martedì 6 ottobre 2009

Susanna, frammento 41


9 agosto

Qualche spillo per alcuni fatti che scappano. Nove giorni intensi, agitati da mali vari. Mia moglie malata: un giorno con febbre, anche alta, alcuni con mal di stomaco e diarrea (l’altro volto, ironico e crudele, della bellezza femminile, così spesso angelicata dalla poesia). Da ieri anche con le regole: è a terra. Altro viluppo di affetti agitati, mia sorella Valeria, (maggiore delle quattro), è la più inguaiata fra le creature del nostro microcosmo. L’ingessatura del bacino lesionato le ha provocato una piaga, come da bruciatura. L’indolenza attendista della famiglia Assaggi (della quale partecipo con pieno diritto) ha atteso che la piaga cominciasse a incarognirsi in cancrena. Per fortuna mio fratello, che ha più senso pratico degli altri, si trova sul posto, in vacanza, e si è accorto del guaio. Ha affrontato il “professore”, padrone e direttore della clinica, e lo ha costretto a intervenire senza perdere altro tempo. Il tanghero, autore anche dell’ingessatura, aveva minimizzato la cosa per scansarne (ma come?) la responsabilità: lui non fa errori. Invece ne ha commesso uno balordo, non badando alla cinghia di cuoio che premeva troppo sulla zona interessata. Dolorosa, l’esportazione della carne morta, già apparsa. Il luminare opaco assicura che la paziente è ormai fuori pericolo. Mio fratello è di altro parere: durante il servizio militare di leva ha fatto l’infermiere e ne ha visti, di casi simili. Siamo tutti in ansia. Domani andremo in Sicania, a trovare la realtà di queste nere notizie.
Valeria, minore di me di tre anni, è stata fin da piccola, la mia prediletta. Mi somiglia nel fisico e nel temperamento; la sua piaga la sento un po’ nel mio corpo. Per qualche tempo ho nutrito un certo rancore verso di lei, perché mi ha “tradito”, sposando un giovane a me, per vari motivi, non gradito.
*
L’altra sera siamo andati in macchina verso Roccabella, noi tre più Susanna. A un certo punto, mia moglie viene aggredita da un bisogno inderogabile. Sono costretto a cercare una via secondaria praticabile per la necessità imperiosa. Incalzato dalla fretta, lascio la macchina sul ciglio della nazionale, lato destro; ben visibile, data la posizione della strada, ma non abbastanza lontano da una svolta. Per giunta, senza luci di posizione. Una Cinquecento sbadata e più veloce del giusto, per poco non le sbatte contro. Il conducente, un giovane, che veniva nello stesso senso mio, oltrepassata la nostra, si ferma, scende, si avvicina. Nel medesimo straccio di tempo due camion con rimorchio e una quantità di berline di varia cilindrata si materializzano sul nastro d’asfalto per bloccarsi subito dopo intorno alla mia (che è, poi, la Giulia di mio cognato in prestito). Noi si usciva dalla stradina campestre, o piuttosto dal suo imbocco, dove Susy aveva atteso con Giampiero che si compisse, un po’ più avanti sulla stradetta campestre, l’evento liberatorio di Rina. E da quel punto avevo sofferto la movimentata scenetta stradale. Precedendo le due donne e il bambino, mi ero avviato, di fretta, verso la Giulia per spostarla. Mi accompagnarono le proteste dei camionisti, forse contenute al di qua delle invettive feroci dalla visione improvvisa delle due donne, nel frattempo giunte ai margini stradali e dentro il campo visivo dei poco delicati probabili ex carrettieri. Il proprietario della Cinquecento si avvicina mentre io manovro, a spostare la Giulia, guarda la targa, scrive. Sento odor di lite, ma il tizio, presa la targa, svicola, pacifico. Altro effetto “grazie-Venere”? Probabile, anche questo. Dato il sospiro di sollievo sul presente concluso, riprendiamo il nostro viaggio verso Roccabella. Rina svuotata del molesto superfluo e Susy testimone attiva badavano a cucire risposte al piccolo, incuriosito e turbato, sull’intero accaduto.
