domenica 16 agosto 2009

Susanna, frammento 37


14 luglio

Tarda sera. Il primo dei due giorni magni. Questo è andato bene. Insomma, Susanna “ha dato” gli esami del gruppo scientifico, e i colleghi mi hanno favorito tutti: piena sufficienza in matematica e fisica, scienze naturali, agraria, musica; un bel sette in disegno-storia dell’arte.
Mia moglie è contenta. Ha scaricato una prima, e cospicua, parte della tensione accumulata nei lunghi mesi trascorsi, dall’inizio dell’anno e, soprattutto, delle “stranezze” di Susy. Ora attendiamo, con ansia, certo, ma con più fondata speranza, il giorno 23, del “gruppo lettere”. Ho avvisato, naturalmente, i colleghi commissari che gli avrei chiesto “un favore speciale”, ma pur sempre “nei limiti della decenza”. Come avevo fatto con quelli del primo gruppo. Inutile precisare che si sono mostrati, anche loro, disponibilissimi. Certo, con gli inevitabili dislivelli anche nell’uso dei superlativi. Tant’è che mi rimane un residuo di sospetto e diffidenza. Più che generico e generale, particolare e mirato: sulla “signorina” di latino (che però, in caso di bisogno, potrei, volendo “ricattare” benissimo: a mali estremi…). Vedremo.
*
Intanto, oggi, finalmente un pomeriggio libero. Cioè, senza lezioni private. Sono venute, sì, alcune ragazze della classe in esami, ma solo per consigli e chiarimenti puntuali e limitati, ovviamente, funzionali ai prossimi orali di lettere. Poco disturbo e non molto tempo speso. Poi, dalle 19, 30 alle 21, 30 circa, sono stato al ricevimento organizzato dal Camune di Zefiria in omaggio di benvenuto alle varie commissioni di maturità operanti nella cittadina.
Una piccola fiera e parata delle vanità. Le prevedibili vanità interessate dei politici e notabili indigeni. Ha concionato, e sproloquiato, il Sindaco (concedimi le maiuscole, quaderno), irraggiando amore per la Cultura, rispetto per le Istituzioni, pensosa attenzione paterna per l’avvenire dei nostri Giovani, anzi Figli, e Nipoti, così insidiato (esso, l’avvenire) dalle difficoltà dei tempi non facili che si annunciano. E via, salendo, con la serena fiducia nell’operato e nella specchiata integrità e competenza dei signori commissari, e nell’equilibrata, saggia regia dei loro presidenti. E variamente sventolando, soffiando, gonfiando. Ha risposto, emozionato e tesissimo, il presidente della nostra commissione, prof. Dell’Acqua, vibrante di gratitudine per la calorosa accoglienza, non meno sicuro dell’eccellenza dei commissari e dell’onestà operativa delle commissioni tutte e della sua in particolare. Lo seguiva, ansiosa, la simpatica moglie, certo non ignara dell’impacciata timidezza del consorte. Poi mi sono dovuto sorbire l’interminabile tambureggiamento del corpulento dottor Scattò, specialista in otorinolaringoiatria (il caso comanda che si usi intera la parolaccia) e in millanterie più o meno simpatiche e umoristiche.
