martedì 13 ottobre 2009

Susanna, frammento n. 42


Continuo il resoconto sintetico degli eventi pregressi dell’agosto tramontato.
Al ritorno da Ghera apprendiamo che un signore alto, giovane, snello, simpatico, con la lente, su una Millecento color miele, targata Lt (Liotria), ha cercato di noi. La notizia ci viene dal padrone di casa, che ha certificato la nostra temporanea assenza con impegni ospitali di comitiva bene assortita. Si tratta del cugino di mia moglie, Bruno Leonardi, insegnante di matemastica e scienze alle medie in quel di Roma. Aveva promesso di venire a trovarci, rientrando dalla capitale. E ha mantenuto la promessa nel giorno sbagliato. Ossia nel giorno affollato. Si presenta a sera inoltrata, verso le otto, dopo avere realizzato, gironzolando per il paese, una sua prima sommaria conoscenza, in attesa del nostro ritorno. Gli ospiti erano partiti poco prima. Lui resta a cena. Nell’attesa della quale, cominciamo il rito dei resoconti confidenziali. Durante il pasto, sui temi innocenti delle famiglie e del lavoro. Dopo, una mini-gita in macchina a Siderato, per presentare al nuovo ospite il vanto del paese, quel lungo e largo e variegato lungomare asfaltato di recente costruzione (già lodato in queste pagine). Lo percorriamo in tutti i suoi tre chilometri e passa, posteggiamo la macchina accosto al marciapiede sinistro e ne facciamo un tratto a piedi. Poi, la stanchezza di Rina e figlio, dopo la giornata campale, consiglia il ritorno in macchina. Sulla Giulietta azzurra, imprestata dal cognato, Rina e il bambino presto recedono in un sonno convinto. E il cugino, rassicurato da quella assenza morfeica, si apre alle confidenze galanti. Finalmente ha conosciuto la sua prima donna, vissuto la sua prima avventura. A ventinove anni suonati: quasi un primato da Guinness. Con una collega romana. E (o ma?) l’ha vissuta con mille trepidazioni e paure, prendendo tutte le precauzioni per evitare “complicazioni”. Fino a negarsi l’estremo pasto! Che forse la ragazza era ben disposta e pronta a concedergli (come “prova d’amore”?) – a consolazione di lui e libera edificazione laica di entrambi. Egli giura che la ragazza era vergine, e non ho motivo di negargli credito. Ma che, perciò? Una ventisettenne metropolitana, laureata, con stipendio, non sarebbe tanto emancipata da fare sesso in love senza garanzie impegnative per lui? Il timidone è persuaso del contrario: la formosa girl dalle vesti succinte era, dice, in cerca di marito. E fosse pure: ne sarebbe morta, se la congetturata impresa seduttoria avesse fatto flop? Le sarebbe pur rimasto un gustoso couplet di felice poesia carnale, un prezioso bacino di ricordi futuri. E che diamine! Mica lui è sposato e pater familias come il sottoscritto.
Sia detto, s’intende, dando per scontata, nel cugino, l’intera attrezzatura competente: abilità funzionale, qualità tissutale, resistenza al lavoro di rigorosa pertinenza. E quant’altro si attende e si auspica nel continente mascolino da parte della normale (o esigente) complementarità femminile: compresa una convincente cointeressenza affettiva.

Ritorno a Zefiria. Moglie e figliolino vanno a letto. Chiudo a chiave la casa ed esco col cugino a passeggiare per le vie sempre meno popolate e ben silenziose del paese notturno. Lui riprende e continua il racconto delle sue avventure e paure. Nel cielo sgombro di nuvole e vapori civetta una splendente luna quasi piena. Resto deluso perché non ho potuto presentare al cugino Susanna, che non è ancora ritornata da Taranto. Mia moglie vorrebbe combinare tra loro due. Forse anch’io – pronto a dolorose rinunce se la cosa andasse in porto. Ho presentato, intanto, Bruno al fratello tenente di Susy e a un suo cugino, ospite degli zii: ne ho avuto occasione passeggiando sul corso.
E’ mancato l’incontro fra Bruno e i parenti ospiti, partiti qualche ora prima del suo arrivo. Il lunedì ci lascia anche lui. Chi parte e chi arriva: lo stesso lunedì arriva il rappresentante della editrice Vallardi col primo dei dieci volumi della sua Enciclopedia. Pago la prima rata.
Avrai notato, quaderno, l’attrito fra l’incontro del tenente susannico sul corso zefirese e l’assenza della sorella, rimasta lontano, in quel soggiorno pugliese che deve esserle riuscito piuttosto gradito. Con buona pace degli amici in attesa del suo ritorno promesso col temporaneo rientro del fratello. L’accoglienza dei nuovi parenti dev’essere davvero allettante, se protrae oltre il previsto la permanenza della nuova componente della famiglia allargata.
