lunedì 19 luglio 2010

SUSANNA, Frammento 74


Nei mesi seguiti alla morte di Rina Paolo ebbe modo di valutarne l’importanza nella sua vita domestica. Presenza a volte irritante, per le ragioni non nascoste ai suoi diari, ma sul piano pratico insostituibile. La figlia non lo trascurava certo, ma non era e non poteva essere che un surrogato minimale della versatile madre. Del resto, pianta e rimpianta da entrambi i figli per la sua viscerale vocazione materna e la conseguente disponibilità operosa, perfino iperattiva, al servizio delle “sue creature” in difficoltà (anche quando fu ostacolata da carenze fisiche sopraggiunte con l’età). Specialmente dopo la nascita, a distanza di qualche mese l’uno dall’altra, di due nipotini: un maschietto dalla nuora, una femminuccia dalla figlia.
Erano stati, i due infanti, la principale ragione della riluttanza a partire che Rina aveva opposto alle insistenze dei figli. E fu la serrata pressione convergente dell’intera tribù (dal marito ai figli, dal fratello e cognata ai compagni dei figli) a vincere le sue resistenze. Ma naturalmente sul fondo di quel desiderio maturato in decenni di rinunce e rinvii indotti dalle diverse circostanze dolorose piombate sulla famiglia. E allora appariva pleonastico il senso di colpa di figli e contorno: avessimo ceduto alle sue riluttanze, oggi sarebbe viva. Non ce lo possiamo perdonare. Eccetera. La nota stonata del senno di poi. Ma anche la risposta emozionale inevitabile all’artiglio della malasorte.

Ma il tempo, com’è suo mestiere, passa levigando, appianando, smussando asprezze e pungenti rilievi. E fa germogliare risorse, se appena esistono le condizioni vitali. In Paolo esistevano. Con radici nel sogno dell’auto-racconto “complicato”, dell’intreccio, variamente casual, tra vita e letteratura, (anzi, cultura ), dell’illusione, cosciente, ma leopardianamente fenicea, di rubare qualcosa al saturnino mostro divoratore dei figli. E canaglie.
Naturalmente, informò Susanna della sciagura. Lei aveva sentito la notizia, ma non aveva fatto caso ai tanti nomi sconosciuti delle vittime italiane, e in mezzo a quel plurale ignoto aveva seppellito senza alcun sospetto il nome di Rina. La telefonata faceva seguito a un silenzio di mesi, e fu di sobrio lutto da entrambe le parti. La prossima volta fu Susanna a chiamare: con l’ovvia richiesta di notizie sulla salute e la vita mutilata del vecchio “amico”.
Come stava? Passabilmente. Cominciava a rassegnarsi? Certo, cominciava. Anzi, era già a buon punto. Davvero? Davvero. Il che non voleva dire che non soffrisse. Tanto? Aveva buttato il contatore Geiger. Cosa? Ah, lo scusasse: è uno strumento per misurare la radioattività. Paragonava il suo dolore a quella cosa? Era stato un caso: un flash della memoria involontaria, nel quale il suo dolore gli aveva ricordato quello di tutti i sofferenti del mondo, e questo allargamento universale gli aveva suggerito quel misuratore della principale iattura planetaria. Uno dei tanti circuiti precoscienti aveva assimilato, enfaticamente, il lutto alla radioattività. Nel flash, in verità, s’era illuminata la tragedia dei bambini che vengono mutilati dei genitori: recentemente, come sapeva, s’erano verificati molti casi. Il più vicino (nel doppio senso) dei quali, la sorte dei militari italiani mandati allo sbaraglio della Bosnia stuprata, colpiti a morte dell’ “innocuo du”, l’uranio impoverito, millantato inoffensivo dai fabbricatori americani. Il suo caso personale non c’entrava. Ecco tutto.
Insomma, lui (com’era ormai in uso dire) metabolizzava il suo lutto. E lei? Aveva raggiunto la rassegnazione, lei? Sì, l’aveva raggiunta. Quel che le era rimasto, diceva, era più il dispiacere in sé per la morte prematura di un uomo ancora valido che la pena personale per l’amico (non usava mai la parola amante) perduto. Non gli aveva detto che i loro contatti carnali s’erano diradati tanto da poterne evitare la memoria nei discorsi sui loro rapporti? Non ricordava, lui, di avere ricevuto quella comunicazione, ma qualcosa di simile, sì. Ne era contento per lei. Le figlie? Altalenando nel medio valore del “così così”. Sempre intenzionate a non darle nipotini? Così pareva. I disturbi ricorrenti di Claudia? Di mese in mese più rari e lievi: quella confessione straziante si era rivelata liberatoria e balsamica? Forse. Come la scomparsa di quel nonno. Ancora forse. Se ne rallegrava, Paolo, sempre attento alla felicità di lei. Felicità? Gli era scappata la parola grossa, ma senza una reale intenzione d’uso. Non ci facesse caso. Era un’iperbole di consumo corrente, e delle più appiccicose. Bastava un minimo di distrazione per cascare nel suo scempio campo d’attrazione. Lui odiava quella parola, non lo ricordava Susanna? Certo che sì, e quanto all’attenzione di Paolo al benessere di lei, anche questo Susy aveva sempre presente: era un fatto al quale si appoggiava la sua ostinazione di resistenza alle avversità. Così diceva, così ripeteva da anni, l’ex ventenne bella e sfortunata. E la cosa non era priva di un sussulto: che cosa aveva potuto fare per lei, di concreto, di fatti e non parole? Nulla, in sostanza. E pazienza.
Niente, insomma, in quelle prime telefonate, e in quei primi mesi, che nelle loro conversazioni si riferisse direttamente ai loro sentimenti e ai loro piani (si prenda anche questa parola sonante con discrezione) per il futuro. Pareva sottinteso che lei se ne restasse a Roma, vicino alle figlie, e lui, in mezzo ai suoi cari, nella Sicania vulcanica e ballerina (un sisma di quei giorni, privo di vittime, e con modesti danni, aveva riacceso la discussione sui terremoti possibili nella zona: si temeva un non lontanissimo big one di tipo californiano o giapponese).

