mercoledì 26 agosto 2009

Susanna, frammento 38


17 luglio,
sera tarda

Delizioso bagno tiepido stamane, mentre Rina e il piccolo stavano ancora a letto: lei, per legittima indolenza domenicale, lui in pieno sonno di fisiologica pertinenza. Poi al mare, tutti e tre, per la prima volta, ospiti dell’avvocato Carolui, e della sua millecento bianca. Il mare non era brutto (come a volte diceva Giampiero); anzi, invitante, appena mosso. E tuttavia non abbiamo fatto il bagno, nessuno di noi tre adulti. Giampiero, invece, mi ha regalato una gradita sorpresina. Dapprima non ha voluto bagnarsi neppure i piedini esitanti, poi, stimolato dall’esempio di un suo quasi compagno di giochi (il fratellino minore di Susy), si è tolto il costumino e si è bagnato tutto, da solo. Che c’è di così miracoloso, quaderno? Un piccolo particolare: la dimostrazione che, a volte, l’orgoglio può vincere la paura. Dunque, una speranzella per il futuro del bambino timido: un diavoletto di moti e parole (sensate, a volte sorprendenti) fra intimi, un monumento di silenzio con estranei. Fino a negare nome e cognome a quegli inquisitori, a volte.
Splendida spiaggia, stamattina. Per la sua natura inanimata, in primis; ma soprattutto per la popolazione animatissima che la vivificava. Sotto il fiato ardente di un nudo sole già pienamente estivo, sotto la stoffa colorata dei molti ombrelloni sparsi sulla sabbia bionda, immersi nell’acqua a giocherellare con amici e figliolini, o impegnati in esibizioni di bravura nuotante, una traboccante cornucopia di corpi femminili in bikini si offriva alla fame visiva (e sottostante) dei maschi, appena un poco meno numerosi. Ragazze e signore, madri giovani e meno giovani, alcune colleghe del nostro e degli altri istituti zefiresi: una varietà che si alzava verso la ghiotta eccellenza osteo-muscolare con una più che discreta percentuale morfologica (non approvi questo linguaggio tecnico, quaderno? Prova a immaginarne uno più spiccio e gergale qui sottinteso).
*
Il velo di impressioni fresche mi riporta al sogno già mezzo narrato. Vediamo di finirlo stasera. L’autorevolezza dell’ibrida visitatrice lo esige.
La mia bocca trepidò sopra il seno sbocciato, le mie labbra lo percorsero e serrarono delicatamente, deliziosamente mimando una suzione infantile. Sembrava svenire, fra sospiri e suoni di voce strozzata. E mi parve strano che, al suo primo contatto di sesso preliminare, questa creatura di sogno reagisse con tanta partecipazione. Ma poi sentii di non essere al primo, ma al secondo e terzo e quarto incontro, e chissà a quale numero ordinale: secondo la beffarda logica del sogno, che condensa mescola identifica e scalcia sui tre aurei assiomi della logica aristotelica. Ma sì, io l’avevo già iniziata, il suo primo impatto col maschio era stato il mio, il nostro. Ma tempo fa, e ora ne eravamo lontani. Quanto tempo fa? Non lo sapevo, forse alcuni mesi, forse un anno: no, non riuscivo a ricordarlo. E intanto che la memoria divagava, la mia mano si trovò fra le sue gambe, salì verso le cosce, ne misurò la morbidezza elastica e piena, la soda, levigata e cedevole forza muscolare. Depilata fin lassù? – pensai. Ma conclusi che no, le cosce non potevano esserlo: solo le gambe da sotto il ginocchio in giù.
Le mani avanzavano, non lasciandosi distrarre dalle evasioni del pensiero curioso. Le dita premettero contro il leggero tessuto cribrato. Indugiarono, vagolarono, nei dintorni, esitanti non per pudore mio o per riguardo al suo, ma per malizia di calcolo. E quando ritennero colma la misura della sua tensione, penetrarono oltre la cortina, e gli umidi sentieri se ne riempirono nel loro buio vorace. La sua incerta resistenza iniziale s’era infiammata ad impazienza collaborante: la palpebra trapunta scivolò via a rivelare uno strano occhio con strane ciglia. Ritornate, per l’occorrenza, unite, le scolpite gambe avevano facilitato lo scivolo liberatore. Il quasi-velo intriso di molle profumo d’acquisto combinato con gli odori di madre natura ruffiana, il mistico velo del sacro bosco, scivolò fino ai piedi, tirato da dita tremanti, di