*
Durante il soggiorno ad Akiskène sono andato, con moglie e figlio, nella campagna di Santa Stellaria. La campagna in generale è stato un mio precoce “pregiudizio”: entrambi i nonni mi ci portavano da piccolo. Il materno, complice la zia Melilla, sorella di mamma, cominciò a portarmi nella sua proprietà con indosso la vestina, che a quei tempi si usava anche per i maschietti fino a un paio d’anni d’età. Il secondo mi portava nella sua tenuta dai miei sei anni in poi. Il podere del materno nonno Beppe era parte del paesaggio di Santa Stellaria, zona ricca di terriccio lavico e pietra pomice. Era la ragione per cui familiari e gente del luogo chiamavano sciare tutti i poderi della contrada. Oltre al tipo di terreno, li accomunava la flora naturale e il genere di colture: macchia mediterranea, vigneti e fichi non mancavano in nessun podere. Variamente presenti anche gli alberi da frutta, dai susini a frutto bianco o nero, alle pesche di larga varietà e denominazione. Ginepro, sommacco, rovi e querce erano le piante meglio rappresentate della macchia. Su tutto il variegato verde dominava il ficodindia, pianta tenace e caratteristica delle zone sub-etnee, capace di attecchire e fruttificare negli angoli più improbabili delle sciare. La differenza tra i poderi stava nella loro estensione e nel tenore delle annesse abitazioni: quella di nonno Beppe era fra le più modeste. Per estensione e povertà di casale: una sola stanza, di media grandezza, dentro la quale si dormiva sempre al plurale, montando letti di dure tavole e materassi di crine su trespoli in ferro più antichi del podere. Vario il numero degli ospiti, ma sempre ben nutrito dalla famiglia numerosa. Durante il periodo di sfollamento, indotto dall’avanzata degli americani sbarcati in Sicilia nel luglio del ‘43, il volume degli ospiti s’infoltì di nuove presenze parentali. Si era creduto che la campagna restasse immune dai clamori e bollori della guerra in casa, e ci trovammo in piena zona operativa. I tedeschi in fuga resistevano ostinatamente proprio in una plaga che includeva tutta la campagna di Santa Stellaria, compresa la cosiddetta sciara nera: un foltissimo intrico di rocce millenarie e piante della macchia, querceti antichi, stretti sentieri e brevi spianate con fosse da carbonai. Batterie tedesche, prima, e poi americane, s’erano piazzate nelle strette vicinanze dello scarno abitato, dietro le nostre case. I grossi proiettili fischiavano sopra le nostre teste nelle opposte direzioni, la proletaria casa-stanza tremava scricchiolante a ogni fragore di spari e il misero tetto di tegole e canne pioveva briciole della sua magra sostanza sulle nostre coperte. Per l’occasione, noi bambini dormivamo sotto le robuste tavole dei letti a trespoli, sul pavimento di cotto, spalmato di coperte sovrapposte e troppo snelli materassini improvvisati. Là sotto, si pensava correttamente, si era protetti meglio da eventuali frammenti di soffitto o di muri, staccati dalle forti vibrazioni d’artiglieria. O da qualche scheggia deviante. Una notte intera, dalla sera al primo mattino, fu sconvolta dall’infernale scambio di contrapposte artiglierie. E trascorsa, dagli adulti, in piena veglia di angoscia pregante. Noi bambini fummo graziati dall’età e accolti, a un incerto punto del lugubre concerto, da un agitato, ma pur sempre benevolo Morfeo. Gli orinali a portata di mano per eventuali bisognini notturni.
Tempi drammatici, per i quali ancora oggi, e forse, stranamente, più di ieri, ci domandiamo quale ingorgo di cieche circostanze (le donne e i vecchi dicono quale miracolo, e di quale madonna o santo/a) ci ha salvati da quel pantano di fuoco. Madonne e santi, in verità erano ben rappresentati sul finto marmo del vecchio comò: in forma di figure col lumino devoto acceso davanti.
