martedì 27 luglio 2010

SUSANNA, Frammento finale


Tra i timori di Paolo c'era quello "dell'ultima ora": egli temeva i "corvi dell'ultima ora". Quanto danno avevano fatto, nei secoli, questi falsi zelatori del Bene, alla reputazione di onesti atei. Anche al suo letto estremo sarebbero venuti, certamente. Non aveva, egli, a supremo scorno, allevato pure dei preti fra i suoi studenti del liceo classico di Realpolia? Ragazzi già segnati, con solchi profondi nella "carne dell'anima", da un imprinting familistico di lungo corso. Giovani irrecuperabili, diceva con amarezza. La sua pedagogia rimbalzava impotente contro corazze di condizionamenti refrattari ad ogni pressione della realtà, della verità, della decenza. Dio avrebbe chiarito il doloroso mistero di tanta sofferenza sparsa nel mondo, avrebbe reso accettabile, dopo la lunga attesa della luce chiarificatrice, perfino lo scandalo del supplizio degli innocenti assoluti, quei pargoli che Gesù rivendicava per la sua Parola di salvezza e Dio, quel loro dio supersadico, lasciava alla bestialità stupratrice e seviziatrice di homo necans fatto "a sua immagine e somiglianza". Sì, gli capitava ancora, vecchio e ben fornito di acciacchi, di scaldarsi su questo "scandalo infinito": del macello quotidiano dei bambini e del credere ciò malgrado. E non gli era concesso altro, al meglio delle scempie risposte, che gli scalcinati pseudo-argomenti del levita di Coelho.
I tre casi più coinvolgenti erano incarnati in tre giovani diversissimi l'uno dall'altro, eppure solidali nella "scelta sciagurata" (parola di Paolo) di servire la Grande Menzogna. Il più giovane era un corpulento ragazzotto "nato prete" ? come Paolo gli diceva, motteggiando, nei momenti di relax. Quale forza assoluta spingeva un figlio unico, osteggiato dai genitori, che avrebbero gradito dei nipotini piuttosto che ostie e sermoni ? ad essere così determinato? In realtà la madre, che aveva rischiato di perderlo in una gravidanza travagliata, aveva promesso al buondio che non si sarebbe opposta, se il ragazzo fosse nato e vissuto normale, a un'eventuale "chiamata dal Cielo". Perciò la sua opposizione era una recita di finta solidarietà col marito, che lo voleva sposato e genitore. Ma i preti dell'Azione Cattolica avevano lavorato bene, e su un materiale nativamente plasmabile. O che non raccontava alla madre che certe compagne di scuola lo insidiavano, ma invano poiché "Gesu era più forte di loro"? E Paolo un po' sorrideva, un po' ci si rodeva. Questo studente rifiutava ogni discussione, era privo di qualsiasi disposizione dialogica, e si chiudeva nella difesa più rozza: il ribaltamento puro e semplice, dunque insensato, delle obbiezioni altrui. Incluse quelle, pur così tranchant, del suo professore di filosofia. Meditava, Paolo, sulle "vie del Signore": quanto sono imprevedibili e tortuose, a volte. Nel caso in questione, erano state le gravidanze fallite precedenti quel pur travagliato parto.
Il secondo caso era un affilato cervello dialettico che reagiva alle spine del professore, e alla fine ribaltava le accuse col vecchio argomento che nessuno dispone della verità assoluta (un aggettivo repellente per Paolo). E si rifugiava nel formulismo paradossale, ritenuto di sicuro effetto: "la nostra è una disperata speranza". Bum. La sparata aveva pretese di ascendenze nobili: non risentiva delle sortite di quel campione del paradosso che risponde al nome di Severino Kierkegaard? E certamente si confortava anche alla precoce impudenza di Tertulliano: tardo emulo della sofistica più sbracata, il bel tomo sbandierava un "credo quia absurdum" che tagliava ogni possibilità di onesto discorrere. E quando Paolo gli ricordava che razza di strano "santo" fosse uno che allontanava i suoi fratelli in Cristo dai rudi spettacoli pagani con questo luccicante argomento: "Abbiate pazienza! Avrete spettacoli più ghiotti quando dal paradiso godrete dei dannati tormentati dai diavoili!".
Il terzo faceva ancora più rabbia a Paolo: era una specie di angelo carnale: biondo, occhi azzurri, capelli ondulati, figura snella ma solida, statura più alta che media: un vero bocconcino per le fanciulle della sua e delle altre classi del liceo, che infatti non lo ignoravano davvero (anzi, come diceva una sua collega di latino, "se lo leccavano con gli occhi"). Anche lui, fermo nell' "insano proposito", insensibile alle arti seduttorie delle accaldate girls, invano frementi fra banchi e palestre. Li aveva avuti come alunni per i tre anni del liceo classico il primo e il terzo (ora parroci entrambi, da non pochi anni), per due il secondo (che oggi ricopre un importante incarico in Vaticano). Nessuna meraviglia, invece, per un quarto caso: un mite figliuolo, incapace di concepire violenza, che ha scoperto la vocazione dopo la laurea in scienze naturali. Fa il parroco, ma la sua mitezza dà qualche problema allo spirito pragmatico della locale curia vescovile. Che però ha poco da scegliere: la crisi vocazionale è una realtà sempre più critica per la Santa Madre di molte ipocrisie e di qualche contingente buona pragmatica. Alla faccia delle adunate oceaniche sotto le finestre del papa e delle varie kermesse dei Papa boys.
Sia chiaro: non è che Paolo volesse distogliere quei ragazzi dalla loro fede e vocazione: avrebbe voluto soltanto risposte meno grezze, un possibilismo più ardito nello scottarsi alla fiamma delle molte, troppe evidenze contrarie alle mistificazioni liturgiche, agli orrori biblici, alla esosa, in gran parte orrenda e criminale storia della Chiesa reale.
