venerdì 22 maggio 2009

Susanna, frammento 29


4 maggio, ore 23

Une mauvaise nouvelle m’afflige. Elle a du malaise
Susy viene con la sorella minore. Lezione di matematica: spiego la frazione generatrice. La “piccola” (o, più compiutamente, piccola peste), la sorellina, insomma, si annoia a sentire lezione, e va a giocare con Giampiero.
La generatrice mi irrita. Susy non la digerisce: le sta antipatica.

La sera, alle nove, accompagno a casa le due sorelle. Nel ritornare, una maledetta marcia indietro frettolosa mi fa sbattere la macchina contro un muro: un fanale posteriore rotto e qualche graffio alle adiacenze. Tremendo. Mi sento perseguitato dalla malasorte.
E se il peggio fosse avanti? Perché non mi piglia un colpo? Quante soluzioni…!


5 maggio

Che fatica trovare il pezzo da sostituire nella macchina. Alla fine, si è trovato e sono anche riuscito a nascondere l’incidente a mio cognato, proprietario della car. Meno male. Mi avrebbe gratificato della sua ironia spocchiosetta sulla scarsa attitudine pratica dei filosofi. E non avrei nemmeno potuto replicare con la difesa platonica della categoria. I matematici!
A scuola ho riferito a Susy dell’incidente. E’ il secondo che mi capita per “colpa” sua. Rina comincia ad averne abbastanza. Tanto più che gli stessi familiari della Silfide menagramo pensano, e dicono (anche a Rina, in mia presenza e in mia assenza) che Susy approfitta della mia protezione per farsi venire “tutti i mali”. Ma quella sta male davvero. Lo so. Non recita, non esagera. Noi sappiamo quale tarlo la rode.
Nei suoi momenti buoni, mia moglie dice che Susanna è bella e sfortunata. E’ vero. Comincio a credere anch’io nell’accoppiata bellezza-sfortuna – A pensare, cioè, che non sia un luogo comune infondato dell’antica saggezza, o piuttosto superstizione, popolare. Rischio di diventare superstizioso anch’io? Ma, dopo tutto, l’“invidia degli dèi” è esperienza ben longeva, e monito che circola in tutta la cultura greca classica. Estrai il nocciolo fisiologico dall’involucro metafisico-metaforico e ci siamo con la possibilità dell’accoppiata. Penso anche alle streghe e relativa caccia nel luminoso medioevo della fede tripudiante: quante saranno state, tra loro, le belle donne e fanciulle oggetivamente insidiatrici di unioni coniugali e suscitatrici di feroci gelosie di mogli e nubili (specialmente, nobili) racchie in cerca del maschio? Quante rivalità fra campioni dell’aristocrazia arrogante intorno a una ghiotta bellezza plebea! Quanti, in particolare, i casi “Nôtre Dame de Paris”? E dicesi medioevo per indicare l’intero lungo corso di secoli (fino a tutto il XVII) nei quali i processi alle streghe straziarono povere innocenti (alcune “convinte” di praticare davvero con Satana e dipendenti) e deliziarono il sadismo sempre disponibile di homo sapiens in salsa superstiziosa. Ma spesso soltanto miserabilmente ingorda.

Lezione di fisica alla cognatina in fieri. Che profitta gradevolmente. Cioè, con relativa facilità, e senza le complicazioni di Susy (e sfido!).

Spesa per la macchina: tremilacinquecento sudate lirette. Che devo tentare di recuperare con rinunce e risparmi. Il magnanimo Stato repubblicano (nato dalla Resistenza) ci paga così profumatamente, noi “educatori” delle nuove generazioni di futuri manager e commis statali! D’altronde, come farebbe, dovendo strapagare questi super tecnici? Bisogna pure che risparmi sulla pelle dei più deboli: il teorema non fa una grinza. E nemmeno la nostra vana ira non-funesta.

Ho risposto a Vittorio G. Rossi, che si è rifatto vivo con una zuccherata letterina (a soliti caratteri cubitali e mezzo dannunziani). E a Gulizza, che mi rimprovera sempre la mia pigrizia (dio sa quanto ha ragione!). Ma non c’è verso di curarla: è un capriccio del piccolo Ananke genomico (come avrò scritto cento volte su queste pagine annoiate). Un capriccio stabile come le orbite planetarie e la legge di Coulomb. Lui, il trofista, che consegna intero l’uomo alla determinazione biologica, non sa tuttavia rassegnarsi a questa dittatura triplettara. Tutt’altro che ignota alla saggezza antica, di filosofi e poeti. Il misurato Orazio la canta così: Naturam expellas furca, tamen usque recurret (magari l’avrò scritto altre volte su queste pazienti superfici rigate).
Veramente, del tutto rassegnato non mi sento nemmeno io, titolare di tanta grazia. Voglio dire che, nei momenti di ridotta lucidità, spero sempre di migliorare. Cioè, torno a puntare sull’ambiente, su possibili stimoli esterni, su non impossibili catalizzatori contingenti. Dopotutto, nel mio Dna trovo anche una discreta reattività mimetica. Iattura, da un lato; ma dall’altro, una chance. Quando mi imbatto nel soggetto giusto, qualcosa ricavo dalla tendenza mimetica: l’esempio un po’ mi trascina. Certo, non a lungo. Ma meglio di niente. Probabilmente, se vivessi vicino (fisicamente) al Maestro riuscirei a combinare qualcosa di meglio.
O sono tutte balle, queste congetture da sera tarda?


