. Forse (ma no, senza forse) nel tono del nostro parlarne, e più ancora in certa silenziosa accoglienza dei suoi elogi, affiora un alito di delusione per la “misteriosa scomparsa” della ragazza, tanto beneficata. Ancora meno incerta la sensazione che la signora avrebbe riempito volentieri un altro segmento del suo tempo con oblique investigazioni su quell’assenza così ingombrante. Quasi certamente, la sua discrezione ci ha risparmiato una sincera comprensione della signora e magari una replica del vecchio sermoneggiare sulla mutevolezza dell’animo umano e la facile ingratitudine che ne rampolla.
Infine accompagniamo la coppia al liceo classico della cittadina, dove ci attende il preside Gurrero, che ci intrattiene in Presidenza, con caldo caffè e pettegolezzi di scuola. E passano ancora quaranta minuti. Indi, saluti e baci. La signora Dell’acqua svampa di un’ultima fiammata d’affetto per Rina, rimpiangendo che ci siamo conosciuti così tardi, rammaricandosi di non potere sostare più a lungo con mia moglie. La quale, un po’ imbarazzata, ricambia come può effusioni e promesse di rivederci appena possibile. Inutile dirti, quaderno, che la signora ha sparso a piena e convinta fonetica i consueti commenti-complimenti sulle grazie di Rina: per tutta la durata del piccolo tour.

Stesso giorno.
Ore 12, 15.