adorazione e concitazione. Ed eccomi, versione minuscola ma non dissacrata, del mitico “Re del bosco”: minima, sì, così poco frazeriana, e meno drammatica nell’eventuale successione. Ma, sentivo, non del tutto sdrammatizzata. Anche nei sogni, timori e tremori. E i piedi coprì per due secondi, quel sacro crivello, e scoprì in un secondo. Gli occhi si affrettarono a reclamare la loro parte di felicità, e il concerto dei sensi fu pieno intorno alla mistica mensa. Intanto l’Onirico mutava la logistica: era ancora la mia stanza solita che ci ospitava? Sì e no: lo era e non lo era più. Che cosa v’era cambiato? Un informe misto di colori declinati dall’imbrunire, di odori e sapori di ben noti dolciumi appena sfornati, un silenzio più fondo di solitudine innaturale, contro cui si stagliavano musicalmente sospiri e gemiti in metamorfosi d’usurpata infanzia. Un pasticcio senza capo né coda. E non mi chiedere dei tempi, quaderno: sai che il Crono onirico ha le sue non-regole, e non rispetta le nostre scansioni. Posso dire soltanto che la successione probabile delle sequenze mi presenta, nel poi dell’ultima, la simbiotica dea distesa sopra una mia sdraio rossa, che nella realtà del giorno non sta nel mio studio, sì nel soggiorno. E io le fui ai piedi, in ginocchio, la testa fra le divaricate colonne del tempio, a recitare preghiere di avide labbra e mobilissima lingua. Mentre gli occhi contavano senza riuscirci le varie qualità e gradazioni di rosso, dal rosa denso del santo dei santi al rosso cupo della tela ospitante, deliziosamente tesa dalla pressione del bel corpo disteso. E confrontavano i due tipi di nero, quello del tempietto folto di intricata flora e l’altro, liscio e freddo, del telaio metallico della sdraio. Chiusa la fase adorante, le fui sopra, quant’ero lungo, lei non più coperta nella parte già adorata. Né impedito da stoffe coibenti fui io, a mia volta, nella corrispondente latitudine del mio corpo allo spasimo. Lei gemeva, e respirava denso. Io sentivo, nello scivoloso ingresso tendersi e resistere l’alt elastico e problematico dell’adorata integrità. E l’estranea molteplice si faceva meno estranea, diventava sempre meno misteriosa. Di colpo fu lei, la regina di questo eone privatissimo. Seguono, nel ricordo spezzato e ricostruito, zone buie, larve di cose e di ambienti. Poi di nuovo luce, morbida e smorzata, un latte di crepuscolo dove il mio orgoglio tenace fu tra le sue dita guidate, palpitante e turgido come un desiderio che scoppia…Poi altre cose, altre delizie sul corpo bianco dentro l’oscurità appena diluita dai riflessi stradali filtrati da opache cortine. E mi svegliai: sussultando, bagnato, spremuto, e dicendo, come incalzato da incombente pericolo: “No, quello no! Quello no! Non ho il diritto di…, di…”. Non potei sapere di che cosa esattamente non avevo il diritto, nello strabiliante fiume del sogno. Destandomi, lei non era più lei ed era sempre lei.
Ecco lo strano viaggio onirico dell’altra notte. Chi era la misteriosa creatura sintetica che ora si identificava con questa ora con quella delle mie conoscenze senza fermarsi più che tanto in nessuna? Un condensato di desideri repressi propiziato dal caldo africano di queste notti estive? Certamente. Ma perché quelle modalità del sogno, e quella galoppante durata ricca di particolari? Avevo gridato, in quel no replicato: un grido strozzato, ma sufficiente a svegliare Rina. Che mi scosse e risvegliò del tutto: “Che stavi combinando, eh? Era la tua coscienza sporca che ti sbarrava la strada?” Così disse, chiese, sentenziò la legittima compagna dei miei sonni e non dei miei sogni. Stranamente polarizzata sulla logica logocinetica del finale onirico: come mai? M’era sfuggito qualche gemito, un soffio più denso del respiro, un segnale, insomma, che potesse spiegare quella strana allusività mirata? Sia come sia. Inventai, lì per lì, una risposta quasi credibile, di rissa che mi spingeva a colpire, non ricordavo bene come e con che cosa; solo che erano, sarebbero stati colpi eccessivi, a rischio di complicazioni fatali. Vedi ingegnosità della Colpa.

