domenica 13 settembre 2009

Susanna, frammento 40


27 luglio

Abbiamo fatto gli scrutini, in due tappe, per tutta la giornata. Con un incidens del tutto inatteso. Giunti a Susanna, il presidente della commissione, professor Dell’Acqua, come se nulla fosse, fa una mirabile rivelazione. “Dicono che questa ragazza sia l’amante del professore”. Il professore sarei io. Indicato con un cordiale cenno del capo e un roteare d’occhi luccicanti sopra un sorriso appena disegnato sulle improvvide labbra, subito serrate dopo la sparata. Ma non del tutto sgombre da quel residuo ridens.
Ed è subito festa: di postille interrogativi falsità finti moralismi ironie piccate e voraci complimenti. Insomma, pettegolezzi. Della più bell’acqua (scusa la battutaccia, quaderno: m’è scappata). “Come! – dicono – sposato, con tre figli, ed ha l’amante. Lei ha tre figli, professore?” “No, presidente, ne ho uno solo.” “E sua moglie, non è sempre stata con lei?” “E’ sempre stata con me, da quando sono a Zefiria.” “Dicono che se ne sta a Liotria, e che è arrivata solo in questi giorni.” “Ne dicono tante, presidente. Al novanta per cento, si tratta di fantasie sballate. Come tutte quelle che lei ha appena riferite.”
Il presidente parlava sorridente, con aria scettica. Io ero stravolto, e scrutavo in faccia i miei colleghi avidi di rivelazioni, le mie gentili colleghe in tensione luccicante. E mentre ne ammiravo la curiosità piccata, mi dipingevo la faccia di sdegnata innocenza. Tucano, al solito, era il più acceso e postillava più che mai provocante: “Non sarà vero, ma se lo fosse, saresti da invidiare. Onore al buon gusto. E al cu…” “Stop, Marione, ti prego.” – Allegre, pruriginose risatine fra le donne. Una non tacque: “Il professore Tucano voleva dire sicuramente “al cuore.” “Come no, collega, chi ne dubita? Onore al buon gusto e al cuore. E io ringrazio, ma non posso ammantarmi di tanta gloria.” Brighelli pitagorico volle consolarmi, secondo il suo stile bonario. – “Non farci caso. I paesi, si sa, sono così: impiccioni, maligni e pettegoli”.
Si sa, si sa. Ma perché, poi, soltanto i paesi? Ed eccomi sprofondato in un impegno di recita degna di un Gassman appena più pacato. Devo essere stato abbastanza convincente, tutto sommato. Ho illustrato la buona amicizia fra Susy e mia moglie, la sua naturale estensione alle rispettive famiglie, l’affetto di Susy per Giampiero. E via perorando. Con l’ottanta per cento di verità e il resto sepolto nel silenzio. O al contrario. Fai tu, quaderno.
O tu, improbabile lettore del tremila residuale.
*
Tutti i membri della terza Commissione siamo stati ospiti, oggi, di un notabile bozalinese (cioè, di Bozalino, paesetto vicino a Zefiria), un certo De Donato. Ottimo il pranzo, con tante portate tutte squisite, e molto buon vino (dalle vigne del signorotto). In più, una provvista di aria pura, molto ossigenata e variamente profumata. Il luogo, una villa dell’ospite, immersa nella campagna, a poca distanza dal paese e non lontana dal mare. Che era calmo e luccicava di riflessi (e, pareva, anche d’ironia) davanti a morbide colline gialle di stoppie, a tratti bruciate.
Questo De Donato è un omino dall’aspetto insignificante, ma di grande ambizione. Non ama solo i soldi, tiene anche a un solido prestigio culturale e ostenta una cordiale liberalità. Ha una biblioteca di tutto rispetto, due grandi stanze piene di libri di vario genere e valore, ma, credo, nessuno banale. In più, un altro stanzone, situato nel vasto cortile, e distinto dal corpo centrale dell’edificio abitativo, ospita giornali e riviste: annate intere di riviste letterarie e filosofiche, di alcuni rotocalchi (con l’immancabile Espresso); e poi quotidiani: Gazzetta del Sud, Gazzetta dello Stretto, Corriere della sera, La Stampa, Il Giorno, Il Tempo, Il Messaggero, l’Unità, Paese Sera. Il tutto, razionalmente distribuito e collocato. La vetta insospettabile di tanta passione è una sala per conferenze, ampia e attrezzatissima: grande tavolo con microfoni per gli oratori, comode sedie con minitavolino retrattile e necessaire di scrittura per il pubblico. Insomma, una combinazione antropologica rara, questo simpatico esemplare della vecchia aristocrazia agraria. Rara in generale, però: un po’ meno nel nostro Sud, dove non è impossibile trovare ricconi e benestanti colti disposti a spendere per la cultura. Ma quel che resta eccezionale è il vertice proiettivo di questa fame culturale: quella magnifica sala per conferenze.
Imposibile impedire un pensierino dialettico sul gioco degli opposti che agita la vita di certe realtà: qui, il nostro Meridione, così vivace culturalmente e tanto straziato da una malapianta assassina che ha tutti i titoli per durare quanto l’ircocervo homo sapiens che l’ha prodotta e la nutre. Tra quei titoli, oltre il lungo pedigree storico, la sistemica complicità della classe politica e di quella imprenditoriale con quella malapiaga. E sia detto con la difficile riserva di rispetto per le magre minoranze non conniventi.