Sulla Gazzetta letteraria di oggi un carteggio-chicca tra Giuseppe Villaroel e Adelaide Bernardini, la “sposa bambina” di Luigi Capuana distrae il pensiero dal grande cruccio. Le lettere del poeta bruciano gli occhi più del rosso inchiostro che le trascrive su queste pagine: tale è la piaggeria, la fregola lecchina del giovane adulatore rampante. Eccole, alcune di quelle frasi tutte miele e incenso, rivolte alla poetessa per giungere all’autorevole marito plurititolato.
Soave scrittrice, Ella non mi negherà la sua validissima collaborazione, anche in nome [...] della mia ammirazione profonda verso la sua opera [...] Voglia essere cortese porgere i più rispettosi miei ossequi al venerando Maestro Suo nobile consorte” (Lettera del 18. lu. 1910). Nobile Signora, Ella sarà anche cortese farmi ottenere dall’illustre Maestro un di lui breve scritto. Anche pochi periodi. Ella può tanto, ed io confido molto nella Sua cortesia e nella bontà del Maestro [...] (Data?).
Eletta Scrittrice, Ricevo la Sua gradita qui a Larderia nella solitudine dei castagneti interminabili che chiudono – solenni templi vegetali – nelle loro ombre profonde l’anima del silenzio e del mistero. Immagini Ella me raccolto in uno di questi enormi templi della natura col pensiero ed il cuore rapiti dalla Sua lirica meravigliosa. Le confesso che Ella non è mai riuscita a trascinare l’anima sino al delirio come in questo splendido volume di versi. Opere egregie e imperiture Ella aveva dato sin oggi, ma non opere che il lettore potesse fare, per dirla con Ada Negri, suo sangue e sua carne (22. 09. 1911).
Il 30 dicembre 1911 Villaroel augura alla “eletta Scrittrice” trionfi splendidi per il nuovo anno, a Lei e al venerando Maestro. Passano gli anni, la musica cambia poco o niente, refrattaria alla “maturazione del tempo”:
Illustre Scrittrice,[...] Ho letto e riletto le Sue veramente belle e profonde poesie e ho tratto motivo di uno straordinario godimento intellettuale. Questa mattina ebbi l’onore d’una visita dell’illustre Suo consorte [...] (06. 01. 1914).
Eccetera eccetera, sempre su questo registro. “Crescendo”, come accade anche ai ritardatari, don Peppino migliorò, certamente; ma queste involontarie “confessioni” oblique della giovinezza impaziente e adulatrice restano preziose per misurarne anche la schiettezza e la profondità future: che sono quelle del buon letterato di media stazza, ignaro di assorta sintassi e scarso di innovatrice creatività. A proposito, Villaroel è morto quest’anno.
Lo scampanio adulatorio del Villaroel me ne ricorda un altro, allogato in un altro autore sicanico, più robusto del conterraneo, ma altrettanto ambizioso e incline all’uso dello stesso strumento. Stiamo parlando di Vitaliano Brancati, che nella sua giovinezza rampante sciupò tempo e intelligenza adulando il Duce in acerbi romanzucci gonfi di esaltazione enfatica: L’amico del vincitore, Everest e simile broda. Non solo: si appostava agli angoli di certe vie per cogliere l’occasione di poter salutare quel numero Uno. Salvo, poi, a regime declinante, fare marcia indietro. Ma spostando solamente il vizietto: adulando Croce, come l’unico riscatto dell’italietta fascista. Peccati di gioventù? Sì, certo, ma illuminanti nell’ottica di una “critica fisiologica” alla Gulizza. E sia detto senza togliere meriti all’autore del Dongiovanni in Sicilia, del Bell’Antonio e di altre buone scritture. Buone: ma quanto distanti dalle vette leopardiane manzoniane dantesche, e via esemplando e dosando?
*
Sullo stesso foglio, nell’ottava puntata di quell’interminabile, insulso, fantasioso pseudo-saggio di un tale Pietro Degli Apostoli sul Novecento magnogreco sono citate queste parole di Giuseppe Tedeschi su Lorenzo Calogero, il poeta di Melicuccà morto nel ’59 “misteriosamente” (e scoperto di recente): “Tutto ha contribuito [alla sua morte], il suo carattere introverso e psicastenico, la sua estrema ricettività del tragico, la sua diffidenza patologica, l’insonnia perenne, il disordine psichico e fisico in cui da diecine di anni viveva, la impressionabilità e la tendenza al pessimismo, al maudit e ai testi di questa natura, un po’ la sua natura di decadente e di lettore dei grandi testi del decadentismo romantico.” Alcune (non pochissime) di queste parole potrebbero essere state scritte per me. E qualcuna delle seguenti, stesso contesto: “Era come era, decadente e vittimista, un caso patologico, un pavido, un non impegnato...”. Parole taglienti, peraltro, queste ultime, che accendono repulsione e tentativi di rivalsa sull’autore. Ma, almeno fra noi, vero quaderno? dobbiamo accoglierne l’eco nel nostro interieur: non foss’altro, come solletico d’allarme. Fastidioso, certo, ma forse anche utile. Quanto all’autore del giudizio su Calogero, be’, è evidente una certa “boria”, da sano che giudica il malato. Giudica e manda, con la nonchalance sprezzante dell’engagé tutto preso (forse) dal sol dell’avvenire (del quale, tuttavia, conviene conteggiare nuvole e nembi di certissimo inciampo). L’ennesimo fanatico? Forse no, ma certo un illuso della categoria “Rifaremo il mondo”. Noi, si parva licet, siamo più modesti: non siamo disimpegnati, come sanno i cinque lettori dei nostri articoli politici; siamo timidi e introversi, ma non pavidi né inibiti alla Jean Jacques o da altro “caso patologico” (per esempio, Baudelaire, che non era, neppure lui, un divoratore di folle). Quanto al pessimismo, che già ci viene attribuito, come fare, quaderno, a convincere i nostri amici ed estimatori impensieriti, che la nostra chiaroveggenza non è pessimismo ma lucidità? Confortata, oltre che dal nostro amico-maestro Gulizza, dal prof. Rama e da pochi altri amici lontani, come quel limpido campione della “ragione lucida” che risponde al nome glorioso di Albert Camus (per tacere del “mostruoso” precursore Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro di Recanati). Infine, un appuntino al Tedeschi, inutilmente prolisso e ripetitivo: il giudizio su Calogero avrebbe guadagnato da una più raccolta densità verbale alleggerita da ripetizioni sterili.