Mercoledì 11 maggio. Ore 22, 30

Pennellate di cronaca spicciola.
Sabato siamo rientrati al paesello sicanico. Sentivo il bisogno di riabbracciare i miei genitori. C’è una morbida voluttà nel ricordare questi viaggi. Già a un paio di giorni dal riapprodo in questa terra-distanza il fluido memoriale delle percezioni si gusta coagulato in frammenti di “assoluto” (lo so: sciocchezze per dire l’indicibile. Ma tant’è).
Mi piace rivedermi a tavola, per la cenetta (sempre forzatamente sobria, se non parca), davanti al televisore, libero ─ in questa parentesi ─ da responsabilità finanziarie, a contatto con i miei libri variamente parcheggiati tra le stanze della casa terrana (dotale di Rina) oscillante sul piano del provvisorio, la tavola ben fornita (per chi può mangiare tutto). Punta verticale di morbidezza affettiva, l’abbraccio con la mia ancora giovane ma invecchiata madre (57 anni), che mi tempesta di baci, come se mi ritrovasse dopo troppo lunga arsura di lontananza a rischio. Gradevole, anche, l’incontro con i vecchi nonni di mia moglie, nel vecchio cortile e nella vecchia casa a predominanza senile. Vecchia e povera casa di proprietà parrocchiale, ma pur fornita di orto e legata a un pezzo di agrumeto separato, o piuttosto appena distinto, dal resto, da un muro alto, con accesso per un cancelletto in ferro, sulle cui sbarre la ruggine parla di molti decenni trascorsivi sopra. Nell’orto, fiori, ortaggi, alberi, tra i quali spiccano il limone dorato e l’arancio rosso in profusione di verde cupo fagliame. Nel cortile, fornite di larga gabbia, ma libere di razzolare, vispe gallinelle generose di uova ricolme e gustose; e conigli, altrettanto liberi e, all’occorrenza, di tenera carne. Le zone pavimentate, fuori e dentro l’unica stanza a disposizione dei nonni, hanno mattonelle di cotto scolorite, alcune rotte. La stanza, grande e alta, è multifunzionale: camera, sala da pranzo, salotto e, in emergenza, anche cucina. Alto il soffitto, si diceva, e screpolato la sua parte, in perfetta coerenza con l’insieme. L’olfatto registra come odore prevalente del monolocale dalle molte vite un robusto tanfo di vecchiume e di cotture in equo dosaggio di componenti. Altro odore, per diverso olfatto, è quello del tempo: vi si respira come incrostazione fisica, e si misura in decenni perduti di molteplice passato. Dal quale emerge, a stenti di macchie e unti sparsi, dalle solide pareti ai mobili “antichi”.
Non meno composito e più variegato il cortile, sul quale ci si affaccia dallo stanzone sopra un ballatoio di molte ferite, con balconata in ferro color caffè (cioè, ancora, vecchissimo). Vi si scende per una scaletta azzoppata in vari punti, ringhierata come sopra. Un’altra scala, più gradinata e più erta, fa capo, a lato del misero androne, a un abitacolo innalzato sopra un mini-spiazzo: altro monolocale, per altra famiglia di rastremata povertà. Sopra le due scale un vecchio ceppo nodoso e intricatissimo di gelsomino bianco multiramato diffonde un alito di gioia nella gloria sensuale del suo insinuante profumo. Giù, negli angoli del cortile sformato, da tortili rami in cerca di luce, turgide rose di caldo rosso e di mite rosa rispondono con i loro carnali cromatismi alla sfida olfattiva del gelsomino castamente nuziale.
In questo spazio troppo limitato vivono quattro “famiglie”, ciascuna in una sola stanza, con appendici minime per cucina al piano terra (o meglio, rialzato dal ballatoio): i nonni di Rina, ottantenni; un’altra vecchietta, fra gli ottanta e i novanta, sola, trascurata da figli troppo “rispettosi” della sua gelosa indipendenza; una non vecchia né giovane sposa, tutt’altro che bella, con figlioletto di sei anni, separata dal marito, ingiustamente geloso, che è il fratello minore di mio suocero. Dulcis in fundo, una coppia di freschi sposi maturi, che sembrano usciti da un capricho di Goya: lui gobbo, piccolo, tutto storto, dal collo alle gambe devastate da paralisi infantile; lei mitemente brutta di viso, piccola di corpo, malmessa e senza distinzioni di caratteri sessuali secondari nella figura rastremata, appena più alta del marito solo perché dritta. Nel viso dei due, l’eco visibile della necessità unitiva. Specialmente in lei, che, pur così negletta dall’estrosa sorte, forse aveva sperato a lungo in un compagno di vita meno mostruoso. Con questi due abita il padre della sposa, un vecchio quasi normale, se non fosse per un braccio troncato all’omero. Insomma, una gustosa marachella della sovrana Contingenza in vena di contrasti: grazia del vegetale, teriomorfismo dell’umano, stretti insieme in un ombroso spazio da fiaba triste. Anche l’ingresso stradale nel cortile, una sorta di androne, s’intona al contesto capriccioso, col suo fondo in terriccio e pietra, pronto a inzupparsi di pioggia importata dai transitanti.
*
Serbatoio di tenere memorie, quel posto. Certe affettuosità fra me e Rina, negli anni più tardi del fidanzamento lungo, specie dopo la morte della madre, ebbero come cornice la stanza tuttofare dei nonni. Alla robusta e tenera madre rubata da medici e medicine sballati era subentrata la piccola, curva, un po’ pingue nonna, madre della madre. Subentrata, intendo, non solo nel ruolo affettivo, sì anche in quello più difficile di guardiana del pudore. Al padre, impegnato nel negozio, non restava che spostarsi dai nonni per stare qualche ora insieme, la sera. La cena, però, seguiva sempre nella modesta casa della famigliola mutilata. Dove il vuoto della mutilazione pesava come un eccesso di pieno malefico.

