mercoledì 11 novembre 2009

Susanna, frammento 45


12 novembre,
ore 22,30

E ora a Didia. Frequenta la nostra casa, effonde amicizia per Rina, io torno a fare il benefattore dandole lezioni private gratis: quanti elementi comuni con il “caso Susy”! Ma resta un solco invalicabile di eterogeneità tra le due situazioni. Sul piano amicizia familiare, tuttavia, gli elementi di comunanza ci sono quasi tutti. Rina controlla, certo, i suoi sentimenti; ma anche lei è già nelle spire affettive della nuova frequentazione. Quali, gli elementi comuni con la precedente? Presto detto: anche Didia è un soggetto difficile, anche lei ha chiesto a Rina di darle del tu, anche lei è affettuosa col bambino; e via seguitando. Soggetto difficile: cioè, ipersensibile, introversa, in crisi con la famiglia... Essendo la minore di cinque figlie dovrebbe sentirsi protetta e coccolata. Invece no: lei è “il maschio mancato", dice, e questa delusione genitoriale (paterna, soprattutto) pesa sul suo destino. Tanto più in quanto lei è proiezione negativa, a suo modo beffarda, dell’estremo tentativo di azzeccare il sospirato maschietto. La caccia al maschio sarà cominciata dopo il bis femminile, e dunque protratta per ben tre “sorteggi”. Fino alla resa stremata (con chissà quali coloriti epiteti alla malasorte ghignante). Inoltre, Didia, pur carina, con tratti delicati, occhi di giada luminosi e fuggitivi (è piuttosto timida), e altre buone qualità fisiche, non ha il sexy appeal delle più formose e carnali sorelle maggiori. Senza nessuna ragione percettibile, si sente un po’ il brutto anatroccolo. Quante volte le ho ripetuto che la sua è una fissazione senza basi reali. Inutile. Non è sciocca, e vede la superiorità corporale delle sorelle: “Sono troppo magra, sono pelle e ossa, crede che non mi veda”: canta e ricanta la triste canzone. “Sei soltanto un po’ più snella delle tue sorelle, ma avrai la tua carne anche tu. Aspetta qualche anno e vedrai”. Ma Didia non si fida: né delle mie previsioni né del suo dna. E costituisce un problema per sorelle mamma e papà. I quali chiedono aiuto a me, fidando nella stima immensa che Didia mostra per me anche in famiglia. “E’ innamorata di lei”, ebbe a dirmi un giorno il genitore sindaco. Non senza precisare, a un mio sussulto: “Scolasticamente parlando, s’intende”. S’intende, signor sindaco, s’intende. E ne sono lusingato.
Viene un pomeriggio sì e uno no. La preparo per il concorso magistrale ormai prossimo. Stasera è a Zancle, con altre tre compagne di classe: domani ci sarà la prova per l’ammissione al Magistero: un tema di cultura generale.
Anche Susy, domani, sarà nel piccolo gorgo. Ne uscirà indenne e vincente? Non glielo auguro. Non lo merita la sua preparazione (certo non ricca), né la vanità della famiglia (del bel tenente in particolare). Le auguro, al contrario, e con tutta la mia “fame” umiliata, uno scacco netto, quello che meritano, lei e i suoi poco nobili parenti. Con un pensiero particolare alla figura della madre, quel cuore di serva impudente! Che repulsione mi ispira. Osare rinfacciarmi una lettera, tutto sommato, legittima, anche se poco coerente con la mia dignità professorale (non dovrebbe essere superiore a certe tentazioni plebee? Dico, la mia dignità eccetera). Esci dalla parentesi, dignità, vieni allo scoperto: forse che, ora, in questo segmento di tempo che si sbriciola sopra queste righe viola in forma di segnacci rossi detti parole e frasi; ora, dignità ciarlona, dimmi, al cospetto della notte avanzante (e del riposo mancante), sei forse all’altezza delle tue pretese? Ho attenuato qualche espressione, rivolgendomi alla madre di Susy, ma quelle che si presentano alla punta della biro rossa sono più forti. Se non le scrivo è “a futura memoria”: non mi piace pensare che qualche familiare (magari un figlio una figlia un nipote) possa leggere volgarità e dirsi (ignaro del bruciore che mi sevizia) “com’era caduto in basso” quest’uomo di cultura, questo filosofo, questo collaboratore di pagine culturali, eccetera. Non mi passa nell’intestino il pensiero che si possa ricevere tanta ingratitudine in cambio dell’onore concesso, dell’amicizia, del tanto bene fatto.