Ma un bel giorno, dopo sette mesi dall’ultimo lutto, Paolo cominciò a lasciare spazio all’ipotesi di una loro convivenza per quel “residuo di vita e di futuro”. Se ne sviluppò un sondaggio cauto e timido, ma non rinunciatario.
“Ti sembrerebbe una cosa tanto strana se ti proponessi di stare insieme? Non abbiamo legami coniugali, niente ci impedirebbe di unire le nostre difficoltà e i nostri sforzi: per alleviare quelle e, sommandoli, favorire questi verso esiti gradevoli. Non è concesso sperare di vivere qualche pezzo di tempo meno gramo dell’attuale? Con qualche concessione ai non sopiti spiriti vitali?”
“Mi sembrerebbe piuttosto fuori stagione. Magari un poco criticabile. O molto, chi lo sa. Che ne direbbero i tuoi figli?”
“E le tue figlie? Se lo facessimo ora, ci criticherebbero, certo, gli uni e le altre; ma fra un po' di mesi ancora (diciamo, al compimento dell’anno dalla scomparsa di Rina, o poco più) credo che approverebbero. Diciamo, realisticamente, che potrebbero sentirsene sollevati, i miei: non avrebbero più l’assillo di una sorveglianza stretta sul vedovo anziano e acciaccato da accudire. E le tue sarebbero altrettanto contente. Più o meno per analoghi motivi. Vivendo qui, tra noi, avresti l’attenzione dei miei e tranquille loro. Che ne pensi?”
“Tu, i tuoi, li conosci meglio di me, io sto a quello che me ne dici tu. Quanto alle mie figlie, sono abituate alla mia indipendenza. Ne sarebbero liete”
“Sui miei ti puoi fidare del mio giudizio. Magari il maschio, ipercritico com’è, non mi approverebbe al cento per cento. Ma pensando che si tratterebbe della migliore amica della sua prima infanzia, ti accetterebbe come...matrigna”
“Uhh, che brutto nome!”
“Una matrigna fatina, mica strega, ripescata dal pozzo del passato remoto, così odoroso di bei regali per quel Giampiero di tre-quattro anni, così innamorato della sua Susyna. E dato che delle tue ex bambine garantisci, non vedo difficoltà sul nostro possibile cammino”
“Oh, sì, loro approverebbero. Intanto il pensiero del piccolo Giampiero quattrenne mi dà coraggio. Mi hai fatto rivedere quel vispo bambino che lasciava anche l’amatissimo padre per stare con me. Mi ricordo, sai: ‘papà, vado con Susy, sta tranquillo, poi mi porta a casa lei’”
“Il furbacchione. Il quale, poi, ti ha avuto a disposizione in virtualità di chiaro-scuri nelle due foto trasmesse al computer di casa mia. Certo, in quelle sei una splendida ragazza e non l’attuale matura signora strapazzata dalla vita.”
“Appunto. Come accoglierebbe questa vecchina rugosa tanto diversa da quella fanciulla graziosa che lo portava a spasso e lo viziava con i suoi regali?”
“Be’ l’ormai quasi quarantenne padre di un bambino della sua età di allora ha sul groppino la somma di tempo giusta per non aspettarsi miracoli nell’estetica degli altri e non pretendere di paragonarsi, neppure lui, a quel delizioso bambino”
“Sì, penso che sia come dici tu.”
“Un’altra cosa ancora: con te al mio fianco (ma che espressioni fruste vengono a volte sotto i tasti) avrebbe un altro pensiero a confortarlo: toglierebbe un peso alla sua consorte, che tra lavoro e figlio, di tempo ne ha poco. E voglia missionaria ancora meno. Sai com’è, tra nuora e suocera: e pesi da...”
“Sei convincente, sai?”