Più in generale, mi piace rivedere, dopo mesi o anni di assenza, i vecchi muri, le vecchie strade, i sentieri di campagna, sui quali, passeggiando dopo il tramonto, preparavo, in parte, le materie universitarie (quasi soltanto quelle filosofiche, però). E poi gli angoli “dimenticati”, dentro e fuori la cerchia urbana. Un volger d’occhi, uno scatto dell’immaginazione, e si rimette in moto la voluttuosa, inutile, crudele proiezione dei ricordi intrisi di rimpianti (questo dolce veleno da sorbire in severe mini-misure, pena guasti sterili). Balzano dall’ombra vecchi volti, incontri lontani, piccoli fatti, eventi minimi: baci, sospiri, carezze. Pene d’amore perdute (e ritrovate), gelosie infondate e sospetti meno gratuiti. Anche le novità del paese, le nuove costruzioni, le nuovissime case, mi interessano, ma queste soprattutto per misurarne l’evoluzione. Cioè, in realtà, l’involuzione criminale, lo scempio edilizio già bene avviato con la complicità (“remunerata” dalla prassi tengentizia) dei signori amministratori. Tutti, costoro, unti di Vangelo e vibranti di trepida devozione ai santi patroni e alla “Madunnuzza della corda”.
Un tuffo nel passato, un amaro confronto, il sottile gusto delle reliquie biografiche. Ma anche un calcolo triste dei giorni che restano. Tu. E tu. E pure tu. Ragazze, avventurette, occasioni colte e mancate. Errori, titubanze, timidezze, rinunce e (sempre, bene che andasse) mezzi pasti. E quella spinta indomabile al confronto con l’altro sesso, pur senza avere né la bulimia sessuale del dongiovanni genetico né le risorse corporali estetiche e mentali (anzi il loro opposto: l’impaccio, la ritrosia, l’insicurezza) per una “gestione” appagante (o meno dispendiosa, in termini di tempo impegno energia) della prurigine erotica.
*
Il primo amore e il suo ambiente: un palazzetto ornato di fregi ambiziosi e civettuoli a sinistra della grande chiesa secentesca; un altro alla sua destra, quasi di fronte al primo, ma alcuni metri più a sud, in continuità con una distilleria, garante, ma insieme a proprietà agrarie e “gabelle”, del riconosciuto benessere della famiglia di lei. Un’ampia e alta gradinata in forma tronco-piramidale a basi trapezoidali, a modulare il forte dislivello tra la facciata della chiesa e le sue spalle in declivio, un pianoro al culmine della gradinata, largo davanti all’ingresso e con due ali laterali a restringere, con i relativi ingressi secondari. Pavimento del sagrato pittoresco con ciottoli marini di vario peso e colore. Una balconata in ferro battuto, con pilastri a petto d’uomo in bianca pietra calcarea, espansioni apicali simili a capitelli, sormontate da grosse pigne magistralmente scolpite da ignoti artigiani (una nobile tradizione mortificata dalla barbarie invasiva del cemento edilizio). Chiesa a una sola, ampia navata, dedicata a santa Sofia, ricca di ornati barocchi, con soffitto a cassettoni dorati, pitture d’epoca, colonne tortili istoriate, statue in marmo e in gesso; e quant’altro si trova comunemente nelle nostre chiese: sempre ricche, beate loro, anche in mezzo alla povertà sociale e al conseguente squallore ambientale. Qui, intorno alla piazzetta omonima alla santa, niente squallore, ma discreto chiarore di piccola borghesia bottegaia, artigiana e mini-industriale.

12 maggio, ore 23

Che faccio, continuo o no questa nuotata memoriale? Ma sì, coccoliamoci ancora.
L’effetto scenografico della chiesa intronata sul poggio gradinato è superbo, posta com’è al termine del corso principale del paese, un largo rettifilo con marciapiedi di vario sviluppo latitudinale, il quale congiunge il quartiere periferico col centro. Ecco la cornice (case palazzate chiesa strada…) del mio primo cimento d’amore. Dal suo pinnacolo, il campanile lancia moniti inascoltati, rintocchi come pezzetti di tempo persi nel pozzo senza fondo del Grande Oblio vitale. Anzi, fatale. Ma non è completo, così, il quadro, se dimentico la porticina corrosa della vecchia stradina ora fagocitata da un’espansa sovrapposizione nuova in scheggiata pietra lavica: dietro quella porta, sotto un vecchio fico, si consumarono incontri “eroici”. Con poco sesso, fatto soltanto di baci e petting; magari un contrastato e, nello scorrere dei giorni e dei mesi, progressivo heavy petting, ma senza neppure una mezza idea-intenzione di rapporto completo. Vigeva, come oggi, in ben mutate condizioni etico-sociali, ma allora più che mai arcigno, il venerando tabù della verginità prematrimoniale, ora e sempre dogmaticamente servanda. Non per ciò sempre servata, beninteso. Ma le trasgressioni, di regola, finivano in chiesa: al remedium iniquitatis del “matrimonio riparatore”. A sua volta, molto più spesso programmato che accidentale (idest, conseguente a tumulto passionale).
In quella stradina dava il cortile del secondo palazzetto di Elisa, da quella porticina si entrava, sotto quel fico: quando altro tipo di incontri vennero meno, in quel covo arboreo si consumarono i nostri convegni notturni. Non era larga né pulita, in quel tempo, la straducola ora rinata come spaziosa e linda via Torre, allora nomignolata con lessico scatologico. Eppure, lega la sua parte di nostalgia, tutta quella povertà innamorata. Quasi vent’anni sono passati sopra quel palpitare soffrire vegliare sperare sospirare. E osare, infine, e ottenere, imparando una parte del mondo, crescendo in quell’apprendistato non agevolato da volto apollineo né da corpo olimpionico. Quasi vent’anni, da quando mi fu concesso il sudatissimo sì. Troppo insidiato, tuttavia, da un suo primo amore, esteticamente incomparabile, per spudorati suoi vantaggi di viso e corpo, al gramo sottoscritto. Avevo, allora, la metà degli anni attuali. Quanti grani d’incenso e zollette di zucchero amaro nel calice elastico della memoria selettiva…
La circonvallazione, allacciata a quella traversa ora basolata, scavalca il torrente, uguale nei decenni, per i contorti capricci di antica lava etnea, ma frenato, oggi, da protesi cementizie decise alla riduzione delle sue sperimentate capacità assassine. Rocce, macchia mediterranea, casali agricoli, vigneti digradanti da poggi di sovrapposte colate millenarie, vecchi palmenti, casette civettuole da vacanze campestri, in cima alla curva che nasconde per un tratto il letto del torrente. Questo il contesto, lo spettacolo, il fascino sottile dell’entità a suo modo sacra, che nella giusta lingua si dice u vadduni. (l’equivalente del calamagnese a sciumara). Questo e altro, se si fa giustizia agli agrumeti: nuvole di limoni in verdissima ascensione sopra groppe dell’onnipresente lava parzialmente convertite dai secoli in terreno fertile, e ulivi centenari, che competono nel loro cinereo argento con il variegato verde degli agrumi diffusi: non solo limoni, ma aranci, altresì, e mandarini, e clementine (o mandaranci) di collaudato gusto e fragranza.
In questo scrigno selvatico una passeggiata solitaria ridesta un film di ricordi. La fantasia s’è lasciata dietro piazza Santa Sofia e s’è inoltrata lungo la via del cimitero, su per la strada-sentiero pietrosa che lo costeggia, brada e arruffata in diruposi dislivelli, sbocca, per un corto braccio, sul torrente, schiude il paesaggio accennato. Che è altro spazio sacro ai miei frenati amori, regno di Joseline, la passione che precedette Rina, la più “drammatica”, per contrasti col fratello geloso. E sleale. Ero ancora studente, ma già universitario. Era studentessa, anche lei, ma dell’istituto magistrale (di Realpolia). Ne richiamo allo specchio interno la figura e fisiologia amazzonica, l’odore di campagna. Una proprietà di famiglia racchiudeva in tortuosi confini un pezzo di questo territorio a suo modo romantico, e tra i suoi limoni, i suoi aranci e mandarini, le sue viti e i suoi ulivi, ci si dava appuntamento, di quando in quando, in silenziosa solitudine d’altri tempi.