Io a contrastare, in interiore homine, ancora un effetto dissonante: quell’irruzione fisiologica irriverente in mezzo a tanta bellezza evocatrice di soprammondi poetici. Sentivo il ghigno della materia irriducibile, indocile mescolatrice di opposti: un memento, del piccolo dio ironico contro le tentazioni iperuraniche ricorrenti. Il dio-corpo, il senza-scampo: nel (cosiddetto) bene e nel (cosiddetto) male, nel bello e nel brutto. Nell’afrodisiaco odore della gardenia e nel puzzo depressivo del prodotto catabolico deiettivo. Ave Bios, capriccioso tiranno!
L’indomani mi informai nella sede della polizia stradale di Siderato, dove abbiamo un poliziotto amico, molto rispettoso, un ex alunno di mio cognato. Niente paura, dice: il tizio che ha preso la targa potrebbe essere un funzionario della polizia, se non era un anonimo cittadino che ha voluto spaventare e non colpire. Nel primo caso le costerà al massimo tremila lire di multa. Attendo novità.

Giorno 3 mi arriva una lettera di Eugenio Garin. La prendo dalle mani del postino con grande emozione. Mi ringrazia, gentilissimo, della recensione alla sua Storia della filosofia italiana (che gli avevo spedito in ritaglio), e mi parla un po’ di sé, dei suoi studi, dell’evoluzione del suo pensiero. Mi scrive, tra l’altro, che, pur non rinnegando questa Storia, oggi, non la scriverebbe più così. Gli ho risposto tre giorni dopo. L’ho ringraziato, a mia volta, per il tempo dedicatomi, ho fatto un po’ di ammuina circostanziale, e ho concluso con un invito sommesso a indagare meglio la dimensione biologica dell’uomo in nome di un umanesimo meno storicista, cioè meno antropocentrico e “maiuscolaro”. Che è quanto basta per chiudere la corrispondenza. Sono quasi certo, infatti, che non replicherà. Cosa potrebbe dire un uomo plasmato di humanae litterae e crociani ponzamenti, eredo-idealista anche nel nuovo storicismo attento a Marx? Un pensatore e storico del pensiero, che propone una “filosofia come sapere storico” quale approdo teoretico supremo di una vita di benemerite ricerche storiografiche di fama internazionale?
Ieri, una lettera di Vittorio G. Rossi. Dal cielo dell’erudizione accademica alle acque oceanico-terrestri dei racconti gradevolmente popolari, con una leggera polemica contro le astrazioni maiuscolari. E’ stato, dice, “in avaria”. Ma si riprende.
Ieri sera, accompagnamento funebre del senatore Calarùtti, morto ieri l’altro. Faccio le condoglianze alla moglie e al figlio Manuele, mio ex alunno all’istituto tecnico commerciale di Siderato, dove ho vissuto il mio primo anno di insegnamento statale, come supplente annuale di Inglese – seconda lingua. E naturalmente “appongo” la mia chiara (nel senso di perfettamente leggibile) firma sul “registro” apposito, messo a disposizione dei visitatori nell’androne del bel palazzone di famiglia.
Orgia di generose bugie ed esagerazioni nei discorsi degli elogiatori: ottimo medico, cittadino esemplare, benefattore dei poveri, energico difensore delle giuste cause in Parlamento e fuori. Tra le poche verità, la maggiore è la bontà generosa dell’anziano medico. Vivo anche il senso dell’amicizia e alieno da qualsiasi tentazione di superbia nobiliare. Quanto all’eroe battagliero e facondo, una “barzelletta” che le male lingue (di sinistra?) raccontano in giro la dice lunga: “Il senatore era piuttosto taciturno durante le sedute senatorie. Una volta alzò la mano per chiedere la parola, e il nobile Consesso stupì e si dispose all’attesa della novità. Ma il senatore chiedeva solo il permesso di andare al bagno”. Malignità di paese, con varianti personali. Taluno, infatti, sostituisce quella “richiesta” con un’altra: la preghiera di chiudere le finestre per il freddo, o di aprirle per il caldo, a seconda della stagione coinvolta. Forse anche le piccole rivalse “plebee” contro il Palazzo (e le retrostanti proprietà). Non ignoravano, in famiglia, le mie simpatie politiche (non ne facevo mistero a scuola), ma non fecero pesare mai la loro “diversità ideale”, tutta inclinata sulla democrazia cristiana e retroterra vaticanese. L’elezione del dottore Calarùtti, del resto, è un tipico caso di noblesse oblige: la famiglia voleva quel blasone politico sullo stemma ereditario e la società clerico-moderata del luogo sponsorizzò il medico per opporre un proprio uomo al prevalente blocco delle sinistre, sempre vincente alle amministrative, fin dal 1948.