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Un altro capitolo nella successione degli improbabili gratificò Paolo: fu candidato senatore nell'anno del Khaiman. La strepitosa vittoria-valanga del monstrum stramiliardario annientò la Sicania con un incredibile (incluso il ridicolo) boccone di tutti i seggi senatoriali disponibili nel maggioritario. Paolo aveva sempre rifutato proposte di candidatura: ma s'era trattato, prima di allora, soltanto di elezioni amministrative, comunali o provinciali. Ora i giovani del Partito Rivoluzionario Internazionale (PRI) del suo paese (in maggioranza suoi ex allievi al liceo classico realpoliese) avevano fatto il suo nome a un loro giovane deputato nazionale (già alla seconda legislatura) che stava cercando un rappresentante della cosiddetta società civile capace di convogliare voti sulla propria candidatura e dunque migliorare la situazione locale del Partito, non proprio brillante. Paolo trovava la cosa un po' stramba: a quell'età, non lontana dai settanta (anzi, vicinissima!), presentarsi a una campagna elettorale priva di realistiche possibilità di "vittoria" (strappare qualche seggio al Khaiman) per il piccolo partito che lo avrebbe presentato! Come altrimenti definire questa sfida "fuori tempo massimo" (come diceva lui)? Stramba quanto si voglia, era purtuttavia una tentazione forte: non aveva sempre desiderato, lui, un'occasione simile? Non aveva, anche nei suoi diari, lamentato l'assenza di una militanza politica "esposta" nella variegata stagionalità della sua vita sociale? Mi manca, soleva dire, l'esperienza dei comizi, il confronto con la folla, la massima sfida alla mia tendenziale timidezza di soggetto introverso. E invidiava amici e colleghi che l'avevano avuta, l'esperienza: sia pure per quelle competizioni locali che egli aveva sempre rifiutato. Per la verità, un paio erano state anche regionali, e di esse soltanto un caso era approdato al successo: con suo piacere, per la collocazione politica del collega, il fu Pci. Ne propiziava la stima di Paolo la chiara onestà e coerenza, l'intelligente preparazione culturale, la passione "umana" ben radicata. Insegnava le sue stesse materie, in una delle sezioni dello stesso liceo classico, nella vivace cittadina di Giarte, non lontana dal levante ionico, ricco di belle spiagge. Confermato dal partito, fece due legislature regionali complete, e subito dopo due sindacature quasi complete nella sua città. La quale non sfuggiva al prevalente destino delle comunità "sudiste", quasi tutte debitamente infestate dal cancro della combinata tripunte mafia-politica-mondo cattolico "deviato" (o poco attento alle insidie di Satana). Tanto più preziosa, perciò, la duplice vittoria del collega sostenuto da una pulita maggioranza di sinistra. Mi raccontava, il Tolano sindaco, le difficoltà varie che dovette affrontare. A lla fine, la sua onestà fu sconfitta dalla solita transumanza da un partito all'altro dei campioni del piccolo trasformismo affaristico. Di solito, la direzione di marcia portava al caravanserraglio del Kaiman, largo di ghiotti compensi, di varia stesura e sostanza, per i devoti del suo sacrario e i servi fedeli perinde ac cadaver. Ce n'era uno, fra costoro, che portava la fedeltà incastonata nel fatidico cognome: Conservo. Bene. Ora l'occasione sognata si presentava a Paolo. E nella sua veste più dignitosa: candidatura al nobile Senato della Repubblica: come lasciarla cadere? E non la lasciò cadere. Denunciò, lealmente, le personali difficoltà che potevano essere i suoi limiti, e accettò. Quasi sicuro della sconfitta, ma sereno per la caratura dell'impresa: sarebbe stato un successo anche una sconfitta moltiplicatrice di voti. E potremmo anche cassare il "quasi": residuo di coerenza nel rispetto dell'improbabile, castello esclusivo del divino Burlone che serpeggia in tutto questo racconto.
Le prime esposizioni furono al chiuso: conferenze divise fra più oratori, assemblee di iscritti, e simili occasioni. Ma vennero i comizi. Piccole piazze di piccoli paesi, poi rispettabili cittadine turistiche (fra queste, la più cara a Vitaliano Brancati), infine la grande Realpolia curializzata e la sua maggiore piazza, presidiata e strozzata fra chiesone e palazzo comunale, tutte eminenze dell'architettura barocca sicaniana. E in tutte le occasioni Paolo poté constatare de visu che l'era delle folle comiziali era davvero finita per sempre. La televisione aveva fagocitato i comizi di un tempo. Non solo, ma al rito venivano quasi solamente i tesserati del Partito, pochi erano gli esterni: osservatori della concorrenza, spettatori "neutrali", amici e parenti. E poco d'altro. Dove abitavano ex alunni liceali la loro presenza infoltiva un po' l'ascolto. Ma si trattava sempre di poche decine, raro che si arrivasse al centinaio. Una delusione? In un certo senso, sì. Ma ormai era in gioco. A compensarlo, però, intervenivano le televisioni locali con le loro interviste e i quotidiani regionali e provinciali più diffusi con i loro servizi, inclusivi di foto e mini-biografie. Gli toccò pure di fare una cosa che si era sempre rifiutato di fare: commemorare la Resistenza. Se il lungo rifiuto ostinato di prima era motivato dalla renitenza alla retorica mitizzante, quasi d'obbligo in quella sorta di rito, l'accettazione di quel tempo fu chiarita con la necessità di contrastare la moda del negazionismo o del livellamento fra le opposte sponde dello scenario storico: un prodotto dei "tempi nuovi", che andava diffondendosi con pelosa malizia ideo-politica. Magari con indagini decontestualizzate sulle vittime civili della lotta partigiana e sulle rivalità interne a quei gruppi armati contrapposti: un lavoro in cui sembrò specializzarsi un autorevole giornalista di sinistra moderata, vicedirettore di una famosa testata settimanale. Con conseguenze drastiche sulla propria carriera, fermata da ostilità interne al suo gruppo. Fra gli scandalizzati reattivi ospiti della stessa "famiglia" il più ostilmente sorpreso fu un vegliardo di accesi spiriti guerrieri, legato visceralmente alla Resistenza, "luogo" del proprio riscatto ideo-politico. Avrete capito che sto parlando di Giorgio Bocca.