5 ottobre. Ore 12

Che silenzio assordante dall’astro lontano: né luci né suoni. Non sospiri di ripensamenti, non chiarìe d’aurora rifiorente dalla cupa notte. E allora, che fare, sopra queste righe deserte, se non distrarsi dal gran vuoto? C’è ancora sul tavolo di questo similstudio in attesa del mite pasto centrale il foglio della Gazzetta letteraria di questa settimana: raccogliamovi altri giudizi sul buon Lorenzo indennizzato post mortem. Sorprendiamo il “portentoso” Leonardo Sinisgalli in un volo lirico: In questi giorni una grande bizzarria è venuta a gettare nuova luce sulla natura della poesia e sui portentosi risultati delle sue irriproducibili operazioni. Il demone dell’analogia, della similitudine tiene in soggezione un uomo da oltre venti anni[...] I libri di Calogero, specie gli ultimi due, dovrebbero finalmente restituire ai nostri critici la fiducia nei poeti. E ora una presa in diretta del nuovo Immaginifico, così poco dannunziano, insomma una sua “tipica” poesia:
Ma non m’interessa più della vita / Oggi mi curo della morte. / Fra poco e alla svelta morrò / perché anche tu con me sul lago / verrai domani. E la pelle è adunca / o si screpola appare sbadiglia. / Con te tergiversare non vale una lunga pena. / Poco mi interessa ella; / ora vergine sbadiglia / e il sangue è fluido o fila medesima cosa. / Tu come giunco fresco / un narciso hai messo alle nari.
Che dire? Ah, il demone dell’analogia! Com’è facile abusare del titillamento cortocircuitale. Non è banale, no, il vibratile Calogero, ma, nel suo tipico, un poco unermesslich, scarso (a volte privo) di misura. Fino al nonsense non voluto, quasi meccanicamente indotto. Ma certo questa composizione non s’accuccia fra il meglio della sua varia e vibratissima produzione diseguale.

Domenica, la cerimonia per il conferimento del “Premio Calamagna”. Gulizza, che fa parte della giuria, mi ha invitato a Sanvilla. Ma avrò da fare domenica 9 ottobre (se sarò ancora in questa frivola vallis lacrimarum). Uno dei premi è stato assegnato al molto rispettabile scrittore tedesco Heinrich Böll (del quale non ho letto ancora nulla). La notizia lo ha raggiunto sul treno che lo portava a Mosca. Felicitazioni.
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Ore 13. Oggi, per la prima volta dal 9 agosto, rivediamo Tina, la sorella minore di Susy. Passeggiava in bicicletta e s’è fermata davanti alla mia finestra aperta sulla via Massaua. Abbiamo parlato un po’, lei dalla strada io dallo studio, ma solo “del più e del meno”: non le ho chiesto di Susy. Poi l’ho invitata ad entrare in casa. Dove s’è fermata a conversare con mia moglie. Il piccolo ha provato a impegnarla nei suoi giochi, ma con modesto successo. Lei, precoce in tutto, s’è fumata, sponte sua, una mia sigaretta, pregandoci di non dirlo ai suoi. Neanche Rina ha chiesto di Susy. Facciamo i sostenuti, per dirla in gergo. E certo Tina, che non è di mente tarda, capisce il sottinteso del nostro risentimento verso la sorella misteriosa. Al commiato, le abbiamo affidato i più convenzionali saluti per la famiglia.

Ore 13, 40. Canzoni alla radio. A domani, amore,/ a domani, come sempre...(Mary La Foret). Verrò e ti porterò via con me[...] Non so più vivere senza di te [... ] Lo so, sbaglierò / se dopo tanto tempo / tu non mi amassi più [...] Lo so... ma ormai la vita mia è nelle mani tue[...] Verrò e ti pregherò perché / un’altra volta tu ritorni a me. / Verrò e ti porterò via con me [...]. (Gene Pitney)

Dio, come sono caduto in basso. Che miseria questo masochismo alla canzonetta. La dolciamara tortura di carezzare la piaga con gli artigli vellutati di sciocche canzonette popolari (ascoltate al transistor, en attendant ma femme en train de sortir, o tra un’occupazione pratica e l’altra) riempie, a modo suo, il Grande Vuoto. Ma è un modo, tutto sommato, alquanto derisorio.

L’ombra dell’ironia avvolge inutilmente le parole grosse, le frasette drammatiche. Vogliamo convincerci, quaderno, che si può scherzare sul “masochismo alla canzonetta.” Procediamo come se un pudore residuo ce ne distanziasse. Oscillando, insomma, tra il bisogno di dire chiaro e il freno del timore di occhi ostili sul chiaro dire. E perché, poi, le canzonette sarebbero sciocche per essenza e statuto? Se calzano come fossero offerte intenzionalmente al nostro bruciore affamato, non possono essere sciocche. Non del tutto. Né mancano, riscontri personali a parte, rispettabili prodotti, in quel molteplice cantiere canoro. Sia per i versi che per le note, col top nella sintesi felice. Rara, codesta, è vero, ma non impossibile: il genere, da Celentano a Mina, da Peppino di Capri a Sergio Endrigo, da Fred Bongusto a Buscaglione (per fermarci ai primi nomi caduti in punta di penna) offre un nutrito florilegio di quella sintesi, e buoni esempi di parole non sciocche. Ma vedo che ho ricordato più i cantanti che gli autori (di parole e musica): mi è più facile. E ho taciuto sugli stranieri, non per discriminazione.
Questa radiolina Philips a transistor è il regalo più azzeccato che abbia ricevuto da molto tempo a questa parte. Mi ci ascolto le lezioni di lingue straniere, il giornale radio, le rubriche varie... E le canzonette sciocche che ingranano col digiuno dolente. E perciò non sono più sciocche. (repetita iuvant?)