Bilancio positivo, insomma, di questa giornata: per conoscenze nuove e interessanti, per la variamente gradevole o intrigante compagnia, la smemorata allegria. Anche se non senza qualche insidia. E proveniente proprio da chi meno me l’aspettavo. In vino veritas, avrà pensato Brighelli. Così mi ha inzuppato di vino lo stomaco recalcitrante distraendomi con le chiacchiere, deciso a strapparmi la verità sui miei reali rapporti con Susy. Quando mi ha giudicato “allegro” al punto giusto, mi ha sparato in faccia la domanda assassina: “Allora, è vero?”. E non pensai di rispondere, neppure per un attimo, dietro la domanda traditora, l’apparentemente ovvio “Che cosa?”: l’implicito della forma ellittica saltò subito a galla. Susanna sgorgò da quel pozzo bacchico radiosa come Venere dalle acque materne. E forse la sua immagine subito esplosa mi suggerì la risposta azzeccata, la scaccia-dubbi: “Magari!” Un sospiro lungo di aria ingorda. Lui c’è cascato tutto: “Ora ti credo”. Meno male, pensai, non senza un pizzicore d’orgoglio: t’ho fregato!
Ecco il punto (de hominum natura): finché mi limito, anzi mi ostino, a negare, mi si può credere o no. Bene che vada, mi si crede a stento, in parte, con riserve varie. Ma se rispondo “magari!” (un sospiroso magari!) la fiducia scorre agevole e liscia dentro le teste dei cari colleghi. Nei maschi, certamente con la spintarella dell’invidia. Perché, è chiaro, io non posso, secondo loro, non desiderarla: e qui c’è poco da obbiettare. Ma posso benissimo non avere ottenuto, e non ottenere, nulla da lei. Anzi, per alcuni (certo, fra i meno fortunati con le donne), dovrei necessariamente fallire eventuali avventati approcci. Che pretendo, col mio fisico sì poco apollineo, dal viso al calcagno (particolari a parte) ? Una bellezza come Susanna non deve sprecarsi con sì mediocri morfologie. Mica bastano occhi belli e mente sveglia: dove andremmo a finire a furia di apprezzare qualità nascoste e imponderabili virtù? Bah, l’importante è che mi credano.
*
Finite le operazioni formali degli scrutini, invito a casa mia i colleghi disponibili (cioè, non impediti da orari ferroviari o altro). Sono Artuso, Brighelli e il presidente con la consorte. In casa c’è Susanna, a far compagnia a mia moglie. La combinazione era studiata per fugare gli ultimi (?) dubbi sul Caso. Il movimento s’è svolto così: Brighelli e Artuso arrivano primi, insieme, e restano una mezz’oretta con noi; poi si va a prendere la coppia presidenziale. Presento Susanna ai colleghi appena entrati, e, poco dopo, la invito a ringraziarli. “E perché dovrei ringraziarli?” – fa quella testolina incorreggibile. Fa finta di non saperlo, la sciagurata, di non ri-conoscere quel così poco misterioso perché. Rimbecco appena, sorridendo, su quel diniego, e non insisto. Ma raggiungo mia moglie in cucina e la prego di intervenire. Di convincere Susy a quel gesto “doveroso”. Ci riesce. Rina ha un buon ascendente sulla ragazza: vi concorrono sensi di colpa e sentimento di gratitudine per le premure dimostrate dall’amica più anziana nelle più difficili situazioni esistenziali. I due commissari incassano il grazie di Susanna e aprono una piccola conversazione: si iscriverà, la signorina, all’università? Forse. E, nel caso, in quale facoltà? Pedagogia, probabilmente. Quali preferenze culturali ha? Le piace leggere romanzi, a cominciare dai classici (sic). Ma legge anche qualche autore contemporaneo, soprattutto calamagnese. Per esempio? Lei dice alcuni nomi. Indi notizie sulla famiglia: genitori, fratelli, sorelle. Il padre? Ha un negozio di tessuti. Lo zio materno preferito, che loro per caso hanno conosciuto, gestisce due cinema. Allora Brighelli le chiede una tessera per l’ingresso gratuito. Scherza, naturalmente: abitando a cento chilometri di distanza, non potrebbe comunque utilizzarla. Ma lei, ad ogni buon conto, risponde di no. Mio commento mentale: naturam expellas furca, tamen usque recurret. Che tradotto in linguaggio aggiornato comporterebbe un omaggio a mister Crick, e a mister Watson, confermatori ignari (forse) del buon Orazio satiro: i geni (come il dio di Einstein) non giocano a dadi. Insomma, Susy come Susy: ad ogni gesto e apertura funzionale di bocca (che ora sfodera un eburneo sorriso al novanta per cento della magnifica dentatura).