*
E fu così che circa un anno e mezzo dopo la scomparsa di Rina e due e mezzo dopo quella di Marco, Paolo e Susanna “si misero insieme”. Il “consiglio di famiglia” di lui non fece obiezioni e quello di lei era del tutto assente. O entusiasta: scegliete voi. Forse è meglio esplanare: le figlie di Susy se ne lavarono le mani. Avrebbero accettato la soluzione liberamente scelta dalla madre. Perché sapevano che, anche se avessero espresso dubbi, quella avrebbe deciso di testa sua? Probabilmente. Né mancarono di dirsi contente della sua scelta. Se avevano accettato la relazione con Marco, che non approvavano ma dovettero, piuttosto, subire, perché non avrebbero accettato quella, ben più “regolare”, con l’ex suo professore? Conoscevano, aggiunsero, la persona rispettabile che era il professor Assaggi, tanto presente nella giovanile esistenza materna. E, di riflesso, un po’ anche nella loro infanzia. Naturalmente, attraverso la progressiva presentazione della madre, più che dai ricordi nebulosi e frammentari degli incontri diretti degli anni Ottanta.
A questo punto potrebbe cominciare un altro racconto, ma l’ansia di chiudere questo tracimante coacervo incalza. E comanda soltanto poche pagine ancora: per un finale già nei fatti e una conclusione superdensa. Come dire che a condurre la danza sarà l’estremo taccuino del mio amico. Ecco le sue parole.
*
“Ancora una volta il Grande Ram della Vita ha scritto il software dell’imprevedibile e dell’improbabile. Due morti inverosimili, una combinata binaria giocabile all’un per mille di probabilità, una doppia sopravvivenza a prove clinico-chirurgiche di rischio letale; ecco che cosa mi pare lecito indicare dietro il “congiungimento”. Io e Susanna, Susanna ed io. Dopo trentacinque anni, la metà dantesca di un’esistenza umana. Non ho ragione di rendere omaggio all’Incredibile? Anzi: fino all’insolito spreco di maiuscole-segnacolo.
Vuoi sapere, agenda n.33, come ce la passiamo, dove viviamo, e come, eccetera? Tenterò un veloce compendio. Celebrammo, mesi fa, un non-matrimonio del tutto laico: cioè, dichiarammo semplicemente ai nostri figli che io e Susy ci saremmo fatta compagnia per il breve resto delle nostre vite. Avremmo messo insieme le nostre debolezze e ci saremmo scommessi in reciprocità di assistenza e conforti per tentare di farne una forza. Fisica e morale. O meglio, fisiologica e psicologica. Un esperimento? Diciamolo pure. La materia prima c’era: il nostro affetto (avevamo pudore di usare la parola grossa amore). Un sentimento di lunga carriera, sopravvissuto a tradimenti sofferenze liti sdegni silenzi di anni. Con alti e bassi, tempi lunghi di black out divaricanti e riprese di breve respiro. Per il resto, la pazienza, la tolleranza, l’assistenza sarebbero fiorite da quel terreno fertile di remota e salda consistenza.”
*
Perché, di fatto, non mancavano difficoltà che le avrebbero richieste: lei fumava ancora molto, e a lui, cardiopatico, il fumo era nemico. Massime quello passivo. E’ vero, Paolo s’era riservato il diritto di sfidare il nemico fumando la media di tre-quattro sigarette al giorno, ma sempre all’aperto, leggerissime, e distanziate. Susanna avrebbe ridotto le sue e le avrebbe fumate sempre in terrazza, in cortile, fuori comunque dalle stanze. Era solo un esempio, anche se il maggiore, del “contenzioso possibile”. Ma riprendiamo il taccuino. Alla parte che abbiamo compendiato in succinta spremitura del testo autografo segue questo “dialogo”.