A che serve il sole se non scalda più? Non conta niente il [parola sfuggita] ... A che serve il mare se non ci sei tu[...] A che serve questa bella vita senza te? [...] Non mi importa... Vorrei che tu tornassi...Il resto già lo so, non conta niente[...] Io rinuncerò a tutto se tu torni con me [...] Non sopporto più che tu mi sia lontana /Io senza di te non sono niente...

Non sembrano scelte apposta? Apposta per grattare la ferita aperta? E sia pure con qualche inevitabile sfasamento enfatico: chi potrebbe dire mai “Io rinuncerò a tutto se tu torni a me”? E dimmi, quaderno, perché sento il bisogno di distinguere precisare distanziarmi dalle frasi troppo impegnative? Dalle parole totalizzanti? Tutto, Niente: che lessico metafisico. Sempre, Mai: Crono se la ride sopra questi avverbi tranchant. Rimane, nella sua modestia empirica, il fatto che l’Assenza artiglia le viscere, brucia d’arsura la gola, comunica il senso di una mutilazione.
*
Oggi si è fermata ancora Tina, che passava per la nostra strada. E neanche stavolta le abbiamo chiesto di Susanna. La novità è che ha preso lei l’iniziativa di parlarne. E, nientedimeno, per annunciarne l’ormai prossimo rientro. Dice che comincia a sentire l’effetto delle cure e che si sente meglio. Salvo complicazioni ─ aggiungo io. “Saremo felici di salutarla, cara, se vorrà venire a trovarci.” Lo dice mia moglie, lo dico io, lo diciamo insieme simultaneamente, come se recitassimo un precedente accordo. Vedi comunanza di sentimenti. E risentimenti. Stavolta niente sigaretta: meglio caramelle. Ha portato un po’ in giro il bambino sulle strade vicine sgranocchiando le caramelle al miele. Che si saranno detti? O piuttosto, che cosa avrà saputo dire lei al bambino confuso da quella strana latitanza inspiegabile?