Si beve tutti e quattro l’aperitivo. Poi Brighelli, Artuso e il sottoscritto si va insieme a prelevare il presidente e consorte all’albergo Panda nel paese vicino, circa dieci chilometri da Zefiria. Ci porta Brighelli con la sua 850 Fiat coupé. Dove si sta scomodi, dietro, ma ci sono voluto andare io, declinando l’offerta del sedile anteriore. A un certo punto, i due, all’unisono, ci tengono a dirmi che, dopo aver conosciuto mia moglie, mi credono senza più riserve sui miei rapporti con Susy. “Hai una moglie molto simpatica, anzi veramente bella”. Già: un buon paravento. E Artuso aggiunge: “Quando si ha una moglie bella e giovane come la tua, non si sente il bisogno di cercare altri pascoli” .
O gran bontà de’ cavallieri antiqui. Caro, semplice e ignaro matusa letterato! Chissà com’è la sua cinquantenne moglie. E chissà quella del giovane Brighelli, poco più che mio coetaneo. La meraviglia e ammirazione mostrata per le due bellezze “di casa mia” farebbe germogliare qualche dubbio sulla loro comparabilità all’ambo suddetto. Ma poi chi può sapere? Intanto, mi congratulo con me per l’idea di portare in casa i due colleghi: contavo sull’effetto Rina per fugare le ultime nubi di sospetti e dubbi. Fugarli, ahimè, soltanto dentro la commissione. Tutt’al più. Ma temo il parzialmente anche lì dentro: potrei mai sperare, per esempio, di convincere la collega e signora Gentile, che se la rideva a gola spalancata con Tucano stuzzicone sul conto di Susy “serpe follicolinica”? Convincerla di un’amicizia innocente solo presentandole mia moglie? Decisamente, no. Figuriamoci fra le disinibite girls del corso E e in giro nel paese.
Pazienza: meglio di niente.

L’effetto Rina, comunque, è stato ampiamente confermato sulla non più giovane moglie del presidente: fin dal primo contatto visivo. Che è stato, sull’attenta signora, non solo scopertamente ammirativo, ma anche insistentemente esplorativo. Fin quasi all’impertinenza. O almeno all’imbarazzo dell’ignara esaminata. Si sarebbe detto che l’esploratrice cercasse ogni ombra di eventuale difetto per dimensionare più ragionevolmente quell’inatteso fenomeno. E anche per accreditare le mie proteste di innocenza verso Susy. Insomma, la signora Dell’Acqua non si risparmia davvero nello sciorinare elogi per la bellezza di Susanna abbreviata in Susy e di Severina troncata in Rina. Diverse bellezze, dice: l’una, quella di Susy, più mobile e aggressiva; l’altra più dolce e serena; ma dello stesso livello. Senz’altro. D’accordo tutti (me compreso). Quindi la gentile signora racconta addirittura un “pettegolezzo”.
“Mio marito mi aveva parlato di una candidata bellissima, una certa Sofia Spanò. Ne ero incuriosita e lealmente ben disposta ad apprezzare la fortunata. Ma quando l’ho vista, ci sono rimasta male: quella sarebbe una ragazza bellissima? Mi sono dispiaciuta per mio marito: i suoi gusti, pensai, si sono deteriorati. E non solo lo pensai, ma glielo dissi. Poi mi capitò di vedere la signorina” (mobile cenno cordiale a Susanna), “e allora, sì, esclamai: questa è una vera bella ragazza, lei sì ch’è veramente bella: in ogni particolare.”
E chi può darle torto, signora? Poi la gentilissima ha aggiunto che anche Rina supera di molte lunghezze la presunta bellezza indicatole dal marito. La quale, tutt’al più, potrebbe dirsi simpatica, accettabile. E mentre le celebrate si profondevano in ringraziamenti, e tentavano, con lieve accensione di rossore, di assumere un atteggiamento di modestia più o meno convinta (specialmente l’imbarazzata Rina), io cogitavo ancora una volta sul caso: spero di avere liberato anche il presidente degli ultimi dubbi sui pettegolezzi che corrono intorno a me e Susy. Naturalmente, sia le due Veneri che io ci siamo prodotti in elogi di riconoscenza e reciprocità verso la matura signora. La quale non era propriamente una bellezza, per certe prominenze dentarie in una bocca esclusa dalla perfezione delle altre due presenti. E tuttavia non era priva di certe grazie, anche se limate dal tempo. Lei si ritrasse con accorta modestia o sincera coscienza dei personali limiti, ammettendo, al più, di essere (stata) “una donna piacente”, ma non certo una rara beltà. E invece sì, e no, per carità, e lei è modesta, e così via cerimoniando. Anche i due colleghi sono stati coinvolti nella disputa galante, e costretti a darci man forza nella gradita impresa di premiare la rara lealtà della signora presidentessa verso la giovane concorrenza.
Esaurito il capitolo omaggi alla bellezza, anche il presidente e signora hanno curiosato, garbatamente, sulle intenzioni di Susy, il suo avvenire, i suoi studi, la famiglia. Insomma, tre quarti d’ora di non discare banalità. Utili, ne sono sempre più convinto, man mano che passano le ore, alla demolizione dei “pettegolezzi”: avevo acquistato, con quelle visite, quattro testimoni a mia difesa contro il maligno paese fantasioso (taci, quaderno).