E qui, quaderno, ti confido un dettaglio incredibile: il dottor Scattò è padre legittimo di dieci figli dieci. Ma è poi un dettaglio, un particolare secondario? Uno che ha osato mettere al mondo dieci creature non è “un dettaglio”, è un evento. Cinquant’anni fa sarebbe stato un caso dei molti, un numero collocabile nella normalità popolare (contadina soprattutta); trent’anni fa, un vanto del regime e una festa di pubblica premiazione; oggi, a metà secolo largamente pregressa, e di più accorta demografia, è una rarità assoluta. Dunque, un evento. Del resto è l’unico che si conosca nel paese e nel suo territorio, pur largo di campagna (e di agresti ardori mono-uso). Un medico, poi: potrebbe essere un caso da “Guinness dei primati”. Come si fa a caricarsi della responsabilità di dieci destini? Sarà stato incoraggiato dal buon esito dei primi arrivi: un paio di maschi e una femmina sono già bravi studenti di liceo e ginnasio. Ma non c’era il tempo di valutare “l’esito” delle prime nascite, tanto erano vicine. Solo un’apertura di credito sul futuro poteva “incoraggiare”. Vale a dire, lasciare briglia sciolta all’incoscienza. E’ anche il nostro otorino, il cordialone, e ha curato varie volte il piccolo Gianpiero. Bravo, devo dire: azzecca le diagnosi e non sbava per i farmaci: quanto basta, senza corrività per gli antibiotici né riguardi per piazzisti e farmacisti. Ha curato anche me e Rina. Rispettandoci nei “prezzi”. Saluto il prolifico con un pensiero per la moglie: martire o complice? Niente niente ci sia un altro caso di fanatismo evangelico? Il più clamoroso che ricordi io è vanto del mio paesello sicanico; anzi, di un suo quartiere e relativa parrocchia. Un professore di matematica-fisica nei licei, ghiotto di ostie consacreate e dirigente diocesano dell’Azione cattolica, ha ingravidato la moglie, donna non proprio bella, ma di “anima nobile”, per sette-otto volte in pochi anni, né ha smesso quando il medico di famiglia ha ammonito i due sciagurati contro il rischio letale incombente sulla pia donna stregata dalla sacra dottrina, ma non salda di cuore. Ed è finita con la morte della santa prolifica, logorata da parti e aborti spontanei. Nel caso Scattò sembra che tutte le fecondazioni siano andate a...buon fine. E la frugifera è ancora via.
Ho bevuto un dry Martini, nel corso della vibrante serata, una Coca Cola e un bicchiere d’acqua minerale; ho sorbito un gelato e masticato con voluttuosa lentezza due paste da dessert. Conversando un po’ in giro, ho fatto il compìto galante con le signore presenti, soprattutto con la moglie del presidente Dell’Acqua: donna di spirito, non sgradevole, se non gran beltà da tachicardia. Ho perfino litigato col commissario di matematica. Mi accusa di parzialità (reale) verso le mie alunne, e di ingiusti sospetti per il collega di italiano. I sospetti ci sono, ma che siano ingiustificabili è tutto da dimostrare. L’ “italianista” è poco preparato e alquanto incline a scambiare lucciole per lanterne (come ho già notato in questi sfoghi serali). Per esempio, risposte corrette per errori più o meno gravi. Secondo il piccolo Vishinsky, poi, dovrei restare con la parte di commissione del “gruppo scienze” anche quando le mie alunne sosterranno le prove orali di lettere. Non si rende conto che sarei accusato di tradimento dalle ragazze e dalle retrostanti famiglie. Lo so, il sistema è balordo: ci vorrebbe un rappresentante per classe, e non uno per commissione (ognuna delle quali esamina più quarte classi). Ho cercato di spiegarlo al collega impiccione, ma con scarso esito. Comunque, io avevo già deciso di “dividermi” fra le due aule, e così farò. Starò di più nell’aula di lettere, con le mie alunne, ma non abbandonerò le altre. Non lo potrei fare, in ogni caso: non sarebbe “legale”.

