venerdì 12 giugno 2009

Susanna, frammento 32


Ritornano i vecchi nodi, cara Rina: la tua gelosia mi esaspera. Un incontro con la sorella di Susy scatena una scenata! Ma si può? Un semplice innocente casualissimo incontro sul corso, fra la gente, in pieno giorno. Che cosa la inquieta in una roba simile? Forse l’empatica percezione del penchant verso il maschio da eccesso digiunante? Ma il marito è stato qui, in paese, in famiglia, con lei fino a pochi giorni fa. E anche se il vedovo letto di contingenza tendesse un po’ le corde del desiderio, quali ostacoli fra l’eventuale suo e il problematico mio! In lei, la forza inerziale dell’educazione alla fedeltà, esemplata splendidamente nella madre; in me, il pensiero della famiglia, il peso del già ingombrante impegno latente, tanto sapido di umori quanto scabro di spine.
Per qualche secondo dolcemente adrenalinico, la tentazione di schiacciare il pedale dell’acceleratore e sterzare verso un burrone risolutore. “Tentazione” è parola impropria, troppo forte e definita; ma un vagolare eccitato fra le nuvole incerte dei possibili, questo sì. Nuvole di carezza, poi, sull’altro registro: rosate di tenero tramonto sprecato, dietro un fondale di monti mosso da quel pedale nervoso sopra un asfalto non avaro di rettilinei drogati, tra il mare e la collinosa campagna. Doveva essere la solita berlinata distensiva e ciacolante, piena di ragazze La Mela e sequenze di fatti parole e sforzi di interpretazione, ma si è intossicata in profluvie di vecchie accuse, reiterati rinfacci, antichi rancori sciolti in tossico di parole aggressive di pronto sgorgo. Incoerenti, tra l’altro, con quell’angelico volto di madonnina vellutata che è vanto dei suoi momenti sereni. O c’è sotto un rodio di follicolina trascurata?
Che rabbia. Quando qualche manipolo di rimorsi si fa avanti a contrastare il denso sapore di certi trascorsi, tu, anima mia mal consigliata, ti adopri per spazzarlo via. E lasciare la mutevole mente libera e disponibile, con tutto il solidale corpo nuovamente purgato dell’azoto coscienziale. Misteri della fisiologia femminina. Forse se tu fossi stata un’altra, più tenera, meno incostante nell’affetto; più, solo un tantino, più intimamente legata a me (innamorata? Non pretendo tanto), io non avrei vagabondato per sentieri aberranti. Chissà.
*
Ho “buttato giù” due articoli-recensione sulle Cronache di filosofia italiana del seduttivo Eugenio Garin: uno per la Gazzetta dello Stretto e uno per Il Gazzettino jonico. Naturalmente, entrambi da rivedere. E’ stata una parentesi di relativa serenità godereccia, per certe stroncature di personaggi grotteschi della provincia filosofica italiana, e soprattutto sicanica, a me indigesti. Per il resto, una brutta serata.
Che ho tentato di dimenticare tuffandomi nella gagliofferia del film Il mondo sulle spiagge: parata di ottimi deretani di geishe e spogliarelliste, che infine davano un senso di annoiata sazietà.

10. 06, ore 23

Fine dell’anno scolastico. Ultimi scrutini: 4a e 3a sez. E. Quasi tutte promosse in filosofia le ragazze di terza. E’ il primo anno che mi capita una cosa simile. C’entra anche un pizzico di sbadigliante cinismo. Ma forse di più l’irritazione per l’esito della seconda. Tutte ammesse quelle di quarta, che lasciano sperare un esame non deludente.
Ho ottenuto per Susanna 6 in scienze e 6 in educazione fisica, materie dove lei era meritamente esposta al giudizio di non sufficienza. Le ho dato 6 in filosofia-pedagogia, naturalmente: sacrificando un po’ all’amicizia, ma senza strafare. E ti risparmio, quaderno, i soprassalti di moralina, fin troppo rintuzzati dall’impegno latente.
Come affronterà gli esami? Mi sento gonfio di responsabilità. Che scarica raffiche di pensieri plumbei e insinua perfino incubi nei sogni. Ieri notte la vedevo fare scena muta, mentre io, accanto a lei, suggerivo invano, sudando, e lei, chiusa in uno dei suoi recessi di ostinazione ribelle, restava impassibile. Brividi di angoscia scuotono ancora il corpo al ricordo.