*
A completare il gran pieno della giornata, stasera stessa, alle ore nove, siamo andati a godere Mina (e, sì, anche un “surclassato” Nino Taranto) sul bel lungomare di Siderato. Abbiamo portato con noi Susanna e la sorella più piccola, Tina, nostre ospiti. Spesa sostenuta dalle mie modestissime risorse, lire diecimila. E mai più con tanto piacere e soddisfazione. Entrambe le sorelle aspettavano la cantante, indifferenti al comico, e alla sua meritata fama di mostro sacro della comicità. Quando Mina è apparsa sul palcoscenico, Susy ha avuto un sussulto, come l’effetto di una scossa elettrica. Non esagero, l’emozione l’ha sconvolta. Tremava di eccitazione euforica come una bambina davanti a un dono grandioso a lungo atteso con poca speranza. Mi sono detto: beata lei che è ancora in questa fase dello sviluppo emozionale. Una volta, ma quanti anni fa?, anch’io mi accendevo di parossismo ammirativo davanti ai miti dello spettacolo calati dall’empireo delle distanti immagini cartacee o catodiche in corpi di carne a distanza di braccia e gambe. Anche Tinuccia era agitata di entusiasmo, ma niente a che vedere con l’“orgasmo” della sorella maggiore. La quale, come sapevamo tutti gli amici, era da tempo innamorata della “Tigre di Cremona”, e ne aveva fatto un modello estetico, limando, tra l’altro, le sopracciglia (ma per fortuna, non fino all’inestetica rasatura della diva). Non la turbava il fatto di essere lei più bella del pur grazioso idolo. Non la inorgogliva per niente che un confronto con Mina avrebbe premiato senz’altro Susy presso una giuria maschile. Ed è rimasta incantata per tutta la durata dello spettacolo, che ha “forato” abbondantemente la mezzanotte. La guardavo in tralice, e ogni volta la coglievo in estasi, gli occhi persi sulla figura magica, le orecchie piene della sua voce incantevole. Non un minuto secondo di distrazione. Sono sicuro che la sua immagine, il volto teso, gli occhi lampeggianti, le guance rosate di piacere, le gambe, di tanto in tanto, sollevate, le ginocchia ora abbracciate, ora appoggiate sulla spalliera del sedile davanti, mi rimarrà scolpita nella memoria più gelosa, indelebile fino alla vecchiaia, se mai ci arriverò. Più di Mina, che dal momento di quel sussulto-cortocircuito guardavo solo in funzione dell’altro, per me più intimo, spettacolo: l’estasi di Susanna, appunto. Non senza collegare le parole delle sue belle canzoni alla nostra situazione sentimentale: se adesso te ne vai / un giorno saprai / cosa vuol dire / un anno d’amore [...] E se domani/ io non potessi/ rivedere te/ mettiamo il caso/ che ti sentissi/ stanca di me/ quello che basta all’altra gente/ non mi darà/ nemmeno l’ombra/ della perduta fe-li-ci-tàaaa […] E se domani/ – e sottolineo se –/ all’improvviso, perdessi te/ avrei perduto/ il mondo intero/ non solo te/[…] mettiamo il caso / che ti sentissi /stanco di me... Naturalmente, sto citando a memoria, e dunque a pezzetti, con dubbia sequenzialità di versi e versetti. La voltura al maschile, poi, di quello stanco di me è una tentazione di ovvia banalità infantilmente autobiografica. Perciò la lascio dentro le meningi. Anche se intrisa di timori e presentimenti bui.
Alla stessa temperie assegno un’altra coincidenza: la canzone di Mina, E se domani, ha la stessa età della mia love story: è nata nello stesso anno del suo germogliare. E ancora domina le hit parade. Più che meritatamente.
Le parole, ma anche la musica, e soprattutto la trascinante voce e le mossette e vezzosità della straordinaria cantante si figgevano nella memoria emotiva come chiodi di luce indelebili in un contesto rapinoso (e scusami, quaderno, ancora una volta non ho tempo di cercare parole meno altisonanti e concettose).
Magnifica serata, dunque. Per il piacere dello spettacolo, per la reazione di Susy, per il godimento di Rina e di Tina, anche loro ammiratrici di questa regina del canto leggero. Al ritorno, naturalmente, Giampiero, rimasto affidato allo zio, dormiva della grossa da un paio d’ore.
Inutile aggiungere, quaderno, che l’ospitalità offerta alle due sorelle mi gratifica di un parziale ricambio della generosità di Susy verso Giampiero.

29 luglio, ore 23

Ultimi incontri a scuola col presidente per la consegna dei pacchi alla segreteria. I pacchi sono quelli, regolamentari, che contengono, sigillati, i compiti scritti, i diari delle prove orali, le tabelle di valutazione, i verbali, insomma tutti i documenti che vanno al Provveditorato, dove rimarranno inaccessibili per almeno cinque anni. Almeno, questo è quanto promette la norma.
Finite queste operazioni conclusive, in malinconica solitudine, e con la nostalgia del caldo rumorio delle ragazze candidate (e perfino del batticuore per Susy esaminanda), accompagno il presidente al suo albergo per ringraziare la signora. Ieri sera era tornata da noi con un dono per Giampiero, una bella scatola di caramelle pregiate. Ma noi eravamo beati sul lungomare sideratese, con Mina e col mito. I nostri vicini e parenti hanno informato la presidentessa e accettato di custodire il regalo. Lo abbiamo avuto stamattina.