*
Ho visto, stasera, alla televisione, una deliziosa commedia di quel grande narratore e (ora so) anche intenso drammaturgo, che è Leonida Andrejev: Il pensiero. Magnifica l’interpretazione di Enrico Maria Salerno. Buone anche le prestazioni degli altri attori. Tutto quel rovistare nell’apparente astrazione Pensiero potrebbe indurre alla svista di attribuire al commediografo un atteggiamento spiritualistico, mentre l’ispirazione remota, o si dica pure profonda, è fisiologica. E’ il cervello che viene frugato e scandagliato, ed è il corpo a godere e soffrire e lambire la follia. E’ uno spazio insidioso, il prodotto più sofisticato della filogenesi; e quella sua intricata complessità cito-molecolare è lo specchio visibile del labirinto funzionale. Affascinante viaggio, quello che percorre diecine di miliardi di neuroni (con i loro neuriti dentriti sinapsi mieline); ma il fascino è bivalente e l’altra faccia di quel fascino è un serio rischio di smarrimento patologico. Una realtà da prendersi con le molle, la nostra pappetta neuronale. Anche quando ci illudiamo di bazzicare soltanto la “razionale” (auto-referenziale, autocosciente...) neo-corteccia (il cosiddetto neopallium), l’ippocampo, l’amigdala, il sistema limbico, insomma il “cervello giurassico” sviluppato “intorno” al primordiale rinencefalo, interferisce e muove le sue pedine emozionali a sfida del controllo neopallico. Che, al contrario, spesso razionalizza soltanto le pulsioni, insomma gli appetiti dell’altro cervello, per renderli più agguerriti. Gloria al rinencefalo, la sezione dell’olfatto, un senso universale nel regno animale, precocemente sviluppato a garanzia della percezione “giusta”, quella che rivela preda e predatori, pappa e chi ci vuole pappare. Chissà quale è stato l’annuncio nella sensibilità diffusa dei monocellulari, dell’ameba, per esempio.
Come sapevi attivare il mio rinencefalo, tu, affamatrice lontana.
Be’, ma dove vado a impelagarmi? Ricordiamo soltanto che il primo libro di Andrejev a capitare sotto i miei occhi affamati di lettore onnivoro è stato il volume di racconti della Bur I sette impiccati: un impareggiabile biglietto di presentazione. Da Giuda Iscariota al racconto del titolo, uno più bello dell’altro. Sul piano intellettuale, il ricordo più incisivo è la riflessione di Giuda, il suo atto d’accusa-difesa rivolto al cielo lontano e ai vicini simili giudicanti: lui, pedina di un gioco incontrollabile, nientemeno che il divino “piano della salvezza” (tema presente, questo del Giuda vittima incolpevole, presso l’antico cristianesimo marginalizzato dalla connessione teo-politica vincente: Vangeli apocrifi, gnostici, e altri segmenti). Ma nella memoria emozionale l’icona meglio radicata, che ancora brilla di luce inesausta, è la scena del giovane idealista che cede alla nudità luminosa della sua amica appena violentata. Nella cupa notte di un “passeggio” a rischio, in campestri luoghi solitari, un gruppo di ignoti facinorosi ha avuto ragione del pudore intatto di lei e della vana difesa di lui. Il quale, dopo il fattaccio, tra miserabili (ma umanissimi) sofismi d’amore “redentivo”, scuse, invocazioni di partecipe clemenza, la prende, lì, nel luogo dello stupro, nel cuore delle tenebre scalfite soltanto da quella nuda carne bianco-splendente, che sembra rispondere al remoto brillio di un cielo folto di stelle e vuoto di pietà. Lei inerte nell’incoscienza offesa, non protetta, contro la sua stessa appetibilità, neppure dall’amore puro del giovane “spirituale”. Un magnifico inchino alla potenza del corpo. Un po’ malinconico, forse, ma non meno convinto della sua fatalità fisiologica. Sarebbe piaciuto a Nietzsche.
*
Oggi ho messo a punto due articoli. Ne ho così pronti tre per la Gazzetta dello Stretto e due per il Gazzettino d. g. Domani li farò partire.
Sto male. Ho avuto giorni tremendi di coliche epatiche e spasmi intestinali. E il roveto al distretto cardiaco è sempre pungente. Ore 23. 50. Buona notte.