Aveva confessato, Paolo, fin dalla prima conferenza che non avrebbe usato il politichese: il suo presentatore e mentore fu ben contento di esonerarlo da quel discutibile obbligo. E nel politichese incluse la stucchevole ripetitività dei soliti comizi di big e piccoli politicanti: lui inventava incipit e sequenze tematiche nuove per ogni occasione, senza lasciarsi inceppare dall'inevitabile fissità dei singoli temi dominanti. Non solo ogni argomento poteva essere presentato entro una prospettiva di volta in volta diversa, ma la stessa loro successione comiziale era suscettibile di variazioni ad infinitum; e nella successione si diversificava anche il rilievo concettuale del contenuto e la sua posizione oratoria. Val la pena di ricordare che in questa avventura potè godere la collaborazione del figlio, che suggeriva temi e scriveva promemoria. Per esempio, l'attacco all'articolo 18 del Contratto dei lavoratori: cavallo di battaglia, quel rifiuto, del Partito radicale. Il quale era rappresentato nel suo collegio, da un suo bravo ex allievo del liceo ginnasio realpoliese: divertente trovare professore ed ex alunno impegnati a contendere durante l'intervista ai candidati di una autorevole tevelevisione liotriese.
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Dagli appunti ereditati dal mio amico è facile supporre che egli contasse di trasferire in uno o più racconti la propria esperienza di candidato-oratore: gli incontri umani, le conoscenze interessanti (in positivo e in negativo), le vanità personali di certi "compagni", le gelosie e rivalità fra circoli e sezioni dello stesso comprensorio sub-provinciale e interprovinciale: ne aveva raccolto di materiale, Paolo, nei suoi taccuini. Ne avrebbe senz'altro ricavato succosi racconti, se Pathos e Cronos non avessero deciso il brusco (e brutale) stop alla sua permanenza fra le ombre della Caverna platonica. Riportiamo, almeno, un appunto della sua agenda dell'epoca: una confessione al suo mallevadore, Cancelli sulla meraviglia che avevano destato in lui le rivalità di cui sopra. "Immaginavo compagini di giovani 'duri e puri': come sospettare tanta vanità?" Il neo-amico e compagno lo rassicurava: "sono piccole increspature. Vi sono i duri e puri, e sono la maggior parte dei nostri ragazzi". Sarà, pensò, e non disse Paolo.
Tra i particolari narrabili, l'irritazione che aveva accolto la sua candidatura all'interno dei vari circoli del partito: quella scelta dall'alto non era stata digerita da quei giovani, e soprattutto dai capetti già toccati dalla Grazia di una elezione al consiglio di questo o quel Comune, o addirittura della liotrica Provincia: il partito aveva avuto, e ancora aveva, consiglieri provinciali. Il contemporaneo della candidatura di Paolo era un leonino compagno di liceo scientifico di suo genero. Carattere difficile. Quando Paolo ebbe sentore di quel disagio, chiese al suo onorevole sponsor se avesse discusso con i circoli e gli eletti locali la proposta della sua candidatura. Cancelli, assicurò che sì, certo, ne aveva parlato e aveva convinto tutti i piccoli dirigenti locali. Versione differente venne a Paolo da un suo ex alunno del liceo realpoliese, segretario di un circolo-sezione dell'hinterland subetneo: il deputato Cancelli, in qualità, anche, di segretario provinciale del Partito, aveva deciso tutto da solo. O più precisamente: avendo consultato i giovani di Akiskene sulla figura e il carisma del professore Assaggi, incassatone la migliore prsentazione possibile, aveva ritenuto superfluo parlare con gli altri compagni del distretto. A che pro? Non era lui, in tutta la vasta provincia liotrica, il personaggio più autorevole del popolo rivoluzionario? E dunque, lo lasciassero fare. Paolo trovava vagamente comica una situazione che, in fondo (non lo sapeva, forse?) si riproduceva dovunque si riunissero in collettivi bipedi parlanti ambosessi per pensare concionare decidere in questioni di qualsiasi natura, ma con maggiore carica passionale dove le questioni sono politiche: molte belle parole e ciarle sonanti sulle meraviglie della democrazia (dialogo perenne, libera valutazione e critica spregiudicata, decisioni a maggioranza, eccetera) e, in rebus, omissioni, deviazioni dai sacri sentieri e cornate di fatti contro i sacrosanti valori di carta e voce. Naturalmente l'ex alunno, ora segretario nella scuola media del suo paese, tranquillizzò i compagni sulle qualità del suo ex professore: "Sul personaggio, niente da dire. Anzi, tutto da ammirare. Tranquilli, dunque". Intervento salutare, che acquietò le acque agitate del laghetto rivoluzionario provinciale.
Quanto al Cancelli, deputato rivoluzionario per la seconda volta al Parlamento nazionale, nonché segretario provinciale di lunga carriera, con la sua condotta di ducetto imprudente (nonché protettore di un compagno con qualche macula contabile), si scavò la fossa politica. Dopo la sconfitta sotto la valanga kaimana, il congresso provinciale ringraziò l'onorevole, ne accettò le rituali dimissioni e lo mise sotto processo. Conclusione naturale: nomina a valanga di un nuovo segretario. Aveva lavorato troppo il compagno segretario e onorevole, che si riposasse dunque. Una tragedia? No, neppure un dramma: solo un certo bruciore: non è piacevole vedersi accantonato. Ma avrebbe esercitato da allora in poi il mestiere di professore di filosofia. La pensione, con due legislature all'attivo, era ben assicurata al suo lontano futuro. Naturalmente, la militanza non fu in discussione: Cancelli rimase nel Partito, disponibile al lavoro collettivo, eccetera. E, naturalmente, in sognante attesa del possibile reingresso nella "stanza dei bottoni".
Dettagli. La sconfitta (scontata) del piccolo Partito Rivoluzionario Internazionale non appannò il fatto che l'obiettivo programmato dai "lettighieri" (espressione non mia) della candidatura di Paolo fu pienamente raggiunto: i voti presi dal partito nel suo collegio (assai ampio) furono quasi il doppio dei precedenti. E nelle cittadine e paesi che lo conobbero come professore superarono perfino il raddoppio. Di questo buon esito fu dato atto ai giovani che avevano suggerito la candidatura paolina. Con soddisfazione del Cancelli.