La sera sono andato al cinema, a tentare di sciogliere un po’ della tensione accumulata fra tanta calca di eventi. Ho visto una commedia leggera, al cinema centrale, uno dei due gestiti in affitto dallo zio di Susy. Al ritorno a casa trovo lei, in conversevole compagnia di mia moglie. Empaticamente capisco che neanche Susy riesce a stare in casa, inerte e vuota ma tesa, dopo tante emozioni, buon’ultime l’esposizione sociale degli incontri con commissari, presidente e loquace signora. Così sfrutta la nostra amicizia per “prendere aria”, e soprattutto, cambiare quella di casa propria. Mi fermo a parlare con loro, ma la cosa non scivola liscia sopra la pelle di Rina. Che, di tanto in tanto, si mostra gelosa. Sì, di tanto in tanto (tanto quanto?), dubita della mia esclusiva “simpatia estetica”, della sbandierata purezza di questa simpatia. “Tutti l’ammirano, tutti i maschi che la vedono la desiderano (compresi i tuoi colleghi, che se la mangiavano furtivamente con gli occhi), e tu vieni a cantarmi che ti è indifferente.” Obbietto: “A me, insisto, suscita soltanto una forte ammirazione estetica. Le donne che desidero (pardon, che potrei desiderare) sono più vistose, più in carne, di forme più evidenti, più rotondette, come te lo devo dire?” Lei: “Allora neanche io ti piaccio in quel senso” “Che c’entra, tu sei mia moglie” “Che discorsi!” “E poi, non sei forse più pienotta di lei?” “Ma va là”. “Insisto ancora. Susy è piccola di corpo, quasi esile, anche se proporzionata, con un bel seno e un sodo fondo schiena” “Ah, ecco, ti sei tradito: c’è pure il bel seno e il sodo, anche se ‘piccolo’, fondoschiena.” “Macché tradito. Confermo e replico: per quella funzione, e destinazione, le preferisco più tondeggianti e sode” “Ma di’ piuttosto che hai capito il tipo e non osi tentare. Seppure non l’hai fatto. Con scorno – forse.” “Come preferisci”, concludo. Non senza una punzecchiata diretta: “Ti sentisse la presidentessa! Lei ti giudica un angelo mite e inoffensivo. Non crederebbe che tu possa sfoderare gli artiglietti in compagnia della malfondata gelosia sessuale.” Replica alla replica: “Io sono, per carattere, come mi ha giudicata la presidentessa, ma tu riesci a farmi diventare scontrosa e antipatica.” “Mea culpa. Ti chiedo perdono.”
Ma sì, creda quello che vuole. Basta che di una cosa resti convinta: l’inaccessibilità della casta Susanna. La quale sfolgora in questa coda della sua insinuazione sul mio presunto blocco galante verso l’inaccessibile: Susanna – ci tiene a precisare Rina la dolce – “frequenta la nostra casa perché è così, seria e scontrosa. Se fosse un tipo diverso…” “Diverso come?” “Come piacerebbe a te.” “Ah!” Insiste e ripete la canzoncina (così poco Mina).
“Se fosse così, ripeto, come l’avrai sperata tu quando te la sei portata in casa per le lezioni private gratis et amore dei, non varcherebbe la nostra soglia”
Ed eccoci di nuovo a litigare. Tento l’ovvio sviluppo logico.
“Ma se sei così convinta della sua serietà, com’è giusto che tu sia, perché ti lasci prendere dalla gelosia, perché ti scaldi tanto?”
Rina s’indurisce (non capisco perché). Ne parte una raffica di insulti quasi gridati.
“Perché ti vedo fare il cretino.”
“Ma come?, come, faccio il cretino? E’ fare il cretino scambiare qualche parola con lei?”
“Ne scambi troppe, a volte. E ieri le sei stato dietro tutto il giorno, dongiovanni da strapazzo”
“Ma quando mai!”
“Tolgo ‘da strapazzo’? Però aggiungo che in certi momenti sembravi un cane dietro una cagna in…”
Interrompo: “Ahi, ahi, Rina, ‘cagna in calore’ non sta bene sulle tue dolci labbra carnosette e…pulite.” “Non tentare di addolcire la pillola. Non m’incanti.” E omissis sul resto.
*
Bilancio cupo. Il colpo di Rina è andato a segno. Come una lama nel ventre. Dietro tutto il giorno! Manco Susy avesse passato tutta la giornata con noi. Esagerata. Ma, insomma, perché l’armonia domestica non svapori nel risentimento fumoso, bisogna che io freni la voglia di vicinanza con Susy. Che la ignori il più possibile quando è qui, in casa nostra. Ma quanto sarà possibile senza scadere nella scortesia, generare sospetti e aggiungere danno al danno? Sarà difficile trovare il punto di equilibrio tra il bisogno di starle vicino, scambiarci qualche parola (fosse pure per litigarci) e l’irritabilità di Rina alle prese con i suoi ormoni messi in allarme. Difficile mascherare quel mio fremito affamato sotto i veli di una cordialità soltanto amichevole. Ma ci devo provare. Anzi, ci devo riuscire. A costo di lacerare qualche fibra del mio io-corpo in incipiente sindrone di astinenza. Il fatto è che Susy fra qualche giorno non sarà più in paese. E chissà se questi incontri, di pura amicizia senza esuberi, non siano gli ultimi per un tempo crudelmente lungo. O addirittura gli ultimi in assoluto.