13 maggio,

Ore 23, 30. Ma sabato, prima che partissi da Zefiria, l’alunna Didia ha detto delle cose stranissime. Venerdì pomeriggio, sulla strada che dal corso centrale porta a casa mia, mi ha visto, e s’è sentita, ha detto, “sconvolgere”. Ero in macchina, solo, e avviato al rientro. Lei non vide, dice, la macchina, vide solo me, il mio volto, solo quello. E s’è sentita “rimescolare”.
L’avevo avvistata anch’io, e avevo rallentato. Lei si accostò alla macchina, e tentò di parlarmi: tremava, la voce le usciva stenta, sfregiata, roca. E sabato mi raccontò tutto questo. A scuola, in un intervallo, nel corridoio. Lo raccontò come ci si libera da un peso, da un groppo che soffoca. Chiese di uscire dall’aula, e uscì, piangendo, quando cominciai a spiegare. Era di turno Sartre: potevo farle perdere tanto argomento? Fra la curiosità delle compagne, proposi di attendere qualche minuto: che si calmasse, che ritornasse per ascoltare, da brava alunna. Non era una novità, che qualche studentessa, per problemi suoi, di cuore o di famiglia, desse in lacrime e chiedesse di stare fuori dall’aula qualche minuto. Né che io aspettassi, o ripetessi, al rientro dell’inquieta, l’inizio della spiegazione. Didia rientrò dopo alcuni minuti, gli occhi rossi, ancora con l’aria stravolta, anche se un po’ meno. Le chiesi se si sentiva di ascoltare, lei disse di sì, tutti ne dubitammo, ma vale anche in Scuola l’imperativo sbrigativo: “lo spettacolo continua”. Ripetei le poche cose che avevo fatto in tempo a dire e proseguii. Non certo in condizioni ottimali. Il pensiero di Didia, la visione della sua figurina esile, del suo visino sofferente, interferivano con gli ispidi concetti dell’ontologia sartriana. Né si può credere che la molto reattiva classe tutta al femminile pendesse dalle mie labbra in purità d’intenti didattici. Chissà che risonanze, in quelle testoline eccitate, suscitavano espressioni come in sé, per sé, essere, nulla, esistenza, essenza; e poi altre, più provocatorie, come Coscienza, fessura intracoscienziale, e simili mostri di teutonica ascendenza. Non furono d’accordo, comunque, sulla pirotecnica del néant che neantise, sulla coscienza (o per sé) come nulla, e altra pacchia. Questo per il “primo Sartre”, l’esistenzialista umanista ateo; il “secondo”, quello della Damasco marxistica, dell’impegno rumoroso, della logica dei gruppi, dell’esibizionismo militante e serioso, insomma delle Situations e della Critica della ragione dialettica, sarà argomento della prossima volta. E forse sarà meglio saltarlo. O ridurlo a un cenno ben nutrito ma lontano dell’intero: a che pro infliggere altra tortura a quelle innocenze così prese da ben altre urgenze?