“Ti vedo poco interessato, quaderno. Gradiresti qualche capitolo del “congiungimento” meno insipido, immagino. Magari dei particolari piccanti? Il fatto è che Crono ghigna sulle mie spalle: che vai ciancicando, a settant’anni, – mi sussurra – di sesso e letto di battaglia? Non è, non dovrebbe essere, il tuo, soltanto o quasi, letto di casti riposi e pudiche carezze senili?
E qui ti sbagli, Mentore peloso: al confidente dei miei dettagli (e delle mie frattaglie) posso garantire una ponderata pretesa del contrario. Il sottoscritto non è stato, mai, o soltanto in sporadiche e “succinte” occasioni, un ghiottone del sesso. Istintivamente ne ha usato con misura. Meglio: dosandolo a prevedibili capacità fisiche di non difficile riscontro. Qualche eccezione di “sballo” mi veniva subito e immancabilmente messa in conto (e fatta pagare) dal mio corpicino costruito in regime di parsimonia materna. Sapeva, il mio cervello giurassico, che non ero un dinosauro, e il cauto neopallio (scusami la terminologia) dosava le sue concessioni all’antenato irrazionale con oculata ponderatezza. E forse questo ha conservato discrete capacità fisiologiche al qui compiaciuto settantenne. Capito, caro Intrigante? Ho delle buone spinte e resistenze erettili, dolcissimi orgasmi lenti, più faticose ma anche più squisite e tenere esplorazioni preliminari e antipasti di gusto, starei per dire, intatto.
Non ti basta? Vorresti descrizioni operative, dettagli intrusivi, lessico esplicito? E quando mai l’hai avuto da me, vecchio gossipista? Non siamo mai stati degli Henry Miller, e nemmeno una Anaïs Nin. Nemmeno uno stravaccato Charles Bukowski: certe esplicitezze le abbiamo assunte dal disinibito Houellebeck, lasciandogliene, per così dire, la responsabilità tecnico-scientifica. Non abbiamo avuto mai abbastanza “coraggio” o nonchalance: ti sei, forse, corrotto nella vecchiaia?
Ti basti annotare l’onda di douceur che dilagò nel mio corpo quando, nudo, si strinse al suo in tutti i modi e le contorsioni possibili, e l’esplosione di incontinenza umorale quando potei varcare quella soglia che trentacinque anni prima m’ero costretto, contro la stessa smania di lei, a lambire soltanto. Allorché potei entrare in quel buio che per tre lunghi anni m’ero proibito in quell’era remota e (non) perduta, quando le forze della sensibilità erano verdi e brucianti gli spasmi della rinuncia (questa specie di auto-castrazione funzionale), quando... Ti basti registrare il cumulo di secrezioni convergenti, la tempesta umorale che squassò questo corpo appesantito quando dentro quell’umido segreto in piena e convinta offerta spinse senza più remore e freni il suo ridesto onore di maschio ancora valido, indennizzando la mia giovanile astinenza dolente.
Sì, lo so, ora ti prudono le righe di curiosità su di lei, sulla “divina” ventenne dei “favolosi anni Sessanta” (come scrivono gli editori in Cd di quelle canzonette), su quel che ne resta nell’inevitabile appassimento dell’erede che ha varcato da qualche anno la barriera dei cinquanta. Ebbene, ti sembrerà un’iperbole, ma ti do la mia parola: è un bel residuo, un avanzo che farebbe invidia al totale di certe anemiche adolescenti di bianca pelle e pallide gote. Susanna “invecchia bene” e i suoi cinquantasei anni, senza pretendere confronti con i venti e i trenta, conservano una reattività erotica più che rispettabile. O, se il termine ti suona troppo prosastico, caldamente godibile e altrettanto capace di personale godimento. Senza eccessi e senza avarizie, vale a dire compatibile con le mie risorse in equilibrata reciprocità. Che altro pretendere? Aggiungi un certo ludismo onirico che mi fa sognare, a volte, di stare, non con la ultra-cinquantenne, ma con la mitica ventenne, intatta nelle immagini memorizzate nell’hard disk via scanner, directory Documenti, file (sovraccarico) Foto.
Dove stiamo? Un po’ a casa sua, nella Capitale estiva, di più nella mia casa sicanica sul mare Jonio, che alla Sicania associa la Calamagna nell’abbraccio geografico e simbolico di una continuità emozionale mai rinnegata. Il “di più” si stende fra l’autunno e l’inverno, complessivamente più miti e meno piovosi che nel centro-nord. Nonché (e retoricamente?) “benedetti” dal “mare di Ulisse”, ancora e sempre palpitante di memorie mitiche, storiche e di varia (non solo truce) cronaca, tra faraglioni ciclopici siti archeo pervasivamente frequenti e discretamente frequentati da certo movimento turistico, ed anche da manifestazioni edonistico-culturali. Il che non guasta, se l’adolescente residuale che vibra ancora di passione greco-romana conserva un suo lucar dentro le galassie neuroniche del vecchio disincantato. La scopa elettronica del disincanto ha ripulito di molto ciarpame retorico quella passione cresciuta in precoci serre scolastiche, ma non ha cementificato l’innocente humus diserbato.

