giovedì 7 maggio 2009

Susanna, frammento 27


14 aprile

Continua l’irritazione.
Quando un vuoto è mal riempito, sarebbe meglio che restasse vuoto. Questo mi sussurra l’uccellino della sera, sul far del crepuscolo. Tutta la famiglia  padrone, servi, armenti… si raccoglie intorno alla mensa, ma il banchetto manca. Non è atroce? Tibi an tibi? Ibis et redibis…Ah, questa impossibilità di scaricare umori e malumori su queste pagine vanamente invitanti.
Cripta, cripta, fra vent’anni non capirai niente nemmeno tu, se non vagamente, o memorialista dei miei capperi.

15 aprile

E come il commestibile si porta alla bocca, così l’amore suole cominciare col bacio, alle porte del canale digerente. Il Freud poteva meravigliarsi di questo fatto: che c’entra il canale digerente con l’amore? C’entra…perché l’amore è fame. La bocca è una gran tiranna: se non rinunzia all’aria, destinata ai polmoni, perché dovrebbe rinunziare a quanto è destinato agli organi riproduttivi? […] Come i cibi sono resi saporiti dall’appetito, così i baci (e persino, talvolta, le secrezioni salivari!) sono resi dolci dall’amore: il sapore non è nelle cose ma nella fame. ( G.Gulizza, Erotrofia).
Non ho ancora recensito il nuovo libro di Gulizza: vergogna. Seduzione della tesi: non si prova ogni giorno, quella verità? Certi baci diventano morsi, e lasciano il segno. Vero, polputa Dina vorace, che mi lasciavi le carte geografiche a colori (rosso giallo viola nero…) sul petto? Vero Elisa remota, e mio primo e precoce amore, che mi ricamavi di zone nere le labbra, e talvolta ti svegliavi con le labbra punteggiate del mio nero? Vero…?
*
La giornata. In terza, completata la spiegazione di Spinoza. Gina Strangio non si persuade dell’esclusione spinoziana degli individui dalla dignità della Sostanza: se siamo parti e “momenti” dell’unica Sostanza divina (Deus sive Natura), perché non dovremmo essere sostanze? Lo siamo e non lo siamo, testolina: lo siamo in quanto “momenti” organici della Totalità vivente, in quanto (come, sensantamente, preferisce dire Spinoza) modi della Sostanza unica; non lo siamo in quanto individui distinti. Siamo sostanze in senso subordinato e secondario, non originario e primario. In senso improprio, potremmo anche dire. In senso proprio, onto-logicamente rigoroso, il termine sostanza spetta solo alla Natura nel suo insieme, a quel Tutto che il filosofo chiama anche Dio.
Non riesco a persuaderla: ci vuole sostanze ad ogni costo. Forse come semplice modo si sente menomata. Mi segue in seconda e continua il suo martellamento di domande. Provo con una comparatio di grana grossa, ma, spero, non balorda. Il tuo naso o il tuo braccio sono realtà corporali, fanno parte del tuo corpo, ma non sono “corpi”, cioè entità distinte che meritino, autonomamente, il nome di corpo. Aristotele diceva che un braccio tagliato non è più un braccio: staccato dal corpo, cioè dalla totalità vivente di cui è parte strutturale e funzionale, perde la sua dignità di componente, di parte integrata e integrante. Perché? Per il semplice fatto che perde la sua funzionalità, senza la quale degrada a frammento di materia inerte. Così gli enti individuali, piante o pietre, animali e uomini (o quant’altre “creature” dovessero rivelarsi in un futuro imprecisabile), sono componenti integrati nel Tutto, e integranti il Tutto: come tali,
sono sostanza; ma nell’ordinaria, quotidiana considerazione distintiva delle individualità, sono soltanto modi (della Sostanza). Uffa.
Gina passa ad altro scottante problema: il dilemma tra “libertà” e “necessità”. Già non credo di averla persuasa del tutto sul rapporto sostanza-modi: come farei a convincerla della conciliabilità tra libertà e necessità? Un problemino da nulla, vecchio e glorioso di venticinque secoli, e passa, eppure ancora vivo e vegeto. Siamo liberi, dice Spinoza, se riusciamo a raggiungere il secondo grado della conoscenza possibile, cioè la “razionale”. Ma siamo liberi, guarda un po’, nel senso che riconosciamo la necessità della rete relazionale universale: quel che il filosofo qualifica come un vedere le cose sub specie aeternitatis. In altre parole, la libertà consiste nel cogliere la concatenazione causale universale, e dunque il determinismo cosmico: ducunt volentes fata, nolentes trahunt: così il lucido Seneca. Dopo secoli di meditazione, non si è andati più in là. Né al tempo di Spinoza, né nel nostro, tanto più ricco di scienza
filosofia tomi accademici e logorroici bla bla eruditi. Siamo liberi, cara Gina, per modo di dire: liberi di accettare catene che comunque non possiamo evitare. Accettale di buon grado, come inevitabilità relazionali universali, e te ne sentirai liber[rat]o. Se vuoi salire ancora in questa visione teocosmica, devi raggiungere la vetta dalla quale ogni cosa, ente o evento, ti appaia come naturale scaturigine o emanazione del Centro generatore. Il quale è Originaria Unità assoluta, chiusa e compattata nell’ordine geometrico della sostanza-totalità. E’ questo vertice della mente che Spinoza chiama amor intellectualis Dei. Che poi si risolverebbe nell’accettazione serena della realtà universale. Se ricorda l’Uno di Plotino? Certo che sì: ne costituisce un’interpretazione più rigorosa, meno platonizzante. Non priva di un suo fascino razionale. E perfino “clinico”: non sarebbe un buon farmaco contro le insidie dell’ansia, dell’ira,
dello spreco esiziale di adrenalina?
In guaio è che la realtà è così poco attraente, con il suo carico di straripante sofferenza, da legittimare forti dubbi sulla possibilità di un siffatto fatalismo para-sorridente. Ma una filosofia è una corazza contro quella Realtà, appunto, un sistema di difesa dalle forze cieche che giostrano con la nostra carne e il nostro “spirito”. Il sistema di Spinoza, geniale e ammirevole, anche nella sua pretesa infondata di essere estremo distillato di razionalità pura, è l’apparato difensivo del timido. Ma l’interpretazione non è mia, è di Federico Nietzsche, un filosofo, cara Gina, che studierete, voi di terza, l’anno prossimo. Alla quale valutazione (a sua volta, geniale) aggiungerei la postilla di un fatto: quel timido era stato capace di rischiare la vita per difendere la memoria del suo amico, il governatore De Witt, linciato da una folla regredita alla bestia originaria, nostra comune origine. E seppe “accettare” l’anatema
