domenica 21 agosto 2011

LETTERA APERTA A MATTEO COLLURA


Caro Matteo,

mi sono appena riletto la tua affettuosa e-mail del 27 luglio, e la riproduco a migliore intelligenza della presente. replica al tuo silenzio.
Caro Pasquale, gli amici comuni ti potranno dire quante volte ho chiesto di te e quante volte ti ho mandato i miei saluti. / Credevo di averti fatto avere il libro su Pirandello, e perciò mi sono chiesto come mai non avessi avuto un tuo riscontro. Te lo farò avere oggi stesso. / Leggerò il tuo “romanzone” con l’aiuto informatico di qualche nipote (io non vado al di là delle email). / Se hai voglia di dare un’occhiata a un mio articolo su Agatha Christie, è uscito oggi sul “Corriere” (pag. 38)./ Un affettuoso saluto e auguri per la tua salute. Matteo  MCollura@rcs.it.
Ho letto, sì, il tuo articolo su Agatha Christie, e l’ho apprezzato (anche nelle sue citazioni). Ma ora dimmi: cosa è accaduto, da quel dì di letizia, all’inizio del tuo ingrugnito silenzio punitivo? La chiave che ne apre il burbero scrigno penso stia dentro quel Romanzone. Nel duplice senso: perché l’accrescitivo e non il normale sostantivo? Donde sbuca quel “leggerò”ecc.?. L’“ingrossamento” è tutto mio: un mio giocoso, pudicamente auto-canzonatorio. E mi spiego: il racconto in questione (autobiografico la sua parte) è piuttosto lungo. E, starei per dire, anche largo. Nel senso che si occupa di molte cose: amore politica religione pensiero cultura attualità varia. E altro bene “umano troppo umano”. In tanto fervore presenzialista mi capita di risvegliare e accogliere certa mia valutazione non positiva della famosa (per altri famigerata).sortita di Leonardo Sciascia contro I professionisti dell’antimafia. E qui, penso, sta la molla del tuo fragoroso silenzio (a meno di ignoti sismi di vario genere): quella mia valutazione ripete un giudizio da me dato alle stampe in replicata varietà di modi e situazioni: la “sparata” di don Leonardo è stata un’avventatezza autolesionistica, un colpo di testa quasi inspiegabile, un intervento da niente e da nessuno stimolato richiesto auspicato (salvo oscure e ignote motivazioni personali che languono nel buio documentale, ma lo escluderei). Dunque, Matteo ha letto, nel Romanzone, quell’antica “stroncatura” della scivolata leonardesca e gli si sono accesi nel sangue gli spiritelli dell’intolleranza accecata. E addio Pasquale, Pirandello, i saluti by our friends” e la stagionata amicizia e stima reciproca.
Sottosuolo di tanta rovina? Semplice: un rigurgito di sensibilità infantile, cioè di quella tale permalosità che non riesce a distinguere un giudizio scrupolosamente motivato da uno sgorgo di gratuita insofferenza. Sensibilità che, a sua volta, si radica dentro una storpiatura dell’emotività che presiede alla ponderata valutazione di una persona una produzione culturale un’intera vita di militanza letteraria, e via elencando. Tale storpiatura consiste nell’involuzione dell’affetto-stima in sostanziale adorazione. E quindi, nella enfatizzazione dell’amico letto e riletto, studiato, raccontato da “biografo ufficiale”, e via salendo (su una scala, per esempio, che ha per gradini un eccellente plurimo successo editoriale). In siffatto processo che cosa accade di tanto grave e grosso? Niente di più (ché non si può) né di meno (eppur si potrebbe!) che la deificazione dell’Uomo (qui la maiuscola è inevitabile), la sua metamorfosi in idolo: cioè, in una realtà virtuale di perfezione impeccabile, senza macchia, infallibile sovrumana e via fuggendo (dall’effettuale machiavelliano). Con la naturale conseguenza che nessuna critica all’idolo viene sobriamente valutata come espressione di una stima più problematica che una idolatria fanciullesca.