*
Capitolo provvisoriamente finale

Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell’alone del ricordo e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento...
Ernst Junger, Sulle scogliere di marmo
*

Che potrei intitolare Breve la vita felice di Paolo e Susanna.
Se breve può dirsi il tempo di due anni e mezzo, pieni di passione e di avventure. Prima della catastrofe. Ovvero della “dipartita” di Paolo.
In questo lungo prima, dunque, Paolo e Susanna furono, direi, appunto felici, se non sapessi che il mio amico rifuggiva da quel termine (repetita iuvant?) come dalla peste retorica. Cioè dalla Menzogna. Come se fosse facile evitarla sempre.
Viaggiarono, cercando, nel variare dei luoghi, la varietà dei baci – come si diceva nei romanzi pudichi di un tempo lontano. A Venezia, dove Paolo era stato solo una volta, con la sua terza del liceo sicanico, in “Viaggio d’istruzione”, e Susanna non era mai stata, conobbero ore di ringiovanito abbandono. Galeotto catalizzatore di questo “risveglio di autunno” le mille seduzioni della maga adriatica, già Serenissima e imperiale potenza, e ancora scrigno di bellezze monumentali doppiamente “grandiose”, oltre che di incanti naturali. L’età di entrambi non prometteva tempeste dei sensi, ma quel clima di adolescenziale esaltazione, inevitabile per lui, agì da afrodisiaco contagioso e trascinò la coppia a qualche eccesso. E si stupì, Paolo, di quelle insospettate risorse del suo corpo, che era abituato a giudicare severamente. Si capisce, il (molto relativo) “troppo” di una notte veniva equilibrato dalla prudenza delle successive – almeno per una sequenza di due o tre. Né Susanna era più la focosa ninfa boschiva dei suoi vent’anni. O la complicata “Justine” che intitola il famoso romanzo di Lawrence Durrell (che Paolo leggeva negli ultimi mesi). Saggia e prudente in proporzione agli anni (anzi, decenni) accumulati dentro il suo già vibratile corpo così duramente provato da quei parti cesari e altra chirurgia invasiva, era lei la prima a suggerire moderazione al suo vecchio professore demi-amoureux. “Non lo dico per me” – spiegava, sorridendo protettiva – “che sono pronta anche all’ultimo viaggio, ma per te, che ancora hai tanto da realizzare” . Tanto? – pensava Paolo, poco convinto della sua costanza. E partiva il duetto su chi dei due avesse più da fare in questa valle di lacrime. O più da perdere nello strappo conclusivo. Paolo ricordava alla sua Susy (gli piaceva, di tanto in tanto, chiamarla in compact, come ai bei tempi della scuola) che aveva da godere ancora la gioia della “nonnità”, e lei replicava che le sue figlie, a quanto pareva, non avevano nessuna intenzione di generare altri infelici per la terra indegna. Dicevano proprio così, “per la Terra indegna”? “Proprio così, no: quella è una frase tua” – precisò Susanna. Non ricordava, Paolo, che la catastrofica valutazione gli scappava detta di tanto in tanto, durante la lezione di filosofia nella sua classe? Magari commentando qualche santo filosofo medievale, sordo e cieco, come tutta la categoria, “dinanzi agli orrori del mondo”. Vagamente, se ne ricordava il “filosofo triste”. Trovava tuttavia strano che due belle giovani spose non “soffrissero” il bisogno della maternità. Al che Susanna lo accusava, benevolmente, di distrazione: “Dimentichi la loro fallimentare esperienza di figlie abbandonate da un padre carogna. E il peggio che ha sconvolto la maggiore”. Paolo, in quell’accensione di coscienza rimemorante, si scusava, accusando l’egoismo dell’ “uomo felice”. Anzi, del vecchio scotomico di memoria e mezzo anchilosato nei sentimenti: non si sa che i vecchi diventano più egoisti?
Era Paolo, ad ogni modo, ad avere più legami con la vita: già nonno, con due amori di nipotini, maschio e femmina; e poi studioso in vena di novità, scrittore impegnato in un cantiere aperto, commentatore politico incazzato, e via elencando. Paolo frenava l’euforia “elenchistica” di Susanna, ma riconosceva, in interiore homine, che egli aveva qualche ragione più di lei per desiderare ancora qualche anno di attività lucidità curiosità “frugifera”. L’importante era che, ora, dopo l’incredibile ricongiungimento, avevano una specie di “dovere”, entrambi, di vivere alcuni anni. A compenso dei lunghi silenzi e le spente distanze che li avevano separati per decenni sparsi in discontinuità di periodi diversi. O almeno, di sperare in quegli anni del desiderio. La spietata vigilanza auto-critica di Paolo non mancò di segnalare quel “dovere” sfuggito all’autocontrollo antiretorico: la vecchia, giovanile