*

18 luglio,
tarda sera

Giornata convulsa. Di notizie contrastanti e di varia dislocazione. Una telefonata dal paesello sicanico mi informa che a mio fratello è arrivata la comunicazione ministeriale della sua inclusione nella graduatoria dei vincitori dell’ultimo concorso a cattedra. Entro cinque giorni dalla data di spedizione della lettera deve far conoscere a quei frettolosi signori le sedi preferite. Contento per lui, ma a me perché non è arrivata analoga comunicazione? Scatta la mia nevrotica “sospettosità” para-metafisica: che cosa sarà successo? Sarà la solita malasorte? Eccetera. Nella stessa telefonata, la brutta notizia: una zia di Rina è caduta e si è rotta l’osso sacro. Ricovero, ingessatura, e complicazioni: questa zia è vedova e con due figli ancora ragazzini. Senza lavoro, dunque, e col misero sostegno di una ridicola pensioncella. Sarà mio suocero a fornirle assistenza. Completa di presenza operativa, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro; e di soccorso finanziario. Combattuto fra il dolore per la sorte della zia (e del suocero) e il disappunto per la mancata comunicazione (con qualche egoistica inevitabile prevalenza di questo secondo compressore) scrivo un’allarmatissima lettera a Gulizza: preghi lui il professor Volpelli, uomo di molte entrature ministeriali, e suo, molto più che mio, amico, di informarsi al Ministero trasteverino per scoprirne gli eventuali arcana Palatii a mio danno. Corro all’ufficio postale a spedire l’espresso.

Arriva Susy. Sono agitato, ma la lezione non si può saltare. Ne sono libero verso le 20,30, e proprio a quell’ora mi chiama la cognatina virtuale: c’è una telefonata per me dal paese. Corro, oscillando tra speranza e timore. Aveva ragione la speranza: è arrivata la comunicazione anche a me. Mi faccio dire il numero di protocollo, e raccomando a mio padre di spedire la informativa ministeriale domattina presto, per espresso.

Dunque, sono vincitore di concorso. Non più alle dipendenze dei triennali incarichi da abilitato, ma stabilmente collocato in sede di mia scelta. Stento a raccapezzarmi. Avevo desiderato tanto questa decisiva vittoria (un esame è sempre una cornuta incognita. Specie con certe teste di commissari) e avevo immaginato diverso lo stato d’animo che ne sarebbe derivato. Più euforico, meno “calibrato”. Ma forse è solo il primo effetto. C’è bisogno di tempo per misurare i vantaggi della nuova situazione. Ed è inutile, oggi, rimpiangere il gran tempo perduto, con rinunce improvvide e rinvii vigliacchetti. Sì, lasciamo cristallizzare l’evento dentro gli intricati meandri corporei del cosiddetto inconscio.