della sua comunità: una cosa sinistramente mostruosa. Ma su questo particolare vi intratterrò altra volta, in classe.
Ora fermo anche il resoconto, che mi ha preso la mano, ma che richiederebbe l’intero quaderno per essere esauriente.
*
E guarda caso, proprio oggi ho spiegato Nietzsche in quarta. Un’occasione per riprendere in mano lo Zarathustra. Cogliamo il Profeta in un momento di panico idillio.
“Mezzogiorno. Ma a mezzodì, quando il sole si trovava proprio sopra il suo capo, passò dinanzi ad un vecchio albero curvo e nodoso, così amorosamente avvinghiato da una vite che non se ne scorgeva il tronco: pendevano tutto intorno, offrendosi copiosi al viandante, grappoli dorati e […] disteso al suolo, nel silenzio e nel mistero dell’erba multicolore… i suoi occhi restavano aperti: non si saziavano di guardare ammirati l’albero e l’amore del ceppo di vite… Silenzio! silenzio! Non è forse perfetto il mondo in questo momento?…Essa s’allunga, si distende sempre più; giace tranquilla la mia anima strana. Troppe cose buone ha gustato… Come una nave che è entrata nella sua baia più tranquilla: s’addossa ora alla terra, stanca del viaggio lungo e del mare incerto. Non è più fida la terra? …Come questa stanca nave nella più tranquilla delle baie: così ora riposo anch’io vicino alla terra, fedele, fidente, in attesa, avvinto a lei con invisibili fili. / Oh felicità! Felicità! Vuoi forse cantare, anima mia? Tu giaci nell’erba. Ma è questa l’ora segreta e solenne, in cui nessun pastore suona il flauto. Non cantare, uccellino tra le erbe, anima mia! Non bisbigliare! Non vedi! Ssst! Dorme il vecchio meriggio, e muove la bocca: non beve forse in questo istante una goccia di felicità, – una vecchia goccia densa d’aurea felicità, di vino dorato? Scivola qualcosa sopra di lui, ride la sua felicità. Così ride un Dio. Silenzio!… Appunto del minimo, del più lieve, del più silenzioso, del fruscìo d’una lucertola, d’un soffio, d’un guizzo, d’un batter d’occhi è formata la migliore felicità. Silenzio!…Come? non è forse perfetto in questo istante il mondo? Rotondo e maturo? Oh, l’aureo cerchio rotondo…Oh, la bella palla d’oro e rotonda…”
(F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, tr. Mursia)
*
Oh dolci frutti di Afrodite! Plastica docilità di rotondi pensieri pe[n]sati nella densa polpa dell’attualità premente, frugante, parlante, del pensiero assorto nella ghiotta sostanza del mondo imperfetto. Sostanza di chimiche dolcezze secretive, di danzanti sussulti espulsivi, apice della conclusività strozzata, del mutilo compimento trascendentale. “Gli esseri esistono perché noi li pensiamo” – ripete il poeta dietro il filosofo. Mistiche ebbrezze da questo Pensiero. Novalis: l’anima scende giù per i gradini sanguigni degli organi corporei. Gentile: l’Atto unificante, la comunicazione che identifica, misticamente, i due sono uno: una caro. L’ebbrezza della voluttà. Ma ecco rifar capolino la paura che inquina, il suo veleno puntuale. Brividi di Angst quasi heideggeriana. Sein zum Tode? Sein zum Liebe, piuttosto. E che il sole al meriggio gonfi i cordoni. Ma c’è poi davvero un sapore di morte. Essere per la morte, essere per
l’amore: Amore e Morte, antico binomio biomistico. E via col bla bla bla culto e saporito.
L’idealismo: un afrodisiaco per le verità del corpo. Ah, le belle sfere d’oro, le sode eminenze plastiche nel cavo vibrante delle trepide mani delicatamente adoranti! D’oro? Ma c’è una sostanza più bella, più nobile, più fragile e preziosa. Una caro. O emisferi del mondo, mistura dorata. Quali emisferi più tangibili, più chirotattili e sicuri del consenso solare? Contaminazione exciting, appetitlich: pensieri e corpi, il mistero del Mondo e il mistero del Bosco. E le umide vie oscure dell’estasi breve. Simboli. Tutto il mondo è simbolo. Dice Novalis: il Mondo è una metafora universale, un sistema di simboli del nostro spirito. Sia dunque benedetto il nostro spirito nei suoi simboli più immediati: che tentano incastri, che parlano saliva, dolce al remoto segreto dell’eros, che mordono la mela di Eva.
Ma io sono “vecchio”. Un vecchio meriggio stanco. Se ne accorgono. Me ne accorgo. I pensieri, infatti, mi escono faticosi, ogni più piccolo afflusso mi stanca. Errori di alimentazione, probabilmente. Peccati contro lo spirito santo, direbbe don Federico, facondo Padre di uno Zarathustra rifatto. Trascurare il corpo, ignorarne la fisiologia, nutrirlo di pensieri e parole: quale delitto! Le colpe della cultura tedesca, in proposito, sono imperdonabili – accusa, incalzante, l’autore di Ecce Homo. Non lo sono meno quelle di chi quell’idealismo, ha seguito, digerito, assimilato e diffuso. Come un’epidemia devastante.
Con invisibili fili. Con dita tremanti. Trentaquattro anni. Quasi nel mezzo del cammin di nostra vita. La mia selva oscura, meine liebe, du bist: è la tua disponibilità inaccettabile come “totalità”, la tua offerente generosità delusa. Rina ne ha ventisette. Ruit hora. Quanti secoli sono che ne avevo ventidue, ventiquattro? O quanti giorni, ore? Quanti minuti e secondi sono passati da quando ne segnavo ventisei, ventisette, ventotto? Leggi, leggi la bella pagina nietzschiana: vi è la nostra felicità bucherellata, anima mia; vi è il nostro crepuscolo avido di sole meridiano, di fruscii di lucertole, di gocce di rugiada su foglie fresche nel mattino verde e lustrale. Dolce campagna in dolcissima compagnia: binomio perfetto. Un sogno mite, arduo. Quanto la vetta del monte inaccesso.
Non protestare, è solo il buon delirium pausarum.