Sincero il rimpianto di molta gente, di ogni ceto e posizione politica. Ricordo le serate del periodo natalizio passate in casa sua giocando a carte con la famiglia, e il gruppo di amici e parenti, alcuni dei quali miei alunni dell’ultimo anno (come Manuele). Una volta sono stato anche a pranzo, quando ancora ero solo (e scapolo) a Siderato. L’anno dopo, fui con mia moglie, e loro rinnovarono l’invito, ma Rina era intimidita dalla prospettiva di trovarsi fra gente altolocata in una situazione che imponeva l’osservanza di precise regole. Così ho declinato ragioni di salute per scusarmi di un garbato rifiuto. I disturbi di Rina, allora al quarto o quinto mese di gravidanza, non erano inventati, ma esagerati, certamente: per l’occasione.
Caro senatore Calarùtti. Nonché sfortunato, con la famiglia intera. Altri lutti, infatti, l’avevano colpita: l’ultimo, pochi giorni prima. Era morto uno dei generi, il marito della figlia maggiore, fulminato da un infarto. Aveva appena cinquant’anni. Era un esponente di spicco del commercio oleario sideratese. La vedova e i figli non soffriranno per ristrettezze economiche, ma per mutilazione di affetti, sicuramente. La vedova, ovviamente, anche per le conseguenze fisiologiche di quella mutilazione: bella donna, ancora piacente e formosa, chissà a quale futuro si avvia. Mi chiedo quanto possa avere influito il grave lutto della figlia sulla morte del medico senatore.
Pioggia di morti, in questi giorni, in paese. Ma, sconosciuti o appena conoscenti, lasciamoli alla pietà del silenzio.

10 agosto,
ore 14, 45

Un bicchiere di birra colmo davanti, una sigaretta in bocca. Il tavolo lindo, sgombro di tutto, un nodo di tensioni intorno alle viscere, una grande smania di parlare, e magari urlare. Di “risolvere” e tagliare. Stiamo per partire alla volta della Sicania. Andremo in macchina. Al paese ci aspetta una cornucopia di guai, e problemi: da sorella maggiore a mamma e sorella minore fidanzata, un bel malloppo.
*
Ma voglio continuare il resoconto del passato prossimo. Ieri, nove agosto, dalle ore 18,30 in su. Verso quell’ora ci piomba in casa Susanna. Furibonda, un diavoletto per capello, gli occhi saettanti, una cipria di pallore in volto. Un’altra lite col fratello tenente. A sentire Susy, il tenente istruttore crede di potere istruire sempre, e specialmente in casa, dov’è il fratello maggiore e più autorevole. Lei, Susy, la conosciamo, vero lettore del tremila? E dunque a che pro ripetere che è insofferente di qualsiasi autorità che si presenti nuda di cerimonie e riguardose delicatezze? Che è un po’ (un po’ troppo?) selvatica, nervosa, scattante. Più o meno sempre: ma in questo periodo con più lena e impulsività, perché turbata, indispettita per nascosti motivi. Il fratello le “faceva la predica”: le raccomandava di comportarsi bene, di vestire decorosamente, di non portare i pantaloni, di moderare la spontaneità, a volte crudamente sincera, del linguaggio. Eccetera. Ohibò! Ma a chi crede di parlare l’istruttore? Lei sa benissimo come comportarsi, non ha bisogno di lezioni. E poi, insomma, dove sta per andare, in una reggia, in un palazzo ducale? Chi è, finalmente, questa fidanzata del fratello, e chi sono questi nuovi parenti così temibili per una provincialotta di scarsa pratica sociale? E’ una laureanda, lei, la futura cognata? E’ una buona famiglia borghese, il suo ambiente domestico? Embé? Insomma, è scontro: la specialità di Susetta. Che balza fuori casa, scende “a precipizio” (“per poco non mi sono rotta il collo”) le scale, copre a passo di bersagliera la non proprio brevissima distanza tra la sua casa e la nostra, ed eccola qua: bella di furore e di conflitti non risolti (né risolvibili sui due piedi).