30 luglio

Nigro signanda lapillo. Eh, sì: capita anche questo. Un giorno nero per futili motivi. Accade quello che non avresti voluto mai, caro allocco; che non vorresti accadesse neppure a una persona amata. Uno screzio grosso. Un vero e penosissimo scontro tra me e Rina. Che esito a descrivere. E se lo faccio, sarà per punirmi.
Perché s’è riaccesa la disputa della gelosia? Perché lei mi ha insultato di nuovo, sbandierato perfino i miei (reali e presunti) difetti fisici? Ma soprattutto, perché, per quale colpo di stupidità crudele le ho rinfacciato i suoi (la famosa non perfetta morfologia delle gambe; o piuttosto quasi soltanto della sinistra)? Che vigliaccata. E come ben ripagata. La mite mogliettina me le ha cantate per le rime:
“Non sono stata io a volerti; mi hanno voluto dare a te. Ero poco più che una bambina, malgrado i miei diciassette anni. E troppo sottomessa ai miei, a mia madre soprattutto. Ti stimava, ti voleva bene. E le piaceva il pensiero di sposarmi al figlio di una sua cara amica di gioventù.”
Brava Rina, canta, sfogati, me lo merito. Aggiungi pure, senza scrupoli:
“In ogni caso, sono sempre troppo per te.”
Ecco, l’hai detto. Forse hai ragione. Troppo. Troppo bella, malgrado quel difettuccio che ti ferma a un passo dalla perfezione fisica. Troppo mite, malgrado queste impennate all’artiglio reattivo. Troppo ingenua, ché non ci vuol mica il genio della malizia per sospettare in me un interesse sessuale verso Susy. E meno male che quel fondo di candore o di orgoglio ti fa credere a una Susanna blindata contro gli strali della slealtà vogliosa.
Ma come ha fatto lo screzio a divampare fino al suo micidiale “invito”: “Se vuoi, puoi anche andartene”? Altra lama nel ventre. Anche se avverto subito l’eccedenza della parola sui reali moti del suo cuore ferito. E tuttavia rispondo, piccato, che, se vado via, non vado solo; che c’è una bella ragazza disposta a seguirmi. E altre fesserie dello stesso conio. A un certo punto, lei lascia la tavola imbandita e si allontana. La trovo poco dopo nel bagno. Esce mentre io faccio per entrare, e si rifugia nella stanza da letto. Scoppia a piangere. Ma senza isterismi vocali. Silenziosamente. Un silenzio che assorda, però.
Era molto offesa. Aveva creduto alla storiella della ragazza disposta a fuggire con me. Tentavo di consolarla, commosso e pentito. Soprattutto, arrabbiato con la mia superficialità impulsiva. Avevo sopravvalutato la saldezza di Rina, scambiato la sua aggressione verbale per forza di carattere in schietta mostra. Mentre era un’iperbole mimetica per nascondere la sua fragilità. Ero avvilito. Le mie parole di conciliazione non bastavano a ridarle equilibrio serenità pace. Piangeva. E non c’era alcuna forzatura in quel pianto: solo rabbia impotente, senso di pericolo, stenta evoluzione verso la fiducia nella sconfessione che le scioglievo dentro le ben disposte orecchie: ma quale ragazza, quale fuga, quale stravaganza! Temeva che fossi matto? Se non voleva credere al mio amore per lei, non dimenticasse, almeno, che il mio sentimento paterno non mi consentirebbe mai una vigliaccata come l’abbandono della famiglia. E credesse nel mio profondo affetto. Tante altre cose le ho detto, e non le ricordo tutte. Finché non ha smesso di piangere. Però non ha voluto continuare il pranzo.
*
Si fa sera. Impigliato tra noia e rimorso, lascio Rina ancora chiusa nel suo mutismo, e vado al cinema. Nel locale più vicino alla nostra via e casa (quasi temessi di allontanarmene troppo). Non vi resto a lungo: torno al nido senza avere visto il film per intero. Anche la lontananza temporale, dunque, mi turbava: di che cosa avevo paura? Che cosa potevo temere che accadesse in mia assenza? Rina non era un temperamento così drammatico, da rotture drastiche, o colpi di testa da cortile. E tuttavia stavo teso e vagamente inquieto.
A casa trovo la Causa di tanto scompiglio. Susy stava sdraiata sulla sedia snodabile rossa, accanto al tavolinetto col giradischi. Fasciata e inguainata dentro il vestito bianco striato di bande nere regalatole da Rina, era più seducente che mai. Il saluto che mi rivolge è soffuso di un sorriso appena accennato, e la mia risposta mimica non lo contesta, dietro al ciao quasi in sordina. Tira aria di serietà triste. Susanna ignora la burrasca che ha provocata in casa senza sua colpa (se la nozione di colpa implica la cosciente volontà di farlo, il male), ma il suo sguardo inquieto emana un soffio di sospetto. Che cosa è successo? ─ chiedono i suoi grandi occhi d’ambra allungata (e per nulla ovati, caro don Luigi girgentano!). La mia smorfia di sorriso abortivo accompagna un lieve moto del capo verso Rina e il dito che picchia sulla mia tempia destra completa il messaggio: ubbie, malumori passeggeri, aiutala a liberarsene.
