martedì 6 luglio 2010

SUSANNA, Frammento 73


Resa totale del vescovo pavido, e guai “firmati” per la Cadière, il fratello e il carmelitano onesto: “Instaurato il terrore, si potevano ascoltare i testimoni, due per primi, rispettabili e selezionati. La Guiol, nota fornitrice di donne a Girard; lingua abile e pungente, fu incaricata di scagliare la prima pietra, e aprire la piaga della calunnia. La Lauger, la piccola sarta che la Cadière nutriva e cui aveva pagato il tirocinio. Incinta di Girard, gli aveva gridato contro; qui lavò questa colpa [...] infangando la sua benefattrice, ma goffamente, da spudorata [...] poi vennero [..] le girardine [le donne di Girard] come le chiamavano a Tolone”.

E avanti con minacce ricatti mercato di coscienze bacate. I gesuiti in difficoltà “chiesero aiuto ‘in alto’”: temevano Parigi, i suoi tribunali, e ottennero la Provenza: quel parlamento avrebbe aiutato i benemeriti figli di Sant’Ignazio. La Cadière affidata alle orsoline, chiusa nella “cella di una suora pazza che sporcava tutto. Dormì nella paglia di questa pazza, in quest’odore spaventoso [...] Le diedero per guardiana e infermiera l’anima dannata di Girard, una conversa, figlia di quella Guiol che l’aveva concessa, degna in pieno della madre, capace di azioni sinistre”
Il metodo spiccio continuava a pieno regime: chi avesse intenzioni di testimoniare il vero, quindi contro Girard, veniva minacciato, comprato, sequestrato, allontanato. Così avvenne per le religiose che, pur minacciate dal corrotto padre Aubany di essere processate loro, e dunque torturate, solo in tre su quindici si erano dichiarate per Girard, “tutte elencarono fatti [...] che lo rovinavano senz’appello”. Ma ecco il colpo di genio:
“I gesuiti disperati presero una decisione eroica per assicurarsi dei testimoni. S’installarono in una sala di passaggio che portava al tribunale. Là, li fermavano, corrompevano, li minacciavano, e, se erano contro Girard, non li facevano entrare, e con la forza, impudenti, li mettevano alla porta [...] Così, il giudice ecclesiastico e il luogotenente erano ormai soltanto fantocci nelle mani dei gesuiti.”
La povera ragazza ripeteva le sue verità in “deposizioni schiaccianti”. I colti gesuiti “erano tanto furiosi, che gli dispiaceva non avere a Tolone il boia e la ‘questione’ [la tortura] “per farla cantare un po”. Era l’ultima ratio. E Michelet aggiunge un fregio alla civiltà cristiana che ammetteva la tortura: “I parlamenti ne usarono per tutto il secolo. Ho sotto gli occhi un fervido elogio della tortura scritto nel 1780 da un sapiente parlamentare [“Muyart de Vouglans, “Lois criminelles”], divenuto membro del Gran Consiglio, dedicato al re (Luigi XVI), e coronato da una lusinghiera approvazione di Sua Santità, Pio VI”.
Non c’è la tortura? Niente paura: c’è il fervido vino, ci sono le droghe: la Guiol usa la combinazione, veicolata da lusinghe menzognere e convincenti minacce, per ubriacare l’indebolita innocente. L’effetto prolungato per più giorni consentiva di usare la Cadière “in modo da impedirle di ritrattare la ritrattazione”. Ut erat in votis, la vittima indifesa capovolse le precedenti deposizioni veritiere e fece un’ “apologia di Girard”. Senza che gli illustri inquisitori cogliessero la stranezza dello stato psichico della giovane:
“Lo spettacolo singolare, vergognoso d’una ragazzina ubriaca, non li stupisce, non li mette in guardia. Le fanno dire che Girard non l’ha mai toccata, che lei non ha mai provato piacere né dolore, che tutto quello che ha sentito deriva da una malattia. Sono stati il carmelitano e i suoi fratelli a farle raccontare come realtà quanto non era stato che un sogno. Non contenta di discolpare Girard, incolpa i suoi, li rovina e gli mette la corda al collo” (p. 295).