Di ritorno a casa, trovo Rina in angustie: il fratello non è ancora rientrato. Data l’ora tarda, non mancano radici alle sue preoccupazioni. Ma io sospetto cause poco drammatiche. Infatti: non molto tempo dopo la sua “notifica”, il ritardatario rientra. E mi confida, mentre lo accompagno sulla soglia della neo-fidanzata, la giustificazione tutta erotica e libertina del suo ritardo. Che cosa inventerà per la sua ragazza ufficiale? Lui sostiene che gli crede, tanto è innamorata. A sentirlo, gli crede sempre, anche quando racconta panzane. La sottovaluta: ecco la mia impressione. Eppure, è stato il primo a vantarne l’intelligenza (“solida e meditativa”). Temo complicazioni. Ad ogni modo, siamo rilassati, io und meine Frau, dopo la tensione dell’attesa: lunga per Rina, e la famiglia Carolui; breve per me, che sono rientrato da poco più di mezz’ora, ma sgradevole per tutti (e sia pure in ovvia differente misura). Residua, nel mio lago umorale, un po’ di adrenalina da prolungata esposizione sociale. Stenterò a prendere sonno, forse, e rivedrò, nel film a spezzoni, scene della serata. Forse, anche, e con speciale curiosità, la prosperosa moglie dell’assessore Minnelli nell’atto di sollevarsi il seno ampiamente scoperto: l’angolo, nel rientro dal bagno, sembrava al riparo da sguardi indiscreti. Ma forse che i signori uomini non hanno i loro bisogni? Del resto, è problematica l’intenzione della appetitosa signora di celarsi alla malizia visiva dei tanti maschi presenti. Poco male. E buona notte a lei che ci ha allietatati con la sua carnale letizia.
E a me. Che però, come ho scritto sopra, temo mi sia di coatta veglia per un buon tratto. Magari arieggiata da piccati confronti tra le bellezze eleganti di questa serata speciale. E di loro con Quella che tutte le supera e ora, nella mia infantile immaginazione, mi augura sogni d’oro.