19 luglio

Le coglionate che sento in questa vendemmia di esami! Dovrei proprio farla, una piccola antologia umoristica. Oggi ha sostenuto le seconde prove Stella Cilurto: ha deluso un po’, in confronto all’ammissione (più che discreta), ma nessun dubbio sulla maturità. E pochi sulla misura valutativa, pari, o quasi, alla media di ammissione.
Pomeriggio libero. Salvo che per un funerale e relativo accompagnamento all’eufemismo tosto dell’ “ultima dimora”. Il fratello della moglie del fratello della promessa suocera di mio cognato, al capolinea di una interminabile e atrocissima sofferenza, rassegnato e consapevole, si spegneva, con sollievo, divorato da un cancro vanamente contrastato per mesi. Aveva 52 anni.
S’impenna la statistica empirica di questa strage specifica: troppi morti per cancro da queste parti. Già troppi i pochi che cadono nei quattro-cinque paesi marini di nostra immediata pertinenza sociale, fra amici e conoscenti. Di più se allarghiamo sguardi e conteggi ai paesi meno vicini, marini o di collina. Le rare menti riflessive e più informate parlano già di sospette discariche tossiche e di stoccaggi di sostanze ad alto rischio di potenziali incidenti catastrofici. Ma le autorità smentiscono se interpellate in camera charitatis e i media tacciono ligi ai comandi e agli interessi dei potenti paganti. Tra le sostanze nere, il bianco, lucente amianto, fra i nuovi untori sospetti dell’eldorato chimico. Dopo decenni di utilizzo brado, senza remore di ascolto per le rare voci che gridavano al lupo.
Come ogni volta che il mostro colpisce, per così dire, sotto i miei occhi, io mi sento strani malesseri. E mi si riaccende la paura di poterne ospitare uno anch’io. Magari nel cervello. L’organo, forse più usato dal mio modesto totale.
Narrano che la vittima appena sepolta pregava molto i vari abitanti e potentati dell’Olimpo cristiano-cattolico. E che sperò fino all’ultimo barlume di lampeggiante semi-coscienza. Speranza, ultima dea? O estrema umiliazione della carne sofferente, che “indietreggia davanti all’annientamento” (Camus)?

20 luglio, ore 23

Le finestre dello studio socchiuse filano un soffio angolare d’aria fresca che mi fruga e percorre come molle carezza dopo i furori apollinei del giorno temerario. Dal declino del quale fiotti di sensazioni ancora vibranti salgono a contendere la calma del mio corpo alla grazia stellata di questa brezza inattesa.
Nella solita chiave potrei ripetere solite formule. Qui, anzi hic et nunc, più indiavolato il ritmo del sangue nella presa dell’ansia per gli esami imminenti di Susanna. La quale, come sappiamo entrambi, quaderno, non è (non può essere) preparata a sufficienza. Perché poi me la piglio tanto, anche questo lo sai, complice muto: è un punto d’onore (dove va a ficcarsi l’onore!) per me, per tutta la famiglia, il successo di questi esami. Intendo, la pura e semplice conquista del diploma. Così insidiato, così propiziato. Anche con una sfilza di sei.
Un acre aculeo di velluto sensuale, esaltato da fantasie recenti mi spinge verso i dolci lidi del casto talamo in attesa. Buona notte.
Il resto, al silenzio, spero discreto, di questa pagina ruffiana. Mi avvio con una certa apprensione. Un nugolo di freccette taglienti confitte nel muscolo cardiaco: ecco la sensazione da qualche minuto dominante. Quanto durerò?
Anche questo lamento è un vecchio refrain? E che non lo so? Come il refoulement qui in atto, formicolante di sottintesi.