Com'era ignaro della complicata prassi che accompagna la presentazione delle candidature (quante firme, a destra e a manca! quante autorità coinvolte!), così Paolo era all'oscuro dell'obbligo di comunicare a un'autorità panormitana le spese sostenute per la campagna elettorale e chiederne il rimborso. Non essendo stato doverosamente informato dal suo sponsor, gli toccò ricevere questa ringhiosa letterina al pepe:

Corte di Appello di Panormo. / Collegio Regionale di Garanzia Elettorale /Prot. 13 /015. //Il Presidente
Visto il verbale del Collegio di Garanzia Elettorale in data 18 ottobre 2001; Visto l'art. 15 comma 8 della legge 10 dicembre 1993, n.515;
DIFFIDA
Il Signor Assaggi Paolo
n. il 2/5/1932, Realpolia, residente in via Romana, 102, Akiskene, candidato alle elezioni politiche del 13 maggio 2001, a depositare la dichiarazione di cui all'articolo 2, primo comma, n.3 della legge 5 luglio 1982, n.441, alla quale dovrà essere allegato il rendiconto relativo ai contributi e servizi ricevuti ed alle spese sostenute (art.7 comma 6 legge n.515/93) entro il termine di giorni quindici dalla notificazione della presente diffida.
Panormo, 19 ottobre 2001
Il Presidente del collegio regionale di garanzia elettorale. Presidente della Corte, Carlo Rotolo. /Firma [scarabocchio sintetico].

E fosse finita qui! Macché. Sul risvolto del foglio col contenuto sopra trascritto, questa intestazione:
"Tribunale di Liotria. Sezione distaccata di Realpolia. Ufficio Notificazioni Esecuzioni Protesti"
Richiesto come in atti, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto all'Ufficio in epigrafe, certifico d'aver notificato e dato copie dell'atto che precede ai destinatari in esso indicati, al loro domicilio, per loro legale scienza e conoscenza, consegnandole come segue:
al signor Assaggi Paolo, via Romana, 102, Akiskene, nelle mani della moglie, cas[alinga], conv[ivente] [più altro illegibile]
Akiskene, 02. 11. 2001
L'Ufficiale Giudiziario,
D.ssa. Sebastiana Branco
Tribunale di Liotria
Sezione distaccata Realpolia

Al ricevimento della pomposa Diffida Paolo la presentò a Cancelli per riceverne lumi e conforti. Il distratto compagno onorevole, che aveva dimenticato di illustrare all'inesperto candidato questa parte arcigna della "gioiosa macchina di guerra" accolse l'allarme con sorridente nonchalance. E si assunse l'onore di scrivere la risposta. Un secondo appuntamento sotto la mole di un vecchio castello di copiosa storia tra terraferma e mare bastò a sollevare Paolo dall'impiccio della scrittura. Ma non dell'altro, della spedizione con tanto di avviso di ricevimento. Ecco il testo-risposta:

"Al Collegio Regionale di Garanzia Elettorale / Presso la Corte di Appello di Palermo
Oggetto: Dichiarazione delle spese sostenute e delle obbligazioni assunte.(art. 2, primo comma numero 3, Legge 5 luglio 1982, n.441)

Io sottoscritto Assaggi Paolo, nato a Realpolia (Lt) il 2/5/1932, residente ad Akiskene in via Romana n.72, candidato al Senato della Repubblica -Sicania, collegio 14 - nella lista del Partito Rivoluzionario Internazionale
Dichiaro
di non aver sostenuto alcuna spesa per la campagna elettorale per l'elezione del Senato della Repubblica del 13 Maggio 2001.
Sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero.

Liotria, 8 novembre 2001
Il candidato
Paolo Assaggi
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Manca, nel testo, il "Vaffa...!" che Paolo non potè scrivere in sì vibrato testo. Ridemmo insieme di cosiffatta manfrina. Nel nostro Belpaese non si è padroni nemmeno di imporre un risparmio di soldi al munifico Stato sprecone senza incorrere in seccature e sciupio di tempo. Ma quello che supera ogni decenza è il "titolo" della comunicazione, quel DIFFIDA tutto in maiuscole-stampa urlante al centro della pagina irta di cifre e riferimenti burocratofili.
Paolo, in realtà, qualche spesuccia l'aveva sostenuta. S'era fatto stampare da un amico dotato delle attrezzature necessarie un opuscolo dove spiegava "Le ragioni di una candidatura" (questo il titolo dello sfogo politico, anzi etico-politico). Un centinaio di copie furono distribuite nei circoli del PRI del territorio. La spesa fu limitata a un'offerta libera, che fu di 200.000 delle vecchie lire. Poi aveva pagato la benzina per gli spostamenti personali da una piazza e pase all'altro per i comizi. Aveva regalato 25 copie del suo ultimo libro di versi ai ragazzi del circolo akiskenico perché ne ricavassero, vendendole, qualche sommetta. E di piccole somme, intorno alle 50.000 ne dette qualche volta direttamente a quei ragazzi sempre in difficoltà. Suo figlio, poi, "comprò" una tessera di iscrizione al Partito versando 100.000 lire. Ma i manifesti elettorali e le stampe con i nomi dei candidati glieli forniva il Partito senza alcun peso per i candidati. Eppure lasciava una certa libertà sulla scrittura del testo: quelli di Paolo portavano in fronte citazioni letterarie: un pensiero di Orazio in coppia con uno di Leopardi coronarono l'ultimo manifesto. L'oraziano suggeriva, vanamente, come accade oggi: "Ci sia un limite al guadagno". Più numerose le citazioini testuali inserite nell'opuscolo. Il quale si apre con un contrappunto provocatorio già nelle citazioni sotto il titolo: una sorta di paradosso spocchioso tratto dal libro di Manlio Sgalambro, "Dell'indifferenza in materia di società"; e un lungo brano di Leopardi in marcia di collisione con quella spocchia ("Zibaldone", 17 febbraio 1821). Ed ecco qualche titolo dei paragrafi: "1. I sacrifici umani", 2. "Il dio Mercato". 3. "Fame nel mondo. Ovvero la strage non stop degli innocenti". 4. "Contrappunto: i Creso cristiani". 5. "Degrado ambientale". 7."Caimaneide. Ovvero: bulimia di un capo", 7.1. "Detti memorabili". 7.2. "Fatti ancora più memorabili". 7.3. "Edonismo caimanesco". 9. "A difesa degli indifesi"