Brandelli di ricordi facevano ressa, dunque, nella mia memoria, stratificati dai tempi remoti della prima infanzia. L’esperienza di paure ed eccitazioni del periodo bellico ne formava il nucleo eminente e più vibrante di emozioni proustiane: la minima madeleine vicaria le risvegliava a vita attuale con rapida (e rapita) concretezza: un frutto, una bacca, un sasso, un acino di quell’uva fragola che, a pergolato, ricopriva lo spiazzetto di rossicce mattonelle sormontato dal rotondo muretto della cisterna (cioè, del pozzo d’acqua piovana pluriuso). Perfino un proiettile di mitraglia e una baionetta tedesca conservata come cimelio si sublimavano in più arcigne madeleine. E ora, a distanza di qualche anno dall’ultima visita, trovavo tutto cambiato nella ex-proprietà dei nonni, e in altre confinanti: non più le piccole approssimative geometrie rettangolari (lenze) di vigna-sciara cinturate di leggere pietrepomici (ma anche di pietre normali) e interrotte dai contorti fichi ultraramificati; spariti gli stessi amatissimi fichi e la varietà dei frutti, i due o tre alberi di pistacchio, la barriera colorita dei fichidindia coi loro cladodi spinosi (“pale”, in gergo) sempreverdi, e, al loro tempo, le variegate corone dei frutti dai delicati cromatismi e dal paradisiaco sapore; niente, o quasi, era rimasto del poetico guazzabuglio antico. Al suo posto si stendeva un agrumeto. La poesia povera e dolcissima del frastagliato disordine vegetale e spaziale (con le sue casualissime alture, fosse, anfratti, muretti confinari valicabili perfino da bambini…) era stata sfrattata a vantaggio di un prosaico ordine spaziale invaso da uno squallido agrumeto utilitario. Constatavo con raccapriccio lo scempio che lo zio Geppo, ultimo dei fratelli di mamma, aveva consumato sopra il corpo indifeso di quella selvaggia bellezza senza mercato. Ché qui stava il busillis (anzi, il  presunto  business): lo zio, in uno scambio compensato di eredità con gli altri due fratelli suoi e di mamma, e tra due sorelle, mogli una sua, l’altra, maggiore di due anni, del fratello Mariano, era rimasto unico proprietario del podere. Motore di tanto giro, la smania di cavarne un più solido utile economico. Con tanti saluti alla poesia delle loro e nostre infanzie, e tant’altro sterile ciarpame (a suo inespresso giudizio) da sognatori oziosi. Ironia della sorte, l’esperimento si può considerare fallito, così come si presenta oggi: il terreno vulcanico, fedele alla sua vocazione macchiaiola, se la ride della nuova irrigazione canalizzata (mai vista prima) e del terreno aggiunto al briciolato originario di millenaria scaturigine vulcanica, e produce limoni di scadente qualità non competitiva e di avara quantità.
Questo, l’oggi. Ma forse lo zio oeconomicus conoscerà altre e meno incerte variazioni impoetiche in un prospero futuro non lontano. Vedo segnali e avvisaglie di un ben più radicale sconvolgimento abitativo nella zona: vecchie case sono scomparse e nuove costruzioni, anche condominiali, si affacciano minacciose sui gloriosi resti della millenaria lirica di pietre arbusti e frutti di pretto consumo domestico. Il boom farà rumore anche in queste riarse contrade, fin qui tutelate dalla povertà decorosa nel loro splendore panoramico e nel clima saluberrimo. I Romani imperiali vi portavano, in mirato soggiorno clinico, legionari malati e feriti per l’eccellente qualità dell’aria: così assicurava il signor Carasso, un barbuto e canuto vecchietto del luogo, ex funzionario prefettizio, informato cultore di memorie storiche e collezionista di monete antiche. Fra qualche anno non resterà traccia del “vecchio mondo” della mia infanzia. O ne resteranno di miseri residuati negletti, a rimpiangere il georgico passato e rinfacciare l’insalubre presente aggiornato. Patetici malumori privi di senso? E sia. Ormai è scritto e lo lasciamo.
Omnia fert aetas, diremo con Virgilio. E non ripeteremo più, venendo qui, l’ottimismo di Livio: Hic manebimus optime.