Prima che l’effetto della pozione svaporasse, si provvide a somministrarle altre pozioni, “senza che ne avesse coscienza né ricordo.” In questo periodo, sei giorni dal 28 febbraio al 5/6 marzo, “avviene il fatto sconcertante, impossibile prima o dopo. Tanto schifoso e triste, per la povera Cadière, che viene detto in tre righe; né lei né suo fratello se la sentono di dire di più. Non ne avrebbero mai parlato se i fratelli, perseguiti anch’essi, non avessero visto che ne andava della loro vita”.
Qual è il fatto schifoso? Semplice, come la pulizia da ogni decenza: “Girard andò dalla Cadière. Si prese su di lei, ancora, insolenti, oscene libertà”. Intervallo stretto fra due impossibilità: la prima, coincidente col periodo di massimo allarme per il Girard, precede i sei giorni maledetti. In essi “Girard fu intimidito, umiliato, sempre battuto nella guerra dei testimoni che muoveva alla Cadière”. La seconda, inizia dal 10 marzo, “il giorno in cui lei tornò in sé, e uscì dal convento dove lui la teneva. La vide solo in questi cinque giorni, quando era ancora padrone di lei, e la poveretta, sotto l’azione del veleno, non era più se stessa”. Era piena di mali, la sventurata, e ne soffriva molto. Tra questi, un’ernia, “a tratti molto dolorosa”, provocatale dalle convulsioni, e collocata nelle parti intime. “La prova che Girard non era un criminale casuale, ma perverso, uno scellerato”, intento solo al profitto personale, la fornisce l’uso che di questa “piaga” fece: “Pensò che, se l’avesse usata, avvilita agli occhi di se stessa, non si arebbe mai più risollevata, non avrebbe avuto l’animo e il coraggio di ritrattare la ritrattazione”. Ed ecco questo monumento della più lurida viltà umana tirare in ballo, nel processo, quest’ernia, “scherzando libertino, e arrivò all’indegnità [...] di portarvi la mano”. Appena un cenno fugace dal fratello, al processo, “con vergogna” Da lei, un monosillabo di risposta alla domanda del giudice: “Sì”. La minaccia della tortura sempre in atto, un memento reiterato ad ogni esitazione: “I caritatevoli commissari le dissero che la tortura era pronta, lì accanto. Le spiegarono i cunei che le avrebbero serrato le ossa, i cavalletti, le punte di ferro”. L’infelice “era tanto debole di corpo che le mancò il coraggio. Sopportò di trovarsi faccia a faccia col suo crudele padrone, che poté ridere e trionfare, avendola avvilita nel corpo, ma soprattutto nella coscienza, facendola assassina dei suoi.”
La miserabile combutta dei “poteri forti” produsse il trionfo del Girard e la perdizione della santa trasformata dai titolari di quegli stessi poteri in creatura satanica, trastullo delle peggiori calunnie. Ma non poté impedire un sussulto di umana simpatia che mise in difficoltà la perversa macchinazione di quei poteri. La società, nei suoi vari strati, si appassionò al caso: “Tutti ne avevano pietà. Si trovarono due coraggiosi, Aubin, procuratore, e Claret, notaio, che le certificarono la ritrattazione della ritrattazione, documento terribile in cui lei racconta le minacce dei commissari e della superiora delle orsoline, soprattutto il fatto del vino avvelenato che venne costretta a bere”. Fu inviato “al ministro della giustizia” un appello che documentava un mostruoso “abuso di autorità ecclesiastica”: “le violazioni ostinate della legge” da parte di tutti i diabolici mestatori investiti del processo: giudice vescovile, luogotenente, commissari. Ma il guardasigilli d’Aguesseau, da mediocre Pilato, rifilò la scottante faccenda al parlamento di Aix: lo stesso che s’era rivelato docile strumento nelle arpionate mani dei gesuiti. E ricomincia il calvario della martire: polizia a cavallo per il trasferimento, come si trattasse di un vigoroso masnadiere e non di una svigorita malata incapace di reggersi in piedi. Ospitalità, ancora dalle garantite orsoline di Aix: “Lì si dimostrò la ferocia delle donne quando s’esaltano e perdono natura di donne”. Così, lo sdegno di Michelet. La superiora regalò alla sventurata “quattro ore di gogna” davanti alla canea di prezzolati mascalzoni, “la gente dei gesuiti, i bravi operai del clero...”