Per di più, ci sono novità in altro campo: il suo ex semi-promesso, da lei piantato circa un anno fa, si rifà vivo. Un fratello ha telefonato a casa sua; ha risposto lei. Quello chiedeva i regali che il “fidanzato” le aveva fatto e non aveva voluto indietro al momento della rottura. Naturalmente lei, piccata, ha risposto che le pareva un po’ tardi per simili richieste. E piuttosto strano che non fosse l’ex a farle. Pensa che sia stato un pretesto per riaprire un contatto. E teme sviluppi dirompenti. E’ gente di ‘ndrangheta, dicono. Potrebbero tentare un gesto clamoroso, un ratto. Un nuovo caso Alcamo? Susanna è ben decisa a negarsi in ogni caso. E ricostruisce fatti lontani: le martellanti telefonate anonime della scorsa estate ritiene fossero dell’ex, non rassegnato a perderla. Anzi, addirittura minaccioso: parlava di famiglie, di poteri capaci di colpire ovunque, sventolava ambigue possibilità di ritorsioni.
Forse è solo un gioco dispettoso di giovani oziosi che millantano fuori da ogni realtà familiare e di clan. E speriamo così sia. Parole di Susy: “manco morta”. E nun mi schiantu. Che vuol dire “non ho paura”. La solita sbruffoncella? Non credo (mica tanto “solita”, poi): sarebbe ben capace di farli pentire di uno scandalo ingiustificabile. Se è veramente gente di ‘ndrina, deve tenere all’immagine sociale: non si può permettere di perdere la faccia. Un residuo del vecchio codice d’onore deve pur resistere, sopravvivere allo scempio normativo provocato dal consenso alla droga (peraltro, ancora fomite di contrasti interni ai clan). Almeno, così dicono certi reali o presunti informati di codesti deragliati arcana imperii.


12 giugno

Consiglio plenario, ovvero Collegio docenti, a scuola. Routine di consegne e ciarle, lontani dalla carne e dal sangue della Scuola reale, cioè di studenti e famiglie e relazioni e prassi sociali. Un miscuglio-intruglio in cui bene e male, giusto e ingiusto, lecito e illecito s’intrecciano fondono e confondono cassando ogni linea divisoria netta e pulita. E così sia.
Ho chiarito al preside i motivi del mio risentimento. Soprattutto la rigidezza verso la seconda E: non solo eccessiva in sé, ma dissonante con il clima generale dell’istituto e della Scuola in generale, ovunque più incline all’indulgenza pensosa che all’accigliato rigore.
Lo trovo cambiato: gentile, disponibile, morbido (lui, così impettito e “inglese”). Quasi premuroso. Che sarà successo? Me lo sono chiesto lungo tutto il tempo delle formalità e della compresenza con altri colleghi. All’uscita, verso mezzogiorno, ne scopro la ragione: mi raccomanda una sua “cugina”, candidata all’esame di idoneità alla quarta (cioè, all’ultimo anno dei corsi magistrali). In me, un vero choc. Sinceramente, non me l’aspettavo. Da lui (quasi scriverei Lui): col suo aplomb, la sua maschera di sobrietà e Dignità (con la maiuscola, sì: non è un lapsus). Dentro cui sta inscritta la pretesa alla correttezza, alla legalità, alla giustizia. E chissà quante altre maiuscole. E tutto questo, infine, è (dovrebbe essere, a sua ostentazione) coordinato dalla sua qualità di fratello massone, anzi di Venerabile di una loggia localmente importante.
Ma di che ti meravigli, filosofo? Siamo alle solite: alla discrasia tra il dire e il fare, tra la grammatica e la pratica. Ovvero, tra logos e bios. Il preside, lo stimato e rispettato preside Timarco è un po’ gesuita, ecco tutto. Come ce ne sono tanti. A migliaia. E pensare che massoni e gesuiti hanno sempre fatto a pugni con ferina asprezza di linguaggio bellico! Io, come ho risposto all’inattesa istanza? Come ti aspetteresti che rispondessi, quaderno? Ho detto, come avrebbe fatto chiunque altro al mio posto, che avrei tenuto conto, fatto il possibile, ricordato facilitato favorito. Magari sono stato meno tassativo e imperativamente rassicurante della quasi totalità dei miei colleghi, ma non ho certo sollevato dubbi morali e acceso complicazioni deontologiche. “Così fan tutte”, insomma. Fra quelle tutte, unico mio segno di relativa distinzione: la mia (cosiddetta) coscienza stende invalicabili soglie simpatizzanti con la decenza (magari
minimale).
*
Una lettera espresso di Gulizza: mi chiede un articolo di replica ad una certa Antoncelli, che difende la donna dicendo poco originali scemenze, e senza citare l’autore del pamphlet Natura della donna, cioè lui medesimo in persona Gerolamo Gulizza, che l’argomento Donna lo ha sviscerato e rastremato da tutte le parti. Guadagnandosi, così, anche l’odio dell’intero gentil sesso, non solo delle femministe fanatiche alla Simona De Beauvoir, autrice del Secondo sesso. E di quella tremenda involontaria boutade socio-politica che ha attizzato l’estro beffardo del Gulizza: “donne non si nasce, lo si diventa”. Laddove, per dirla in aulico, l’ultimo esploratore dell’universo femminile spara quell’incipit perentorio e sbrigativo che ha fatto buttare il libello gulizzano dalla finestra a più d’una lettrice addottrinata: “La donna è il termine medio tra l’animale e l’uomo”. Ed ha un bello esplanare, di seguito, che quella definizione
è “senz’ombra di disprezzo”, mirando, con assoluto esprit de serieux, a rilevare solamente, e in generale, la minore capacità di movimento (fisico e mentale) della donna rispetto all’uomo. Nonché motivando quella minorità con il “complesso materno”: mestruazioni gestazione allattamento… Né ignora, il reprobo, l’estrema variabilità dei dosaggi ormonali di pertinenza genetica, che dà larga flessibilità ai confini tra maschio e femmina. Quante donne “in gamba” sono più “mobili” di tanti mezzi uomini, ominicchi, eccetera!
Il mio eventuale articolo andrebbe alla Gazzetta di Parma, risalendo così la penisola fino a superare quel centro e quella capitale che sembravano il non plus ultra geografico delle mie modestissime imprese scritturali. Vedremo se ne sarò capace. Di solito riesco male nelle scritture “su ordinazione” (anche se in questo caso si tratta più di immedesimazione che ordinazione).