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Tra gli appunti di Paolo ci sono varie citazioni testuali da diversi scritti e autori, con postille "di getto": si va dai volumetti come "La rivoluzione culturale giorno per giorno" a quelli stampati dall'Editoriale l' "Espresso" per i suoi trent'anni di vita e successi: "30 anni di Esteri", (2 voll, a cura di Antonio Gambino), "30 anni di costume", ( 2 voll. a c. di Umberto Eco), "30 anni di scandali" (a c. di Giampaolo Pansa), "30 anni di trame" (a c. di Giorgio Bocca), "30 anni di terrorismo" (a c. di E. Forcella), eccetera. Perfino le "Poesie" di Mao-tse- tung (allora si scriveva così), introdotte da Franco Fortini, commentate da Tsang Keh-Chia, tradotte da Franco De Poli (con puntuali e illuminanti note storico-culturali) per le edizioni rosse di Samonà e Savelli. Un altro volume targato Samonà e Savelli risulta letto e postillato da Paolo: "Riformisti e rivoluzionari nel maggio francese". Ancora qualche titolo: "I Muri di Parigi", collezione 'Libri contro', n.4, Marsilio editori. Fra gli altri libri letti, in toto o parzialmente (non sempre per sopravvenuta morte: lui aveva il vizio-passione di leggere contemporaneamente vari libri), fornitori di passi citati, risultano: Francois Ponchaud, "Cambogia anno zero", Sonzogno, 1977: drammatica presentazione della Cambogia liberata dai Khmer Rossi. Per finire, due altri titoli di attualità: G. Cipriani, G. De Lutiis, A.Giannuli, "L'italia dei misteri e delle stragi. Servizi segreti. Dal dopoguerra a Firenze (maggio 1993). Il testo integrale della sentenza del giudice Felice Casson su 'Gladio'", Editrice la rivista "Avvenimenti" (che Paolo comprava regolarmente). Un libro dell'Unità racchiude l'intervista a Luciano Violante di Giuseppe Calderola; titolo, "I Corleonesi. Mafia e sistema eversivo", luglio 1993.
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Una di queste citazioni testuali suona particolarmente strana. Strana per la fonte, un autore e un libro lontani dai suoi climi culturali. Ma, siccome il nostro amico non fa nulla per caso (anche se del Caso si serve, e spesso con gratitudine), un senso in questa citazione ci dev'essere. Noi (pluralis modestiae) crediamo di averlo trovato: lasciamo al lettore del Duemilatrenta lo spasso e il rovello di cercarselo da solo, se questa nostra ipotesi non lo convince. Ecco la citazione.

"Può sembrare bizzarro che Braquemart volesse in queste faccende opporsi al Forestaro, benché molto vi fosse di simile nel loro pensiero e nel loro agire. Tuttavia è un errore nel quale s'incorre di frequente di dedurre dalla simiglianza di mezzi anche una simiglianza del fine, e il credere a un'uguale volontà ispiratrice in ambedue i casi. Vi era diversità nel proposito dell'uno e dell'altro, poiché il vecchio ambiva popolare la marina di selvagge fiere, mentre Braquemart la riteneva terra per schiavi. Si trattava insomma di uno dei vari conflitti interni dei Mauretani, che non serve qui spiegare in ogni suo aspetto. Basti l'accennare che tra il definito nichilismo e la selvaggia anarchia vi è un profondo contrasto, e in una tale lotta si tratta di decidere se delle plaghe popolose di umani si debba fare un deserto o invece rinnovarvi la vita della foresta primitiva. Tutti i caratteri del tardo nichilismo definivano l'essere di Braquemart. Gli era propria la fredda intelligenza sradicata e incline all'utopia; la vita gli appariva, come sempre a questa specie di uomini, quale un meccanismo di orologio, ed egli vedeva nella violenza e nel terrore le ruote motrici di codesta orologeria."
ERNST JÜNGER, "Sulle scogliere di marmo", Edizioni Guanda, "Le Fenici Tascabili"
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Ed ecco la nostra (facile) ermeneutica. Come interpretare queste citazioni da un autore poco assimilabile al verbo "sinistro" (malgrado il suo famoso saggio sul "Lavoratore")? E che comparabilità ha trovato, Paolo, tra i protagonisti negativi di quel romanzo iperrealistico e allegorico (in senso anti-nazista) e gli arruffapopolo dello schieramento opposto al suo? Né il Kaiman né i suoi accoliti complici servi fedeli e alleati ben foraggiati avevano molossi scannatori da lanciare, irti di taglienti metalli, all'assalto sbranante dei nemici, come il Forestaro o Braquemart; né volevano desertificare un fertile territorio o introdurvi la foresta selvaggia. Però, suggerisce Paolo, la loro azione è comparabilmente distruttiva altrettanto: non miravano a stragi di corpi, ma a strazi di leggi e istituzioni democratiche sì. I loro molossi metallizzati erano piccoli uomini programmati per dare addosso a una eterogenea massa (ritenuta) decadente, cioè ignara delle effettive regole del vivere concreto: leggi ponderate, anche se in qualche parte migliorabili; magistrati con l'ambizione coraggiosa di fare vera giustizia anche contro la malavita organizzata e la politica corrotta; impresari onesti che non vorrebbero subire taglieggiamenti né da mafiosi né da ministri assessori e via eleggendo; e poveri vecchi malati e svantaggiati in genere, bramosi di una minimale attenzione reale ai loro problemi e sofferenze. Qui facevano stragi i referenti e gregari e compatibili alleati del kaimanesimo (tra i quali, un capo del Partito Tramontano, più vicino, lui sì, a un molosso vero che a un politico rifinito): avvocatoni e avvocaticchi, economisti nani di corpo e di testa, commercialisti riccioluti di grama virilità e mordace parlantina; impresari convinti che "con la mafia bisogna convivere" (intrecciandovi succulenti affari); e altro "Bene" incarnato. Un'armata brancaleone trasformata in esercito vincente dai miliardi kaimaneschi, portata al Parlamento per fare leggi ad personam e negare fatti ed evidenza di prove provate in difesa del grande Capo seminatore di rovine e dei suoi compari sdoganati o ripescati dalle pattumiere del marginalismo sconfitto.