Le lascio sole: avranno tutto l’agio e il tempo necessari a una spiegazione, uno sfogo, il conforto dell’amicizia. Esco con mio figlio per fare la spesa, annuncio. Ma sottintendo la priorità confessata sopra. Ancora più sottintesa l’idea che Susy possa restare a cena con noi. Susy resta, sì, con noi, ma senza cenare: dice che ha pranzato tardi, che non ha ancora appetito, e via scusandosi. Ma ho l’impressione che non sia in linea col clima ancora pesante che grava sul domestico focolare. Che provi disagio, insomma, nel pensarsi al desco con i coniugi amici in freddo tra loro. Rimane, comunque, e tanto mi basta: in tempi di vacche magre, anche un sorso di latte appaga. Né la presenza di Susanna è stata soltanto un sorso di latte.
Il fatto più ostico al palato è che neanche Rina mangia. Ha interrotto il pranzo, è sera matura, l’ora di cena fisiologica, e non ha appetito, dice. Però: che capacità di rancore, porcodioniso! E vabbe’. Mangio da solo. O meglio, con Giampiero. Che ha appetito e felicemente consuma il suo pasto, refrattario alle fisime misteriose dei grandi. Perché non mangia mamma? Non hai sentito? Ha mal di testa e non ha fame. Ma allora perché suona i dischi con Susy? Ma, sai, il suo mal di testa non è forte, e poi, vedi, suonano piano. Forse s’è convinto. Dopotutto, la mamma lo richiama solo quando lui mette il giradischi ad alto volume.
Come dio vuole (e il suo doppio diabolico concede), si cena, con sfondo di musica, rare frasi di conversazione, intercalati di Giampiero e suoi sgambettamenti da una donna all’altra. Sul tardi, accompagniamo, tutti e tre, Susy a casa sua. Ci fermiamo una mezz’oretta, tra le solite ciarle, ma assai diverse da quelle del periodo pre-esami. E rincasiamo. Tento di convincere Rina a cenare, ma mangia soltanto una pasta di mandorla sicaniana. Anzi, realpoliese.

31 luglio.
0re 24

Giornata di noia in movimento. La mattina andiamo in macchina a Siderato a godere fastidi burocratici per il rinnovo della patente. Tutto risolto, ma che barba, e che pena per il tempo immolato. Rina resta col bambino a passeggiare sul corso, e forse indugia in qualche negozio, brevemente, come concede Giampiero. Liberati dalle scartoffie, ci portiamo sul lungomare. Più che per una passeggiata nostra, per dare spazio all’instancabile folletto che corre, ciarla, fa l’altalena ai giochi per bambini, sorbisce un gelato. E suda, sciogliendo la lingua ancora muta di Rina, che tenta di frenarlo, memore delle facili febbricole del piccolo troppo sensibile alle infreddature. Dopo il pranzo, io tento la siesta, loro vanno dai parenti in progress, là di fronte. La sera ci rechiamo in casa di Susanna per vedere lo spettacolo televisivo La Trottola. E ci siamo andati a piedi, perché mio cognato s’è presa la macchina (probabilmente, per un impegno galante extra, mentre la fidanzata lo attende fiduciosa in seno alla famiglia). Così abbiamo fatto pedibus calcantibus il non breve tratto di strada che ci separa da quella casa. Non senza proteste di Giampiero (forse si sente tradito dallo zio).
Lo spettacolo si rivela sempre più insipido. Più sapida la conversazione con i componenti della famiglia ospite. La madre, a un certo punto, si lamenta della scontrosità di Susy verso il padre. Che se la merita. Per vari motivi (uno dei quali sappiamo io e te, quaderno. Ed è certo il più pesante). Rina, che appare ormai risalita dalla depressione di ieri, esorta Susy ad essere più cordiale col padre. Che le vuole bene, ha sofferto per lei, ha rischiato di compromettersi per i suoi inghippi scolastici. Eccetera. Rina ignora, com’è giusto, di quale altro affetto è capace il genitore sanguigno. Susy dice che il padre talvolta è “scocciante”, e che lei, di questi tempi, si mantiene nervosa. Indi, diventa scontrosa ad ogni minimo pretesto di scontro. No, non è dolce con nessuno, la follicolinica. Quante volte è aggressiva anche con me.
Non conosco i motivi immediati e le contingenti occasioni della scontrosità verso il padre, ma so perché è nervosa e scattante. E’ combattuta tra la voglia di rispondere alla mia sfida (“Non hai carattere, ti fai comandare…”) e il desiderio di fare l’esperienza del viaggio, dell’ambiente nuovo, e così via. O forse dovrei dire: fra l’impegno di tornare dopo dieci giorni e la possibile gratificazione del restare a lungo. Vai a saperlo.