13 ottobre, ore 6

Mi ha svegliato alle quattro un sogno traboccante: lo voglio “appuntare” su queste pagine.
Stavo con mia moglie, e probabilmente il bambino era con noi, in un luogo curioso, fatto di strade bianche, spazi vuoti, aiuole, forse anche un praticello cittadino. Sembrava una zona di periferia, tutta pianeggiante, con larga visibilità. Stavano con noi delle ragazze. Una era Lidia Codesposi, una mia alunna di IV E, cioè una compagna di classe di Susy, e soprattuttto sua intima amica. Arriva una macchina sulla via parallela alla nostra, si ferma all’altezza del nostro gruppo. Tra noi e la macchina in arrivo c’era uno spiazzo biancastro, vuoto, immerso nell’ “idea” che non fosse percorribile da qualsiasi motore: un marciapiede? O qualcosa del genere. La macchina era una Millecento, forse; di colore avana, mi pare, con qualche striscia marrone. Però non era il modello che porta quei colori, era del tipo più recente. Piena di occupanti: vi si scorgevano figure femminili, dietro i vetri mezzo appannati degli sportelli: certo, delle ragazze. Ne scesero alcune. E d’un tratto sentii ─ ma non so come, né da quale voce di ragazza ─ che con quella macchina arrivava Susy. A rimemorare, non sono più sicuro nemmeno che qualcuno l’abbia detto. Probabilmente, sì, ma molto oniricamente, senza puntelli di logica empirica. Guardai attentamente la macchina, cercai di vedere bene le ragazze che scendevano. Una la individuai subito: era Nuccia Speciale, ancora una compagna di classe di Susanna, e una compagna amica. Entrambe queste ragazze sono state davvero buone amiche di Susy: le vedevo spesso insieme, andavano a trovarla a casa nei momenti di crisi, studiavano, a volte, in gruppo. O magari ora con l’una ora con l’altra. Lo scorso anno era prevalente la frequentazione con Speciale, quest’anno con Codesposi. Io guardavo, dunque, in direzione della macchina. La Codesposi, che mi pare badasse al mio bambino, si voltò a guardare me e la macchina. Sentii il nome di Susy pronunciato da non so chi. Ma non udii “Susy”, o “Susanna”, udii “Renate”. E non ci trovai nulla di strano: mi parve il nome giusto, assolutamente. Tanto che postillai, rivolto a non so chi in particolare, che giusto oggi era santa Renata. E guarda un po’, Susanna-Renata tornava da Taranto per festeggiare l’onomastico. Chi l’aveva detto? Come lo sapevo? Mistero. Ma confrontai la notizia dell’inatteso ritorno di Susy con un’altra, che la doveva escludere: Susy aveva scritto ai suoi che sarebbe tornata da Taranto soltanto dopo la prova scritta di ammissione al Magistero. Che sarà il 12 novembre.
Ma da dove sbuca fuori questo bel nome, Renate? Dai caldi ricordi dell’estate di quattro anni fa: Renate è il nome di una bella bionda tedesca che, inspiegabilmente (non aveva trovato di meglio?) mi aveva concesso le sue ben nutrite grazie turistiche in quel di Taormina, malgrado il marito presente. O forse col suo evoluto consenso. Sì, è più probabile l’evoluto consenso. Tanto facilmente il buon Arthur si lasciava distrarre dal mio amico e collega complice Orazio Sorbeto. Ora sua maestà il Sogno applicava la sua logica nient’affatto dicotomica, pasticciando tra due realtà galanti accomunate, sì, da varie qualità e condizioni, ma di fatto molto lontane, nel prevalere delle circostanze discriminanti.
Intermezzo: mi pare di ricordare che di Renate ho già parlato su queste pagine. Devo controllare. Ma perché, poi? Con tante ripetizioni, una di più che fa?
Susy non scendeva dalla macchina. E mi pareva naturale, data la mia presenza per lei imbarazzante. Meno ovvio mi appariva il contegno di Rina: come mai così serena, senz’ombra di cruccio in volto? Dov’era finito tutto il suo risentimento verso l’ingrata amica? Pensai: se non si mostra offesa dal suo comportamento, forse immagina che Susy ritenga più opportuno fare così. Ma perché? – mi chiedevo. C’erano stati forse dei pettegolezzi sui miei rapporti con lei? Si erano risaputi in famiglia? Forse Susanna riservava le effusioni per quando fosse venuta a trovarci in casa? Ma sarebbe, poi, venuta? Oppure si considera già fuori della nostra amicizia? Tormenti, insomma, anche nei sogni. E stavolta come nella realtà: alimentati da quello strumento di tortura impareggiabile che è il silenzio. Il silenzio dell’invocato, della persona amata: che c’è di peggio? Quello di Dio ha portato alla disperazione devoti e mistici. Susy non è Dio né la Vergine Maria (vedi gragnola di maiuscole ad hoc), ma quale persona amata non replica, in piccolo, e in misure varie, la potenza della divinità? Vecchi ricordi mi assalivano: conoscevo quella tortura fin dalla prima adolescenza.