Tutti eventi che Paolo paventava e denunciava come possibilità realistiche nei suoi comizi e conferenze. E poi nelle interviste televisve e del maggiore quotidiano insulare, Gazzetta di Sicania, edito nella capitale sicanica, ma con redazioni nei principali centri urbani. Quest'ultimo lo aveva invitato nella sua redazione di Liotria, dove una graziosa fanciulla lo aveva intervistato e fatto fotografare per un servizio di presentazione dei candidati locali al Parlamento in gestazione. Era venuto fuori un buon lavoro, e la foto non era male. Finalmente Paolo, lo studioso solitario e di popolarità provinciale, confinata in buona parte nel mondo scolastico, si sentiva imposto all'attenzione dei grandi media e varcava quei limiti da uomo pubblico. Lo commoveva anche vedere stampato il suo nome su tanti manifesti elettorali ed elenchi di candidati: i muri dei vari centri del vasto collegio elettorale erano tappezzati di quei manifesti. Vanitas vanitatum...? Certo. Ma quel pizzico di euforia presenzialista gli riusciva gratificante come una specie di compimento della sua maturazione virile.
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Paolo si ammalò di cancro. Fu operato, e sembrava che si fosse giunti in tempo a scongiurare il peggio. Accorciato nell'intestino grasso di trenta centimetri, la biopsia aveva escluso infiltrazioni e rischio metastasi. I primi due anni non rivelarono, ai controlli di rito, nessuna novità sgradevole. Il terzo spuntò una inattesa macchiolina al retto di sospetta natura metastasica. Il nuovo intervento si presentava con grugno insopportabilmente beffardo: si temeva di dover asportare l'intero tratto, con blocco della pervietà fecale, sostituzione del rimosso con la famigerata canalizzazione laterale, infine, last but not least, la chemioterapia. Paolo ricordò la nonna materna, morta di quel male infamante nel 1940 (dolorosamente in tempo - osservava - per salvarsi dai prossimi orrori della Seconda guerra mondiale. Ma questo, che c'entrava? La solita scivolata, pensò, verso la divagazione associativa!). Si prese qualche giorno per riflettere, ricordò meditò decise, lasciando passare due settimane. Durante le quali tacque della novità con Susanna, intensificò il movimento godereccio trascinando lei in un turbine di viaggi soggiorni spettacoli. Infine, comunicò la sua decisione "ai signori medici", ma in realtà al suo ex alunno, autore del primo intervento: corretto, tempestivo, cospicuo, ma purtroppo insufficiente a salvarlo dal mostro. Rifiutava la "battaglia chirurgica" e accettava soltanto l'esperienza della chemio, se la biopsia del prelievo istologico ne avesse rivelato, com'era quasi certo, la natura maligna. Passò un'altra settimana dall'invio del referto all'istituto di patologia del Policlinico universitario, lo stesso che gli aveva ridato serenità dopo la "prima mutilazione". E quando giunse il responso atteso con timore e tremore, non fu quello della prima volta: il carcinoma non solo era inequivocabile, ma non era più "intramucosa" e superficiale, ma già infiltrato per qualche millimetro e di grinta aggressiva. Conclusione, rimuovere, subito, tagliare e buttare ai cani; togliere e sostituire. Insomma, la devastazione che si teme in questi casi. Paolo confermò la decisione presa: netto rifiuto dell'oscena manipolazione, prova della chemio fino alla sopportabilità, attesa disperata ma auspicabilmente filosofica dell'esito inevitabile. Il settantenne Socrate aveva rifiutato una soluzione facile pur di evitare la vergogna di inseguire un residuo di vita raminga, e lui non sarebbe stato capace di negarsi, con un pizzico di stoicismo una volta tanto davvero applicato, allo scempio spregevole per evitare un equivalente scampolo di residuale "vita deprivata", e perciò altrettanto vergognosa?
L'ex discepolo ebbe il buon gusto di non annoiarlo con le postulazioni della sua fede religiosa: egli, bambino orfano di padre, era stato riplasmato in quella fabbrica di "cervelli perduti" che è un seminario religioso, e non c'era stato verso di bucare quella corazza di isolamento dalla realtà: né con la sua parola appassionata né con la spaventosa esperienza del suo singolare mestiere di tagliatore e ricucitore di corpi invasi dalla suprema dimostrazione quotidiana dell'inesistenza del suo buondio mitico. Ma sapeva che il suo ex professore non era un improvvisatore emotivo del "rifiuto totale", ma un convinto di lunga carriera e di radicale meditazione pluridecennale.
Dopo altri mesi di silenzio stampa (come celiava con qualche familiare e parente) Paolo dovette sospendere con Susanna la custodia di quel segreto vieppiù erosivo. Lei non ebbe bisogno di mistificare le lacrime che le sgorgarono all'annuncio. E che seguitarono a pioverle in grembo più quando si trovava sola che davanti a lui. Paolo non riuscì a subirne oltre l'effusione della prima fase della maledetta chemio. Fin dalla prima iniezione seppe che era un tasso di tortura non accettabile quel sentirsi demolire dentro: a quale scopo fare da cavia? ? ripeté a Susanna. A settantatre anni, doveva prolungare la vita di qualche anno per ospitare quello strazio? Rifiutò decisamente di continuare: vada come può o deve andare, sentenziò. Susanna, sulle prime, tentò di fargli "cambiare idea", ma egli ribatteva, sorridendo, che la sua scelta non era un' "idea". No? E come la chiamava, lui? Susanna traccheggiava, stava al gioco, a quella specie di competizione laterale: domandava, obbiettava, cercava rimedi contro la malasorte. Alla sua, soprattutto. Ma non insistette più di tanto, vista la fermezza di quella decisione (che lui chiamava viscerale). Si rassegnò alla speranza priva di garanzie. C'erano familiari che pregavano per lui. Forse anche il figlio, ma poco convinto. Nemmeno la figlia era molto convinta: sapeva come la pensava il padre e non era cieca al punto da dargli torto. Il mondo era orribile, come constatava lui, e lei era la trepida sposa che non aveva voluto "mettere al mondo altri candidati all'infelicità". Per questa rinuncia ostinata (se n'era lamentata Rina, a lungo) s'era esposta persino all'accusa di egoismo; ma la sua scelta non conobbe dubbi.