Sfortunatamente per le sorti dell’amicizia, io non trovo, ancora oggi, nulla da rinnegare in quell’appunto. Tanto meno ne avvertivo il pungolo quando giudicavo severamente (nel romanzo) quei giovani che, dopo avere, a suo tempo, infierito contro l’idolo infranto Leonardo Sciascia, scendendo fino all’insulto dissennato, tanti anni dopo gli davano ragione. Salvo uno di loro, “affetto” da sofferente ma non alienabile coerenza da me apprezzata (non amo i lecchini di ritorno). Che cosa contestavo a Sciascia se non una contraddizione palesemente sgorgata dagli inferi? Lo scrittore impegnato, la guida di tanti giovani, il testimone più autorevole contro la peste mafiosa e lo Stato fellone suo complice saltuario (ma non perciò meno scandaloso) sente il bisogno-delirio di prendersela con presunti “professionisti dell’antimafia”? Ma in che mondo siamo? La sorpresa per me e i miei simili (di circostanza) scaturiva, lacrimando, dalla stima e dall’affetto per questa guida morale impiantata sull’eccezionale capacità narrativa. Chi erano, secondo l’infastidito scrittore-osservatore, quegli strani professionisti? Forse il sindaco palermitano Leoluca Orlando, fragoroso di scorta e di affollate esibizioni e sfilate socialmente e pedagogicamente fertili, ma di nessuna incidenza pratico-operativa? E quale carriera poteva sospendere, il buon sindaco, a quel simpatico impegno etico e socio-politico un po’ folcloristico? In ogni caso, che razza di professionista si poteva leggervi? Un professionista più credibile era, certamente, il giudice Borsellino, un altro era Falcone: ebbene, caro Matteo, non ti si accende un focherello di pentimento dentro le viscere frettolose pensando a quale straordinaria carriera hanno realizzato quei due professionisti veraci? A me le date del 23 maggio 1992 (assassinio di Falcone) e del 19 luglio dello stesso anno (eliminazione, altrettanto clamorosa, di Borsellino) ancora mi bruciano come due ferite mai passate in giudicato di obliviosa guarigione. E non soltanto per la tragica fine di quei due eroi (sì, è il meno che si possa dire dei due professionisti) ma anche per l’infamia del tutto anomala delle complicità oscure che hanno consentito quelle due tragedie nazionali e insieme nazionali vergogne per un’Italia così remota dalle retoriche di certi ambienti politici. Se, poi, aggiungiamo all’orrore del duplice delitto la sua inevitabile pluralità di bersagli innocenti, (le scorte più la moglie di Falcone) la puzza del bubbone morale nel corpo dello Stato attossicato di tradimento sistemico cresce a dismisura. Che c’entra lo Stato?, diranno gli eventuali giovani lettori, ancora ignari delle perfidie della Storia reale. Ci trasi, eccome, carissimi, per le evidenti innegabili complicità istituzionali di certe sue componenti abilitate alle operazioni sporche e agli inconfessabili tradimenti delle sue leggi e Costituzione. E’ lo Stato fellone e para-mafioso (senza l’assistenza del quale quei delitti non sarebbero stati possibili, stante la strategia precauzionale di Falcone e del suo amico e collega. E’ un vero peccato che Sciascia non sia vissuto abbastanza per vedere la tragedia personale e pubblica di quelle due professioni. La tesi che uno scrittore, un intellettuale debba esprimersi quando gli ditta dentro, prescindendo dal contesto socio-politico e relative emergenze in atto, non regge, caro Matteo. Eppure tu l’hai sostenuta. Davanti ai faraglioni di Aci Trezza (ricordi?), in quell’unica e per me indimenticabile occasione di agape amicale promossa dalla tua liberalità riconoscente. Allora non replicai, per ovvie ragioni di rispettosa cortesia.
Mi duole, dunque, di rinnovato dolore, che l’amico intellettuale, e scrittore di buon successo non tolleri che altri amici di Leonardo (ma non suoi biografi) valutino il suo illustre ispiratore diversamente da lui in una circostanza precisa e circoscritta. Che, tra l’altro, non gli giovò presso la migliore intellighentsia italiana, e non soltanto. Una conseguenza del tutto prevedibile, questa, dato il momento storico che l’Italia attraversava: una gioventù in reiterante mobilitazione di sfilate e cortei contro la mafia, e non soltanto a Palermo, la città martire dello strapotere assassino e delle complicità di servizi segreti (deviati, sì, ma certo non per ispirazione autonoma). Uno Stato fellone, mobilitato a difesa dei capitali insanguinati e relative banche senz’anima: ti sembra un caso che i due eroi fossero due emeriti ficcanaso che il naso professionale stavano ficcando, da Palermo e ancor di più, forse da Roma (quando la cupa ostilità dei colleghi giudici e del Csm mobilitati a fermare il guastafeste nazionale  costrinsero Falcone ad accettare l’offerta del Partito Socialista per un posto di prestigio al ministero della Giustizia) nei conti bancari italiani ed esteri, seguendo il metodo del giudice svizzero Carla Dal Ponte, con la quale per il poco tempo rimastogli, i due amici collaborarono. Dopo il fallito attentato alla’Addaura Falcone sapeva che stava conducendo una lotta contro il tempo, e moltiplicò gli sforzi, in collaborazione con la Dal Ponte. Ma non senza l’amarezza di sentirsi incompreso anche da vecchi amici che gli rinfacciavano quella soluzione come se fosse difeso da lui quello spostamento voluto e programmato, ormai, da troppe teste e pance, dell’economia, della politica, della magistratura: parte invidiosa, questa, parte complice più o meno “dentro le segrete cose” delle superiori urgenze mammoniche di sua santità bacata lo Stato democratico nato dalla Resistenza.