15 luglio, ore 23

Ultimo giorno di scienze per le mie alunne. La prosperosa Ilaria è stata aiutata in matematica e fisica; è caduta in scienze naturali.
Le balle che si sentono in questa giostra di intelligenze coltivate! Né vengono solo dalle candidate. Il commissario di matematica della 1a commissione chiedeva a una candidata l‘area della superficie laterale della sfera. Alla perplessa figliola ammutolita suggeriva, poi, di trovarla, l’area mistica, considerando la somma dei volumi (questo, magari, sarà stato un lapsus) di tanti piccolissimi coni col vertice nel centro della sfera e la base sulla superficie (e questo non è certamente un lapsus). Codesto simpaticone dalla mole strabocchevole, e dall’aria cretina, pronuncia Bual il nome illustrissimo del grande fisico inglese Boyle, Neumann quello del tedesco Neumann (pronuncia corretta: Noimann) e così di seguito per la gran parte dei nomi stranieri.
Anche il nostro prende qualche papera. Per esempio, ha “aiutato” una candidata suggerendole che le lenti dell’oculare di un microscopio sono più piccole di quelle dell’obiettivo: ha fatto confusione tra microscopio e telescopio. In altra occasione (e qui la bufala è più grossa) ha considerato esatta la risoluzione algebrica di un determinante come somma dei due prodotti incrociati, invece che come differenza. La signora di scienze naturali credeva che la temperatura del nucleo solare oscillasse tra i seimila e i ventimila gradi. Scambiava la fotosfera con la massa “nucleare”. S’è meravigliata assai quando le è stato comunicato che la temperatura del nucleo è dell’ordine di decine di milioni di gradi. Né aveva la minima idea di quel che fosse il plasma solare, questa agitatissima marmellata di nuclei e particelle non “ancora” organizzate in atomi. E il ciclo di Bethe? Che roba è, professore? Soltanto la fornace nucleare che, nel nucleo stellare sui 20 milioni di gradi, “lega” insieme quattro nuclei di idrogeno, cioè quattro protoni, per formare un atomo di elio: due protoni e due neutroni nel nucleo, due elettroni orbitanti. Gli altri due elettroni dell’idrogeno, catturati da due protoni, ne azzerano la carica, cioè li trasformano in neutroni. Il nostro commissario di italiano (e, ahimé, storia) corregge una ragazza che ha risposto “Acitrezza” per dire il paese dei Malavoglia, e Rosso Malpelo per indicare il titolo di una qualsiasi novella del Verga. Ha “corretto” in Aci la prima risposta e con La roba la seconda. Ha operato, insomma, una specie di riduzione: ha dimezzato Acitrezza ed espunto l’infelice Rosso Malpelo dal capitale novellistico del nostro grande Conterraneo.
Ci sarebbe materia sufficiente per una buona antologia delle sciocchezze “commissariali” in un qualsiasi esame di Stato magistrale. Hanno cominciato subito i “matematici”, dichiarando sbagliate risoluzioni del problema correttissime ma poco praticate dalla media studentesca. Come t’ho già raccontato, quaderno, mi ci è voluta una sudata mezz’ora per convincere il mio commissario della legittimità, e perfino eleganza, di certi itinerari risolutivi. Tra l’altro, non si erano accorti, i frettolosi, che due facce della piramide irregolare proposta da questa estrosa (e un po’ sadica) prova scritta sono triangoli isosceli col vertice sulla base piramidale e le basi sugli spigoli laterali.
Sì, una spassosa antologia di castronerie e negligenze non sarebbe una cattiva idea. Potrebbe riuscire noiosa? Certo, se ci si limitasse a un arido elenco degli errori-orrori, ma con una alternanza di papere crude e di noticine-postille al peperoncino, il prodotto non fallirebbe un discreto mercato. Ma dove prendere il tempo? E la pazienza? Per la stesura, e per la defatigante corsa all’editore che paghi e non voglia essere pagato. Cioè, per un vero editore di mercato. Ci faremo un pensierino.
Inutile, poi, dire che non mi è possibile abbozzare una conversazione scientifica di medio livello su questioni di fisica, massime se “di frontiera”. Il commissario della mia commissione, che pure è il più preparato del terzetto (e dovrebb’essere anche “specializzato” in fisica), al sentir nominare dalle mie labbra profane il nome Lòrenzen si è affrettato a correggermi, convinto che io intendessi dire Lorentz. Né tanto specialista conosce la collezione scientifica dell’editore Boringhieri. In compenso, siccome ha un fratello “filosofo”, cioè insegnante di storia della filosofia nei licei e magistrali, crede di poter guardare dall’alto i filosofi e i fisici che s’impicciano di filosofia, come Bohr, Heisemberg, Born e simili perditempo. Tali, infatti, sembrano a lui, i fisici che riflettono sui metodi della loro scienza e le relative implicazioni di ordine cosmologico e gnoseologico della fisica più recente. Insomma, per lui l’epistemologia pare che sia proprio un perdere tempo dietro a elucubrazioni non pertinenti. E lascerebbe volentieri ai filosofi il vanto e il rischio di sentenziare sulla metodologie scientifiche, e fisiche in particolare. Tanto, si sa che i professionisti del logos ne sparano, di belle balle. Il che, magari, è in buona parte vero, ma non per sentenza di un esperto così poco esperto. Ma satis. Anzi, un’ultima nota: non ha mai sentito parlare di Pascual Jordan. E chissà di quanti altri fisici (magari, premi Nobel).