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Si piangeva, intorno a quel vecchio ostinato, e si pregava. Le due movimentazioni dell'Inutile che di solito fanno coppia nelle immediate vicinanze del condannato a morte. Ma non lo siamo tutti? ? sorrideva Paolo, cogliendo qualche lacrima furtiva in questa o quella "persona cara". Gli dispiaceva particolarmente per i nipotini: avrebbe gradito poterli seguire ancora per qualche anno. A volte, quasi stordito, arrivava a dubitare dell'inevitabilità incombente: dopo tutto, si conoscevano casi di remissione spontanea del maligno. Un caso clamoroso era stato illustrato, molti anni prima, dal prof. Regitano, nell'aula di anatomia patologica della facoltà di medicina liotriana (Paolo vi bazzicava, con saltuarie presenze, mediate dal camice di un amico che lo autorizzava a usarlo quando non serviva a lui). Si trattava di un tipico caso da sfruttamento religioso: un uomo "operato" per cancro al colon e ricucito senza mutilazioni rivelate inutili da una larga diffusione di metastasi, che guarisce da solo. Il luminare non credeva ai miracoli, e si limitava a esporre il caso con un lieve commento sulle risorse misteriose della materia organica e la loro relativa imprevedibilità. Non poteva essere il suo caso? Ma rideva, poi, egli stesso di questi infantili cedimenti alla facile consolazione della (diceva) "improponibile speranza".
Per un certo tempo Paolo sopportò i morsi del male: resistere, godere i nipotini, aiutare chi potesse, leggere, scrivere, mandare ancora qualche articolo politico al quotidiano locale e al periodico politico-culturale del capoluogo imponeva questo ticket? E sia. Ma quando gli attacchi del male si fecero più frequenti e meno sopportabili decise di chiudere la partita. Aveva accumulato tante compresse di sonnifero e ansiolitico per questa eventualità: sarebbero bastate per quella soluzione pulita?
In tempi non lontani aveva considerato l'ipotesi di una sortita clamorosa: un suo ex allievo s'era suicidato buttandosi dal quarto piano. Non aveva, a giudicare dal "visibile", nessun valido motivo per farlo: medico specializzato, vincitore di un concorso per un comodo posto nell' "Azienda ospedaliera" più vicina al suo paese, trentacinquenne appena, tronca la sua esistenza con quel gesto eclatante. Altro particolare notevole: dopo avere raccolto la documentazione necessaria per entrare in servizio. Praticamente, alla vigilia del suo inizio professionale. Unico segnale di disturbo nella sua fisiologia, il temperamento introverso, la conseguente ipersensibilità, un certo mutismo a volte cupamente gravido di pensieri nascosti. Il caso aveva scosso la città, perfezionato il crollo psicologico dei genitori, impresso una traccia profonda nella memoria di Paolo. Che ruminava: perché non seguire quel suo infelice pupillo, in caso di necessità? Ma lentamente il tempo aveva maturato la soluzione preferita: perché infliggere quel supplemento di dolore alla figlia, tanto fragile e tanto amata? E lasciare questa altra eredità negativa al figlio, anche lui non troppo saldo nei suoi neuroni (ad onta della specializzazione)? Uscire in silenzio, doveva, all'occorrenza. Fare in modo che l' "anticipo" sparisse dentro l'ipotesi di un raptus mancino della malattia: un collasso naturale, una fine prevedibile, nell'economia del male che non perdona.
Ma era, poi, così facile sfuggire a una diagnosi di auto-avvelenamento? Contava, forse, sulla convenienza generale a non smuovere le acque, non diffondere dubbi sulle cause prossime del congedo inevitabile. Le sue riflessive perplessità, però, furono spente da un infarto fulminante. Inatteso, si disse, ma, a mio rimemorare sulla spinta dell'evento, Paolo era tutt'altro che lontano dal pensare a un possibile infarto del miocardio di sicura "valentìa" (ma sì, scherzava, all'occorrenza, anche su questo livello). Quando si toccava l'argomento cancro, lui diceva che sperava nel cuore: una bella strizzata e via. Mica il pace maker lo difendeva da quel facile esito. E i piccoli attacchi di angina pectoris non mancavano di rinverdire la speranza nei suoi momenti neri.
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Non mancò neppure qualche complicazione alla sua morte. Aveva lasciato delle disposizioni precise, affidate al sottoscritto e rese note anche a Susanna in due copie di videoscrittura. Nessuna esequie religiosa, solo cerimonia civile e trasferimento al cimitero. Negli ultimi tempi s'era convinto che non valesse la pena di creare ulteriori fastidi ai figli insistendo sulla cremazione: non praticandosi ancora nel vicino capoluogo della sua provincia, si sarebbe dovuti rivolgersi all'agenzia competente del capoluogo regionale, con lungaggini burocratiche e spese che non era il caso di infliggere agli eredi. Del resto, fu una manna anche per i preti locali, nessuno dei quali ignorava "le sue idee": come si sarebbero comportati? Cosa avrebbero deciso di fare? Si sarebbero consultati con la Curia vescovile di Realpolia? Negli ultimi giorni di resistenza, Paolo se lo chiedeva: il suo testamento toglieva d'imbarazzo anche i suoi figli e i loro coniugi, non solo i preti. Ma gli veniva il dubbio che la cosa potesse non riuscire gradita a qualche marpione della Curia o della parrocchia: un funerale religioso, magari preceduto da qualche visitina in pura amicizia al malato, non avrebbe potuto covare la soluzione finale della "bella immortal, benefica" di manzoniana memoria? Non avrebbe potuto essere sfruttato come indice di una conversione in extremis, funzionale (e di non poco, dato il personaggio, ben conosciuto nel vasto territorio multi-comunale del bacino scolastico liceo-ginnasiale) alla santa causa della Ecclesia triunfans? Aveva scritto, Paolo, anche il suo epitaffio. Sobrio al possibile suonava così: "Un giorno s'ammalò di Verità / e la servì con dura fedeltà. / Ma la pagò con la serenità". I tre endecasillabi tronchi furono scolpiti sul tetto di marmo della sua modesta tomba di famiglia.