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Ma intanto mi godo l’ancora ampio passato resistente alle minacce incalzanti del benessere postbellico. Di quelle neiges d’antan fa parte la vecchina che ho rivisto con grande emozione. La credevo morta da tempo, e lei vive: curva più di allora, secca e ossuta, porta ancora in giro per la parte accessibile della sua campagna aspra e generosa il peso dei novant’anni suonati. Questa cara personcina di antico impianto agreste, che rare volte s’è staccata da casa e sciara per raggiungere il paesotto vicino, comunica la sensazione strana di una metamorfica pianta della terra vulcanica che la ospita. Terra materna, rifugio sicuro dalle smanie e insidie cittadine, finché non fu, impensabilmente, stuprata dalle erinni di guerra. Quest’amabile vecchietta è tanta parte dei miei teneri ricordi stellariani: la zia Melilla mi portava da lei, nostra vicina e, soprattutto, fornitrice di spumeggiante latte fresco di capra munta sotto i nostri occhi (dunque, caldo: del profondo calore del suo corpo generoso). In certi flash memoriali di accensione spontanea, mi capita di rivedere, con icastica nettezza di forme e colori, la scenetta-madre della vecchina (tale, per me, nel ricordo) piegata in ginocchio a mungere la capretta in nostra presenza. Il piccolo evento era assurto alla dignità di rito, e del rituale aveva assunto la mistica circolarità: giorni e ore del nostro incontro, fissi dentro un piccolo “intorno” di minuti. La zia mi aveva addestrato a recitare una breve frasuccia ellittica, e la dicevo, con timido slancio, ogni volta che si andava dalla Comare, con l’ancora incerta pronuncia dei miei due anni e qualche scampolo di mese. Grande emozione, sì. Ho raccontato al mio bambino la storiella e lui ripeteva la frasina alla vecchietta, facendo il verso all’antico genitore infante. Ma Giampiero parla in lingua, e io ho dovuto tradurre l’antico sicanico infantile: “Comare Lucia, latte a Paoluccio”.
Stranezza della fisiologia, la mineralizzata vecchina ricordava benissimo quegli incontri. Lucida e di forte memoria, descrive i miei nonni: scomparsi da lungo tempo, la nonna nel giugno del ’40, quasi a scansare l’incipiente tempesta bellica; il nonno l’estate del ’54, a “miracolo italiano” incipiente e già visibile. Né ha dimenticato figure e nomi degli altri componenti della copiosa famiglia artigiana che veniva a villeggiare nella contrada. I due poderi, il “nostro” e il suo (più vasto e vario, con dimora grande e articolata, da abitazione anagrafica e non stagionale), erano separati da un paio di altri e dalla strada principale (ai mitici tempi della mia infanzia ignara di asfalto e case moderne). Ma si vedevano e potevano comunicare al di sopra dei muretti lillipuziani: bastava alzare un po’ la voce. A quest’ultimo incontro della nostalgia era presente l’unico figlio rimasto con lei per via di handicap: colpito da paralisi infantile, zoppica e “pensa meno”. Anche lui anziano, è un altro fantasma di quel lontano passato che riprende corpo per la magia dell’altrove mnestico.
Ecco, mi si sveglia ancora una scenetta antica, ma di un passato meno lontano. Negli anni universitari a me piaceva venire nella sciara a studiare. Facevo a piedi un lungo percorso, a quel tempo ancora poco disturbato dal traffico motorizzato, da casa mia al podere. Lungo il cammino, appena raggiunto il silenzio della campagna, leggevo e ripassavo, con qualche sguardo allotrio, di pura curiosità ambientale. Brevi soste segmentavano il movimento con pause di salutare riposo. La sosta più lunga si stendeva per qualche ora dentro la proprietà, ora degli eredi. In una di queste pause, all’ombra di un folto querceto a cavallo del confine fra il nostro e il maggior podere di una anziana coppia facoltosa e sterile (lei maestra elementare, lui cancelliere di tribunale) sento urlare l’handicappato: Aiutu, aiutu, i brianti, i brianti! Un urlo di schietto spavento, ripetuto, e accompagnato dal fruscio di piante spostate dall’incerta fuga dello zoppo atterrito. Poggio sul dorso muschiato del muretto divisorio di nudi massolini sovrapposti, il libro (poteva essere la Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, edizione per i licei), mi alzo e cerco con scettico sguardo i “briganti” annunciati con tanto orgasmo. Vedo, a frammenti ritagliati dal folto delle querce, due giovani che attraversano, di fretta, la proprietà dei coniugi benestanti. E poco dopo, chiaro e intero, un mio compaesano, appena più anziano di me, che veniva in soccorso dello zoppo, scavalcando i muretti simbolici dei poderi interposti. I due intrusi erano scomparsi, allarmati dalle grida del poveretto e dal possibile indotto. Il compaesano, Pippo Sciutti, era un nostro amico di famiglia nonché nipote della vecchina, casualmente in visita alla zia. Rincuorato il cugino “offeso”, ci siamo fatta una breve rimpatriata. Risento ancora quegli urli disperati privi di causa reale, ma forniti di tanta realtà interna.