Ci staccammo, io e mia moglie, dalle occasionali compagne, e ci avviammo. Ma il bambino, c’era o no con noi? Nel ricordo mi pare come se ne avvertissi, in sogno, una presenza diminuita, evanescente: voleva dire qualcosa? Che l’egoista Eros era predominante anche sul figlio, sulla carne della mia carne, pur così amata? Passammo vicino alla macchina posteggiata, e ancora piena di ragazze quasi in attesa di un evento. Infatti: una di loro aprì lo sportello e si sporse: sbilanciando il corpo, una gamba si distese fino a toccare il suolo col piede destro. Ed era lei, Susy. Inattesa in quel gesto tardivo come un sole in quella sera crepuscolare. Sì, una specie di miracolo.
Susy va incontro a Rina (seguo l’evento sbalordito e ammirato). Rina, visto il gesto di Susy, si ferma (ma c’era il piccolo?). Io ammiro, sì, ma proseguo, sostenuto (ero solo o con Giampiero? Forse col piccolo). Devo fare dimostrazione di risentimento: non ero più che giustificato? Proseguendo, mi fermai a una certa distanza da loro e vidi che si scambiavano rituali baci sulle guance. Continuai a camminare, lento, impegnato nella parte che recitavo, ma felice dello sblocco, di quel silenzio avvelenato che s’infrangeva. Una bella litigata, al dunque, valeva molto più che quella tacita blindatura formicolante di pensieri inaccessibili. Camminando, costeggiavo un muro, dietro il quale s’intravedeva un giardino pubblico (una copia dei giardinetti di Zefiria, dove tante volte ci eravamo incontrati, io col bambino e lei felice di portarselo dietro e comprargli dolci o giocattoli  ma dov’era, ora, Giampiero? Com’è che nel ricordo non vedo la sua figuretta mobilissima?)
Rina sta ancora con Susy: parlano fitto, vedo. Entro nel giardino. D’un tratto fu buio pieno. Penso di aspettare mia moglie, o entrambe (sarebbe venuta all’incontro Susy?) dentro il giardino. Ma c’erano tanti viali, diverse uscite: pensai che probabilmente non mi avrebbero visto, ci saremmo persi. Torno sulla strada e svolto l’angolo (un angolo apparso giusto in quel momento). Dietro l’angolo c’erano loro due, Susy e Rina, che, vedendomi, interrompono il loro conversare. Dico “buongiorno”. E lei, pallida, risponde, rivolta a mia moglie: “Con il professore dobbiamo parlare, poi...” . Capivo: era un’allusione alla lettera piena di rimproveri e rinfacci che la mia cattiva consigliera, la rabbia, mi aveva dettato, che io avevo scritto e improvvidamente spedito. Ma della quale (pur essendo trascorsi ormai vari giorni dall’invio) non mi sentivo affatto pentito.
“Cos’hai da dire?”, risposi in tono di sfida. Sono stato anche troppo discreto e cavalleresco, tutto sommato. Intanto, per avere indirizzato a te personalmente la lettera, senza farla passare, come le altre volte, per le mani di tuo fratello. E poi, ti ho detto soltanto la metà di quello che avrei potuto, e potrei, dirti... O forse devo pensare che i tuoi nuovi parenti, o tuo fratello in persona, ti controllino la corrispondenza?” “Nessuno me la controlla... Ma, quello che mi avete scritto, secondo voi, lo meritavo?” “Te l’ho detto: secondo me, meritavi di peggio” “Sì, vero? E va be’!” – Come mai così mansueta? – mi chiedevo. “Hai pure il coraggio di reagire?”– infierivo.
“Ci dicevi che non avevi voglia di andare a Taranto, e invece ne avevi una gran voglia. Sei partita per restare dieci giorni, e sei rimasta due mesi.” “E debbo tornarci subito, se è per questo” “Ecco, vedi? Ci scrivevi di essere malata, di avere l’esaurimento, il cuore a pezzi... Che il medico ti aveva proibito fumo caffé e alcolici, che non riuscivi a leggere una pagina intera perché ti prendeva subito il mal di testa. I tuoi, tutte le volte che ci incontravamo, ci ripetevano la stessa storia: doveva venire ieri, o domenica, o stasera, ma ha dovuto rimandare perché s’è sentita di nuovo male, ha avuto un attacco di emicrania, palpitazioni di cuore e chissà che altro; ma verrà la settimana prossima. E poi, per caso, e per bocca dell’innocenza, cioè del tuo fratellino, venivamo a sapere che saresti rimasta fino a dicembre, perché ti eri iscritta al magistero e studiavi con la tua cognatina, tanto brava e preziosa... Dov’era andato a finire l’esaurimento? Dicevi di avere rinunciato al concorso magistrale perché il medico ti aveva ordinato riposo assoluto: come mai l’impedimento non esiste per gli studi universitari? Sono più leggeri? Perché, mi sono chiesto, ci siamo chiesti, tante volte, queste bugie-paravento? Era così difficile dire la verità, scusandoti, magari, per i continui ritardi e rinvii del rientro? Dopo tutto, non dovevi mica dare conto a noi delle tue scelte post-diploma? Bastava solo essere sinceri...”