21 luglio, ore 16, 45

Ecco di nuovo le antiche distonie umorali. Mi sento come l’ubriaco che si sveglia nel vuoto del mattino seguente. Un vuoto di angosciata dispersione, di smarrimento, di sradicamento. La metaforica ebbrezza? Pare che sia fatta: Susy ha superato tutte le prove orali. Oggi ha “dato” il gruppo lettere. E’ qui il nido del micro-big bang interno.
Tutti i colleghi commissari sono stati gentili e di parola. Temevo qualche sorpresa da quello di italiano e da quella di latino; ma loro sono stati, poi, i più generosi e pronti al dono. Più dell’amico Tucano. Del quale, quaderno, siamo obbligati a occuparci con più lungo e divertito indugio (sempre che l’umore sopra accusato non riprenda il sopravvento su questo tacito tentativo di temporaneo superamento).
A Tucano, certamente, ha fatto noia la reazione sgusciante e vagamente beffarda di Susy alle sue sfacciate avances – come dire? – dialettiche. Le ha dato, comunque, la sufficienza, sia pure con un insignificante meno davanti: magra soddisfazione contro quella inafferrabilità irridente. Ma veniamo più in dettaglio al dunque di questo indugio, parlando un po’ di questi esami, con la stessa disposizione mentale di Oscar Wilde quando diceva: “Trovate un’espressione al dolore, e il dolore stesso vi diventerà caro”. Sì, voglio distrarmi da questa tensione dolorosa in via di scarico, ma bloccata dal coibente vuoto.
Tucano era rimasto abbagliato da Susanna fin dal primo giorno degli scritti. Le aveva rivolto la parola più volte. E sempre col solito urto pacchiano, fatto di insolenze giocose e di sguardi antropofagici. L’urto cominciò col disinvolto tu sparatole in faccia senza riguardi. E ora scattava un complimento galante, ora una provocazione avida di originali risposte. Tutte le volte incontrava la resistenza scivolosa della ragazza. Scivolosa, per un verso, ma anche spinosa, per l’altro: cioè, mista di insolenze complementari alle sortite di lui.
Il giorno delle prove orali del gruppo scienze Tucano portò la considerevole mole di robusto os-sesso nella nostra aula e aggredì Susanna con queste parole alla cocaina arsenicata: “Le donne si dividono in due categorie: le oche cretine e le oche intelligenti. Tu appartieni alla prima categoria”. Susy non mosse ciglio: gli chiese come si dividessero gli uomini. Tucano rispose semplicemente (ma poteva non sospettare l’arrivo di una risposta piccata?) che si dividono in cretini e intelligenti. Al che, Susanna, per nulla intimidita, replicò: “Voi siete della prima categoria”. Tucano masticò amaro, ma dovette stare al giuoco che egli stesso aveva iniziato. Non sentii bene che cosa blaterò (il dialogo, naturalmente, si svolgeva in sordina, e masticando le parole) dietro la reazione di Susy.
Altri scontri avevano già suggerito alla ribelle di svelta lingua pepati aggettivi, che stentava a sminuire nella sordina: “somaro”, “deficiente”, “dongiovanni da strapazzo”; e via cantando. Ora, quaderno, noi sappiamo che Tucano non è affatto un cretino, né un dongiovanni da strapazzo. Si può comportare da quello e da questo, e nella presente occasione lo ha fatto. Ma è intelligente, abbastanza colto, e capace di scrivere dignitosi articoli di critica letteraria e cinematografica. In fattispecie, per usare il linguaggio giudiziario, gli ha nuociuto l’estrema attrazione che gli ha acceso dentro i corbezzoli la “casta Susanna”. Mario è un intenditore di bellezze muliebri e gode una non usurpata fama di tombeur de femmes. C’era poco spazio per un’avventura con Susy, anzi nessuno: lui “forestiero”, lei sotto la mia protezione “amicale”, niente da fare. E questo niente lo ha “squilibrato”, muovendolo a comportamenti eccessivi e pendolari.
Susanna, forse, non lo trovava così indigesto, ma scaricava la sua possibile attrazione segreta nella più schietta aggressività verbale. Anche oggi non ha mancato di sibilarmi dentro l’orecchio destro, mentre Tucano parlottava con la collega di educazione fisica, certamente di lei: “Se questo imbecille non la smette, gliene canto quattro”. Conoscendola, ho temuto davvero qualche sua uscita dirompente. Stringendola al braccio, l’ho calmata, a stento: “Controllati e non rovinare il mio lavoro. A cose fatte, gliene dirai quante vorrai. Se ci terrai ancora”. Il fatto è che Tucano non mi aiutava. A un certo punto, le si è accostato e le ha detto: “Sei una follicolinica arrabbiata.”. Lei non capì, per fortuna: “Che cos’ha detto quel coso?” “Niente, ti ha fatto un complimento” “Che complimento?” “Ha detto che sei una ragazza di carattere”. Non sembrò convinta della mia “traduzione”. Non le ci voleva molto a sospettarvi una mascherata sedativa: pro bono pacis et rei. No, non era convinta: guardava accigliata.
Poi l’ha seguita quando lei è andata a fare la prova pratica di educazione fisica nell’apposita sala. Si è avvicinato alla commissaria di “ginnastica” e le ha sussurrato qualcosa all’orecchio. E la sguaiata signora Gentile ordina alle candidate, tutte in gonna e camicetta, di eseguire dei “piegamenti sulle ginocchia” con la faccia rivolta a loro due. Susanna si è rifiutata. Richiamata all’obbedienza, dalla commissaria stuzzicosa, ha risposto che avrebbe eseguito l’esercizio soltanto se a fare coppia per l’obbligatoria assistenza col testimone ci fosse una donna e non un uomo. Obbiezione che più centrata non si poteva. Quanto a me, non potevo che prendere le sue difese. L’esercizio di Susy rimase un virtuale non realizzato negli appetiti surriscaldati del mio collega e amico Mario, l’imprudente recidivo.. Che se ne stette a guardare, scornato e inferocito. Ma anche afasico temporaneo, per un probabile sussulto di coscienza autocritica. Si sarà reso conto, a questo punto, che ha esagerato fino a sfiorare (soltanto?) il ridicolo. Coboldo relativistico, il ridicolo: che però, in certe occasioni tese sa anche irrigidirsi in piccolo ma efficace assoluto. Era, forse, il caso “nostro”: di Tucano auto-esposto in una posizione falsa, senza uscite di sicurezza.
Basta, mi fermo qui. Non ce la faccio più. E poi: forse avrò bisogno di un’altra dose di droga narrativa per combattere la sempre incombente melancholia da “caduta tensionale”. Alla prossima seduta, quaderno asinello.