14 novembre,
ore 22, 30

Stanotte ho sognato che mio figlio s’era procurato un buco nel cuoio capelluto con una molletta per capelli da donna. Fisicizzazione onirica di sensi di colpa? L’inconscio mi avverte che potrei fare del male al bambino con questa quasi incontrollata immersione nelle acque primordiali della Donna? Insomma, questo ruotare del pensiero contorto intorno all’asse Susy è poco meno di un’ossessione: il tempo che mi sequestra lei lo sottraggo al bambino: è questo il messaggio criptico del sogno? In verità, non posso ignorare che tento di contrastare la pressione ossessiva con più frequenti incontri tra un volenteroso moi e il sempre voglioso piccolino loquace. Ma forse questo quantum di paternità attiva non basta. Del resto, continuo a godere senza scrupoli del feeling tra il bambino e mio cognato: gli dedica più tempo lui che io. Un buco in testa con una molletta per capelli da donna! Che intrigante simbolismo.
Mi capita, a volte, e in questo periodo sconcio di malumore quaresimale più spesso del solito, di pensare a mio cognato Beppe, marito della mia sorella media: un fidanzamento precoce e di soli sguardi e stente parole per anni, una sola donna in tutta la sua vita, un appagamento esaustivo per me incomprensibile. Una sola donna in tutta un’esistenza! Va bene che è ancora giovane, la mia età: ma non avendone conosciuta nessun’altra prima di sposare, posso mettere la mano sul fuoco che nessun’altra ne conoscerà. A meno che non gli capiti di rimanere vedovo (tocchiamo ferro). Ecco, penso: perché non sono come lui? Perché questa irrequietezza, questa mobilità vagabonda incapace di fermarsi a un solo approdo? Ah, la fatalità delle nature, caro Camus, come mi sa d’ingiustizia “ontologica”. Non è forse il vero e unico peccato originale? Ecco, comincio a sproloquiare. Ma anche questo è sfogo, terapia spuria.
*
Stamane, sciopero pro università degli studenti zefiresi. Il magistrale, però, è entrato. La soverchiante prevalenza dell’elemento femminile si fa sentire, in queste occasioni. Sono più spaventabili, le girls. E meno politicizzabili.
Ho corretto due temi di italiano delle mie alunne diplomate quest’anno e ora candidate al concorso magistrale in atto. Ho dovuto quasi rifarli di sana pianta. Ora dovrò spiegarli, con sacrificio di altro tempo. Loro sono contentissime di questo modo di correggere: copieranno in bella i due svolgimenti rifatti e impingueranno la cintura protettiva a contatto di pelle che cingerà i loro soavi ventri durante la prova scritta: una cartucciera di temi trascritti su striscioline di carta e così arrotolati, ciascuno dentro una miniborsa attaccata alla fascia come un minuscolo marsupio. E’ questo il corazzamento in uso per la “battaglia esami”, fase, prova scritta d’italiano. Non tutte, è vero, si muniranno di simile corazza effusiva, ma la stragrande maggioranza certamente sì. Dubito, comunque, che anche fra le più brave non giuochi la tentazione di affidarsi a un qualche supporto assistenziale del genere: temi svolti, magari da loro stesse e appunti congruenti saranno mimetizzati diversamente, ma non mancheranno. Forse appena un dieci per cento oseranno (e magari meno) confidare soltanto nelle loro “forze spontanee”: la tendenza prevalente è di dubitare delle proprie capacità di reazione contingente alle sollecitazioni dell’ignota prova. Essenziale, in queste operazioni, la mini-scrittura, la trascrizione dei testi in “corpo” minimo: per ridurre lo spazio impegnato e facilitare l’“intanamento” tra pagine di vocabolari, minuscoli taschini, e chissà quali altri rifugi protetti dall’attenzione visiva dei commissari sorveglianti. Non di rado la copiatura minimale si deposita senz’altro sui bordi e altri spazi bianchi delle pagine dei volumoni dizionariali.