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12 settembre

Minicronaca serale. Sto leggendo La strada di Swann. Fra poco continuerò a letto la lettura. Sono le ore 23. Una splendida luna quasi rotonda, insinua il suo lucore dorato nella fessura della finestra frontale semiaperta. La brezza massaggia di linda frescura le mie spalle nude. La spalla destra è cosparsa di antimicotico: gli invisibili microfunghi sono arrivati al collo. Ho tentato di completare la recensione all’ultimo libro di Sciascia, ma non ci sono riuscito. Ai giorni successivi, dunque. Con impegno a maglie larghe, però, perché sono attratto da altre, e d’altro tipo, “distrazioni cliniche” (dal rovello maggiore). Per esempio, cerco di seguire il grande fermento che agita la Chiesa cattolica: con le eminenze progressiste e quelle conservatrici che frenano; con i preti operai, che inclinano verso un socialismo evangelico più o meno confessato; con i don Mazzi e i don Milani che leggono a modo loro (cioè, lacerando il sudario della mummia politico-mammonica della sacra Curia) quel Vangelo (le parti “giuste” di esso ircocervo) così elastico nelle manipolazioni mondanamente orientate. Leggo articoli e qualche saggio sulla mirabile “Teologia della Morte di Dio”, con un certo spasso e curiosità dialettica. E mi sforzo di “capire” sua santità Paolo VI tirato di qua e di là, costretto a correggere con un passo indietro ogni suo, pur cauto, passo avanti. Esempio: sui preti sociali, sull’ipotesi di matrimonio dei preti, sulle troppo strette convergenze e alleanze di fatto (ma pure di “teoria”) tra sacerdoti e pezzi di quel socio-comunismo ateo che pungola il Vaticano troppo ligio anzi protettore, al mammonismo pratico dei democristiani centristi, sempre pronti a scattare sull’attenti al minimo cenno della Casa bianca. Clero progressista e laici credenti orientati a sinistra puntavano su una eredità più grassa del “rivoluzionario” papa Giovanni e relatico Concilio aperturista. Capita di fare i conti con un certo avventurismo previsionale di taratura ingenuamente ottimistica.

18 settembre

Ore 21 e minuti trenta. Piove. Un tessuto di rumori con fili di differente grossezza, e nodi ora piccoli ora grossi: scrosci, stillicidi, sgocciolii ritmati come una musica triste con note festose frammiste. Lontano brontola (cercare un vocabolo meno usurato?) il tuono. Di tanto in tanto un fragore vicino si rovescia sopra i tetti in un bagliore sconfinato. Il suono fracassato di una macchina taglia, qua e là, il drappo regolare della musica acquatica. Ed ecco perfino il trillo dissonante (argentino?) di risate femminili: la graziosa figlia ventenne dei padroni di casa torna all’ovile con i suoi genitori. S’è appena spento il cigolio del chiavistello di là dalla porta del mio studio che dà sull’ingresso comune. Di che ride la formosa fanciulla da marito? Della pioggia, che forse li ha bagnati, privi d’ombrello (chi s’aspettava questa manna liquida improvvisa?) O ha messo i piedi in qualche pozzanghera, non insolita da queste parti?
Sopra l’aborto sfilacciato di questi luoghi comuni del lirismo prevedibile, a provocazione della pagina bianca insultata (a volte sembra di sentirne la voce: perché non mi lasci in pace con le mie righette parallele e il bianco innocente del mio vuoto?), la nuvola lenta dello stream of consciousness alle prese con la vigente difficoltà di esprimersi. Difficoltà molteplice, che al momento non dipaniamo.
Intanto prende rilievo pretenzioso la fantasia più assidua di questi ultimi giorni: l’idea del romanzo-diario, ragione e senso della mia esistenza in attesa perenne. Ragione posticcia, fasulla; senso frustrato dagli eventi, anzi dai miseri fatti. Quante volte avrò scritto che sono una promessa mancata? E anche ripetuto che il mio tempo organico è una successione aperta di errori replicanti intervallati da casuali e rari colpi a segno. In una recensione di Giorgio Manganelli al Golem di Gustav Meyring (L’Espresso, 11 settembre) incontro questa frase: “Ebbe tutta la vita la vocazione degli errori irreparabili…”. Non s’intona al caso mio? Esagero? Va bene, magari solo in parte, ma, sì, s’intona. Così metto un nastro erudito alla mia cocciuta impotenza.
Non mi riesce neppure di gustare questa Mercedes filtrata: ha un sapore ostile, stasera. Forse gli Gnomi cosmici mi vogliono ricordare che dovrei smettere di fumare. Impresa difficile, però, per gli imbranati nervosi come il sottoscritto, che se n’è fatto un rito condizionante. Né ho voglia di recitare lo Zeno Cosini dell’eterna ultima sigaretta.
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Siamo stati in Sicania dal venerdì pomeriggio al sabato pomeriggio. E abbiamo fatto una puntata nella “Milano del Sud”. La quale non è mai stata pulitissima, ma ora è sporchissima. Anche la gente è peggiorata: sempre più incivile, nervosa, meno tollerante e comprensiva verso gli anziani. Scene disgustose, di giovinastri al volante che inveiscono contro vecchietti prudenti. Ma anche vecchi sgarbati e commesse che li sopportano male.