passione camusiana riaffiorava ancora a vantaggio dell’enfasi che la sofferente maturità si illudeva di aver domata. E ricordò il giovanile romanzo “La morte felice” e i “Saggi” del Camus “africano”, tutto mare e sole, “gioia di vivere” e ricerca dell’equilibrio con la dura storia. Ricordò anche i propri pubblici interventi su di lui. Erano parte della sua avventura con Susanna, aveva scritto quegli articoli e saggi nel periodo di massima tensione della sua contrastata passione. Naturale, perciò, che la funzione associativa mescolasse le due esperienze anche verbalmente. Avevano, sì, “il dovere di essere felici”. E pazienza se il “filosofo triste” si contraddiceva in rapsodiche ebbrezze di obliviosa gioia compensatrice.
E di attendersi lunghi anni di verifica? Avevano anche questo “dovere”? Dovere o verbale trastullo, non furono esauditi. Ma quel biennio e la sua coda di mesi furono ricchi di esperienze variamente esaltanti. E, fra pene e perdite, conobbero soddisfazioni e rivincite. Paolo, soprattutto. Riuscì a pubblicare con un modesto, ma intraprendente editore, una versione ridotta e ampiamente affabulata di questa storia, nascosto dietro uno pseudonimo. Inaspettatamente, l’editore, per un fortunato scambio di favori, poté strappare una recensione positiva a un pezzo grosso del secondo quotidiano nazionale. La cosa incuriosì qualche concorrente, un servizio televisivo di medio livello ebbe risonanze locali presto dilatate per cerchi concentrici. Si accese, forse in seguito al servizio tv, un passaparola fra giovani lettrici eroticamente reattive, e qualche lettore colto stuzzicato dalle digressioni filosofiche ne accese un altro, rinforzando il successo. Che fu di consensi per l’originalità dell’impianto-impasto e la vivace flessibilità linguistica; ma anche di polemiche marcatamente ideologiche (ovviamente, con prevalente provenienza cattolica). In breve, il libro divenne un caso letterario e s’inserì nella gara, allora in corso, fra l’immarcescibile Camilleri e le nuove leve della narrativa divergente. Un bel successo, che Paolo avrebbe volentieri dedicato alla scomparsa Severina detta Rina: con quanta severa e instancabile costanza gli aveva rimproverato quella sua ostinata attività scrittoria accompagnata da così scarse gratifiche pecuniarie! Quale rivincita sarebbe stata! Non c’era più Rina, ma c’era Susanna: non gli bastava? Sì e no: Susanna non aveva mai incontrato quel problema, mentre Rina ne aveva sofferto lungo una buona parte della sua vita coniugale. Per Paolo sarebbe stata una bella rivincita e per Rina un tardivo, ma pur sempre appetibile compenso a decenni di frustrazioni. Le avrebbe comperato la casetta al mare: ormai i diritti d’autore glielo permettevano.
Insomma, un altro degli incredibili degli ultimi anni s’era affacciato nella esistenza movimentata di Paolo Assaggi. E in quest’ultimo, giocò il ruolo, prima appena sfiorato, di intervistato del giorno: non solo le televisioni locali e regionali, ma anche le reti nazionali se lo disputarono per qualche mese. E tutti a stordirlo di domande, pertinenti e impertinenti, di letteratura e filosofia. E, naturalmente, di fede e ateismo. E qui Paolo dovette adattarsi ai consigli degli intervistatori, a loro volta indottrinati dai direttori di rete e proprietari di network. Si lasciò perfino augurare di poter ritrovare la fede perduta: una gentile intervistatrice non più afflitta da urgenze giovanili, gli confidò in pubblico la sua attempata conversione e gli augurò che anche a lui toccasse tanta grazia. Paolo dovette fare buon viso a cattivissimo gioco (o giogo?), e anziché rispondere come gli dittava dentro, ringraziò e sospirò: Chissà! E si tenne dentro la nausea di quella mediocre commedia, sfogandosi, dopo, negli appunti privati. Non senza ripetere e ribadire l’atroce convinzione dell’inguaribilità umana dalla Grande Menzogna propiziatrice di delitti e massacri non stop.
*
Grande fu lo sconcerto di Paolo quando, al risveglio, constatò, con incredula difficoltà, che era stato un sogno, soltanto un sogno, tutta quella gloria letteraria, quel successo mediatico in rapida metamorfosi di ottime vendite e denaro sonante, di riscatto se non agli occhi di una Rina assente, per se stesso, unico neo del sogno, quella Rina svanita in mesto ricordo e non surrogabile con la Susanna di carne così estranea a quei lontani rinfacci coniugali. Un sogno, soltanto un sogno: ironico, sfottente, sadico, come i tanti che avevano popolato la sua esistenza largamente frequentata dall’immaginazione in ogni suo aspetto sorriso e ghigno.