Lezione a Didia. Che fatica pronunciare quelle vesciche gonfie di vento che rispondono alla poltiglia lessicale spiritualistica. Didia replica bene ai miei sforzi didattici: quando si lavora così, la fatica, insaporita di soddisfazione, si fa lieve. Lei, poi, m’intenerisce col suo sottofondo di “implicitezze sognanti”. Mi dispiace per lei, aber mein Herz è troppo intento a curarsi seine grosse Wunde targata Susy-weite.
Forse dovrei condire l’eroica confessione con un pizzico di ovvietà riducente? Dire, per esempio, che fra noi manca la Anziehungskraft, quella tale koerperliche Stimme che rode le resistenze distanzianti. Chiaro, quaderno? E se no, studia un po’ il tedesco. E anche tu, lettore del tremiladieci.
O fortunato cognato Beppe, tutto moglie figlia famiglia e lavoro. Spiegami come fai ad essere così appagato, compiuto, felice. A dire il vero, è un dono di famiglia: tutta la nidiata della numerosa figliolanza è a vocazione unica: una sola donna, un solo uomo. S’intende, consacrato /a dal rito legittimante. Un solo fratello sembra sfuggire al destino monodico: ma perché non mostra segni di volersi sposare. Non una sola donna, insomma, ma nessuna. Mistero. Nessuna traccia di anomalia sessuale deviante. Unica anomalia è questa paura della donna.

15 novembre,
ore 6, 30

Ho appena fatto un altro brutto sogno: una tigre minacciava mio figlio e me. Ci trovavamo in un posto vagamente a rischio, ma irreale: una boscaglia simile a quella percorsa dal bimbo in compagnia di mio cognato quando ci troviamo nella Sicania, ma rinselvatichita fino all’originario arruffio impraticabile. Quella reale non presenta nessun pericolo, non pericoli grossi, voglio dire (al più, qualche vipera, dalla quale è facile guardarsi avanzando rumorosamente tra cespugli e zone nude), quella del sogno si mutava durante gli spostamenti in una specie di giungla indiana. La tigre compare all’improvviso ringhiando. Si percepisce che non dovrebbe trovarsi lì, a poca distanza da noi, che deve essere fuggita da qualche circo equestre, o da uno, ancora più improbabile, zoo cittadino, e l’ambiente si muta anch’esso in una periferia urbana deserta. Ma come siamo capitati qui?, mi chiedevo, e mentre tenevo il bambino dietro di me tentavo di sfuggire al controllo visivo della bestia. Ma questa a un certo punto ci puntò e si mosse, dapprima incerta, poi decisamente, verso di noi. E lo spavento mi svegliò. Ero sudato e tachicardico, ma presto prevalse il sollievo di constatare che ero nel nostro letto e in nessuna boscaglia ibrida tra giungla indiana a periferia suburbana. Mi ci è voluto un bel po’ di secondi per ristabilire il normale ritmo cardiaco e respiratorio. Ora, mentre ne scrivo, la spontanea associazione di idee mi lega il sogno-incubo al più gradito e costoso regalo fatto da Susy a Gianpiero: la bella tigre giapponese meccanica che si muove (si torce e cammina) e ruggisce. Selvaggiamente bella nella sua dinamica somiglianza colorata al modello.
Ecco qua: ancora una volta, una realtà buona si trasmuta nel suo contrario. Ancora una volta il vecchio emblema di tutte le mitologie antropologiche – la madre benigna che si muta in mostro cannibale divoratrice dei figli – si ripropone nelle difficoltà delle esistenze normali. Smorzato, diminuito, ma ritorna: a ricordarci la fragilità temporale delle buone cose e la facile metamorfosi nel loro opposto. La bella tigre, orgoglio del piccolo, mi invade il sonno e mi diventa incubo. E lei, la bellissima amata assaggiata percorsa e non trafitta, continua a dominare la mia vita fino nei sogni. Oh quaderno, nasconditi bene e confondi l’indiscreto, se mai occhio innocente (cara Rina, non frugare tra le mie carte) dovesse capitarti addosso per mutarti in fuoco distruttore o cannibale divoratore (di residua pace domestica, di fiducia nella pura amicizia fra me e Susy) 1.

*
She’s looking at the blue Mediterranean see...He’is sitting at that rond table... he’s drinking a glass of bear...
Lezione di lingua inglese a cura di Arthur Powell. Piace all’orecchio la musicale ’intonation di questo teacher.
What is he doing?... Can you see what she is doing?... Whom can you see in the third picture?... She is looking out of the window...