Prima domenica d’agosto

Di mattina (ore 10.30 – 12,30) siamo stati al mare, spiaggia di Zefiria. E’ con noi Susanna. Semifasciata nel costumino dell’anno scorso, è (c’è bisogno di ricordartelo, quaderno?) più che mai seducente. Ma cos’è questo puerile impulso di ripetermelo ad ogni occasione di incontro? “Sempre”, “più che mai”: forse coteste conferme sono meno superflue di quanto il coboldino disturbato di stasera pretenda. Probabilmente, la spinta subliminale segnala una differenza: Susy era più serena, stamane, sull’interminabile spiaggia coperta di ombrelloni e circostante bella carne al sole. E la serenità è nemica dei crucci che riducono lo splendore della perfezione. Et voilà, la riflessione è fatta.
Io evitavo di guardarla, dopo lo scompiglio di ieri (solo lampi obliqui di sguardi intimoriti. Ma chissà se sono riuscito a convincere mia moglie). Il piccolo ha fatto il bagno volentieri: ha vinto la paura dell’acqua e vi indugia dentro giocherellando con palla e scherzetti di spruzzi fra ragazzini.– S’intende che una anche modesta misura di allontanamento dallo spazio di sicurezza lo innervosisce e, se proprio non può ritornare vicino per orgoglio, ci tiene sotto l’occhio vigile, e magari chiama Susy “per giocare”.
Sono rimasto in acqua pochi minuti, non più di una diecina, e con scarso godimento. Pensieri cinerei, pollanti dalla situazione (domestica e periferica), tenevano bassa la temperatura umorale. Ho anche fumato, non una, come di solito, ma due sigarette: la prima come “aperitivo” del bagno, la seconda come “digestivo”. Segno certo di nervosismo in grigio. E poiché gli occhi erano obbligati a deviare dal loro “oggetto del desiderio”, li ho impegnati nella lettura: ho sorbito alcune pagine del terribile, e monotono, Kaputt. Persino scarabocchiato, su una pagina bianca, alcuni aborti di “impressioni”. Li trasferisco qui.

“La spiaggia, ore 12. L’arco frastagliato dei monti, pallido fondale inciso qua e là da tetti e petti di vecchie case e nuove palazzine, distanti dal mare quanto basta per solleticare l’illusione di una bolla isolante (di trascendenza orizzontale, direbbe il filosofo) intorno alla spiaggia. Il corpo dell’arco collinare digrada, anche, verso il paese, che sta in mezzo tra le sue masse casual e la grande spiaggia in sabbia e ghiaia cordonata dall’ampio lungomare che costeggia la ferrovia (indi, passaggi a livello a vari intervalli). Parallelo, e sottostante, un arcobaleno disordinato di corpi (s‘intende, femminili) e di ombrelloni colorati, davanti alla pianura del mare, fitta di palpiti bianchi come farfalle impaurite. Sopra, lo sbiancare meridiano dell’azzurro. La musica frusciante della risacca accompagna l’indolente saltellare di palle e palloni spinti da ragazzi ebbri di sole. Al mio fianco, il bel viso di Rina offerto a un Febo intenerito scacciapensieri. Un metro più in là, verso la mobile trina della schiuma bassa, altra grazia di presenza supina, offerta a un altro Apollo (sexy, questo) beatamente stimolante. Si allude, ovviamente, a Susy: intrisa di buon calore e ignara del mistero evocato, gode un relax smemorato (forse). Più spesso col viso al cielo, anche lei, interamente esposta all’intreccio della brezza che attenua il caldo, della luce che impone difese, del sapore vagamente salino dell’aria, del brusio circostante e del vocìo dei bambini ipercinetici. Né si può fingere che non pensi anche ai corpi affamati della coppia presente e disgiunta. Più che mai bella, più che mai perfetta (lo so, l’ho già detto e scritto) nel concerto delle parti. E pertanto mi fermo qui. Dentro la teca segreta, nei turbini neurelettrici polarizzati, la carezza estetica di tanto dono, sollecita voluttà di sparsi ricordi e trafitture di acuminati rimpianti. Que sera sera? Ma come duole l’organo totalitario (la chiamano anche unità psico-somatica) che ospita il supplizio del nevermore possibile. Mi ripeto? E sia.
Contrasta l’impasto dolce-amaro appena agitato un altro dono, geloso del primo quanto ignaro della sua profondità. E più grande, nel cielo interno delle valutazioni oneste. Ma quel cielo è troppo insidiato dal primo Dono perché i successi di competizione siano più che saltuari e poco garantiti nel secondo. Una sola certezza, ma granitica: il tante volte scritto non possumus agli inviti del Tentatore che suggerisse (ma non osa) rotture e abbandoni osceni.
Me lo guardo, il Dono più grande, vagolante sui ciottoli arsi dal sole in cerca di tesori luccicanti, in testa l’ombra trasparente di un cappelluccio di lino bianco. Lo guardo intenerito e un sospiro di malinconia esala, tenue e tremula, dal fermento di tutta questa gloria fisica minacciata. Quasi visibile, come in una visione appannata, e quasi sensibile al tatto, avvolge in un abbraccio ambiguo, a tratti ironico, questo prato policromo e monotematico di carni ghiottamente bollenti, questo fremito estuoso di corpi in libertà vigilata… Sarà il senso del Tempo predatore.”

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