13 giugno

Lezione di fisica alla cognatina promessa, e di italiano a Susy. Come sempre, la prima risponde bene (cioè, pronta e precisa) alle mie spiegazioni, e la seconda con qualche distrazione rimemorante,
E visite, segnalazioni, raccomandazioni. Non solo pro candidate esterne (all’idoneità per questa o quella classe: di solito, per la quarta e ultima del corso), ma anche per le candidate interne all’esame di abilitazione (qualcuno comincia a dire maturità) magistrale. Naturalmente, nessuno zelatore prende alla lettera la modestia coatta del mio “farò il possibile”: tutti (con scarto di prevalenza femminile) sopravvalutano le mie risorse d’intervento, il mio possibile. Con la conseguenza, già verificata negli anni, che se saranno non pienamente soddisfatti/e dagli esiti, daranno la colpa (o sua gran parte) al sottoscritto, che non si sarebbe impegnato abbastanza nella sua impresa di avvocato d’ufficio. Altrettanto naturalmente non ignoro che genitori e tutori diversi, ma di vicina pertinenza parentale, hanno già provveduto, o stanno per farlo, a raccomandare le loro fanciulle al maggior numero possibile di commissari, dal presidente in
giù. Che bel volume sarebbe scrivere di questo gran movimento se si conoscessero tutti i suoi segmenti pluridirezionati.
*
E’ l’ora dei lamenti: via il tappo. Più senso di vuoto che speranze, più nausea inerte che motivata attività culturale (scrittura, in particolare). In quel vuoto, serpeggia un malessere da privazione: da quale sera frugifera non accosto il pensiero frugante al mistero ontologico? Fremo di impazienza e di rimpianti. Né mi aiuta molto il maiora premunt che mi recito a monito della cieca impazienza (chissà la sproni, la cieca, ad aprire gli occhi sulla realtà vivente e imminente). Ondate di memoria ancora calda mi perseguitano dallo scorso venerdì non del tutto digiuno. Sono stanco e “malato”. E dovrei rinunciare anche a qualcuna delle poche sigarette che mi ostino a fumare. Quasi a integrazione simbolica della mia virilità.
Ore 24. Si va a letto. Con un libro per conciliare il sonno, e la speranza che Morfeo non mi sia avaro. Più un’eco competente: Ho una bella fanciulla / simile nell’aspetto ai fiori d’oro, / la mia Cleide diletta. / Io non la darei né per tutta la Lidia / né per l’amata... (ALCEO, traduzione S. Quasimodo)