Anche lei guardava fuori della finestra. Ai bei tempi. Oh come lontani, ormai, nella rimemorante percezione dolorosa. E qualche volta qualcuno, dalla strada, dovette vederci embraced and kissing each other. Quasi certamente, almeno una volta, i padroni di casa completi di giovane figlia, rientranti sull’imbrunire, e cogliendo un calo di vigilanza da parte nostra. Ahimé, i peccati d’impazienza! E le trappole implicite negli amori furtivi.
Esercizi di lingua applicata: Does She love me, now? I thing no, my poor blessed heart. Why does she forget you, my dear? I don’t know, my sweet. We are alone, my heart. But then, take heart, my little heart! And throw away this butt!

18 novembre,
ore 7
Giornale radio. Di nuovo maltempo. Stiamo ancora contando e scontando gli immensi danni del 4 novembre e già si prepara un altro disastro? Centinaia di famiglie sono state costrette ad evacuare case e paesi, e la prima valutazione dei guasti prodotti finora cresce di giorno in giorno (per non contare i morti). Decisamente, madre Natura matrigna vuole tenerci sveglia la memoria sulla cruda realtà della sua assoluta indifferenza per la sorte degli umani e dei viventi in genere. Per fortuna c’è la provvidenza che cotanto assetta. Ma non fare domande indiscrete a quella parte (quanto maggioritaria!) di viventi ponzanti e credenti (che beffardi ossimori genera la Madre Matrigna) sulla quotidiana strage di innocenti falciati da fame malattie guerre locali e flagelli di pura natura (o di natura provocata dal bipede sapiens al quadrato, suo capolavoro avvelenatore di ambienti). Chi crede non ha risposte per questo scandalo. O meglio, porge come risposta la non-risposta del rifugio nel mistero dei disegni divini. Grande mistero, abisso insondabile. Quasi quanto la coriacea riluttanza umana alle evidenze sgradevoli, quanto la stupidità infiammata dalla paura originaria. O vogliamo dire, più correttamente e pedestremente, impiantata nella tenera polpa neuronica dell’infanzia indifesa?
Non è a dire, però, che formidabili ponzatori della super-religione non siano stati attenti ai grovigli insolubili della fede alle prese con le stragi indiscriminate: ma la loro “soluzione” è uno stomachevole abisso di crudeltà accecata. Penso (sorvolando su Tertulliano e altri buontemponi sadici) al monumento insuperato della fecondità filosofica che risponde al nome di Agostino, vescovo di Ippona, e santo, nonché impareggiabile sofista radicale: questo sant’uomo spiega quei grovigli con la non-spiegazione dell’umanità degradata a pura “massa damnationis”, dalla quale Dio estrarrebbe alla salvezza, per suoi misteriosi disegni, solo piccole quantità di battezzati. Evviva la faccia.
*
Via, svaghiamoci con le frivolezze. Ha vinto il titolo di miss Mondo un’indiana (guadagnerà cinquanta milioni di lire). Seconda classificata, una jugoslava. Soltanto quinta l’italiana. Graziosa mescolanza di notizie. Che ci riporta al vecchio assurdo, appena accantonato.
Giornate soffocanti. Mi sono seppellito nel genere di lavoro che ho sempre detestato: lezioni private. Ne ho sempre fatte poche, e solo se proprio non potevo evitarle (per amicizia, obblighi di riconoscenza, parenti..). Ecco la giornata di ieri. Tre buone ore a scuola, piene di spiegazioni. Appena tornato a casa, un’ora e mezza per le ex alunne Bobio e Scucito. Presento il nuovo tema e spiego le correzioni al tema di ieri. Dieci minuti dopo aver finito con le due ragazze arriva Giorgio. Stasera, fisica e... chimica. Un’ora e tre quarti con lui e dieci minuti dopo ricomincio con Didia. Che è un buon transito: dallo stress multiplo al quasi relax. Ma la stanchezza accumulata è tale che non avverto quasi il passaggio dal punitivo al positivo. Con lei finisco alle sette. Dopo un paio di circostanziali ciarle, io e Rina l’accompagniamo in macchina alla stazione, dove prende il treno locale che la riporta al paese non proprio vicino. Lasciata Didia in partenza dalla stazione, proseguiamo per Siderato: la solita passeggiata serale, tra percorso a motore e deambulazione sul lungomare sideratese.
La nota distintiva di queste passeggiate serali con Rina e il piccolo (quando il piccolo non sta con il fratello di lei) è stata, per tutto il periodo dei ritardi susanneschi, il parlare dell’Assente e famiglia. Da qualche giorno la continuità ripetitiva si viene sgretolando, ma resiste ancora in un suo nucleo coriaceo. Anche se non occupa più tutto il tempo della passeggiata.
Ritorniamo a casa dopo un’ora o poco più, si cena, si sta un po’ col bambino (e anche col cognato, se viene, magari a riportarci Gianpiero quando è stato con lui) e infine concludo la giornata davanti al televisore. Stanchissimo. E di malumore. Così malo da non poter gustare certa comicità pur non spregevole.