Conseguenze. Niente festicciola stasera. Pericolo per la gita a Taranto e il previsto soggiorno presso la fidanzata-bomba del fratello, scopertosi “ammodino”. Ma forse c’è sotto qualcos’altro. Che non si vuol far trasparire. Forse la festa non era gradita al tenente. Certo, non lo era alla madre, che sta male, con un molare “in ebollizione”. Lo aveva fatto capire ieri sera. Poco male, per la festuccia saltata. E poi Susy ha i suoi reconditi motivi. La capisco. Anche il mio quaderno. Le offriamo occasione di sfogo, distrazione, relax minimale: viene con noi a Siderato. Dalla sarta, con Rina e Giampiero. Poi sul lungomare. Sempre bello. E, a quest’ora di incipiente crepuscolo tardo-estivo, poco affollato. Lo sarà molto fra un paio d’ore, quando noi saremo già a casa (anche per il pasto di mezza sera del piccolo). Sullo sfondo del mare pacificato, poche battute, in un contrastato brevissimo tête à tête, mi “assicurano” dei reconditi motivi: riluttanza, dice, ad allontanarsi per tanto tempo da me. Riluttanza al soffrire? Al farmi soffrire? Piano. Piano, Paolino: non prendere subito per oro colato quel che potrebbe non esserlo. Temo ti sia montato un poco la capa tosta. Lei è attratta da questo viaggio, ma forse anche un po’ impaurita dall’ignoto che l’attende. Le raccomandazioni del fratello sul buon comportamento serbando potrebbero innervosire anche un temperamento aggressivo come il suo.
A casa (nostra) l’empito degli umori ingorgati capta esili valvole di sfogo e scarico. Fuggevoli bacetti furtivi, niente di più, tra uno spostamento e l’altro di Rina alle prese col bambino intento al consumo alimentare capriccioso. Ma meglio del niente assoluto. E tu, grumo d’innocenza saltellante, perdonami ancora una volta di usarti a paravento dei paterni mini-furti galanti.
Poi arriva il tenente. Si fa la pace, con la mediazione mia e di Rina. Un ghignetto coboldico mi stuzzica il cervello col pensiero-piuma dei Küsse e touches appena filati fra il gramo sottoscritto e la sister bella del bel tenente. Si parte. Fra un’ora tutti a casa di Susy. E ci siamo. Banalità conversatorie, a maggioranza “clinica”: il molare della mamma concede una mezza tregua, frenato dagli analgesici, ma non demorde completamente. Poi l’idea del rinfresco, tra dolci e bibite. Nello stesso contenitore cronale del piccolo simposio, un altro timido dialogo by feet and legs. Che però, nel prosieguo delle ciarle, si sbilancia, si fa sempre più concitato, audace. Fino a una sciocca temerarietà, la rischiosa intraprendenza di intreccio betwin fingars, complici gli estivi sandali. Ah, il lungo concitato fanciullesco dialogo denso di muti pensieri! Com’è che certe fisiologie non maturano mai? Penso a me stesso ─ avrebbe detto l’amico Camus.
E viene il tempo del genitore, che arriva sul tardi, a chiusura del negozio compiuta. Il pater familias gran lavoratore, ma discutibile esempio di paternità. Il concitato di cui supra continua, spinto da una specie di ebbrezza a dimidiata coscienza-vigilanza. Finché, d’improvviso, non lo blocca un lampo di avvertita prudenza: l’estremità esploratrice viene ritratta e si toglie ogni causa seconda alla possibile deflagrazione. Mi avrà capito, Susy? Penso di sì. Non era in vista alcun altro pretesto di lite muta: unica musa, la risvegliata coscienza prudenziale. Ed ecco un fiore di compostezza che nessun presente ha apprezzato, non avendone colto l’assenza nei torridi (per noi) minuti dello spericolato duetto podalico.
Alle ore 0, 30 si ritorna a casa. Il commiato è un tripudio di saluti e baci generali. Anche Rina ha avuto-dato i suoi al bel tenente: un casto assaggio labbra-guance, certo. Ma, anche qui, meglio di niente, vero? A volte un piccolo, innocente contatto epidermico, faute de mieux, sa gratificare, a suo modo. Ah, poter leggere dentro quel plurimiliardario caos ordinato delle mappe neuronali! Leggere e trasferire in un video segreto di puro consumo privato.