Inde, serale lezione privata di italiano a Susanna. Naturalmente, le divagazioni che precedono intersecano questo piccolo evento blindato fra discrete pareti. Rileggo. Uhm! L’ermetismo mimetico risulta tanto poco penetrabile quanto crivellato di brecce traditrici. Ma è l’autore a poter giudicare? Un eventuale lettore estraneo ai misteri di tanta sacralità, cosa capirebbe e non capirebbe? Se di occhio acuto, bucherebbe senza soverchie difficoltà la buccia distraente; se tardo e miope stenterebbe a raggiungere il midollo segreto attraverso la delicata scorza filosofico-letteraria. Ma credo che nessuno prenderebbe alla lettera variazioni casual che suonerebbero puri sproloqui, se presi, appunto, alla lettera (ma quale lettera, poi?). E che tentazione di togliere la buccia, di mostrare la polpa. Ma il Nemico incombe, il faut se fermer. E perché queste considerazioni? Quasi ci fosse la più remota possibilità che questi appunti rapsodici potessero distendersi in racconto presentabile all’esterno.

*

E dàgli. Anzi, ri-dàgli. Avanti, un gesto di sincerità puntuta, siamo fra noi: tu scrivi pensando a una possibile traslazione letteraria, proiettandoti su un futuro editoriale. Che però sai problematico. Molto problematico. Conosci il tuo Dna, il piccolo tiranno d’acciaio. Che non molla grazie e condoni. Sì, conosci tutto questo. Quindi sei sincero quando ostenti dubbi fino a farne certezze negative. Non lo sei quando pretendi insinuare che, per chissà quale improvviso miracolo, tu possa, fin da ora, rinunciare alla speranza. Bella cosa, la speranza, tu ti reciti. Ma solo se coltivata in un fertile terreno. Magari solo un orticello, di buone azioni convergenti, di conferme fattuali dei miti desideri. Il che non sembra presente nella nostra debolezza quotidiana. Ecco una verità meno remota dalla modesta realtà anguillare.