22 luglio, ore 23,30

Io dico seguitando. Tucano ebbe scorno dall’impertinenza di Susy (o, piuttosto, legittima difesa del suo pudore contro un’aggressione petulante). E se ne stava a guardare poco coinvolto l’esercizio dei non più evitabili piegamenti sulle ginocchia delle ragazze. E a mal digerire il rifiuto blindato di Susy. Le sue compagne, poverine, non avevano la sua presenza di spirito, e abbozzarono, piegandosi e sollevandosi. Alcune, con lieve e meno lieve rossore, altre con meno inceppata disponibilità. E non è che non ve ne fossero di carine e bellocce, fra loro, anche se nessuna con lo charme di Susy (ahimè, continuo a ripetermi). Insomma, Tucano dovette accontentarsi di ripieghi: non spregevoli, ma pur sempre ripieghi. Sicché lo scorno restava, e la sua rabbia tracimava da un broncio a stento controllato. Si sciolse, dopo l’esercizio ginnico delle fanciulle in fiore e in gonna, già corta per decreto di Moda (Mary Quant locuta erat). Si sciolse, si vuol dire, dal grugno muto, troppo ghiotto per la sua controparte, e per non dargliela vinta, riprese a circuirla con le ciarle, standole vicino mentre lei si rifugiava tra le compagne. Tentò di toccare argomenti seri, i progetti futuri, le ambizioni professionali (“sempre che tu sia promossa, del che non sono sicuro” Qui, smorfia incredula di Susy), l’amore, il matrimonio, e via salendo. Ma l’esito di siffatte avances non fu migliore delle precedenti provocazioni: Susy rispondeva con monosillabi e minifrasi: l’inevitabile per non apparire “scostumata” (come si usa dire da queste parti per significare impertinente, maleducata e simili). Capivano tutti, anche i più distratti fra gli osservatori occasionali, che Tucano cercava un contatto corporale, anche minimo e “innocente”, come le condizioni ambientali imponevano. Tentavo, e tento, di immaginare i commenti delle compagne di Susy, dei loro genitori o sorelle presenti alle prove (pochi, in verità). Era impossibile ignorare quel corteggiatore sfiatante e colloso. O goloso, che suona ancora meglio.
Alla fine Tucano mi si accostò, mi strinse il braccio sinistro e mi trascinò in più protetto spazio dis-occupato. Lo guardai con l’ovvia domanda dentro lo sguardo allegramente ironico: che vuoi? Me lo disse subito, ripetendomi la domanda che mi aveva già fatto durante le prove scritte, notando la mia “attenzione particolare per la candidata più bella e sexy dell’intero istituto”. “Dì la verità, tu con questa…” , strizza un occhio più incupito che divertito, e accenna il gesto manesco per dire te la scopi. “Su avanti, confessa”. Io giurai che no. E fin qui era pura verità. Ma Tucano non mollava, e ripiegava sul petting largo e copioso, e qui il mio “non c’è niente fra noi”, così poco credibile, iniettava la “fatale” dose di impurità al primo diniego. “Non ti credo” – sentenziò. Ed io a ripetere che non potevo “vantarmi di cose non fatte”. Eccetera. Non la bevve. Insistette: “Parola d’onore?” Una fittarella al fegato non mi fu risparmiata, e ne avrei fatto volentieri a meno, come si dice in questi casi. Detti, ahimé, la parola d’onore. “Parola d’onore”, biascicai. E per sciogliere nel liquido acido delle chiacchiere catalizzanti l’increscioso imbarazzo, temuto visibile all’occhio esperto del collega intrigante, aggiunsi parole a parole, non meno aliene dall’impegno chiuso nella stretta di mano. Certo, ammisi, “la ragazza mi attira, non sono mica