Martedì, 14 giugno

Ore sette: mi levo, con un brivido di speranza. Esco e compro la Gazzetta dello Stretto dallo strillone che passa per tutte le strade del paese e me la porta sotto il naso proteso dalla bassa finestra sulla strada. La sfoglio voracemente. Delusione: non c’è, nella pagina letteraria, il mio articolo sul Dante gulizzano, che ruota intorno alla definizione della Commedia come “danza della vendetta”. C’è, invece, un articolo dello stesso Gulizza. Lo leggo, e lo trovo quasi inutile: indegno del titolo e della posizione tipografica. Un intruglio polemico di biologia evoluzionistica e di biologia culturale, per dire che “l’anello mancante” non manca mai, e che natura non facit saltus. Nel caso (dantesco) l’anello mancante non manca tra La vita nova e la Commedia. Dall’una all’altra c’è la necessaria evoluzione della fisiologia dantesca, che accumula variazioni minime per esplodere infine nel capolavoro. Tre quarti dell’articolo sono
spesi per sostenere il più compatto determinismo. Mi irrita: Gulizza non vuol cedere su nessuna posizione, e polemizza, in sottinteso, col sottoscritto e con Nicola Abbagnano, sostenitori (in ovvio ordine inverso) di un moderato, molto calibrato, attentissimo possibilismo, supportato dal Principio di indeterminazione di Heisemberg e da tutta la fisica quantistica (anche se col perplesso dissenso nientemeno che di Einstein in persona: “Dio non gioca ai dadi”). Pare si sia ostinato a stancare le mie resistenze fino al crollo dell’ultima roccaforte. Ma si illude, non cederò: la necessità è categoria metafisicissima, e lui non lo vuol capire. Equivale a una sentenza assoluta sull’intima, estrema e irriducibile struttura della materia/energia: ma quale scienza effettuale è mai pervenuta a tanta “intimità”? E se non vi è pervenuta, con quale diritto la scavalchiamo? Si dirà: ma se tutta la scienza, da Galileo all’intero Ottocento, è
stata deterministica, una ragione ci sarà bene. Sì, le leggi della macrofisica sembrano convalidare quell’ipotesi, ma dai primi del XX secolo quella stessa scienza, crescendo e moltiplicandosi, ha svoltato verso una differente valutazione, appunto quella accennata sopra. Einstein? Come sostengono alcuni fisici ed epistemologi, il genio della relatività ristretta e generale vìola, su questo punto, il codice o canone della scienza, che suona: “non è lecito affermare l’esistenza di un fenomeno o legge fisica che non sia il risultato di osservazioni esperimenti e calcoli effettivamente eseguiti”. Dopo tutto, come ricorda Brecht nella sua Vita di Galileo, “non tutto ciò che fa un grand’uomo è grande”. Fa o afferma – che è poi un altro modo del suo fare.
Si potrebbe, forse, attenuare l’ostinazione einsteiniana ricordando che il capelluto genio non pronuncia un drastico sic est incompatibile con il canone scientifico, ma postula una speranzosa possibilità che in futuro la sovrana Fisica riesca a dimostrare il diletto determinismo. Forse, dico. Personalmente, gli concederei un’altra attenuante: gli piacevano e “coltivava” le belle donne. Da quando l’ho saputo mi è più caro. Spezie, dirà il lettore del tremila, che c’entra con madame la fisica di frontiera come i proverbiali cavoli a merenda. Ma chissà.
Con una buona dose di presunzione sbarazzina, Gulizza non va per il sottile, e non tollera, lui, maestro di tolleranza (almeno, a parole), opposizioni drastiche alle sue convinzioni. Si appella continuamente alla scienza, ma pretende dare lezioni anche agli scienziati. Combatte al coltello la metafisica, ma vi scivola dentro negando il fatto. Non è che sia del tutto incoerente: ammette, egli stesso, che nella sua dottrina si possano trovare residui metafisici (magari per sola inerzia lessicale: le parole sono impregnate di quel virus immortale). E, soprattutto, nella sua guerra alle maiuscole, non risparmia certa inclinazione alla metafisica che gli sembri di trovare nella “fisica di frontiera”. O quella che lui vede come reticenza pluralista della biologia (in tutti i suoi aspetti: dalla fisiologia alla biologia molecolare all’etologia): la mancata riduzione dei molti istinti a uno solo, la fame, del quale gli altri non sarebbero che pulsioni
subordinate, funzionali a quella prima e fondamentale. O addirittura sue variazioni e diramazioni traspositive, che ne ripetono in chiave “laterale” lo spartito del metabolismo. Tema universale, che regge le molteplici varianti, iterandosi e complicandosi nelle infinite forme viventi, e negli abissi delle complessità citologico-molecolari dei singoli esemplari nelle tassonomie della filogenesi più recente.
Ho ricordato Einstein, come massima autorità, oggi, fra i sostenitori del determinismo para-ottocentesco; ora un flash memoriale mi assicura di aver letto che lo stesso Planck, il fondatore della fisica quantistica, come dire la fonte del moderno indeterminismo, concordava con Einstein sulla possibilità di sostenere l’ipotesi deterministica, malgrado la sua contraddizione con lo statuto fondante della scienza appena richiamato. Che si potrebbe anche esprimere (semplificando) così, secondo un appunto finito fra queste pagine di diario: “Non è consentito parlare di ‘realtà’ che non rispondano a osservazioni e misure effettivamente eseguite”.
Ho in mente una polemica aperta, cioè sui giornali ai quali collaboriamo, con Gulizza. In mente: ma, conoscendomi, prima che arrivi al fatto, potrebbe svanire come neve a lento sole. Non manca qualche segno rivelatore della possibile evoluzione vaporante: dopo questo sfogo, sento calare rapidamente il livello adrenalinico. E ho la sensazione di avere esagerato definendo inutile il sempre limpido e logico scrittarello gulizzano, per discutibile che possa riuscire a questo o quel lettore. O al mio contingente umore.
*
Cronaca sub-lunare. Ore 8.30: assisto, con la collega Pina Falconeri, alla prima prova di latino scritto dell’esame d’idoneità. Tre ore filate di ciarle, con poche varianti culturali e molta contingenza. Insomma, più noia che piacere. Pina è incinta, ed è spaventata. Come tutte le sposine al loro primo parto. Già la gravidanza le ha regalato qualche fastidio. E ora, all’approssimarsi del magno evento, arriva la paura. Tento di incoraggiarla, usando l’esperienza nostra, cioè di mia moglie e mia. Mi correggo e chiarisco: quella esperienza è stata tutt’altro che incoraggiante; al contrario, drammatica, e per poco non del tutto tragica. Nemmeno senza conseguenze di lungo corso, ancora oggi segnate sul volto di Rina, come improvvisi fiotti di insicurezza, ogni volta che si parla dell’argomento parto. E forse più nel suo corpo. Dunque, il mio utilizzo di quella esperienza è stato monco e reticente, tra l’imbarazzato e l’edulcorato. Non
ho negato una certa spesa in sangue vivo, ma ho taciuto il peggio: l’eccesso, in quella perdita, dei punti mal dati, e troppi (fino a rifarmi vergine la moglie). Ma questo peggio è stato un involontario e sinistro dono dell’inesperienza sudante del mio amico ginecologo, ancora alle prime armi.
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Scintille antigieniche fra Rina e me. Lei dice che mia madre vivrà più di me e di lei. Forse le augura – magari in un cantuccio remoto del sottosuolo – una morte precoce; che, per lei, privata, appena ventenne, di una madre soltanto a mezza strada fra i quaranta e i cinquanta, sarebbe sempre tarda. Ciò non incoraggia il mio affetto coniugale. Alimenta, invece, altri desideri, e affetti. Molto segreti e ben protetti. O coronata di viole, divina / dolce ridente Saffo! (Alceo, Decima musa, trad. Quasimodo, Lirici greci)
Molto segreti? Ben protetti? Chissà se non siano, invece, perigliosamente esposti in queste pagine semi-schermate. E chi mi assicura, poi, che Rina auguri a mia madre una morte precoce? Che cosa ne guadagnerebbe lei? Ma mère è, dopotutto, una belle-mère “leggera”: non invade la nostra privacy, e se interviene, quando avverte aria di tramontana fra noi due, lo fa per riscaldare l’aria, non per raffreddarla di più. Magari dando ragione a lei, o minimizzando torti e ragioni. Nelle nostre questioni di gelosia, babbo e mamma hanno sempre sostenuto la causa di Rina. Soprattutto, però, mon père, il moralista, il saggio dispensatore di assennati consigli. Altri tempi. Da quando viviamo lontano, le occasioni d’intervento si sono fatte più rare. Ma non per ciò mancheranno. Lo sento e lo so. E infine, tornando a mamma: lei è sempre stata disponibile, premurosa, “faciotola” (attiva) al servizio dei figli e del marito. Ora anche dei nipoti, dei
generi e delle nuore. Con più viscerale tenerezza, ovviamente, per i nipotini. Sapessi, quaderno, quanto ha fatto per la figlia maggiore, malmaritata (per sua esclusiva scelta sfortunata).
Allora può darsi che Rina non desideri propriamente una morte prematura per la suocera, ma le sue occasionali uscite siano solo un modo indiretto di ricordarmi che, ad ogni modo, lei, la sua mamma, l’ha perduta. E allora che le vado raccontando, io, dei miei timori per la salute e la vita stessa di mia madre? Già: sarebbe opportuno che tenessi per me i timori e le ansie filiali. Non si parla di corda in casa dell’impiccato.