Quanto al panismo nietzschiano, non è lì, sulla pagina, perché ne accetti l’intera implicanza. La spinta polemica contro i calunniatori del corpo, sì; l’ottimismo sospetto, no. Sospetto, peraltro, di amplificazione polemica, per l’appunto: si calca la mano sulla felicità fisica contro le menzogne spiritali. In generale, e globalmente, l’esaltazione del corpo, della natura, della terra, della felicità fisica, questa retorica di camusiane “nozze col mondo” si legittima contro l’idealismo della deprecata “cultura tedesca”. Del resto, a ristabilire una misura, un modus umano e fisiologico, soccorre l’idea della brevità fugace dello scoprirsi felici: un soffio, un guizzo, un batter d’occhi, un frullo d’ali… Felicità e brevità: quasi un’endiadi. Già. Sono i “momenti perfetti” di tanta letteratura (e perfino cinema). Momenti perfetti: cioè, di perfetto egoismo fisiologico, di oblio rimuovente, di abbandono alla “logica” del corpo, ch’è quella del presente sensibile. E circoscritto. Un hic et nunc pieno solo del proprio Leib in stato di fame in via di appagamento. Fosse pure la più vaga e sublimata fame di sensazioni molteplici e di esperienze mentali vicarie: baci invece di amplessi, paesaggi al posto di baci, ricordi a surrogare contatti.


16 aprile

Viens sur mon cœur, âme cruelle et sourde
Tigre adorée, monstre aux aires indolents;
je veuz longtemps plonger mes doigts tremblants
Dans l’épaisseur de ta crinière lourde;
dans tes jupons rempli de ton parfume
Ensevelir ma tête endolorie,
et respirer, comme une fleur flétrie
le doux relent de mon amour défunt

*
Questa parte, a un coktail di ricordi stillati dalla primavera, traverso il filtro spesso degli anni sedimentati. E la seguente, à mon doux present plongé dans le poisson de la peur. Il veleno della paura, quaderno, è il primo nemico di ogni felicità. La Paura merita la maiuscola come regina delle malattie. E non aggiungo, qua, incurabili per pura scaramanzia.

L’oubli puissant habite sur ta bouche
Et le Lethé coule dans tes baisers.
À mon destin, désormais mon délice,
J’obéirai comme un prédestiné;
Martyr docile, innocent condamné,
Dont la ferveur attise le supplice,
Je sucerai, pour noyer ma rancœur,
le népenthés et la bonne ciguë
Aux bouts charmants de cette gorge aiguë (…)
BAUDELAIRE, Le Lethé

*
Sì, ma con un brivido che mi suggerisce superstiziosi scongiuri. Prédestiné, Martyr docile, condamné…: ohibò”. E la mia borghese sistemazione sociale? La mia légalité coniugale? Et mon fils? Vade retro, Tentatore. E rimanga soltanto la vaga suggestione lirica. E sado-maso. Purgatamene sado-maso.
*
Lavoro. Finito e trascritto la recensione a Mala castra, romanzo di Remo Teglia, un medico dalla prosa asciutta, con qualche smagliatura enfatica poco funzionale. Preparato il bustone per Gulizza. Contenuto: l’editio minor della recensione al Papini-Prezzolini, Storia di un’amicizia; la minuta, abbondante e disordinata, per l’eventuale editio maior con destinazione sua rivista; l’abbozzo dell’articolo su Novalis erotrofico, stimolato dalla citazione di Prezzolini, che confronta le idee di Novalis con quelle di Gulizza (e lo “rimprovera” di non citare il Tedesco); le pagine gramsciane di Letteratura e vita nazionale su Papini; e una richiesta di informazioni sul silenzio del comune amico prof. Volpelli.

Lezione di italiano a Susy. Le spiego il Coro del Carmagnola.
Poi tutti insieme, moi, Rina, Giampiero e Susy a Siderato. Tra corso centrale con negozi e lungomare con giochi per il piccolo, aria meno inquinata, spazi più larghi e mare con grande spiaggia sedativa di nervi stanchi.


18 aprile

Leggo Heidegger, il ritorno dell’essere, di Arturo Colombo. Un librone accademico, serioso e convinto, che dovrei recensire per la Gazzetta dello Stretto. Non occorrerà leggerlo tutto per scrivere l’articolo: l’impianto si capisce dalle prime pagine, basta “mangiarne” alcuni capitoli e la conclusione per avere materiale più che sufficiente a una recensione da quotidiano. Intanto mi diletto a trascriverne passi per la consueta contaminatio.