un monaco di Iside già servito, ma non c’è nulla da fare, non è il tipo”. Lo sguardo di Tucano non si acquietava, anzi si aguzzava a penetrare segreti dietro quella barriera sonora stonata. E io sventolavo l’aria innocente e cupida che avrebbe dovuto, nel mio onesto intento, dissolvere i sospetti dell’amico inquirente. “Proprio niente da fare – aggiunsi – ed è cosa terribile per me, che la vedo quasi tutti i santi e i profani giorni, a casa mia. E resto ore solo con lei per le lezioni che l’amicizia fra le nostre famiglie mi obbliga a darle. Sarà, magari, perché al suo confronto, sono quasi il brutto anatroccolo, non saprei…”. Spero si sia convinto, dopo questa profusione di argomenti. Ah, le versioni possibili della “Dissimulazione onesta”!
“E’ una serpe”, digrignò sibilò soffiò. E nell’obbligata sordina intendeva farle un complimento. “Le farei…”. “Più o meno quanto le farei io, se fosse possibile” – replicai, pronto, ad evitare il prevedibile successivo esplicito. Non alitò né schioccò altre monche parole di risposta, Tucano. Ma, rivolto alla lubrichetta signora Gentile, non ebbe difficoltà a postillare: “In casi come questi, il cazzo si moltiplicherebbe”. Né lei, la disinibita collega esperta in corpi da ginnastica, ne trovò più di lui (difficoltà, dico) a farsi una larga e sonora risata condita di verbaglia in sordina: “Forse anche la lingua?”. E altre perle del genere lampeggiarono tra loro due, con qualche disappunto divertito da parte mia, che mi ero scostato di un modesto recul dal loro dialogo così poco istituzionale. L’aggettivo soffiato sul “disappunto”, poi subì un sottile prolungamento metamorfico, che sa di orgoglio refoulé.
Tucano non è stato il solo ad essere conquistato dalle grazie selvatiche e ninfesche (a suo dire) di Susanna. I suoi occhi dorati, il suo sguardo felino e saettante in quel viso perfetto hanno fatto breccia su tutti i commissari di sesso maschile. I quali, però, sono stati più composti o assai meno sbracati del massiccio “filosofo”. Tra loro, il meno impacciato, ma entro non ampi limiti, è stato il simpatico Brighelli, il commissario di matematica. Oggi è venuto nell’aula di lettere e s’è intrattenuto a parlare con Susy, mentre lei era in attesa della prossima interrogazione. Il modulo usato nell’approccio è stato lo stesso di Tucano, la provocazione; ma la misura molto meno pacchiana e sessual-aggressiva. Primo affondo: “Che brutta figura hai fatto in matematica. Ti faccio gli auguri per le prossime interrogazioni. Di fare la stessa figura”. Messaggio ricevuto, e pronta risposta: “Se invece di fermarsi su quelle porcherie lei m’avesse chiesto cose serie, la brutta figura non la facevo. Che poi tanto brutta non è stata”. “Come no!?” “Figuriamoci, per due sciocchezze!”. E fu la volta dei complimenti. Brighelli disse che aveva scherzato sulla brutta figura, e che lei era “tanto bellina”. E non so che altro venne fuori, di lusinghiero, da quest’altra bocca manifestamente in secrezione di acquolina. Lei ringraziò e regalò uno dei suoi sorrisi “irresistibili” (l’aggettivo zampillò nella breve conversazione brighellesca, ma non ricordo se Brighelli se ne sia attribuito il copy rights o lo dichiarò pertinente alla “pubblica voce” locale. E cioè alle molto concerned chiacchiere commissariali).
*