Susanna era sempre pallida (ma come facevo a vederla così bene in viso, se era già buio?). Cercava di difendersi, ma io incalzavo (alla faccia della cavalleria). Mia moglie parlava poco, oscillando tra il consenso alle mie, e nostre, buone ragioni (tante volte esaminate insieme, specie durante gli spostamenti in macchina da un paese all’altro per le nostre povere sortite serali) e la compassione per l’amica malamente strattonata dal marito, forse troppo aggressivo. Una cosa è criticarla, anche aspramente, ma in remota assenza, altra e più spinosa averla sottomano in trepida carne sensibile agli strali. Intanto mutava il paesaggio. Sempre buio, ma ora non eravamo più in luogo pubblico. Dove ci aveva spostato il capriccio di sua divinità mercuriale? C’erano marmi intorno a noi, ma anche piante. Susanna riempiva come poteva gli scarsi spazi liberi che lasciava la mia arringa da sofferto accumulo: parlava poco, con mezze frasi, e sempre con lo stesso tono basso, quasi da pentita in imbarazzo. Diceva che aveva ceduto all’ultimo momento alle insistenze dei suoi; che aveva voluto, e dovuto, dar loro la soddisfazione di aver tentato, e che lei sperava, e sapeva, che non sarebbe riuscita a superare la prova d’ammissione al Magistero. Infine, insisteva nel ripetere che non ci aveva comunicato la notizia della decisione ultima per non darci inutili dispiaceri. E si doleva di avere dovuto assumere l’apparenza della bugiarda. Ma dov’eravamo? Quei marmi, quelle piante e fiori: un cimitero? Ne avevo la sensazione. Vaga, intermittente, ma ricorrente con una sottintesa continuità. “Chiacchiere! Ti sei lasciata soggiogare dal fratellino ambizioso, che vuole la sorella laureata. Forse per riscattare una sua presunta inferiorità di fronte alla fidanzata, che sarà coronata del suggestivo titolo di dottoressa (in lettere, mi pare). Ma ce n’era bisogno? Lui è già tenente, ed in piena corsa per una carriera militare brillante. E ti sei anche lasciata influenzare dalla cognatina, che evidentemente ci sa fare nel tenersi stretto il bel fidanzato ufficiale di carriera. E tu, e i tuoi, avete dimenticato “come” sei arrivata al diploma, e magari vi siete convinti che quei sette fossero autentici, e tutto merito tuo. E invece io, che, dopo tutto, li ho più subiti che graditi (accidenti al collega impiccione che ha voluto strafare), me ne vergogno ancora. Ho messo l’affetto per te sopra ogni cosa e considerazione. Bell’acquisto, ho fatto: ho inquinato la mia reputazione di professore onesto e imparziale per offrirti la prova più sicura della nostra amicizia leale, e tu...”
Insomma, le ripetevo nel sogno quanto le avevo scritto nella famigerata lettera-requisitoria. Aggiunsi, anche, e Susy parve confermarli con le sue impacciate reticenze, i sospetti che sotto il “mistero” complicato dei rinvii e dei malanni ci fosse la semplicità “inconfessabile” (!) di un fidanzamento in cantiere. Ma perché tanto mistero? Noi, suoi sincerissimi amici, avremmo gioito di un evento simile, e augurato tanta felicità.
Questa parte dell’arringa onirica, più bugiarda del resto, non fu mascherata abbastanza neanche nel sogno. E temetti che Rina per prima fosse permeabile a qualche sacrosanto dubbio. Susy negava il fidanzamento, e fiaccamente accennava a corteggiamenti, ipotesi, intenzioni dei parenti e valutazioni in corso. Ripetendo, s’intende, che lei era refrattaria, per il momento, a simili impegni, e che alla nostra amicizia teneva sempre molto. Sì, molto! (ripeteva, replicando a qualche mia smorfia di scetticismo).
Che sogno lungo e complesso (ma dov’era Giampiero? C’era e non c’era. Sbiadiva...). E così integrato nella mia perdurante rabbia impotente. Come pure nel disagio del mio senso di colpa verso il piccolo. E, un po’, anche verso il resto della famiglia stretta. E (ma molto meno) della larga (che pure, sapendo, avrebbe sofferto la sua parte. Anche se in ovvia differenza da quella. Specie mia madre).