Ho strizzato la cicca dentro il portacenere ramato a forma di bracierino, e le spire del fumo si dissolvono sotto l’occhio furioso della lampada da tavolo. Forse pretendevo di scrivere una bella frase. Ma sarà “bella” questa, del Golem? “Come se ci potesse essere qualcosa di più meraviglioso che sentirsi mancare la terra sotto i piedi!”. Mi suona falsa. Una frase da letterati: coraggiosi fino alla spavalderia con le parole, ma alla prova dei fatti, più pavidi che spavaldi. Con qualche eccezione? Si capisce, ma le eccezioni, si sa, confermano le regole.
Et in Arcadia ego, suppongo. Infatti, mi solletica un’idea spavalda ricorrente. Trascrivo un passo da una pagina rinnegata che rileggo. L’impotenza è cattiva. Io arrivo a contemplare senza sgomento, anzi con una punta di nascosta (?) voluttà il lampo di un’umanità dissolta da una pantoclasi nucleare. Del resto, non sarebbe una bella esperienza metafisica?
Ecco, l’ho scritta e riscritta. Postilla integrativa, correttiva: naturalmente, vorrei che nessuno soffrisse più di tanto. Una fine istantanea, una cancellazione anteriore a ogni possibile balzo di coscienza. Insomma, una cosa impossibile. Doppiamente. Perciò la frase, o l’idea, è soltanto un sintomo della biochimica acediosa di questi giorni, vuoti di una certa presenza. Un vuoto polarizzante più di un campo elettromagnetico. Come ben sappiamo, quaderno.
L’atrabile, poi, si scontra con la bile gialla e stagionale (secondo il Corpus Hyppocraticum) e mi rende ipercritico. Se m’imbatto in una arbasinata divento feroce. Eccone una, appena letta, sull’Espresso: uno sproloquio “luccicante” su Palazzeschi. Ne trascrivo un brano:

Metro e Pigalle, garzoni di caffè e un ‘flic’ tutt’altro che ‘chic’, ‘topettes’ frettolose e vecchi allegri ‘cocus’: negli schizzi italo-francesi Palazzeschi fa delle gaiezze sentimentalmente fumiste di oggi o di cinquant’anni fa con un giuoco luccicante di ‘sandwich au jambon’ e ‘coca-cola americain’, pernod e gelati e pacchetti di sigarette e biciclette a motore: a spese di portinaie e maschere di teatro e vedove nere e satiri al Bois e dame col ‘pliaut’ che attendono in fila l’abominio di Fedra e la fragilità di Manon, la disperazione di Tosca e le trame di Dalila, in un frullo d’acqua di Colonia e clochards canterini…

Riemergo dall’apnea e imploro: Albertino, non potresti moderarti un poco? Ricordati dei Sette Savi: “Nulla troppo”. “Ottima è la misura”. O, se preferisci, onora Aristotele (e la sua mesòtes), ascolta Orazio e il suo est modus in rebus… Tu sei fuori misura, privo di modus (e di ratio).
Albertino, Albertine, Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore. E dei fanciulli.
Settembre, andiamo. Sì, andiamo a pascolare. C’è tutto un gregge di ferite interiori in attesa di pascolo, e non mancano erbe di ricordi, intermittences du coeur, rimpianti, retroattivi pentimenti. E tant’altro per soddisfare il gregge.

20 settembre

Divago, faccio ammuina, evito lo scoglio che punge e ferisce. Esito a dire pane al pane e sconto la ritornante paura d’essere sorpreso da chi non deve leggermi e sorprendermi. Questo su cui scrivo da ieri l’altro è un nuovo quaderno, e non so ancora se devo agganciarlo al carro del precedente o lasciarlo più libero e meno blindato. Indi, prudenza. E ritorno al cifrato e all’allusivo. Salvo contrordine (più o meno pensoso).