“La verità non è per Heidegger propriamente il manifestarsi, quanto il dis-occultarsi. A-leteia…”. Non il giudizio intellettivo, non il concetto è il criterio della verità, ma l’evidenza, l’autosvelarsi dell’ente. “Heidegger parla di un’autoriprova: vi è un’unica riprova che è lo stesso essere scoperto dell’ente, nel come della sua scopertura…”. Non ti smarrire, quaderno, dentro questo lessico impettito: ente, Dasein, sono modi obliqui di dire uomo; decadente, è detto dell’uomo, perché nato come se fosse gettato nel mondo. Ma “il Dasein, poiché decadente per essenza, per la sua stessa costituzione, è nella non-verità”. Perciò la verità dev’essere “conquistata lottando”, “rapita”. Tanta conquista è il nulla: la verità del Dasein è il nulla. L’essere che si rivela nell’ente è compenetrato di nulla. L’angoscia (Angst) rivela il nulla costitutivo dell’essere dell’ente. Indi, due possibili atteggiamenti dinanzi all’abisso angosciante della nullità strutturale: l’uno “è la fuga dall’abisso e dall’apprensione dell’esistenza autentica, nelle cose e nella struttura comune ed anonima; l’altra è il coraggio che va incontro all’abisso e mistero, e la decisione che lo accetta”.
Io tento di andare incontro all’abisso-mistero. Il mio nulla riscatta la sua gettatezza (ma in tedesco suona meglio: Geworfenheit). E va incontro all’ente nella sua Erschlossenheit (che significa apertura, scoprimento). La sua forza premente, nutrita di pensieri addensati in costrizione di astinenza forzata, s’affaccia al mistero dell’abisso, e tenta di attingere la verità nelle madide profondità effusive. Tenta e rinuncia, bussa, assaggia e retrocede. Intuisce e concettualizza. Intus-it, et intus-legit: ma il conceptus del razionale concipere frena lo slancio, fraziona possessio e degustatio.
L’ontologia della penetratio, infatti, conosce la vischiosità fluida dell’ente invitante, e tiene memoria del madido trascendentale da poco esperito; ma l’Angst ne blocca, ad ogni chance, l’ardire esplorativo e l’intenzionalità existentiell. E allora che cosa può fare un decadente Dasein rosicchiato dal tarlo del Nichts (Nulla), produttore di angoscia disappetente? Si duole, si torce, resiste: avanti, lentissimamente, indietro veloce. Poi sboccia e rincula, sincronicamente sussultante di gozo (piacere spagnolo) e di Furcht (paura tedesca).
Esiti molto egoistici, si sa, e di poco rendimento sul versante esistentivo dell’Altro. Ma tant’è. Si tratta, beninteso, pur sempre di “un nudo esito dell’esistenza”, ma francamente non nel senso tragico del grande Martino, cioè come la morte strutturale che paziente buca di nulla l’essere dell’ente come “essere al mondo” (in-der-Welt-sein). Piuttosto come modesto edoné insidiato e malconcio, e purtuttavia apprezzabile, perfino esaltante, con tanti saluti a sora nostra morte corporale e relativo corteo di fantasie macabre.