15 giugno

Ore 8,30–11,30: assistenza alla seconda prova di latino scritto. Con la stessa amica e collega, Pina Falconeri. Oggi più sorridente, meno tesa, ma sempre molto incinta. Anche sognante, progettante. Il figlio verrà in una famiglia benestante, bisognerà avere molta cura per evitargli vizi e pigrizie da privilegiati. E’ stata perfino meno rigida, più disponibile con le candidate: qualche errore lo ha segnalato, qualche suggerimento lo ha lasciato cadere dalle labbra carnosette: E si è parlato di tanti argomenti: di scuola, di lavoro, degli impegni del marito ingegnere, progettista e costruttore del bel lungomare di Siderato (giudicato dagli intenditori il più bello dell’intera Calamagna). Anche della mia attività “scritturale”, dei miei lavori, delle mie collaborazioni giornalistiche, che lei dice di seguire con vivo interesse. Senza celarmi che a volte le riescono un po’ ostici, quando si occupano di filosofia. Ad onta dei miei sforzi
per farli leggeri. Onta meritata, con la filosofia non ...si scherza.
*
Durante una deviazione in presidenza mi capita, mezzo sepolto sotto riviste e altri giornali, un vecchio numero del famigerato quotidiano capitolino Il Tempo, e gli occhi mi cadono sopra un servizio sul caso Paolo Rossi. Il foglio della destra demo-vaticana (e mezzo nostalgica) spiegava quella morte integrando la versione poliziesca con questo delizioso ricamo: ucciso, quel giovane? Ma quando mai! nessuno lo aveva picchiato e rovesciato dalle marmoree scale dell’alta cultura: “era precipitato per un attacco di vertigini causato da una crisi epilettica”. Quando si dice l’eccesso di zelo: quel foglio, sempre ligio alle cause peggiori della intrappolata politica italiana, non indietreggia nemmeno davanti alle invenzioni più balorde purché utili a danneggiare “i comunisti”. Dove si vede come il fanatismo magnetizzi le menti.