20 novembre,
ore 23

Non migliora l’umore, né la nuova sistemazione scolastica aiuta il miglioramento. Ti ho già detto, quaderno, che quest’anno ho un corso maschile? Forse no, non ricordo. Anche la voglia di sostare sulle tue pagine sfinisce di logorio sterile: dove sono le novità incisive dei mesi scorsi? Quelle che mi incollavano alla sedia fino a notte, chino su questo tavolo illuminato dalla baggiù (come dice Giampiero). Ma della nuova sistemazione bisogna darti conto poiché non deraglia dal corso principale delle cose. Anzi, ne fa parte integrante. E palpita di motivazioni graffianti. Insomma, si tratta di una misura precauzionale adottata dal nuovo preside a difesa dell’istituto contro le chiacchiere di paese. La dignità della Scuola lo ha costretto a questo necessario passo, dice, e non c’è da recriminare. Lui, per carità, non crede a quelle pettegole ciarle calunniose, ma è pur sempre esposto alle pressioni della pubblica opinione. La quale potrebbe intervenire al Provveditorato per indurlo, comunque, a “ provvedere”: e non è che quella tale Opinione manchi di pezzi grossi degni di ascolto presso le sacre orecchie del numero Uno al palazzo del Regiumiuli. Me ne faccia una ragione, al dunque di tutti i dunque, e non me la prenda col capo-istituto incolpevole. O colpevole, se preferisco, ma soltanto di fare il proprio dovere. Doloroso dovere, se fa soffrire un valoroso collega come il sottoscritto, ma pur dovere. Dovrei rileggermi il De officiis?
Il sottoscritto è stato comprensivo col nuovo preside Cappelli, già suo valido collega di lettere classiche nello stesso istituto. Si è sorpreso, il sottoscritto, soltanto delle troppe spiegazioni, dell’eccesso di verbalità: lo aveva creduto uomo di più sobrie esternazioni. Ma se l’aspettava questa rimozione. Era la punizione minima che potesse sgorgare da quel trambusto di curiosità paesane ciarliere, da quella malsana fame di pimenti piccanti al quotidiano pasto troppo ripetitivo e poco afrodisiaco. Malsana, poi, perché? Naturalia non sunt turpia, recita il proverbio dei padri: e che cosa di più naturale che la curiosità piccata, specie presso l’elemento femminile della molto reattiva popolazione zefiriana?
E punizione sia. Ma se posso fingere rassegnata indifferenza all’esterno, non lo posso certo fare tra noi due, vero quaderno alter ego? Confessiamo, dunque, che punge, e di brutto, la traslazione punitiva da uno dei tanti corsi femminili all’unico corso maschile dell’istituto. Un mutamento troppo eloquente per tutti gli osservatori, interni ed esterni. Perciò rognoso per la mia pelle.
Intendiamoci: non è che io abbia nostalgia delle classi femminili, dopo quanto è successo. Anzi, sono sicuro (e già da questi primi mesi di lezioni lo vedo) che avrò più soddisfazione nella mia attività didattico-pedagogica: i maschi sono più disponibili alle riflessioni filosofiche, meno impermeabili alle loro inevitabili astrattezze settoriali. Insomma, avrò più gratificazione professionale dal cambiamento, e sarà una piccola consolazione. Ma non più di questo: il fuoco sottostante è lava ingrottata. Non si spegne in tempi brevi.
Mi si risveglia un ricordo sicanico: la lava ancora fumante, dopo anni, attraverso fessure della sua fredda crosta ingrottante, in una delle mille eruzioni del maggiore vulcano d’Europa. Che folle, ad ogni eruzione spettacolare (cioè, quasi sempre quando il vulcano si sveglia). E io che m’ero ripromesso di invitare Susy (con qualche inevitabile familiare, sia pure. Magari la sorella Tina) a uno di quegli incomparabili show della mia montagna sempre fumante! E così spesso sbavante, con la sua bava speciale: oltre i mille gradi. Mi capita di pensare: quanto si soffrirebbe a buttarsi (da un poggio vicino, per esempio) sopra una luccicante colata in piena corsa? Pochi, pochissimi secondi, ritengo. Tenere presente come eventuale via di fuga dall’horror vitae?