Intanto, Didia mi dà da pensare. Che significa tutto questo scompiglio? Liebe? Ma io non avevo mai sospettato simili accidenti. Eppure i sintomi sono quelli. E qualche compagna sniffa sospettosa. Certamente, Susanna, che ha seguito con assorta attenzione la strana emergenza, probabilmente, trascinata ad associativi confronti con analoghe esperienze personali, nemmeno troppo remote. E ammicca, mostrando, o ben mimando, accigliata gelosia. Anche Adele, la carnosetta figlia di Venere bella, amicissima di Susanna, pare visitata da sospetti dianamente orientati. Si conoscono bene fra loro, le ragazze, e non stentano a leggere nel giusto idioma certi sintomi: così comuni, al loro sesso e genere.
Che vita movimentata, in queste classi femminili. Il Narciso che sonnecchia perfino dentro il più lucido di noi insegnanti si pavoneggia anche in me. Non troppo, però. E se non mi inganno, mi sento un po’ imbarazzato, sfiorato da un venticello che pare vergogna. E tuttavia, tuttavia…
Ieri è venuta a trovarmi a casa, di nuovo tremante, la voce similmente strozzata, il volto pallido e teso. Ed è rimasta a lungo, come calamitata, incapace di staccarsi. Mi ha inondato di confidenze “intime”: i suoi rapporti conflittuali con la famiglia, la solitudine in cui vive nel microcosmo domestico. Il quale, composto da quattro donne (madre e tre figlie) e da un padre troppo occupato dai suoi impegni di uomo pubblico (è sindaco del suo paesello ionico, Castelrocca), non mostrerebbe abbastanza attenzione verso la più giovane, Didia appunto. La più giovane (diciassette anni o poco più), ma soprattutto, la più sensibile e la meno estroversa delle quattro donne. Queste, infatti, dalla madre alle due prime sorelle, sono tutte temperamenti aperti, socievoli, chiacchierine: estroverse, appunto. Didia, no: parla poco, pensa (e rumina) molto, tende a chiudersi: inclina, insomma, al tipo introverso. E della variante “sognatrice.”
“Non mi capiscono, non mi danno ascolto, non prendono sul serio i miei problemi…”. La litania, scandita a ritmi lenti, e a voce più fioca che squillante, non era perciò meno inquisitoriale: accusa e, col semplicismo dicotomico dell’adolescenza, prospetta opposizione netta tra carnefici e vittime (e sia pure alla felpa). In fattispecie, vittima. Esagera, ne sono convinto. Tento di smussare le punte, di mediare sfumare interpretare.
“Forse le tue sorelle vogliono farti coraggio, magari sbagliano metodo; forse tua madre, essendo così sicura di sé, così estroversa, non si rende ben conto delle tue difficoltà. E crede che tu esageri, che dia troppo peso a fatti e cose che per lei ne hanno poco. Insomma Didiuccia, io non posso pensare che non ti vogliano bene, che ti trascurino di proposito. Certo, ognuna di loro ha i suoi interessi, e non può dedicare tutto il suo tempo libero a te, devi capire anche questo. Parlo delle tue sorelle, naturalmente. Tua madre, ne sono sicuro, ti dedica più tempo, ti interroga, chiede di sapere cosa ti angustia, no? Sforzati anche tu di capirle, di essere meno chiusa, più fiduciosa. Fidati e confidati”
E chissà cos’altro dovrebbe capire, Didia. Come io dovrei capire le amplificazioni di questo malessere tipico dell’età sua. E della sua fisiologia: sviluppo sessuale tardivo, consistenza anatomica ridotta, carne compressa a dimensioni di pura economia. Insomma, Didia è poco più di uno stecchino: ben proporzionata, ha caratteri sessuali secondari poco prominenti, sopra e sotto. Penso che questo relenti nello sviluppo puberale comporti un ristagno nella sindrome adolescenziale. E insomma, un presente al posto di un passato impossibile. Inquadra il tutto nella normale dialettica psicologica tra alunni e insegnanti di sesso diverso, anzi tra alunne e professori, e qualche luce supplementare aiuterà a capire l’inghippo. Il sottoscritto si sente, in sostanza, il referente di un complesso edipico spostato e non risolto.
Perciò ho dovuto fingere di non cogliere certe mollezze, il senso riposto di qualche allusione. E ho scoraggiato momenti di abbandono sul ciglio pur attrattivo del loro nascere. Sì, mi sono tenuto a distanza. E poiché Didia è piuttosto bellina (anche se meno affascinante delle prosperose sorelle), la domanda, maliziosa, s’impone: fedeltà? Doppia, per giunta? Risposta: scrupoli, forse. Scrupoli e disagio di fronte a eventualità troppo esplicite. Io sarò il padre, l’altro padre: quello accessibile, disponibile alle confessioni, ai consigli, a una più sensibile protezione. Perfino a qualche innocente contatto fisico (Kǘße?).
Intanto Susy ha saputo della visita, e mi ha fatto una mezza scenata. Gelosia di alunne verso il professore-padre. Cara Rina, non pensare ad altro, non c’è altro (se per caso i tuoi bellissimi occhi sognanti dovessero capitare sopra questo paesaggio di sprechi temporali e di inutilità ciarlanti).
*
Frammenti di conversazione: “Credo che lo manderei al cimitero presto…” “Esagerata!” “Nooo! Io sento, sa, sento troppo il se…” “Sì, il se…, il senso della vita. Capisco benissimo!” “E soffro della forzata…” (segue gesto bidigitale rotatorio: pollice e indice divaricati oscillano roteando a sensi alterni). “Tutti i giorni del mese, tranne, magari, i pochi rossi? Non sarebbe normale!” Mi guardò. Occhi negli occhi, vorace e sorridente. Brividi caldo-freddi, calamita e paura.1
*
Un figlio, diamine!
Allora sì, accetto la tua soluzione.
Un progetto satanico. Ah, la mancanza di un imperativo categorico! Mai l’umanità soltanto come mezzo? Che boutade. Quando si è impegnati con surrogati degli dèi fuggiti, quali scrupoli? E se qua e là balenano con flash contrattili al sacco gastrico, si tratta di spettri, non di cose salde. E spettri poco vampirici, poco ibseniani. Anzi, piuttosto esangui e sfilacciati.
Esitazione. Ne sei sicuro, Paolino? Non sarebbe prudente concedere qualcosina a don Immanuel di Königsberg? Magari puntando sul soltanto. Come dire: soltanto, no. Ma anche, perché no? L’umanità come mezzo soltanto, da sempre; anche come mezzo, altrettanto. Se scelgo il secondo corno, che gran male c’è?
Che occhi, dèi! A momenti, un orgasme sans toucher.
Ripenso agli “occhi di risacca” di Machado de Assis, alla femme fatale del suo Don Casmurro. E soffro di astinenza scrittoria, premuto, spalle al muro, da tanta, e tanto aggraziata, forza ammiccante.2

Frammento di conversazione. Due giovanette, a scuola, istituto magistrale di Zefiria, Calamagna, hodie, ora di filosofia-pedagogia.
“Vorrei essere sola con quel disgraziato che sta in cattedra: con questa rabbia in corpo, lo ridurrei cadavere…”
“A chi lo dici! Me ne sento un’altra, io…”
Quel disgraziato spiegava Dewey. E faceva fatica a saltellare fra quel pensiero irto di spine e la visione delle due presenze in tutt’altri bruciori affaccendate. Tentò più volte, il disgraziato, di lanciare messaggi di sguardi crucciati e imploranti, ma con scarso frutto…penetrativo. Mentre vaganti rossori scrivevano, sui volti bellissimi delle due distratte, semantiche divergenti di piene omofonie. E dire che il concetto di esperienza deweyano è così ricco e stimolante. Ma come contrastare quell’altra esperienza che, evocata, distraeva le massoline grigie di quelle dolicocefale brune? Esperienze, tante; natura una. Ciao, Dewey.
*
Stessa coppia, stesso giorno, ora di italiano. L’insegnante è una giovane sposa incinta. Spiega il canto XXV del Paradiso.
“Spene”, diss’io, è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto. / Da molte stelle mi vien questa luce; / ma quei la distillò nel mio cor pria / che fu sommo cantor del sommo duce. / “Sperino in te” ne la sua tëodia / dice “color che sanno il nome tuo”: / e chi nol sa s’elli ha la fede mia? / Tu mi stillasti, con lo stillar suo, / ne la pìstola poi; sí ch’io son pieno, / e in altrui vostra pioggia repluo”(vv. 67-78)