16 ottobre,
sera tarda

Si diventa permeabili a qualsiasi stimolo, a qualunque richiamo associativo. Fosse il più bislacco, il meno cogente. O coerente con la ricchezza emozionale e “pragmatica” del Caso che domina questi appunti. La paroletta “Vergine”, per esempio, che impatto potrebbe mediare e giustificare tra quel dominante e un libro di solida, copiosa cultura, sia pure “allegra” come “La vergini funeste” di Giancarlo Marmori (su “la donna fin de siècle”, stampato, quest’anno, da Sugar, e apparso il mese scorso nelle librerie di Zefiria?). Eppure quella parolinetta ha scatenato una piccola tempesta nel troppo sensibile meteo interiore. Che naturalmente mi ha messo in mano il libro ben rilegato, con congrua sopraccoperta “pitturata” (una delle “36 illustrazioni” inserite del testo). E l’ho pagato pure con lo sconto (benché fosse di prezzo modesto, 1800 lirette) al libraio amico. Naturalmente, ho cominciato a divorarlo subito. Con godimento piccato e intersecazioni di fiammate memoriali. Preparati, quaderno, ad ospitarne qualche assaggio nel prossimo futuro. Protesti? Obietti che la mia vergine non ha nulla a che vedere con le funeste qui in ballo? E chi lo nega! Ma certe consonanze di potenzialità oscure sono nel bagaglio genetico del “mistero” femminino. E infine, che importa? Godiamoci questo grasso pasticcio di sensi sesso sadismo masochismo esotismo feticismo satanismo e quant’altro il mister Hyde del nostro selvatico Es comporta e trasporta. Con la doverosa premessa di un elogio meritato alla scrittura dell’autore: densa, agile, veloce, tranchant, infiltrata di citazioni in calzante fitness espressiva e comunicativa. Sia che commenti le riproduzioni di celebri quadri e pitture, sia che parli in teoresi di quel letamaio dorato del fin de siècle immoralistico ed esibizionistico, presente in tutta l’area della creazione estetica. Infatti tanto scialo di eccedenze erotiche non si trova soltanto nei romanzi del dichiarato decadentismo-immoralismo: il romanzo naturalistico non si tira indietro, dalla “Nana” di Zola al “L’Enfer” di Henri Babusse, dal Flaubert di “Salammbô” a Heinrich Mann del “Professor Unrat”, per diecine di casi, la tentazione del sesso satanico di genere femminile si slarga senza parsimonia.
Eccone qualche scampolo.”Poi Nana comincia a truccarsi [...] Il conte Muffat era ancora molto turbato, sedotto da quella perversa atmosfera di ciprie e di creme, preso da un folle desiderio di quella giovane dipinta, la bocca troppo rossa nella faccia troppo bianca, gli occhi aggranditi, cerchiati di nero, bruciati e lividi per l’amore”. Apriamo ‘L’Enfer’ di Barbusse: “l’epifania di Venere alla toilette è la medesima, si verifica nel piccolo santuario dove stagnano i suoi odori e dove regna il suo connaturato disordine, antitesi del logos virile. Lei è come intangibile, liturgica ... un uomo spia l’ignota della camera attigua, l’occhio alla crepa del muro che separa le due stanze, e una sera la sorprende mentre si spoglia. Alla luce del camino, e sempre più commossso, egli segue la progressione di questo suo svestirsi, sino al superstite pantalon: ‘Il pantalon ricamato era spaccato nel mezzo da una cupa, larga fenditura e il mio sguardo, fisso in quel punto, smaniava’ [...] Dal suo corpo esalava un profumo che mi riempiva tutto [...] il suo odore profondo, selvaggio, vasto, paragonabile a quello del mare – l’odore della sua solitudine, del suo calore, del suo amore e il segreto delle sue viscere’”. Fermiamoci un attimo, facciamo spazio al rimemorare doloroso e gaudioso del tempo che fu.
Do you remember, my dear middle finger, the Susy’s good smell, the intoxicating smell of her private parts? Un pizzico di feticismo non guasta, vero quaderno? Ma non sovraccarico come quello della “Jongleuse” di Rachilde, o della “Marthe” di Huysmans, “che si presenta come un genio miniaturizzato del grembo, larvale, infettivo”, “le labbra rosse come carne sanguinante, le gambe inguainate in calze di seta rosso ciliegia...tutta la sua carne attraente, turbevole, rabbrividente sotto le gale del peignoir...”. Il feticistico peignoir, “questa specie di scorza infiocchettata della nudità”, ricompare sovente nei testi del tempo. “Alla vista di Venere in peignoir, il Tannhäuser del tardo ottocento si turba puntualmente.” Vediamolo in “Bel Ami” di Maupassant ‘Lei si volse, sorridendo sempre, avvolta in un peignoir bianco ornato di pizzo; gli tese la mano, mostrando il braccio nudo fuor dalla manica largamente aperta [...] Un profumo leggero emanava dal peignoir, il profumo fresco della recente toilette”.

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