La cosa dolorosamente strana è che a suggerire l’indagine bancaria ai “professionisti dell’antimafia” (veri) era stato proprio Sciascia, se non ricordo male fin dal Giorno della civetta. Epperò, a questo punto mi solletica un altro sospetto: e proprio sui “rapporti” fra Sciascia e la mafia. Non credi, caro Matteo, che l’emotività del tuo illustre biografato fosse un tantino “confusa” towards the Mafia? La combatteva? Certamente, ma con une arrière-pensée, o sentimento ambiguo di curiosità e ammirazione estetica (nel senso forte). Dopo tutto, don Mariano Arena non esce troppo male dal Giorno della civetta, e quella sua classificazione degli antropoidi in Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quacquaracquà deve avere affascinato Sciascia. E poi, non gli piacque, forse, intervistare qualche “zio di Sicilia”? Può darsi che in questo sotterraneo di emotività oscura Leonardo coltivasse, insieme con una certa cauta diffidenza verso le forze dell’ordine, un mezzo sentimento di ammirazione per certi capimafia veri uomini e non capricciosi assassini. Per la diffidenza verso le Divise dell’Ordine sociale se ne può rincorrere la radice nella sua biografia: poté ispirarla la vicenda del maresciallo dei carabinieri che fece torto al padre. Né siamo in grado di valutare la coda lunga delle emozioni suscitate dal suicidio del fratello (collegato a quel torto delle divise?). Nel primo grande successo editoriale, comunque, si gioca alla pari tra il boss don Mariano Arena e il capitano dei Carabinieri Bellodi: entrambi si riconoscono apice di quella classifica: uomini. Nessuno scandalo, ma un richiamo alla rischiosa ambiguità di certe emozioni e valutazioni. Specialmente se fatte in un clamante articolo sul maggiore quotidiano nazionale. E con la regia del molto discutibile Piero Ostellino: ottimo direttore, forse (ma quasi non direi, a giudicare dal famigerato titolo) però anche uomo di passioni sfrenate. Fino al ridicolo. Nel novembre 2003 questo accigliato superliberale reagì a un sondaggio promosso dalla Commissione Europea su quale Stato, minacciasse di più la pace nel mondo, con questa dichiarazione: “Ebbene, lo dico senza esitazione, io da questa Europa non solo non mi sento per niente rappresentato, ma non voglio nemmeno averci a che fare. Perché me ne vergogno come europeo, come italiano e come cittadino del mondo” Ci fermiamo qui, tacendo il resto della mira nota (direbbe Dante nel suo Paradiso),.e cioè del meraviglioso canto (dei beati). A cosa reagiva il mirifico campione di così limpido liberalismo incapace di sopportare un innocente sondaggio rituale? All’esito dello stesso: “il 59/% dei 77.515 cittadini europei indicò Israele come lo Stato che più minaccia la pace nel mondo, scegliendo fra 12 stati, tra i quali figuravano Corea del Nord, Iran, Pakistan, Iraq, Usa…”. Niente di strambo, dunque, a sospettare che l’infelice titolo sui famigerati professionisti sia merito di questo limpido campione. della sacra Libertà (di opinione come d’impresa) che si confessa fanatico del santo Israele, l’intoccabile erede del genocida Mosè.
E qui chiudo, caro Matteo, scusandomi per la dilatazione non programmata dello sfogo, e nel rimpianto di un’amicizia perduta per la mia schiettezza fraintesa e severamente punita. Un’amicizia alla quale tenevo. Accetta, comunque, il mio saluto e i miei auguri per un futuro di rinnovati successi e soddisfazioni.
Pasquale

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