“Pistòla, signora, non pìstola!” Segue risatella in umida sordina. E seguito: “Almeno, gli funziona.”
Sottinteso: il marito non è un adone, ma ha saputo metterla incinta. La giovane signora arrossisce: ha sentito e intuito. Ma deve far finta di niente.
E pensa, quaderno: di tutto quel bendiddio dantesco e paradisiaco, che cosa colpisce le due testoline estrogenate? Pìstola! Per tramutarla in pistòla.
*
Ancora la stessa coppia.
“Sono in ritardo di quattro giorni: che sia…?”
“Dici? Che hai combinato, pazzerella?”
Sorride, la prima.

La relatrice di queste avventure, insomma Susy, pensa che la sua amica, la famosa Adele, tutta polpa e tanto miele, abbia avuto rapporti completi: “Per forza. Per esempio, sa certe cose …” “Che tu non sai?” “Dico sul serio.” “Ti credo. E che si possono sapere solo se una ha … saltato il fosso!” (dietro la curva della parete cranica mi ronzava ben più dritta metafora: ha riempito il fosso). “Appunto. Ma del resto, lei, l’altra volta, in clima di confidenze, mi diceva che quando una vuol bene non sta a pensare che fa male” “Le lasciano, dunque, tanta libertà a casa sua?” “Mah”, dice Sa (Susy). Che certo deve pensare alla sua libertà. Peraltro, così stentatamente produttiva in quel genere di frutti.
O belle polpute ricolme sfacciate figlie di buona… Eva! E un povero cristo spiega Dewey e vi sta a guardare. Indotto, perfino, a origliare sui vostri sussurri impudichi. E sorrido pensando che a me, costretto, qui, a richiamarlo pieno, quel passo dantesco, col suo sommo duce e l’annesso sommo cantor, mi aveva sempre fatto pensare a un altro “sommo duce”, più modesto del primo, ma anche più incisivo sugli immediati destini altrui. E ad altri sommi cantori di quel sommo fasullo. Magari del ramo filosofico-accademico: dal più composto Gentile, suo ministro (ed estensore della competente mistica) allo sbracato Orestano, apologeta frenetico. E così spudorato da offrire larga mese di materia al gustoso sfottò di Eugenio Garin. Ah, le deliziose “Cronache di filosofia italiana” ! Devo tornare a leggerle, a spizzichi, per puro diletto.
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Scene di gelosia. Didia si accosta alla cattedra, Susy protesta. Didia mi avvolge di liquidi sguardi, Susy stira il muso. Dice “non me ne importa”, ma fa le scenatelle.
Recita? Non si direbbe. Non sembra proprio. Al peggio, non del tutto: lei non sa recitare. Appena appena nascondere. Ma con quali imbarazzi e sofferenza! Teme di vedersi scheggiare la primazia? Non sembra credibile. Eppure.

Gocce di rugiada nel fuoco dell’arsura. Messaggi di lèvres e incisioni di avorio su dita nervose. Morde. Palpiti di mani. Progrediens, ingrediens: insinuazioni di eminenze turgide fra ricolme pressioni di legs. Picchìo alla porta del tabernacolo conteso da censure pietose e spietate. Pietose del futuro, spietate col presente indurito. Il presente: costretto a reticenze sanzionanti rosse fibre retrattili in mobile giaciglio proteso. E puntualmente deluso. Quante preghiere soffocate davanti all’altare dell’innominata dea un po’ tradita. La dea Sophia, intendo. O, se preferisci, alla Diana cacciatrice. Con Minerva sapiente. Che frena.
E tuttavia, che delizioso martirio. Ah, plastiche coppe di ben fenomenizzati noumeni, come tentate le concavità impazienti di queste palme adoranti! Coppe capovolte, di ricolma soda consistenza. Che richiamano altre vibranti convessità in amorosa corrispondenza di sensi e consensi.
Ebbene, sia. Dopotutto, on mange avec (et dans) tous les sens. E ogni sens vuole la sua parte. In progressione? Vista, olfatto, tatto… Fantasia: mescolo souvenirs in cocktails di atti odorosi di ebbrezza. E di Angst. Ah, philosophia!