E venne l’ora della prova di italiano. Dove lei ha risposto meglio che altrove, favorendo l’impegno assunto dal commissario Arfusto del tutto sponte sua (e resistente a un mio sincero “non pretendo tanto”) di darle sette. Più o meno allo stesso modo è andata la prova di storia, e anche qui è scoccata la nota del sette. Arfusto, poverino, me li aveva promessi per ventitre giorni di seguito, i due sette. E come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi chiedo se avrebbe mantenuto l’azzardo in caso di prova fallimentare o comunque non sufficiente. Credo di sì: la mentalità corrente in questa geografia del cosmo scolastico prevede simili tributi all’amicizia. Magari, in presenza di un disastro si sarebbe limitato alla sufficienza con qualche ininfluente segno meno davanti, ma non avrebbe tradito il “patto”. Io avrei capito, e non avrei avuto nulla da recriminare. Ma, ne sono sicuro, avrei recriminato, e come! (viva la faccia) se, davanti a un flop marchiano, lui avesse insistito sul sette mostruoso. Arfusto, però, era tranquillo: in caso di difficoltà serie nelle risposte di Susy, io avrei potuto suggerire quelle giuste, con la benedizione di lui. Uomini di mondo siamo, da queste parti: quasi tutti i professori, nonché educatori delle novelle generazioni. E se uno s’attenta a muovere qualche obbiezione deontologica al sistema viene giudicato un fatuo snob poco apprezzabile. Se mi s’affaccia al viso un po’ di rossore? Ma sì. E che perciò? Siamo così lontani da ogni ipotesi o presunzione di riscatto che non sia l’evangelico beati monoculi...!
Intanto la (troppo) cordiale cortesia e disponibilità del collega letterato mi lega un po’le mani e mi tappa almeno mezza bocca. Voglio dire, dovrò muovermi con discrezione nel difendere le altre candidate “rappresentate” da me, non escluse le mie dirette alunne. Temo che a una mia eventuale insistenza difensiva “smarginante” mi verrebbero rinfacciate le concessioni per la “favorita”. Vedremo. Una cosa è certa: mi batterò comunque al meglio delle mie forze. Forse invocando il sacro valore (ahimé, giusto pro bono meo maculato nella sua verginità) dell’equità (magari di un’equità flessibile).
Altra noterella eminente: pare che la sguaiata e generosa signora Gentile (nomen omen?), insegnante e commissaria di educazione fisica (qui, al magistrale, comporta teoria e pratica) abbia dato addirittura otto a Susanna. Naturalmente, per farmi piacere. Ma a me questo voto non piace: la simpatica, appetitosa giovane signora allude sovente, e in maniera poco gradevole. Lei sarebbe pronta a giurare che tra me e Susanna ci sia ben più che del tenero platonico. E tu sai, quaderno, che sto usando una formula debole: il linguaggio della graziosa, formosa e sfacciata collega (lo abbiamo già annotato? E che perciò!?) non è così delicato. Né rifugge da certe esplicitezze gergali del lessico pertinente. Considerato, poi, che è “comare” del preside Timarco, e gli racconta tutto, le sue eventuali, anzi trasparenti convinzioni, mi allarmano. Ho un bel dire, in giro, da tre settimane, che l’amicizia tra me e Susy è schietta e priva di malizia; che si scioglie in quella più larga tra le nostre famiglie. E via suonando: all’arpa della sopra convitata dissimulazione onesta (versione magno-greca, si capisce!). Ma com’è difficile far credere alla purezza dei sentimenti (taci, quaderno). E andiamo a nanna, che s’è già fatto mattino, mentre l’altra Innocenza dorme ignara nel talamo mutilo.

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