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Ore 15. Fra poco si parte. Si torna alla famiglia estesa, ai suoi guai, alle sue sofferenze. Alla sua routine interrotta dal caso Valeria.
Domande retroattive martellano lobi frontali e sotterraneo limbo encefalico. Mi chiedo: perché quella sfida? Contro tutto e tutti. Come mai non mi ha fermato, o almeno frenato, il pensiero del bambino, di mia moglie? Ma di lui, sopra ogni altra cosa. Si può deragliare, dunque, fino a questo punto? Per amore. Per quel viluppo di biochimica ormonale che diciamo amore. Questa specie di fame trasferita (per dirla alla Gulizza). Che brividi. E che torsioni al fegato. Ancora oggi, a pensarci. E non penso tanto alla schermaglia podalica, in domo puellae, rischiosa, sia pure, ma non troppo; sì a ben altre “entrature”, più intrusive e in proporzione spericolate. Insomma, memento odoris. Fulmineo l’ingresso, e troppo breve l’indugio nell’umido valvare, ma un po’aspro il moto di toccata e fuga nell’esplorazione strozzata (che le abbia fatto male?). E in quali angoli di casa nostra? In quali tempi? Angoli disertati per veloci minuti dalla “padrona” di casa, lei impegnata con l’innocenza capricciosa. Poi la sua conversazione con l’innocenza parlante, là dietro, nel rifugio cucina. Che gaudio, certi furtarelli. Ma anche quali timori e tremori, al sospetto che “qualcuno” potesse sorprenderci. Sarebbe bastato un oggetto caduto sotto il tavolo…
Homines sumus, non dei. Chi meglio di lui lo sa e può dirlo? Petronio, Satiricon: suggestioni. Eppure, un certo odore “divino” emana dalla sua morte piena di dignità e romana fierezza. Penso a Nerone e ai suoi molti calchi storici. E, per connettivo contrasto, a Seneca: ma non tanto per l’uguale fine post-congiura, quanto per le “Lettere a Lucilio”, che in questi giorni mi è capitato di leggere, a spizzichi. Fossi capace di accoglierne consigli e memento sulle insidie della passione!
*

Zefiria, 30 agosto

Mezz’ora di scrittura veloce per una somma “aritmetica” di fatti in fuga.
Giorno 10, sera. Dopo il viaggio, con le sue sudate fatiche agostane (strade piene di traffico, attese ai traghetti, smanie termofobiche del bambino, eccetera), abbraccio generale con i parenti stretti, meno mamma e sorella Valeria, entrambe, dolorosamente, in clinica, col batticuore.
L’indomani mattina, a Liotria, clinica Scaccia, per visita a Valeria. Commovente incontro, con lei e con la trepida mamma, rimasta tutta la notte al capezzale dell’inferma. La tenera corresponsabile della mia non richiesta presenza nel mondo discutibile non finiva più di baciarmi (come un figliuol prodigo ritrovato. Ma l’avrò scritto altre volte). E siamo ritornati anche la sera, con mio fratello. Così i giorni successivi, dodici e tredici. Guardo la ferita di Valeria sotto le reni: un cratere spaventoso. Ci vuole un bel po’ di tempo perché si riformi la carne, dicono. Intanto, sto male pure io: mal di gola in crescita e brividi di freddo per tutto il corpo. Giorno 14. Accompagno mio cognato alla stazione: riparte per Zefiria, calamitato dai suoi molteplici impegni (inclusi quelli galanti a varie punte, c’è da credere).