18 aprile, seconda parte

Aspettando il pranzo, Rina in cucina.
I conti con Heidegger, il suo linguaggio, il suo stile. Sembra impossibile che tanto funambolismo verbale sia preso così seriosamente sul serio. Che vi si costruiscano sopra carriere accademiche e glorie intellettuali. Che si scambi lo scialo parolaio e verboso per approfondimenti cognitivi e complessità concettuali. Che non si comprenda, salvo sporadici casi di outsiders, la natura tutta linguistica, anzi prevalentemente lessicale e speciosamente formulistica, del genio heideggeriano, e della sua presunta e metafisicissima “antimetafisica”. Il furbo contadino della Foresta Nera sa mettere a frutto la sua scaltrezza informata. La cospicua produzione non fa che coprire di festoni verbali dati psicologici e concetti di ovvia pertinenza fisiologica (e magari psichiatrica): paura, angoscia, noia; libertà necessità contingenza fattualità; possibilità e impossibilità, colpa, evidenza auto-evidenza, eccetera. Il frondoso metaforeggiare esalta concetti e intuizioni, caricandoli di suggestione per adolescenti e adulti bloccati. Essere-per-la morte, essere-al-mondo, essere-per-la-libertà: quante formule suggestive, quanto eroismo a buon mercato, con la storiella dell’esistenza autentica contrapposta alla banale e così via. L’abisso, il mistero, l’essere che si rivela e si nasconde, l’ente che si radica nell’essere, ma scopre il nulla, cioè la propria finitezza (anzi, finitudine, giusta la “correzione” di Abbagnano); l’ente o Dasein, per non dire, banalmente, uomo, per sottolineare che noi ci siamo, senza sapere come e perché, a parte le nozioni inutilizzabili (per tanta aspirazione conoscitiva) della biologia; la gettatezza per non ripetere “contingenza”, l’apertura per non abbassarsi a dire “evidenza”, l’aleteia per non ripetere auto-evidenza parziale. E così via.
Come accennavo, non si vuole negare certo fascino a questa scaltrezza nobilitata dall’erudizione, ma, appunto, a una certa età bisognerebbe cominciare a resisterle e sottoporla a vivisezione musiliana (ah, monsieur le vivisecteur!). O magari, a traduzione trofologica. Ci provo? Che altro mi resta, se la luce m’è preclusa in questa temperie tremante di soffusa Angst? Ma tradurre Heidegger vuol dire capovolgerlo. Anche salvarlo, certo. Insomma, salvarne, l’anima di verità fisiologica. L’angoscia prodotta dalla verità come dis-occultamento è quella del corpo, che “indietreggia davanti all’annientamento”  come insegna l’altro mio fratello maggiore (tradito), Albert Camus. La paura di essere divorato: da altri corpi finiti e corposi, o dal corpo cosmico del gran padre divoratore, Saturno, l’invisibile onnipresente. In qualche modo, è anche la struttura bulimica del sedicente re della creazione, questo distruttore insaziabile e predatore gabbato, a rivelarsi nell’angoscia: nato al “pasto inesauribile” intravisto e favoleggiato dalle “culture tradizionali”, l’inesausto produttore di dèi soffre di non essere, lui, l’inventore prolifico, un dio. Una fame eterna, un banchetto trimalcionico senza fine. Dà l’angoscia, come no, sentire Crono che lima la nostra durata con i suoi denti di “nulla” più taglienti di ogni ente ed essente. Perché tutto finisce? Perché deve finire, cioè, il mio ininterrotto trangugiare sorbire succhiare, mordere, masticare, coire, digerire, assimilare, costruire nuovi assetti, riciclare ? Perché così presto?
Versione camusiana della coscienza esistenziale, la rivelazione dell’assurdo. Si vive nel tempo e nella distrazione degli impegni quotidiani protesi al futuro, ma un bel giorno qualcosa sveglia la coscienza, e un lampo illumina sinistramente il futuro.
[…] tutto comincia con la coscienza e nulla ha valore se non per mezzo di questa […] la semplice inquietudine, come dice Heidegger, è all’origine di tutto […] per tutti i giorni di una vita senza splendore siamo portati dal tempo; ma viene sempre il momento in cui dobbiamo portarlo. Di solito, viviamo facendo assegnamento sull’avvenire: ‘domani’, ‘più tardi’, ‘quando avrai una posizione’, ‘con l’età comprenderai’. Queste incoerenze sono straordinarie, dato che, alla fine dei conti, si tratta di morire. Contuttociò, giunge il giorno in cui l’uomo si accorge o dice di avere trent’anni, affermando così, la propria giovinezza. Ma, nello stesso momento, egli si pone in rapporto con il tempo, vi prende posto, riconosce che si trova a un certo punto di una curva, che confessa di dover percorrere. Egli appartiene al tempo e, dall’orrore che lo afferra, lo riconosce come il suo peggior nemico. Il domani: egli desiderava il
domani, quando tutto il suo essere avrebbe dovuto ribellarvisi. Questa rivolta della carne è l’assurdo ( Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 1962, pp.38-39)

La perlustrazione camusiana delle sensazioni-rivelazione dell’assurdo continua indicando l’estraneità del mondo, scopribile anche nel cuore della bellezza ambientale: “L’ostilità primitiva del mondo risale verso di noi attraverso i millenni. Per un secondo non lo comprendiamo più”. Spogliato degli abbellimenti soggettivi, “il mondo ci sfugge, poiché ritorna se stesso […] questa densità e questa stranezza del mondo costituiscono l’assurdo”. E via con le altre rivelazioni, come gli aspetti meccanici del muoversi umano, e la “degradazione dell’immagine di ciò che siamo”.

Possiamo tentare un approfondimento? Altro filone di sofferenza che può sfumare in vaga angoscia è l’impossibilità di “concludere” il pasto erotico, di chiuderlo con l’ingurgitazione risolutiva: una caro, sì, ma alla lettera. Sarò tuo, sarò tua, sarai mia, sarai mio: che ironica ignoranza in frasette così impegnative! Ignoranza culturale, ché, nella “notte dove tutte le vacche sono nere”, le distinzioni evolutive, gli esiti complessi della lunghissima pazienza filogenetica scompaiono, tendono a risolversi in dissolvenze anticulturali, immerse nel brodo primordiale del primo esperimento riuscito della maledizione biologica: lo scatto metabolico. Desiderare, concupire, volere una donna, nella sua radicalità originaria, non può significare altro: mangiarla (sì, sto testando in corpore vili la Weltanschauung – lui storce il muso a questi paroloni – gulizzana). Cominciando, sì, con la degustazione specializzata, l’assorbimento misurato ed esaltante dei “sensi esterni” (vista olfatto udito tatto gusto), del senso termico e del sensorio libidico, per finire, transitando per la porta del tatto pressivo, con l’orco perentorio del divoramento unificante, dell’unione mistica, la sola possibile, la sola veramente adombrata nelle intuizioni frastornate delle mitologie e dei riti sacri. L’unione delle anime non è che unione e fusione di corpi. L’estasi erotica, il paradiso in terra della perfetta letizia, è la coincidenza breve di due orgasmi sincroni, dove il dare e il ricevere fanno orizzontale la bilancia del vivere–mangiare. Questa analisi cannibalica si legge in esplicito nei testi del prof. Gulizza e del suo amico e predecessore Giulio Cognato. Accettarla in toto? Esito. Ma sento una base di plausibilità nella sua flessibilità ermeneutica: quanti fatti e misfatti si capiscono meglio alla sua rossa luce efestia!