Giovedì, 16 giugno

Stamane niente impegni di scuola. Ma abbastanza di casa. Ore 9-11: lezione di filosofia al giovane Sirta. Un bello sfoggio kantiano. Ma con rispetto per le capacità del ragazzo: inde, ripetizioni dei concetti più aspri, magari riespressi con differenti parole e frasi più facili. Il giovanotto è sveglio, e non sembra incontrare grosse difficoltà.
Ne incontrerà di più nella vita, forse, quando si tratterà di darle una direzione, degli scopi, un senso. Riuscirà a sottrarsi ai condizionamenti della famiglia e relativa tradizione? Il suo è un nome segnato, il nonno è un patriarca della “malandrina”, il padre è il suo delfino. Si sente dire in giro che entrambi vogliono tenere il figlio e nipote fuori da quella sfera drammatica, e che ci siano accordi con gli altri capi per questa esclusione protettiva. I capi, infatti, sanno quando un rampollo è adatto al loro genere di vita, e quando non lo è. Nicola non lo è, a giudizio di padre e nonno. Farà, dunque, una carriera normale, ligia alle regole della pur non stimata società civile e alle leggi del pur osteggiato (e sovente disprezzato) ma altrettanto indispensabile Stato italiano. Ligia, si vuol dire, secondo la prassi comune delle eccezioni contingenti. E’ cosa a sé stante il tenerlo fuori dalle catene ndrinesche (e dunque dalle
eventuali faide fra famiglie venute al cozzo armato). Chissà, poi, se il progetto avrà successo. Sorprese, in questo campo, ce ne sono sempre state nel regno vasto e complesso di mafilandia. Speriamo, per Nicola, che tutto fili liscio. Cioè secondo il suo dna e l’intuizione dei suoi “maggiori”.
*
Pomeriggio. Lezione dantesca a Susy. Con solo brevi intermezzi e molto impegno di studio. Stasera è apparsa, come dire? più rassegnatamente fiduciosa. Conta, certo, molto sul mio aiuto, ma si prepara a un’eventuale delusione. Delusione non imputabile a me, a difetto di impegno da parte mia, ma alle circostanze. Per esempio, una commissione severa, con un presidente arcigno, e prestazioni sue men che mediocri. Il caso che ci assicurerebbe come minimo un paio di materie a settembre. Ma bando al previsionismo storto.
Alla fine della lezione Giampiero ha cercato le coccole di Susy. La quale era preparata col solito regalino e lo ha fatto felice. Sono usciti anche insieme e lei gli ha comprato un altro pupazzetto. Malgrado io gliel’abbia “proibito”, per non viziare il piccolo, condizionando il loro incontro all’attesa dell’immediato vantaggio materiale. Concitato (e tenero) dialogo tra padre e figlio, al ritorno del breve passeggio post lectionem. Padre: “Non ti avevo detto di non chiedere regalini a Susy?” Lui, nel suo linguaggio acerbo, qui tradotto: “Io non ho chiesto niente, è stata lei che me l’ha voluto comprare.” Padre: “E tu non dovevi accettare, dovevi dire papà non vuole.” Lui: “Io ho detto papà non vuole, ma Susy ha detto non dare retta a papà.” Omissis sul rimanente (e perché questo improvviso nodo alla gola?).

“O donna di virtù sola per cui / l’umana spezie eccede ogni contento /del cielo ch’ha minor li cerchi sui/...” (Dante, Inferno, canto II). La beatrice qui sottintesa mi richiama alla penna quell’altra, e il loquace Virgilio che fa il sensale dottrinale fra Dante e la donna teologale (quante “ale”). E io, che mi contento d’una parte del “contento” (contenuto) del primo cielo, e non prevedo “eccedenze” celesti, non faccio parte dell’ “umana spezie”? Così celiavo stasera con Susy, elevandola a mia Beatrice sublunare. Sono occasione di questi spizzichi i canti di riferimento delle altre due cantiche inseriti nel programma d’esame (anche non interi o limitati a un solo tema).

17 giugno

Ore 9-11. Lezione di filosofia a Sirta. Capisce? A volte direi di sì, altre volte ne dubito. Mettiamola così: fino a che punto capisce e segue. Kant non è boccone facile per nessuno. Stiamo ripetendo la gnoseologia. Naturalmente, condensandola nella sola tematica delle forme a priori con cenni allo schematismo trascendentale.
Il resto del giorno, tra visite fatte e ricevute, letture, pasti e una passeggiata serale col bambino sul corso. Avverto segni di stanchezza. E se penso che il bello del ballo deve ancora arrivare, qualche inquietudine supplementare picchia dentro la scatola cranica (che teme lo … sballo).