Se la gloria letteraria, col suo codazzo di esiti mercantili, era stata solo un sogno beffardo, una sua porzione, piccola e diversa nella sotto-specie, fu realtà. Paolo vinse il primo premio di un concorso culturale: 5.000 euro, non era una gran somma, ma anche così modesta avrebbe fatto felice Rina. Il premio era stato iniziativa di una possidente della Sicania occidentale, che aveva fondato un'associazione culturale intitolata “Gli Amici di Diderot”, riuscendo a coinvolgere la Regione e la Comunità europea. L’associazione viveva il suo terzo anno di esistenza, con un discreto successo: aveva organizzato le sue conferenze, e il premio vinto dal mio amico era del secondo concorso. Paolo aveva presentato un volume che raccoglieva i suoi sparsi saggi sul poliedrico autore, da lui giudicato il più colto versatile geniale fra tutti gli autori del glorioso illuminismo francese. Insomma, che davvero fosse quell’“individuo unico” già riconosciuto e celebrato dal congeniale grandissimo Goethe. Dei saggi uno era, per estensione e trattazione, un vero libro, però pubblicato solo a puntate nella rivista del suo liceo Convivium, gli altri, molto più brevi (da dieci a venti pagine corpo 12 della rivista di Gulizza), illustravano singoli temi dell’immensa produzione diderotiana. Il volume era stato stampato a spese del suo Comune da un editore di Liotria per intervento di un ex alunno del liceo diventato assessore alla cultura di quella Giunta. Il concorso comprendeva tre premi, primo, secondo e terzo. Stupì parecchio quella sua vittoria, e non solo il diretto interessato che aveva partecipato su insistenza di ex colleghi e ex alunni, ma l’intera cerchia delle sue conoscenze e amicizie: come ipotizzare un premio per un autore così divergente dal clima prevalente nella sua città e in tutta la Sicania cattolico-politico-mafiosa (salve fatte le solite eccezioni ultra-minoritarie)? Il fatto era che s’era verificato un altro dei famosi inverosimili. Della commissione giudicatrice facevano parte altri due ex allievi di Paolo, del liceo di Realpolia. Sì, il venticinquennio di “professorato” in quel liceo “curializzato” aveva sparsi frutti di stima e perfino di riconoscenza fra gli ex allievi (“a prescindere”). I due della commissione erano, entrambi, docenti universitari, uno presso l’ateneo di Liotria (cattedra di Filosofia teoretica) l’altro in quello di Zancle (cattedra di Antropologia culturale). I due si batterono in difesa del loro ex professore e riuscirono a fare apprezzare gli aspetti nuovi che la sua critica testimoniava nel fertile pensiero in progress del Fondatore della proverbiale Enciclopedia. Uno di questi era una sorta di lampeggiante anticipo delle teorie trofologiche gulizzane. Per evidenziare questa sensibilità biologica del filosofo era stata preziosa, per Paolo, la tanto discussa operetta polemica “Il nipote di Rameau”, nelle cui pagine (inedite durante la vita dell’autore, a tutela della sua incolumità e libertà) la variabile trasversalità del tema lungo l’intera produzione diderotiana si addensa con particolare intensità. Ecco il protagonista inquadrato nel clima fin dalle prime pagine: “Triste o gaio secondo le circostanze. Sua prima cura, quando si leva al mattino, è di sapere dove pranzerà; dopo pranzo, si preoccupa di dove andare a cenare”. La sua lingua troppo libera lo ha escluso da una casa ospitale: che cosa rimpiangere? “Eravate trattato a manicaretti ed eccovi di nuovo ridotto ai rifiuti” Di qui l’“insopportabile” “disprezzo di se stesso” “Mille volte mi son detto: ma come, Rameau, ci sono a Parigi mille buone tavole di quindici-venti coperti ciascuna, e di tutti questi coperti non ce n’è uno per te!” La visione filosofica di Rameau non è meno intonata alla verità biotrofica universale: “In natura tutte le specie si divorano, tutte le classi si divorano nella società.” “E poi la miseria. La voce dell’onore e della coscienza è ben fioca quando lo stomaco reclama.” “Datemi retta, viva la filosofia, viva la saggezza di Salomone: bere buon vino, rimpinzarsi di manicaretti, spassarsela con belle donne, riposarsi su morbidi letti. Fuor che questo, tutto il resto è vano.”