Capovolgo Heidegger? Fino a un certo punto. Anche lui, quando non scivola nella sua mentalità di prete (appena) mancato, sa che “tutto l’uomo si condiziona al suo corpo e al mondo in cui vive. Se solo si pensa al suo caratteristico essere: il suo venire all’essere, così corporeo e mondano…”. Già: così corporeo e mondano. Ma si tratta solo di “condizionarvisi”? Dire che l’essere al mondo esaurisce l’essere dell’Uomo, il suo destino di ente contingente (Dasein) non vuol dire, anche, riconoscerne la totale e univoca corporalità? L’uomo è totalmente identico al proprio corpo, e la sua identità fisica è un frammento interrelato del mondo fisico. Come convincersene? Non scordando che “corpo” non vuol dire massa morfologica inerte e ben confinata dentro la pelle, ma morfologia in movimento, fisiologia, strutturalità espansiva. Che “esce” dagli inerti confini massivi inventando “protesi” e auto-proiezioni oggettive,
opere, prodotti: sedie di legno o libri, prediche o note musicali che siano; coltelli di selce e (ahimé!) missili atomici, come capanne palazzi e templi dell’unico dio moltiplicato all’infinito, impastando la stessa materia umana troppo umana in vari e condizionati modi tributari dei mille habitat sparsi sull’infida superficie del globo che ci produsse e ci ospita indifferente.

Terminologia heideggeriana: fattualità, fatto bruto, gettatezza, colpa, caduta, das nackte Dass (“il puro-che-è), “l’è e ha da essere”, senza “perché” né “da e verso dove”; e simili. Questa lingua, e altra peggiore messa in ghingheri della fisicità biologica, non sono che maschere, appunto, della irriducibile fisiologicità (nel senso attuale, ma soprattutto greco e presocratico del termine) della nostra totalità reale, come di qualsiasi altro essere vivente. “Inesorabilità, enigmaticità” dell’esistenza: il “da e verso dove restano oscuri”? Ma no, non tanto, non assolutamente. Traducendo: molto sappiamo del da, moltissimo del verso dove: sappiamo di venire da un paio di gameti, dalla loro fusione, che è un primo (il primo cognitivamente accessibile) compimento fagico, l’ovulo che “mangia” lo spermatozoo; andiamo verso la tomba, cioè verso il disfacimento, la destrutturazione del corpo e la sua metamorfosi,
sempre fagica, in altre creature del buondio bios. E’ pur vero che l’ingordigia biotrofica non si accontenta di così vile sapere parziale; ma non c’è rimedio a questo digiuno forzato. A lasciarsi andare, cioè a comportarsi come la quasi totalità dei ponzanti a stazione eretta e bipede, si fa tanta strada, ma solo nel virtuale dell’immaginazione desiderante, fornitrice di abbagli e misteri a iosa.
Ma anche di brillanti carriere accademiche e soddisfatte acquisizioni di beni materiali e morali: le sofistiche buone ciarle (purtroppo, le cattive pure) rendono.
E poi, ancora, e donde: “sein zum Tode”, “essere per la morte”: tema-forziere pieno di possibilità logicorroiche: la morte come un “potere il nulla”, la morte come asse tematico del filosofare (“musagete della filosofia” l’aveva definita un altro Grande connazionale del Nostro). Ed altri ricami: “ognuno è il momento vano di un’esistenza vana; è un essere cui non solo compete una fine, un non essere più, ma che si materia di fine, di non essere”. La morte, dunque, “la possibilità pura e fontale e totale”. Che suggestione, come ci si sente eroi del pensiero e dello scontro con l’essere, col Mysterium magnum, quasi maghi esorcisti contro il deprecato nemico, l’evocato Nulla. Quasi si spera, con queste fanciullaggini, di avere vinto quel famigerato spettro nientificante, la morte che scompone la macchina meravigliosa.
Non c’è, in Heidegger, questa speranza nascosta, non confessata, anzi cipigliosamente esclusa? Direi di sì, visto che il cosiddetto “secondo Heidegger”, quello della Kehre, della “svolta”, non insiste più di tanto sul nulla e compagnia spettrale, ma si profuma di essere a tutto spiano; e s’inebria di linguaggio poesia e misticismo oltranzista per genuflettersi dinanzi all’essere eterno e senza macchia, rientrando nei vecchi ranghi del Verbo tutto fare-fare e tutto-dire. Per l’ex magnifico Rettore nazista, ma soprattutto gran fabbro di linguaggi, alla fine, l’“essere è linguaggio”. Ma, naturalmente, non si tratta del linguaggio comunemente inteso, del linguaggio strumentale della comune relazionalità sociale o specialistica e tecnica, sì di quell’altro linguaggio speciale che appartiene alla poesia, alla vera e alta poesia. Quella di Hölderlin, George e altri sommi (secondo il metro dell’ontologo), solo quello. Che, a sua volta, è più allusione e silenzio che esplicito dire. E il cerchio si chiude: nel punto di arrivo del misticismo poetico, per cui l’ultima parola ontologica spetta alla “voce del silenzio”: die Stimme der Stille. Bello, sempre più bello e bene sonante: finché non si matura, e non si riesce più a volgere gli occhi dal carnaio indifferente del mondo. Salvo le fughe nella rimozione autodifensiva.
*
Questi pensieri sparpagliati nell’assenza di speranza del crepuscolo serale ti siano, cara anima mia, di memento nei tempi rapinosi della penetrazione voluttuosa dell’ente: ciò che ti percorre, anima mia, è il nulla; chi ti fruga, è ancora il “nulla”; colui che ti (ohimé, per poco) penetra, Carissima erma carnale, è un nulla di nulla che annulla. Ma che dolcezza, vero?, in questo nulla di nulla che si gonfia nel suo turgore di sangue, del sangue caldo che regola e comanda tutto il nostro in der Welt sein!
Tre contro uno? Possibile! Ma che importa. Il mio tempo pesa sopra l’aletheia del mio corpo: non mi è consentito varcare certa soglia astenica. Tre scoppi di aleteia, dunque, tre cime di êrschlossenheit, tre Ruf dell’essere: come la trinità del dio cristiano, come la trinità di Plotino, come le triadi dialettiche di Hegel e sodali-rivali. Tre è numero perfetto. Che tu sia benedetta, o Generosa. Velata di dolente rinuncia (mia) e di beato e imbronciato silenzio (tuo). Mein nackt Nagel, nach dem erste und allein Ruf, nichts möchtet, nur Ruhe und Ruhe. Sì, dopo il primo e unico Ruf, soltanto silente riposo e riposato silenzio. Und du, dreifach Ruf!