Sabato, 18 giugno

Sbarco di alunne di quarta, stamane, a casa mia. Un bouquet di bellezze con una (una sola) occhialuta dissonanza. Erano presenti: la piccola, minuta, bionda e ben fatta Stella Del Duca, la paciocchina Nella Rossitto, la formosa moretta Adele Talarcio, tutta curve di sodezza sensuale, bella anche di viso (tipo spagnolo, ma non da flamenco), e con occhi di risacca; Melina Starnina, così dolce, così carina. E, purtroppo per il bouquet – come da lamento qui sopra – anche Gaetana (Tana) Masocca: scarsa di volto, passabale di figura, molto miope e di carattere poco coniugabile. Sono venute per una lezione di letteratura italiana di tipo esplorativo-integrativo. Una carrellata, forzatamente rapida, ma essenziale, sul programma, con più riposate soste su nodi e snodi strutturali, costitutivi: simbolismo, Pascoli, Manzoni, Verga, decadentismo, D‘Annunzio, Pirandello, Svevo. Partenza e prima tappa, il simbolismo, forestiero (francese, sopra ogni altro) e
nostrano. Dapprima faccio parlare loro, a turno, per misurarne informazione manualistica e grado di assimilazione. Poi intervengo: a correggere, chiarire, integrare, allargare, non senza un’eco dell’introduzione di Mario Luzi all’antologia garzantiana (collana “Saper tutto”) I poeti simbolisti, e con fugacissimi cenni al libro-bibbia di Hugo Friedrich, La lirica moderna. Soprattutto in polemica con le pretese metafisiche di certo simbolismo “pensoso” e di tanta “lirica moderna” in generale, dall’ermetismo in giù: si tratti dello spiritualismo romantico della Nathurphilosophie o del (sempre, comunque, preferibile alle giaculatorie mascherate) nichilismo ontologico di Mallarmé (secondo il quale la parola è l’abitazione dell’assoluto e l’assoluto vi si svela come nulla). Naturalmente, anche questi cenni vengono fatti semplificando al massimo, e ripetendo, col supporto di metafore, confronti e traslati variamente tratti
dall’esperienza delle graziose testoline frastornate. Singolarmente succhianti gli occhi neri di Adele Talarcio sbarrati, di quando in quando, da qualche duro concetto di scarsa digeribilità. Questi piccoli black holes rapinosi. Adele che sa di Susy…

O fanciulle che il dolce suono seguite con soave / voce, non più le membra ho docili. Fossi il cerilo / che con le alcioni passa sereno sul fiore dell’onda, / uccello di primavera, colore delle conchiglie! (Alcmane, traduzione Quasimodo)