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“D’altra parte l’esistenza autentica non è qualcosa che ondeggi al di sopra della quotidianità deiettiva, ma, esistenzialmente, è soltanto un modificato afferramento di questa” (Heidegger, Essere e tempo, trad. it., pg. 193)
D’altra parte, quanto ad afferramenti c’è gran varietà: chi afferra in un modo, chi in un altro. Sa afferra esitante, inesperta, impacciata. Qui è il dono grande. O pudore dell’ignaro ardore!
E questa immagine di santa Emma vergine, come c’è finita sul tavolo? Era fra le pagine del suo libro? Santa Emma vergine: altri modi di afferrare. L’esistenza autentica, intendo. Chissà come immaginano la beatitudine, le sante. Sì, altri modi. I tuoi, Sfinge svelata, mi esaltano. S’intende: l’ennesima chance. Ah, com’ella écarte ses jambes. E non pour m’écarter, anzi. Moi, je la torture de delices. Plaisir et joie, melés di privations.
L’ennesima chance, sì. E l’ennesimo sfrigolìo testicolare dell’impotentia dicendi. Mimetizziamo ancora. E sottraiamo. “Aspetti che dica basta?” “Già” “Sta fresco” “Ma quante, combien de fois? “C’è bisogno di chiederlo?” “C’è bisogno, sì, porco … divano!” Sguardo-saetta, occhi di risacca, ancora. “Ma è possibile ?” “Pare…” (Da Dialoghi dell’infratomba, pg. 274). Oh Sa che soffri di se…! Il Se e il senso della vita per Sa. E della morte ghignante acquattata. Pour moi: ce petit moi che non gode di risorse cospicue. Da sprechi, voglio dire.
Mi trilla dentro improvviso l’uccellino di un sospetto mica frivolo. Quale? Che Sa mi abbia riferito il composito dialogo tra lei e Lele con un sottaciuto fine non esplicitabile. Vibra di sonorità allusive spcialmente quella frasuccia di quest’ultima: “quando una vuol bene non sta a pensare che fa male”. Un tacito obliquo allusivo invito all’... imitatio Christi?
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“L’angoscia è dunque l’autopercezione riflessiva della libertà”. E “si oppone allo ‘spirito di serietà’ che percepisce i valori partendo dal mondo, e che risiede nel consolidamento rassicurante e ‘cosista’ dei valori. Nella ‘serietà’ mi definisco a partire dall’oggetto…” (Sartre, L’essere e il nulla, trad., pg. 78)
E che cosa c’è di più inebriante che definirsi a partire dall’oggetto? Quale valore più valido del ‘cosale’ che pulsa, s’erge, e scivola rigido, s’incunea, irrorato, premente e, infine, spremente? Lo spirito di serietà: come se, lui, Sartre, non ne fosse altrettanto pieno del più ottuso dei benpensanti dotti. Lui, già araldo di un esistenzialismo nichilista, poi di un umanismo esistenziale ribattezzato nelle acque sante dell’engagement solidarista, infine cannoniere damasceno di un marxismo infiltrato di esistenza. Lo “spirito di serietà”: depurato dalle connotazioni maiuscolari (metafisiche) non è che la necessaria pressione biologica della comunità coattiva, che suggerisce regole di convivenza a freno del cannibalismo reciproco. La libertà assoluta: che coglionata.
Forse lo stesso Sartre un giorno o l’altro finirà con lo scoprire la trappola di questa dialettica truccata, relegherà la “condanna alla libertà” fra il ciarpame dell’inverificabile par excellence, il soggettivismo drogato.
Misurala, la libertà assoluta, su questo campo magnetico che imbriglia e muove mani, bocca, corpi (magari cavernosi) e pene dell’anima! Beata santa Emma, patrona di questo giorno, ormai tramontato, spiega un po’ tu a Jean Paul come si può essere l’una e l’altra. E più l’altra che l’una. Sciogli la treccia, Maria Maddalena.
La treccia non si scioglie. Non s’ha da sciogliere. Lo spirito di serietà lo vieta. E tuttavia: due, tre…? In così strozzati mini-tempi. E non dice satis? Non pronuncia l’assez, je suis comblée? O divaricato mistero dell’essere attrattore, come continui a contarmi le ore del futuro lamento.
“L’angoscia è dunque l’autopercezione riflessiva della libertà”? Ma dite piuttosto che è questo assedio di morte, rivelato nel cuore stesso du plaisir in atto. Questo verme nel frutto, il néant di Jean Paul recepito da una millenaria tradizione pensante (e però tradito nell’enfatizzazione ontologica). Questo nulla umile e fisiologico, che tradotto in parole quotidiane suona: sapere che tutto finisce. Elle écoule, écoule… E il verme ronge le plaisir et la joie de vivre.
Sapere che tutto finisce. Con ogni particella del corpo, con ogni organo cellula molecola, e soprattutto lì, dove anche questo ammiccare strozzato risveglia i parametri cinetici du plaisir. E dove freme di stizza e dolore la indotta negatio dicendi. Ah, poter trasportare sulla carta il martellamento del cuore, il crampo alle viscere, il tremito incalzante du bras étendu e il ritmo muto du doigt che spinge e scivola e s’incunea armato di concetto, a tentare il labile possesso dell’essere sfuggente, vanamente di sé prodigo in delusa offerta. Le doigt della mente che indica la trascendenza, l’Oltre che si dona e ti oltrepassa, che immane e trascende. Cosa facciamo, Herr Heidegger, cooptiamo queste chances profane fra le epifanie del Suo Sein prolifico di estasi, epoché e svelamenti-occultamenti epocali? Martin Heidegger: già mago fascinoso per l’adolescente curioso che ero, poi lento sbiadire fra le ironiche evidenze degli ingegnosi inganni verbiferi.
O santa Emma vergine. Il Nulla attende e la Morte sonnecchia, ammiccante. Vergine ha da restare… Briciole di ore disciolte in liquidi rapimenti spossanti; luce di parole capaci di spremere emissioni difficili da bloccare con rapidi morsi disperati: la morte che tutto vede vi conta e vi attende.
Vergine. J’ai peur, santa Emma, parce que je suis pater familias. Et au delà de la porte fermée, dans la cuisine, mulier domina. Potrebbe faire un blitz. Indi, die Furcht diktat. E sovente scivola verso l’Angst. “L’angoscia è…”