. Ancora un onest’uomo che tenta di recuperare la giustizia e la pietà, l’avvocato Chaudon, ma invano. Tentò un accordo con i diavoli gesuiti, ma quei diavoli, di realissima carne e non di fantasia malata, rifiutarono l’offerta. “Allora si mostrò quello che era, un uomo di salda onestà, ammirevole coraggio. Espose, da dotto legista, la mostruosità delle procedure. Significava guastarsi per sempre col parlamento come coi gesuiti. Stabilì con precisione l’incesto spirituale del confessore, ma per pudore, non specificò fin dove era giunto il libertinaggio. Si vietò anche di parlare delle ‘Girardine’, delle devote incinte” da quel profusore di sperma, “fatto che tutti sapevano benissimo, ma che nessuno avrebbe voluto testimoniare”
Purtroppo, commise un errore: attaccò Girard come stregone. E il pubblico popolare la prese a burletta. Inutili i suoi testi sacri mobilitati a riprova del diavolo e dei suoi interventi nelle sporcizie umane. “E risero ancora più forte.” Gli intellettuali, i filosofi, compresi i libertini, non snobbarono la ghiotta occasione: si godevano questa “scenografica” rissa fra gesuiti e giansenisti, e per un bel po’ di giorni non badarono alla sventurata vittima dei pestiferi loyolani (p.300). Ma quando fu proposta per la giovane questo po’ po’ di pena: “Che la Cadière, prima messa alla questione [tortura] ordinaria e straordinaria, fosse poi portata a Tolone, e, sulla piazza dei Prêcheurs, impiccata e strangolata [...] i mondani, i libertini non risero più; fremettero. Non erano abbastanza frivoli da passar sopra a un simile orrore”. Grandi e commoventi le dimostrazioni popolari a difesa della Cadière, ma alla fine ebbero il solo effetto di ritardare la resurrezione processuale del Girard. “Il cardinale Fleury accontentò i gesuiti in tutto e per tutto. Ad Aix, Tolone e Marsiglia, mandò in esilio, bandì, mise in prigione. Tolone sopratutto era colpevole di aver messo il ritratto di Girard sulle porte delle “girardine” e portato in corteo il sacrosanto tricorno dei gesuiti.” E la povera Cadière, che fine fece? “La Cadière avrebbe dovuto, secondo la sentenza, potervi tornare, ridata alla madre. Mi azzardo a dire che non le permisero mai di rimettere piede sullo scottante teatro della sua città natale, che s’era dichiarata così fieramente per lei. Che ne fecero? Finora nessuno è riuscito a saperlo.” L’ipotesi di Michelet è tanto triste quanto credibile: i gesuiti “avranno atteso che la gente fosse distratta, pensasse ad altro. Poi l’artiglio l’avrà riafferrata, immersa, perduta in qualche sconosciuto convento, spenta in un in pace. Aveva solo ventun anni al momento della sentenza, e sempre aveva sperato di vivere poco. Gliene abbia Dio fatta la grazia.” (p.307). E si rammarica, Michelet (e noi con lui), che Voltaire si sia mostrato “molto superficiale su questa faccenda. Ride degli uni e degli altri; soprattutto dei giansenisti. Quanto agli storici Cabasse, Fabre, Méry, che “non hanno letto il Proces [..] si credono imparziali e schiacciano la vittima” (Testo usato per questa “dilatazione” storica: Jules Michelet, La strega, Bur, 1977, Introduzione di Franco Fortini, traduzione e note di Paola Cusumano e Massimo Parizzi).

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