22 novembre,
tarda sera

Giornata routinaria. Sfogliando libri in corso di centellinante lettura multiplia, mi capita di trovare appunti in più trapassabile maschera intorno alla scheggia nella carne così poco kierkegaardiana, scritti a matita su fogli bianchi dei volumi. Quello incontrato oggi sta tra le pagine della signora Parca che confessa le italiane. Appunta agli spilli di poche puntute parole uno degli incontri frondosi delle serate pedagogiche pro-esami. Che risveglio di presenzialità corporale visiva e olfattiva gronda da quegli spilli calepinici!
Eheu, Postume, Postume, fugaces labuntur anni! Dicembre (stando alle previsioni-promesse della sorella Rosina) dovrebbe restituirci la scheggia fatta carne. Sghignazza il folletto cattivo: campa cavallo!
Fuori dalle fantasticherie rimemoranti? Qualche ora di gioia paterna con l’innocenza, qualche altra di contrito assenso alla partner legale del mio asset domestico, un’ora e mezza di rilassante lettura fra giornale e libro parco. E altre banalità fisiologiche.
E la voglia di drogare queste pagine smunte con trasferimenti di brani piccanti dal libro marmorico, “Le vergini funeste”. Apro a caso.
“L’egoismo della Hyacinthe di “Là-bas” circola entro i limiti clitoridei. Al primo incontro con Durtal, egli l’afferra, la bacia furiosamente: ‘...ma gemiti dolcissimi, con una sorta di suono gutturale, come tubasse, lei rovesciò il capo e incollò una gamba tra quelle dell’uomo. Egli lanciò un grido di rabbia – perché sentiva muover le sue anche – . Questa volta capiva o credeva di capire! Lei voleva una voluttà di avara, una specie di peccato solitario, di gioia muta’ Nel secondo incontro” Hyacinthe si ripete, con qualche variante: “Egli strinse tra lebraccia una morta, un corpo tanto freddo da ghiacciare il suo; ma le labbra della donna ardevano e gli mangiavano silenzionamente la faccia. Egli rimase intontito, stretto da quel corpo avvolto al suo, duro ma elastico come una liana. Non poteva muoversi, né parlare: dei baci gli percorrevano il volto...’” Commento “marmoreo”: “Lei l’ha dunque sessualmente vanificato e a Durtal non resta che svolgere una funzione di officiante sul corpo avaro della compagna, quel che appunto Hyacinthe desiderava” E così “insonorizzava”: “Con voce mutata, più guturale e bassa, profferiva ignobili parole o grida bstiali”. Ultima risonanza “marmorea”: “(Di nuovo il tic cattolico dell’eros associato alla caduta e, di qui, alla bestemmia o provocazione)”.
Ed eccoti qua, pronta al minimo stuzzichìo, Susy fantasma, invadente ospite e pretenzioso giudice. Vuoi che ti confronti al monstrum? Che rinnovelli la vergogna del mio non possum? Ebbene, sì, lo so: tu con Hyacinthe non c’entri nulla. Tu bramavi l’incastro tra le mie sporgenze e le tue rientranze, come anatomia consente e fisiologia comanda. Il mobile stantuffante lubrificato incastro effusivo di sincroni sussulti e finali débordements. E la mia renitenza a tanta leva elevava (degradava?) me al ruolo di monstrum. Eheu. Ma non posso nemmeno rimpiangere il non fatto e dirmi pentito della Grande Rinuncia. E poi, insomma, i tuoi sgorghi paradisiaci li avevi tutti, altro che “tic cattolico” ed “eros associato alla caduta”!