Paolo non intende sovrapporre il personaggio all’autore: troppo evidenti le differenze tra un cinico artista e intellettuale “fallito”, ridotto quasi soltanto alla gioia dei pasti e del letto e la ricchissima personalità diderotiana. Ma non oblitera, come accade in tanta critica, la simpatia umana dell’autore verso quella figura di artista tradito dal talento e dalla società letteraria cinica e maldicente: è ben essa che lo costringe al parassitismo mordace. Né ha difficoltà, l’autore della “Passeggiata dello scettico”, a confessare direttamente: “Io non disprezzo i piaceri dei sensi. Anch’io ho un palato che gusta un cibo delicato o un delizioso vino.” Rameau non smania di frequentare certa gente, né sbava di piacere nelle conversazioni con quei discutibili letterati, ma vi è costretto e non può cessare di essere “un brigante felice tra briganti opulenti.” Non è bello fare il clown adulatore? Non lo sarà, ma non può ritrarsene.

“Chi altri può assoggettarsi a una simile parte se non il miserabile che trova lì, due o tre volte la settimana, di che placare gli spasmi degli intestini? E che pensare degli altri, quali Palissot, Fréron, Poinsinets, Baculard, che pure hanno qualcosa e le cui bassezze non si possono scusare con il borbottio di uno stomaco che soffre?” A reggere questo ruolo occorre ingegno, applicazione, “non vi si riesce in un sol colpo, ma vi si arriva a poco a poco. Ingenii largitor venter.” “Sembriamo allegri, ma in fondo siamo tutti di cattivo umore e con un grande appetito. Dei lupi non sarebbero più affamati, delle tigri non più crudeli. Divoriamo come i lupi dopo che la terra è stata ricoperta di neve, sbraniamo come tigri quanti hanno avuto successo”

La carrellata citatoria potrebbe prolungarsi ancora per pagine, concludiamo con un sospiro sociale, anzi con un soffio di sacra rabbia potenzialmente “sovversiva” (cioè, sacrosanta):

“Sono in questo mondo e ci resto. Ma se è nella nostra natura avere appetito – torno sempre sul fatto dell’appetito perché è la sensazione che mi è sempre presente – io trovo contro natura non aver sempre di che mangiare. Che diavolo di economia è questa: alcuni uomini rigurgitano di ogni ben di Dio, mentre altri, che pure hanno uno stomaco importuno come loro stessi, una fame altrettanto insistente, non hanno che cosa mettere sotto i denti. Il peggio è la soggezione in cui ci mantiene il bisogno…”

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