Pensieri domenicali sulla morte: “…la morte significa la possibilità di essere sottratto alla comunità, e quindi a se stessi. L’essere perduto per gli altri implica l’essere perduto per se stessi.” (Nicola Abbagnano, Metafisica ed esistenza, in Filosofi italiani contemporanei, Milano, 1946, pp. 14-15).
L’essere perduto per gli altri? E chi se ne frega? Mi costa già tanto l’essere perduto per me stesso. E perché quello implica questo e non viceversa? Ah, frasi, frasi di filosofi. Anche i migliori si lasciano andare, a volte, a certa retorica comunitaria! La comunità: chissà che vuoto, con la mia morte! Appena qualche lacrima e un po’ di disagio per i familiari, un umido sospiro presso qualche alunna, un brivido nella schiena di qualche amico. E per il resto: un pronto rimpiazzo a scuola, un chiacchericcio in rapida dissolvenza nei due paesi, il natio e questo dove lavoro e abito. Essere perduto per me stesso: ha senso, propriamente parlando, empiricamente valutando? La morte, fuori dal mito e dalle suggestioni verbali, è un tale salto di dimensione! La condizione di morto non è nemmeno una condizione: è la trasformazione radicale, il totalmente altro, il non più assoluto.
Ecco, ci sono ricascato: anch’io sparo frasi ad effetto. Suggestive, non c’è che dire (quasi come quelle dei filosofi); ma anche inevitabilmente bugiarde, mistificanti, fuorvianti. Non del tutto, si capisce, ma certo una buona parte. Da morto non si sente né si pensa: come potrei mancare a me stesso, a ciò che, ormai, è mancanza assoluta, esso stesso, e non più lui? Mancanza assoluta: altra “frase” bella. Altro sintagma truffaldino. Si è (si diventa) pur sempre un bel mucchio di cellule e molecole in rapido disarmo e pronto riciclaggio. A proposito, i vers mi fanno paura: vorrei essere cremato. Ma spero ci sia ancora molto tempo per questo genere di pensamenti.
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Spero, sì: con tutto il corpo. Ma a volte il timore sovrasta la speranza, e mi pare non debba mancare molto all’essere perduto per me stesso. Donde, il timore, o la paura? Per esempio, dall’affanno sudante di questi post factum. Maledetta avarizia di madre natura. Un tempo potevano essere due, tre, in quasi ininterrotta sequenza.
Torniamo all “abisso, orrido, immenso”, torniamo alla Morte, “musagete della filosofia”. Scrive il filosofo, severo e impavido: “La morte non è una possibilità, sia pure privilegiata, fra tante possibilità in possesso dell’ente, onde sia possibile, e in un certo senso necessaria, la scelta di essa. E’ la forma generale delle possibilità dell’ente in quanto sono finite e costitutive della sua fondamentale finitudine” (N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 177).
E’ detto bene, non c’è che dire. Quasi nulla da eccepire. Salvo, in quel quasi, l’impressione che la morte ne sia stata neutralizzata, che il suo pungiglione abbia perso il veleno… mortale. Magia delle parole. Ma io sono cresciuto, in fatto di suggestioni, sono un adulto che “ragiona”. E non crede più ai maghi.
Quante volte, Sa? Zwei, drei, vier…?
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Venti anni dopo, sul foglio bianco dell’ultima frase.

Eri seduta all’ultimo banco, Susy, in seconda classe, primo anno di filosofia-pedagogia. Il tuo volto bellissimo, tra volti belli o comunque apprezzabili, non aveva ancora fatto spicco deciso al distratto tribunale del mio gusto, di solito più vigile. Trascorse quasi un anno. Ti notavo, sì, ma come altre cinque o sei figlie di Dio. Poi i tuoi occhi dardeggiarono contro i miei: dapprima, lampi fugaci di curiosità esplorativa. Normale economia di naturalissima attrazione fra sessi bloccati. Più precisamente, tra alunne e professori. Poi gli sguardi si fecero più frequenti, e manifestamente polarizzati. In modo vago, si capisce. E cambiasti posto: sedesti in un banco della fila di centro, a metà dell’aula. Mi chiedo come facesti a farti accontentare dalle compagne. Forse uno scambio di convenienze: qualcuna voleva defilarsi, e accettò di scendere verso il fondo dell’aula?
I nostri occhi si incontrarono ogni giorno di più. E di lezione in lezione l’incontro si faceva più lungo. Di secondi, qualche secondo per volta, poca cosa. Ma in crescendo: secondi sempre più numerosi. E cominciai a non sentir più quella bava di noia che il venire a scuola spesso comporta. I tuoi occhi grandi, dal taglio perfetto, il loro sguardo perforante: che calamita! E poi, giorno dopo giorno, sentii schietta gioia di entrare nella tua aula. Gioia vaga, ma in quotidiana conferma di calore e fantasie. Un nuovo, più forte movente mi spingeva verso la scuola, dentro la tua aula. Malandata, come tutto il cadente edificio in cui il premuroso Stato italunito ci condannava a mortificare la penalizzata professione. Ma chi si avvedeva più delle pareti scrostate, delle mattonelle di vecchio cotto qua e là divelte o rotte? Dirò una banalità: la luce della tua presenza copriva di magia quelle piccole miserie, e io entravo in un “altrove” esaltante. Che, certo, subiva le continue interferenze della realtà malconcia. Non era facile conciliare le due dimensioni, e il ruolo anfetaminico del tuo sguardo osmotico non sempre bastava a compensare gli stridori della quotidianità pedagogica. Ma era un prezzo scontato, accettabilissimo. Quasi l’amaro che congiura col dolce ad esaltarne gli effetti benefici.
Una mattina mi parve di vederti e sentirti piangere: luccichio brusco di lacrime subito nascoste e suono di singhiozzo strozzato al mio ingresso. Stavi a testa china, quando puntai gli occhi professorali sulla figura rattratta dell’alunna in difficoltà. Mi accostai. “Piangi?” Era andata male l’interrogazione di latino: così il sussurrato tam tam della classe. “No” rispondesti. E il tono era petulante, quasi di sfida. Pronunciando quel perentorio no mutasti rapidamente postura, e dagli occhi riaccesi era scomparso il luccichio malato. No, dunque.
Che mi restava da fare? Tornai alla cattedra (ah, quella meraviglia di cattedra, più vecchia dell’aula!). Ma, tornando, suoni smorzati, parole monche, mezzo annegate in sussurri, mi colpirono l’orecchio, ancora non indurito. Quel disordine acustico si compose da sé in questa frase sensata: “Come farei a prendere la filosofia?” La frasetta sensata trasformò il breve tratto dal banco alla cattedra in un’eccitante avventura. Tutta mentale, s’intende: un sospetto che si dispiega in elaborata ipotesi esplicativa della frase ricostruita: “Se piango, mi rovino gli occhi, mi faccio brutta davanti a lui, e allora come potrei sedurre il professore di filosofia, così sensibile alle mie grazie?” Con la velocità dei nostri riflessi neuronici, l’avventura si chiuse in questo interrogativo: “Si prende gioco di me?”

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