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Finita la festa... Ma qui chi era lu santu gabbatu, se non la povera Susanna? Ancora una volta sola, ancora una volta "vedova". E ormai quasi vecchia, certo non in vena di ulteriori avventure. Forse, se io non fossi stato (quasi) serenamente sposato, padre di due figlie regolarmente accasate e apprensive madri, e nonno (quasi) felice di quattro nipotini a scala (due, maschietto e femminuccia, per figlia), dai tre ai dodici anni, avrei (ripeto, forse) proposto a Susanna (dopo tutto, i segni residui dell'antico splendore bastavano a consolare un anziano - per usare l'eufemismo ipocritello - come il sottoscritto) di farle compagnia stabile per il suo, per il nostro, resto di vita. Non ero l'erede naturale di Paolo Assaggi? Invece Susanna, dopo qualche settimana di indugi "assistiti" dai figli di Paolo, se ne tornò, sola, nella Capitale ("della Repubblica e degli imbrogli", pensò, e disse, Susanna, ricordando Paolo e la sua personale esperienza). Con la sua rassegnazione, la sua povertà, la sua canizie mascherata e incalzante, fra parenti poco interessati alla sua vita e sorte. Tranne le due figlie, sia pure in un rapporto mai del tutto liscio (si spera, migliorabile con il peggioramento della situazione materna). La maggiore delle quali quasi certamente le avrebbe dato ancora problemi, con la sua dolorosa vicenda pregressa, la ferita mai veramente guarita, e le ricadute nel male oscuro della depressione anoressica. Ma io sono sicuro che le due creature, alle quali, in fondo, lei ha sacrificato gran parte della sua esistenza tribolata, non le faranno mancare neanche qualche aiuto materiale, a integrazione della misera pensione sociale che ancora attende. Mi ha promesso di non dimenticare la nostra non lunga conoscenza e neonata amicizia riflessa: forse avrò ancora sue notizie. Un'ultima cosa, senza importanza, ma significativa nell'economia del privato personale. Anche Anna, mia moglie, ha commentato la vicenda con le parole di Rina, la (com'è strano scrivere la parola) defunta moglie di Paolo: Susanna, bella e sfortunata.
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Di Paolo, mi dovrò occupare ancora (sua divinità Crono permettendo): o che non mi ha lasciato, l'ingordo prodigo, un mezzo baule (lui dice scrigno) di cartacce (così, con la solita, un po' pudica, civetteria, le chiamava)? Agende-diario, lettere di personaggi illustri senza merito e di meritamente illustrissimi, della letteratura e del pensiero (scrittori, filosofi, sociologi...) e libri-dono di alcuni di essi con dediche più o meno lusinghiere (un paio di queste, sostitutive di missive "vietate" da problemi di salute) inediti culturali e politici: saggi, articoli, abbozzi, appunti, note di costume. E, nel corpo folto delle Agende diarizzate, citazioni colte, spesso lunghe, da svariatissime letture: da alcuni anni, collocate in alto sulla pagina, come epigrafi alle sue cronache-pensiero ... Ne viene una specie di excursus critico indiretto e ramificato in varie direzioni tematiche. Fa di loro quel che vuoi, o puoi - mi disse e ripeté negli incontri degli ultimi giorni. Vedremo. Ma le forze, le forze!
Già, le forze declinanti: come un sole stanco al tramonto. Ma che pure non posso confinare nella devozione operosa al mio amico e fratello ideale. Ci sono tanti buoni libri da leggere, di ieri e qualcuno di oggi; e un bel po' di classici da rileggere. Ora, per esempio, sto centellinando quel "libro brillante, coraggioso e terrorizzante" (Arundhati Roy) che ha per titolo "Shock Economy". Vi trovo la Naomi Klein del "No logo" ("bestseller internazionale, tradotto in 28 lingue"), l'impavida indagatrice dei mali del mondo sbagliato, o capitalismo globalizzato criminalizzante, che avevo imparato ad apprezzare sulle pagine del settimanale "L'Espresso", al quale sono stato abbonato per decenni. E siccome l'amico scomparso mi ha contagiato la sua mania delle citazioni diaristiche, anch'io ho cominciato a trascrivere passi dei libri che leggo. Da questo ho trasferito pezzetti dell'Introduzione, ma anche il suo titolo ("Il fascino della tabula rasa. Tre decenni passati a cancellare e rifare il mondo") e l'esergo biblico, che è un pugno nello stomaco: della verità e della congiunta sensibilità etica. Eccolo: Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: "E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco li distruggerò insieme con la terra"( Genesi, 6, 11).
D'accordo con queste delicatezze, un passo del testo di Naomi suona: "La notizia che quel giorno stava facendo il giro del centro d'accoglienza era che Richard Baker, un importante membro repubblicano del Congresso nonché loro coincittadino, aveva detto a un gruppo di lobbisti: 'Siamo finalmente riusciti a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Noi non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi.' Joseph Canizaro, uno dei più ricchi costruttori di New Orleans, aveva da poco espresso sentimenti analoghi: 'Credo che abbiamo di fronte una tabula rasa da cui ripartire. E grazie a questa tabula rasa abbiamo di fronte grandi opportunità'. Per tutta quella settimana l'Assemblea legislativa statale della Louisiana a Baton Rouge aveva brulicato di lobbisti aziendali intenti ad assicurarsi quelle grandi opportunità: meno tasse, meno regole, mano d'opera meno costosa e 'una città più piccola e più sicura' - che in pratica valeva a dire radere al suolo le case popolari e sostituirle con condomini. A sentire tutti i discorsi su 'nuovi inizi' e 'tabula rasa', si rischiava di dimenticare il brodo tossico di macerie, rifiuti chimici e resti umani che distava solo qualche miglio di autostrada"-

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P.s. Ultimissime da Susanna (nel mese e nell'anno dello Tsunami asiatico: oltre 220.000 morti): la figlia minore, è incinta. Restia fino a poco tempo fa, e piena di paure, ora ha accettato la sfida, il rischio, le incognite della maternità. Ecco un altro gancio vitale per Susanna. Che però sente del duro a uno dei seni e rifiuta di farsi visitare: troppo sono stata tagliata, dice. Che incoerenza: la figlia "guarisce", le fa una nipotina, e lei si arrende? Non le credo. Aggiungerò ancora la mia parola alla persuasione delle figlie. Speriamo di convincerla.

F I N E

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