Forse più? Be’, dopo Croce anche il quattro è numero perfetto. Ma possibile, possibile? Non mi racconti balle, Anima mia? Non ti sbagli sulle tue erogazioni, o Ente che si apre e si nega (mi nego)? E io, mistero del mondo che succhia le tue mucose ontiche con lingua di pensiero fremente, che lecco le tue Erschlossenheiten umide di morte, e verso l’ardore del devoto davanti all’altare del suo dio, io sarei davvero nient’altro che il “fondamento nullo di una nullità”? Per giunta, responsabile del mio nulla? Sarei l’originaria colpa che mi penetra di nulla? “Un essere improntato da un non”? Ma io mi sento pieno di sì, sento questo corpo formicolante di assensi, di timidi ma convinti fiat voluntas dei. E questo crepuscolo del giorno cronico e degli dèi brulica di brividi fisiontologici che vorrebbero inchiodare sulla volta del cielo questa Geworfenheit benedetta, questa amara dolcezza: un rigoglio di Erschlossenheit scivoloso e vischioso, come l’esistenza nauseata di Sartre, odoroso come il fiore rosso della vita che schiude i suoi petali. I petali che non colgo, che non strappo dalla radice vanamente protesa all’offerta.
“La gettatezza è dal nulla e nel nulla”. O anima mia riammosciata, ma pronta al balzo, ti senti tutta bagnata dalle emozioni del Dasein? Chetati: la Geworfenheit incrosta i tunnel tessili dell’ente che ha rinfoderato il suo nulla.

Avanza la sera negli occhi delle luci stradali. La finestra della casa terrana offre il suo davanzale ai gomiti rimemoranti nella stanza-studio. Le lucciole dei fari smorzati giocano sul dorso della strada, che è aletheia anch’essa. Il fumo della sigaretta inebria di polso affrettato lo svolgersi spontaneo delle immagini ancora calde di rattrappita angoscia.
*
Poi esco, in compagnia dell’ovvio quotidiano, che si fa prezioso alla livida luce delle minacce implicite. Cara Rina, caro Giampiero: che marito discutibile, che padre difettoso. Premo un poco l’acceleratore, e la Giulietta penetra nel ventre della sera inghirlandata di elettrici bagliori. Pochi sulla strada, non molti sopra le colline vicine; e forse anche per questo, buoni a titillare di suggestione l’interno fanciullino impenitente, questo pedaggio neotenico pagato alla variabile inventiva che secerne vagabondaggi e scritture.
Che serà serà

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