Verso le quattro mi metto a letto con febbre alta e forti dolori alla gola. E’ stata un’imprudenza uscire di nuovo per servire il cognato. A letto resto quattro giorni, con febbre ostinatamente alta e forti dolori laringo-faringei. Faccio chiamare il medico, il vecchio amico Melo Grosso di dodici anni fa. Mi prescrive sigmamicina. Perché proprio lui, dopo anni di lontananza spaziale e, soprattutto, affettivo-relazionale? Forse perché altri amici mi hanno deluso. Forse, anche, per un improvviso fiotto di nostalgia irriflessiva. Dopo tutto, non c’era stata frattura tra noi, solo un morbido, ma tenace distanziarmi da un soggetto diventato troppo invadente, poco discreto (come si fa ad aprire senza bussare porte interne quando si sa che in casa ci sono giovani sorelle dell’amico ospite?) Ci siamo fatta una specie di rimpatriata. Al quinto giorno finalmente riesco ad alzarmi, la febbre calata, ma lo stomaco rovinato dagli antibiotici. Né solamente il sensibile sacchetto gastrico, ma l’intero serpente enterico, fino al retto, dove fiorisce un dolore malvagio ad ogni evacuazione. Che sono frequenti, e infallibili, appena il cibo transita per il piloro. Il tessuto anale è gonfio e rosso, le vene emorroidali, sotto e dentro la mucosa, turgide da scoppiare: difatti, nel pulirmi, scoppiano volentieri. Per pochi giorni di cura antibiotica! Forse le dosi erano eccessive, forse l’antibiotico usato mi provoca intolleranza. Vai a saperlo. Intanto, quest’avventura clinica lega un altro futuro ricordo negativo al paffuto Melo, medico curante d’occasione. Nemmeno a Zefiria ho a disposizione genî clinici, ma vigilano meglio sul professore in servizio nelle superiori del paesotto: il (piccolo, ma non insignificante) peso sociale funziona anche in questo tipo di relazioni.
La sera, piacevoli visite di mio padre. Serene conversazioni su temi vari. Con prevalenza di quelli familiari e problematici. Lo zio Marino, sposo dell’unica sorella di papà, accusa strani dolori alle spalle e disturbi vari, perfino episodi di vomito. Sono in corso accertamenti. E io temo un secondo viaggio agli inferi ravvicinato, dopo quello, ancora bruciante, di zio Silvio. Papà scivola volentieri anche nei ricordi lontani. Ho l’impressione che lo stato di malattia mi renda “più piccolo” ai suoi occhi. Cioè, come riavvicinato all’infanzia o adolescenza. E il mio ego umiliato (quelle continue scariche dolorose, a ogni pasto, subito dopo, colazione, pranzo o cena che sia!) allenta i freni, si lascia un po’ andare a ricordi e rimpianti. Si “rimpicciolisce” di suo accanto al genitore “molle”.
Arrivano anche cartoline illustrate. Due sono di Susanna, che se la spassa a Taranto con fratello e cognata e famiglia di lei. La portano in giro, le fanno conoscere altra gente “bene”, organizzano incontri di amici, viaggi nelle zone turistico-monumentali dell’Apulia; eccetera. Così si apprende da una telefonata della sorella Tina, che, per conto della sua famiglia, chiede notizie su mia sorella Valeria di cui conoscono la brutta avventura. Una cartolina è di Didia: affettuosi baci a tutti, un mucchietto speciale per Giampiero. La piccola, imponderabile Didia, innamorata di ...Giampiero: a quanti chili sarà ridotta nel suo corpicino fatto in economia? Un lampo di “pensiero” sul drappello sororale della Casa: cinque sorelle cinque, di cui lei è l’ultima arrivata. Ma io ne conosco solo tre. A quest’ora avrà detto “sì” a Rinaldo.
Poi arriva mio cognato da Zefiria, e mi porta una lettera della ricordata Didia e un vaglia della Gazzetta dello Stretto (per gli ultimi tre articoli): somme ridicole, ma tant’è: quella è gente senza rossore in faccia, direbbe mia nonna buonanima. Sono miliardari e tirchi da morire. Di noi collaboratori in fregola di cultura, approfittano, sapendo bene che saremmo disposti anche a pagare noi pur di essere pubblicati. E meno male che io ho là dentro il santo protettore. Torna da Roma anche mio fratello, sempre per la sorella malata. Di lui ricordo la lite con la direttrice della clinica poco prima di partire per la capitale. Finisco col litigare anch’io, ribadendo le minacce di denuncia in caso di ulteriori complicazioni. Lei si schermisce e, non senza alzare la voce a sua volta, scarica la responsabilità sul primario-proprietario. Il quale ha capito l’antifona e sta in allerta, spiegando anche il massimo delle sue non eccelse capacità cliniche per sanare la ferita. Ma il più dipende dalla reattività del corpo.