24 novembre,
sera media

Che balzo di cuore stamane sul lungomare: Susanna! possibile? Di spalle, ma il corpo serpentino (ah, Tucano salace, si direbbe che tu mi abbia portato sfortuna), le movenze, la statura: lei, non c’è dubbio. Che farò? Problema risolto anche troppo presto, domanda intempestiva. Che fare, se non è lei, ma una mezza sosia-di-spalle! Che somiglianza, però, in quelle condizioni di distanza spaziale, esposizione corporale, cinematica deambulatoria. E ora solare non lontana dal mezzodì. Perfino la compagna di passeggio mi ricordava una sua amica di scuola. Insomma, scherzi del desiderio trafitto e delle coincidenze beffarde.
Sic transit gloria mundi.
Et altro non ci appulcro. Anzi, sì, un altro pezzo di “Vergini funeste”, associandolo alla mia prurigine vendicativa. Barbara van Mierres, eroina del romanzo di Lorrain, “Monsieur de Phocas”, coltiva “fisime” estreme che rientrano “nella casistica dell’onanismo, ma componenti sado-esibizionistiche e un compleso di superiorità razziale rendono più intricato il suo caso.” Fino allo sbocco tragico. Ecco cosa fa Barbara: “ogni mattina... faceva il bagno in presenza di un etiope monumentale. Non solo il negro doveva assistere alle abluzioni, ma aiutarla a scavalcare la vasca, finito il bagno, asciugarla con un accappatoio tessuto di piume di cigno, calzarla, riallacciarle il corsetto, riannodarle il pantalon”. Non temeva un’aggressione? Certamente! Ma pensava di mettersi al sicuro costringendo il gigante a “indossare per la cerimonia un paio di mutande di cuoio, il caleçon du martyre”. Precauzione vana: “Ma la cintura di castità o continenza non impedì la catastrofe: Barbara, un giorno, venne rinvenuta strangolata nella vasca, il collo inciso da una enorme ferita, il seno divorato dal selvaggio e ancora sanguinante” E così siamo giunti all’antropofagia sessuale.
Che dio ti preservi da simili truculenze, Susy. Dovessi, io, soffrire mille volte di più. Di fronte a simili “eroine” tu sei una colomba di pace. O una casta Susanna, degna di un corretto ménage, con tanto di veli bianchi e luci e suoni di chiesa.
Molti anni fa, potevo avere 19 o 20 anni, mi capitò di leggere “Il giardino dei supplizi”, di Ottavio Mirbeau, e ne rimasi sconvolto, segnato per il resto dei miei anni: mi era stata rivelata l’estrema eccedenza della crudeltà umana e l’inesauribilità della sua infernale fantasia. Ora, nel libro di Marmori trovo riportato l’episodio più singolare, il “supplizio della carezza”. “Miss Clara racconta come lei e l’amica Annie assisterono alla morte del matricida” condannato, appunto, a quel singolare supplizio. “Il pazzo – e non pareva pazzo – era disteso su una tavola bassa, le membra e il corpo legati con solide funi... la bocca imbavagliata... in modo che non potesse né muoversi né urlare... Una donna dal volto grave, non bella, non giovane, tutta vestita di nero, con un largo anello d’oro al braccio nudo, venne a inginocchiarsi accanto al pazzo...Impugnò la sua verga...ed officiò [...] Quattro ore di abili, spaventevoli carezze, e la mano della donna che mai rallentava, e il suo volto sempre freddo, cupo!...Il paziente spirò...un getto di sangue schizzò sulla faccia dell’aguzzina...”.
A parte la scarsa verosimiglianza se non altro dei tempi (quattro ore initerrotte!) e della fatica (che resistenza la “carezzatrice”: “la mano della donna che mai rallentava...”), il commento di Marmori è piccato sia contro il voyerismo sadico e la scoptofilia delle due amiche, sia contro la voghe dell’orientalismo erotico: “Sadismo truce e puerile, scoria di indiscrezioni adolescenziali sugli arcani comportamenti sessuali dell’Oriente. Come non bastasse questa carica di fumosa truculenza, complicata dalla scoptofilia delle amiche presenti al supplizio, Miss Clara aggiunge: ‘Questa donna aveva a un dito un grosso rubino che, durante il supplizio, andava e veniva nella luce del sole come una fiammetta rossa e danzante...Annie lo comprò... Non so dove sia andato a finire...Mi piacerebbe averlo’”.

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