Intanto continuo a gironzolare intorno al busillis. Toh! E’ ancora sul tavolo l’Espresso aperto sulla pagina con l’articolo arbasiniano. Ne ho riletto una parte, e la prima impressione si imprime di più. Ma si può prendere sul serio uno che scrive così? Va bene la sua erudizione, quel conto in banca mostruoso di conoscenze, memorie, letture, contatti culturali, viaggi, spettacoli e quant’altro: ma la vera sintassi è ben altra cosa. Dico sintassi nel senso di Gulizza: profondo sentire in denso dire. Donde la distinzione, fatta dal critico tra parola e sintassi, la prima inclinante verso lo scintillio verbale e il ridondante esornativo, la seconda verso la fitness lessicale e la sobrietà espressiva. Applicata al divo D’Annunzio, la distinzione “rivela” un “poeta della parola, non di sintassi” E sia pure della “parola gemmata in su le carte”. Giudizio che condivido, nel mio piccolo, quasi completamente. Dove il quasi suggerisce una mini-rettifica: il vate d’Abruzzo (e di Roma-Parigi) largheggia in parola e “risparmia” sulla sintassi, ma non si può dire che ne sia privo, o quasi. Più artista che poeta? Certo: ma dove matura alla poesia riesce anche grande (vedi Alcione, ma non solo). E certe pagine e intuizioni (specie le biotrofiche) sono piene di sintassi. Testo di riferimento massimo, il Notturno (rapsodicamente, anche altrove. Per esempio, nelle Novelle della Pescara, in alcune di esse).
Arbasino è un poeta-artista della parola, anche lui, ma meno grande del Pescarese, e assai più colto (o piuttosto erudito). Lo sfarfallio citatorio, il narcisismo esibizionistico non fanno sintassi più delle parole-gemme dannunziane. Quanto al critico, l’articolo, o piuttosto apologia, in questione ne dà la misura. Leggiamone un altro pezzetto, che sposta al peggio il passo già trascritto. Palazzeschi è un compatto trofeo di meriti assoluti: “Non ha fatto delle guerre assurde, non ha lodato dei personaggi ridicoli, né quindi ha pianto per decenni sul latte versato. Non ha combattuto battaglie stupide. Non s’è affannato a correr dietro alle mode più insensate [senti chi parla!] in ogni stagione, da rinnegare come cravatte smesse ad ogni ‘vague’ successiva. Soprattutto non ha predicato sistematicamente in nome di convinzioni sbagliate, vere oppure finte, ma egualmente, periodicamente, puntualmente contraddette. / Semplicemente, ha scritto parecchi bei libri. Gli saremo grati per sempre del loro incanto”. Palazzeschi è certamente meglio, e non poco, di Albertino; ma che razza di critica è quella che non soppesa e distingue, non scevera e seziona, ma prende in blocco? L’estroso, ironico, “delizioso” e burlesco autore del “Codice di Perelà” è un monolito di perfezioni senza vuoti? Non conosce momenti di stanchezza ripetitiva, o inventiva? Qualche prolissità, magari? Una o due “scelte sbagliate”? Lasciamolo credere allo scampanante Arbasino dai troppi sonagli. Il quale, da ignaro e supponente enfant terribile della ditta Nuove Lettere Italiche, non ha il minimo sospetto che il suo panegirico, appena capovolto, possa sembrare scritto da un critico serio su di lui. Arbasino combatte battaglie stupide, loda personaggi ridicoli, corre dietro alle mode (che, si può scommetterci, rinnegherà fra qualche anno, anzi supererà, verso nuovi fulgori e destini). E soprattutto, non ha scritto nessun libro veramente bello. Di che cosa gli saremo grati? Non più che di qualche quarto d’ora di spasso digestivo, presto annegato in uno sbadiglio. Magari legato, lo spasso, a certi “reportage” parigini. Quanto a densità espressiva (precondizione della vera sintassi), basti il giudizio citato per vedere quanto ne sia lontano: ripete la stessa cosa in più chiavi, o piuttosto parole, ma con l’aria di approfondire e innovare.
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Intanto Susy non torna. Ed eccoci allo scoglio che punge e taglia. Non la vedo dal 9 agosto. E doveva restare a Taranto dieci giorni soltanto. Ancora un caso, un insospettato caso di ingratitudine e di corta memoria: così mia moglie inclina a pensare, con amarezza e delusione. Dopo quello che ha fatto per lei. Unendomi a Rina nella solidarietà, nel ruolo di amico come lei di amica, non posso darle torto. Invano tento di giustificare la troppo lunga assenza dell’ingrata: le sue ragioni, a volte, sembrano pretesti.
A volte, soltanto? Lei accampa motivi di salute, e la famiglia avalla, convinta. E ci saranno, senz’altro, ma il sospetto che si gonfi la cosa, esagerando i malanni, scivola facile facile dentro le nostre meningi di amici delusi. Disposti, magari, a concedere dilazioni e ritardi, ma ben motivati e sinceramente confessati. Susy ha fatto delle buone conoscenze nuove? Deve rimanere ancora qualche tempo lì per coltivarle, accoglierne inviti all’indugio affettuoso? Niente di più naturale, legittimo, ben pensato e benissimo fatto. Ma perché nascondercelo? Così, accoratamente, ci ripetiamo nelle conversazioni tra noi, amici “traditi”.