16 luglio,
sabato mezzanotte

Era bellissima. Gli occhi grandi e luminosi saettavano sguardi di rusalca. Il naso, né piccolo né grande, era la perfezione fatta linee e volumi in chiave francese (naso moderatamente all’insù). La bocca, un’armonia di labbra e taglio che esclude il minimo dubbio estetico. Una sensualità discreta vi riposava con intervalli di lampi. I denti, un doppio arco di avorio polito privo di accidenti aggettanti o rientranti. Il suo sorriso mi raggiungeva dispnoico sul veicolo di sguardi rapiti. Il mento, con la sua fossetta centrale, compiva in congruenza impeccabile l’ovale largo del volto (largo, ma dentro la misura che suggella il totale). I capelli neri e abbondanti, flottavano, ondulati, ad ogni suo movimento di testa, vessillo trionfale di una carnagione lievemente bruna. Lievemente, cioè soavemente. Il corpo non era grande, ma vagamente efebico, e ben pronunciato nei siti giusti: seno, cosce, fianchi. Somigliava a qualcuna che mi è vicina. Il volto, il corpo, lo sguardo, il gestire e l’ancheggiare (sobrio ma incisivo), tutte le sue componenti, riaccendevano nella memoria una persona troppo nota, forse intima, forse solo buona amica. E tuttavia, sentivo che era il primo incontro. Troppa grazia perché fosse parte importante della mia vita. Questo il pensiero monco che lampeggiava nella mente stordita. La sentivo, più che riconoscerla, misteriosa. Donde veniva? Come si trovava qui, con me, in questa stanzetta di campagna piena di libri? Il mistero mi intrigava e mi negava la sua chiave. Di colpo fui impegnato a spiegarle una poesia. Era Dante, poi Foscolo, poi Baudelaire, infine tutti e tre insieme, uno strambo coktail. Che balordo miscuglio, mi dicevo, ma pure così ovvio, così naturale. Ora stavamo seduti al tavolo della stanza-studio. Di tanto in tanto lei alzava gli occhi dal libro e li fissava nei miei. Un fiotto di sangue in fuga accelerata mi inondava a sbalzi casuali. Mi parve di capire che sollecitava le mie attenzioni. Finii di spiegare la poesia-ircocervo e la guardai. Mi sorrise un chiaro invito. Le presi la mano. Una mano nervosa e più magra che piena; lunghe le dita, rosse e ben curate le unghie. Gliela strinsi, restituì la stretta, gli sguardi in reciproca penetrazione. Mi accostai, i visi infiammati si vennero incontro come per magnetismo spontaneo, libero da ogni decisione volontaria. E le labbra furono sulle labbra: un bacio lieve come un soffio. Sorrise ancora, con gli occhi più che con moto di labbra. Mi levai dalla sedia e la strinsi al petto, io in piedi e lei seduta. Continuai a baciarla e lei rispondeva. Ansimando: leggera, poi via via più intensa. Ancora uno stimolo, quel respiro denso e rotto, per la tempesta dentro il mio corpo. La sollevai dalla sedia e la strinsi ancora più forte: al petto, dapprima, poi in un’avida espansione del contatto, premetti il suo grembo contro il mio. La stretta ci costringeva in uno spasimo di deliziata impotenza: perché non potersi fondere realmente, ben oltre l’una caro convenzionale? Nella turbolenza umorale dei corpi in tempesta si scioglieva qualcosa di simile a quel pensiero. Ora lei teneva gli occhi chiusi, e un’espressione estatica trasumanava il viso bellissimo. Mi risonarono versi spiegati a lei (ma quando?): Trasumanar signifcar per verba / non si porria, però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serbi. Presi a toccarla, variamente, delicatamente, in ogni parte della sua anatomia selettiva, ancora coperta dall’abito. Indossava una leggera tunica estiva: sotto si indovinava il nudo fresco della pelle. Una mano mi scivolò dentro la scollatura generosa: le coppe elastiche e ricolme del più bel seno della mia modesta collezione vagabonda mi accesero un lampo di memoria: non era il primo seno che io carezzassi nella mia lontana adolescenza? Il seno, così simile, di Elisa, la prima ragazza, il primo, e più lacerante, amore della mia non grassa esistenza erotica? La creatura-angelo che col fiore improvviso di un dolcissimo sorriso mi insegnò cosa fosse paradiso? Lo strappo mnestico disegnò quella scena lontana con limpida evidenza visiva, in un sussulto di fiamma al viso. Una specie di reviviscenza e intermittenza proustiana. Era la prima vera intimità sessuale, avevo poco più di sedici anni. Il primo amore non si scorda mai? Ancora meno la prima esperienza di sensualità corrisposta, il primo contatto con il nudo femminile adorato. Spenti i brevi attimi del ricordo, continuavo a spandere la mia fame frenata sopra l’offerta del suo corpo proteso, e così sintonizzato al mio disordine cinetico. Poi avvertii, non so per quale misteriosa rivelazione, estranea alla sua voce, anzi emanante da un’occulta sorgente interna, che lei era al suo primo contatto con l’uomo. Questa muta certezza di viscere moltiplicava il mio desiderio, che s’inteneriva di morbida dedizione, intrisa di una delicatezza mistica.
Frammenti di concetti sforzavano il pensiero a una spiegazione di tanto scompiglio ormonale. Aprivo gli occhi a una giovane ignara, distruggevo l’innocenza di una adolescente, mutavo una vergine in pace in una ragazza inquieta, curiosa di farsi donna. Quale responsabilità! Che mi incuteva paura. Ma anche eccitazione supplementare, una specie di esaltazione eroica.
T’ho raccontato l’ennesimo sogno, quaderno fraterno (ah, i miei sogni!). Cioè, una parte, la sua prima fase (confusa). Il seguito? Ad altro giorno, forse.

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