Mentre stavo a letto con la febbre ho ripreso e finito di leggere Le furie, di Guido Piovene, e oltre la metà di Una vita violenta. Il Piovene “furioso” è meno tortuoso, meno cavilloso, meno moralisticamente cerebrale e cattolico del giovane autore noviziale. “Lettere di una novizia”, però, rimane anch’esso un testo gradevole, a suo modo, e per certi versi, ma con l’handicap delle estenuanti lungaggini sottese da quei rilievi. Pasolini è realista fino all’iper fastidioso. Manierista, esibizionista, polemico, con la pretesa di fotografare il fascino orroroso del mondo borgataro romano (e, in allusiva estensione, non solo quello). Ma la novità della scrittura e della visione incuriosisce fino al godimento (beninteso, saltuario). Scriverò, forse, un lungo articolo su “Pasolini profeta del corpo”. E sottolineo forse. Il Pasolini “violento” l’ho finito qui, a Zefiria. Dove ho continuato pure il godimento del romanzo-rivelazione di Strati, “Tibi e Tascia”. E scrivo godimento senza esitazioni e riserve di peso: quei dialoghetti vivi, scoppiettanti, così veloci e incisivi, sono una vera goduria. La psicologia dei piccoli “selvaggi” della campagna sudica (direbbe il mio amico Zicàra, studioso del dramma storico meridionale) vi è tutta spiegata, con penetrazione attenta e cauto realismo. Inutile scriverti addosso, quaderno, che Tascia mi ricorda qualcuno a noi vicino, molto vicino. Anche se attualmente lontano. Troppo lontano.

Giorno 19. Partenza per Zefiria. In folla. Siamo: noi tre, il fratello di Rina e il mio, mia sorella Lara (la piccola della nidiata prolifica), e, buon’ultima, la dodicenne nipote Vannina, figlia maggiore della sfortunata Valeria, (la quale, ormai, pare in via di centellinato ristabilimento). Gli ospiti elencati restano qui, da noi, fino a domenica pomeriggio (tranne il cognato, che ha la sua dimora indipendente). Sabato sera arriva, come da programma, il fidanzato di Lara. Resterà qui la sera del sabato e la domenica.
Domenica 20 agosto. Tutti al mare, in comitiva. Cioè, il nostro terzetto familiare, gli ospiti e il trio Carolui. Gli ospiti, con la migliore disposizione d’animo e di corpo, godono l’interminabile spiaggia, il mare calmo, il carnaio colorato. Un po’ meno la calura africana. Forse qualcuno s’è pure illuminato d’immenso, senza saperlo. Molte le immersioni delle ragazze e di mia moglie. Gioiosamente eccitato Giampiero, ormai in buona confidenza col liquido Nettuno, oggi propizio. Poco prima di mezzogiorno, partenza per Zòllaro, fascinosa contrada di montagna non lavica. La comitiva del mare al completo. Goduto per poco il paesaggio e il panorama: il tempo si guasta rapidamente, nembi-titani vengono su da oscure voragini d’imprevisto retromontano e, improvvisati falchi d’infera scaturigine, divorano lo sparso azzurro come tenere colombe indifese (ma guarda che baroccame di metafore). E poi ci pisciano in testa una frenetica pioggia di breve corso. Lasciando Zòllaro, le due macchine scendono verso Ghera la bella, Ghera la mitica, bomboniera di tesori architettonici e varietà di preziosi resti urbani distesi nel tempo lungo della molteplice storia. Ma la comitiva gusta appena la cattedrale con le sue colonne “individualiste” e scontrose, e poi viene risucchiata in interni banalmente borghesi di domestica dimora privata: siamo in casa di parenti della fidanzata del cognato (cugini dell’avvocato Carolui). La noia-rito delle presentazioni, mio cognato che recita la parte del fidanzato buon ragazzo (oltre che bello: unica qualità “morale” di non contestabile certezza); la fidanzata sempre attaccata a lui; le altre femmine impazienti di accorciare la visita. Ma si deve rimanere almeno una mezzoretta. E si mangiano delle buone pere di produzione domestica (hanno un esteso podere). I più giovani trovano modo di fare anche qualche giro di ballo. Naturalmente, non manca il twist, né Peppino di Capri.

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