Delusi, traditi: vogliamo aggiungere, giacché ci siamo, anche pugnalati alle spalle? Non si sta esagerando? Forse, quaderno, forse. Epperò difficile riesce resistere al Tentatore che insinua, allude, congettura dentro le nostre mieline. Noi, del resto, sappiamo di qualche ostacolo inconfessabile alla puntualità, pur dilatata, del ritorno; e alla trasparenza leale delle informazioni. Vero, quaderno? Se le nostre ipotesi colgono nel segno, come dire, a noi, che un simpatico collega del fratello tenente corteggia Susy con “intenzioni serie” e del tutto apprezzabili in prospettive di eventualità coniugali? Visto che quel noi riverbera direttamente sul più assoluto me. E, se non un collega del tenente, potrebbe trattarsi di uno della cognata in fieri, laureanda in lettere prossima al traguardo. O di un parente di lei, magari già laureato, o addirittura in servizio.

Inutile almanaccare. L’idea che anche lei, come tante, raggiunto lo scopo (il diploma) “si sia scordata” di chi glielo ha assicurato a prezzo di notevoli sacrifici (materiali e, soprattutto, morali) si insinua, mal respinta, nei nostri cuori. Lei ha scritto due lettere e mandato varie cartoline illustrate con poche righe e saluti conditi di baci. Ma può, questo gruzzoletto, bastare a placare la nostra fame di lei, mia e di Rina (ciascuno a suo modo)? Nella prima lettera diceva che stava male e non si divertiva; nella seconda, al seguito della nostra risposta affettuosa alla sua prima, scrive che disturbi cardiaci l’hanno portata dal cardiologo, e che visita e, soprattutto, elettrocardiogramma segnalano un’infiammazione miocardia di origine reumatica. E fin qui, niente di incredibile. Idem per la proibizione medica del fumo, degli alcolici, degli eccessi fisici. No, niente di incredibile: tutto verosimile. E quasi tutto plausibile. Perché quasi? Ma perché fra le rinunce ce n’è una poco comprensibile: perché rinunciare al concorso magistrale? Era partita convinta di dovervi partecipare, potendo contare anche sul mio aiuto per lezioni ed eventuali segnalazioni in commissione. La malattia e relativa cura non montano ostacoli insormontabili davanti a un percorso di preparazione razionale e alieno da qualunque surmenage. Dunque, perché questa rinuncia, così malmotivata? Ma è, poi, una rinuncia o non piuttosto uno spostamento di sede? Perché dovrebbe rinunciare al tentativo? Forse affronterà il concorso in Apulia piuttosto che in Calamagna: rinunciando al nostro soccorso, ma non ad ogni aiuto. La cognata in marcia, o la famiglia, col suo latino pater, avrà bene le sue opportunità.
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La lettera, dulcis in fundo, mescola alle tristi, notizie liete, e perfino un tantino euforiche: “serate di sogno” fra signore eleganti con mariti benestanti, mogli di colleghi del fratello, le quali la “costringono” a dargli del tu; e altre godurie. Questa confidenza sul tu odora di allusioni al rapporto tra Rina e lei: mia moglie le dà del tu, lei alla moglie del suo professore, dà del voi. A chiedere a Rina il tu è stata Susy, l’inverso non ha avuto luogo. Rina non si “precipita” in queste cose: meglio aspettare, stare a vedere, misurare i pro e i contro. Ora è tentata di dire che ha avuto ragione a non concedere subito. Io, comunque, non ho intenzione di incoraggiare Rina a farsi ricambiare il tu (casomai dovesse ritornare, e dovessimo frequentarci ancora. Casomai: che ambigua parola).
Doveva ritornare oggi, ma ha rinviato ancora la partenza. Per l’ennesima volta. Vedi, quaderno, che c’è puzza di bruciato? E, se il bruciato è, come gli indizi suggeriscono, l’uomo, che cosa possono augurare gli amici a una bella ragazza ventenne e fremente? Che l’uomo sia un bel giovane, innamorato, “sistemato”, e smanioso di elevare il tenero viluppo alla sacralità e legalità del matrimonio benedetto da Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica. Questo, dagli amici per l’amicizia. Né Rina sarebbe men che sincera, in questo augurio: la sua delusione emana tutta dall’aura di mistero e geloso segreto che s’è voluta creare intorno alla faccenda: non aveva, Rina, il diritto di essere informata dall’amica tanto beneficata degli sviluppi sentimentali del suo soggiorno pugliese? Questi sono i concetti-pretese che animano i discorsi di Rina, e con Rina, in questi giorni, tutte le volte che il pensiero va a Susy assente. Il che può accadere per l’arrivo di una sua lettera, o per l’incontro con taluno dei suoi familiari.

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