Pascoli, seconda tappa, è già molto più accessibile, visto che i manuali, in genere (come il loro) si guardano bene dall’invischiarsi in sottigliezze accademiche sul miracolismo linguistico del Romagnolo, finissimo cesellatore della parola evocatrice e ispirato inventore di altre squisitezze innovative (apprezzabili, certo, ma non alla maniera dei verbaioli accademici con bava di sollucchero alle labbra eloquenti). Ed ecco Tana Masocca ripetere la poetica del fanciullino, per il quale e la quale ogni cosa ed evento può essere oggetto e fonte di meraviglia sorgiva, di incantato trasalimento virtualmente poetico. Ecco, a ripagarci dello scarso fascino faccial-vocale della chiaccherina Tana (che, in compenso, si ritiene più intelligente di tante sue compagne), l’abbronzata Adele dalle forme di marzapane (pasta reale in sicanico) leggere e “spiegare” Digitale purpurea, con la sua calda voce avvolgente. E subito dopo la soda minutezza bionda di
Stella recitare e parafrasare mezza X agosto (con i previsti riferimenti biografici e le ipotesi sull’identità brigantesco-predatoria dell’ignoto assassino). E poi la Nella grassottella cimentarsi sul resto della cavallina storna, tornare al “mondo poetico” e “spirituale” del poeta, introdurre il crepuscolare lasciato in eredità alla generazione versifera seguente dal querulo scapolone sororale: ah, i guaiti per il matrimonio (nel 1895) della più sveglia Ida, sagace “profanatrice” del morbido “nido” e perfida “traditrice”dell’incluso casto ménage à trois! Guaiti mica da poco, se Giovannino attraversò un lungo periodo di depressione, a stento curato dalla “martire” Mariù, rimastagli al fianco anche nella nuova dimora (indispensabile, dopo il “tradimento”), a Castelvecchio di Barga, in quella campagna così congeniale alla sua indole morbosamente introversa da sentirla come la sua più vera patria. Satana
tentatore mi spinge a leggere un passo di un’ostracizzata “Storia della letteratura italiana”: “Querulo e solitario, il Pascoli sviluppa i suoi ritmi più viscerali all’insegna di “Myricae”, prugne, menta, rondini, coccodé e grembiuli sororali che nascondono e comprimono l’aspirazione sessuale. E’ un canto genuino, ma così commisto ad un controllo ora debole ora sofisticato, da non produrre quasi mai una lirica che si possa accettare o respingere in blocco. Di qui i caratteri prevalenti della frammentarietà, della leziosaggine, del pargoleggiamento, dei preziosismi letterari.” Stella e Adele mi chiedono qualche esempio di questa critica, visto che ho il libro sul tavolo. E io cedo e leggo. “La frammentarietà, almeno, salva componimenti piuttosto brevi (Orfano, La tessistrice, La quercia caduta, Nella nebbia) o alcuni particolari. Nelle Ciaramelle, ad esempio, dopo un inizio stentato, c’è una quartina di un certo incanto
poetico: ‘Nel cielo azzurro tutte le stelle / paion restate come in attesa: / ed ecco alzare le ciaramelle / il loro dolce suono di chiesa.’” Bellino, ma segue “un banale sfruttamento dell’ultimo verso: ‘Suono di chiesa, suono di chiostro, / suono di casa, suono di culla, / suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla.’ Aggiungete ancora un ricamo su questo ‘pianger di nulla’e avrete la leziosaggine vera e propria: ‘Non più di nulla, sì di qualcosa. Di tante cose’ E nel lezioso scivola l’incontro dei Due cugini che sembra ‘l’incontro di due lucherini’, e ‘il chiù che vuole più dalle tombe’ (Passeri a sera)”. E via seguitando. Vi ho dato un assaggio di quel che potrebbe essere una vera critica letteraria, contro i prevalenti gorgheggi estasiati della critica accademica. Ma, certo, a voi, dilette fanciulle (perché sorridi, Stella? ) basterà che riusciate a “spiegare” le poesie in
programma e ripetere il giudizio del vostro testo (ho tagliato il “testicolo” che mi veniva in mente). Magari non sottacendo i lutti che hanno segnato l’infanzia del Pascoli, la sua umbratile e vibrante sensibilità: dopo l’assassinio del padre, 1867, la perdita della madre e della sorella maggiore, appena un anno dopo: e nei successivi nove anni due altri fratelli. Attenuanti, che non cancellano, ma spiegano solo in parte i difetti della sua poesia. E, in parte, perfino la qualità dei suoi studi danteschi.
L’assaggio del monumento nazionale, don Lisander Manzoni, glorioso seme (come non dimenticano mai di ricordare le ragazze) di Giulia Beccaria e Pietro Verri, ci ha ammannito qualche inevitabile passaggio biografico, la “conversione”, gli Inni sacri: concepimento, attuazione, esiti poetici ed apologetici, e dunque soprattutto limiti. Ma con paterno consiglio-monito alle fanciulle di non calcare la mano sui difetti anziché sui pregi, nel caso si abbia a che fare col solito bacchettone scolastico-pulpitario. Poi invito Adele a ripetermi la concezione del romanzo storico nella sua evoluzione-involuzione, fino al massimalismo impraticabile dell’ultima tappa (tutta verità-realtà, nessuna invenzione e fantasia). Ad affrontare l’idea manzoniana della divina provvidenza provvede Tana, che non è tanto ligia (oggi, chissà domani) ai dettami e diktat parrocchiali. Espone e critica, con riferimento alla “scopa” pestifera dei Promessi sposi (un
orrore, quel ramazzare bambini e innocenti per presunta punizione di peccatori e colpevoli vari), e all’Adelchi, che rinvia al fantastico aldilà l’attuazione della giustizia contro la violenza storica, giustizia assolutamente irreperibile in questo lercio mondo dove “non resta che far torto o patirlo”. Anche questa trovata, a suo dire (rimemorando mie imbeccate occasionali), un barbaro orrore, che macula irrimediabilmente la sensibilità umana e la stessa moralità dei credenti, massime di quelli colti e speculanti: siano baroni di cattedra all’aspersorio o vecchi e nuovi santi – che con i sadici doc condividono, significativamente e ironicamente, la sillaba iniziale. Insomma, qualche seme mi cade sul terreno giusto. Ed è un vero peccato che il supporto morfologico del cervellino vivace non sia un monumento alla tragica Marylin Monroe o all’ancora seducente Ava Gardner.
Verga diviso in cinque porzioni disuguali: gli esordi letterari acerbi (romanzi patriottico-risorgimentali) strettamente intrecciati a rapidi flash biografici; il tempo delle maliarde fatali tardo-romantiche e mondano-decadenti (Eva, Tigre Reale, Eros…), gli episodici best-seller romantico-sentimentali (Storia di una capinera) e realistico paesani (prime novelle di Vita dei campi), con la svolta di Nedda, ancora barcollante, ma decisiva; la stagione dei capolavori (I Malavoglia, Mastro don Gesualdo), le migliori Novelle rusticane; il teatro, la (presunta) involuzione del dramma e poi romanzo Dal tuo al mio, il “manifesto” verista e la sua pratica, la lingua, la lettura politica dello scrittore tra fascismo, conservatorismo, nazionalismo e perfino socialismo (“sapete che sono diventato socialista, a vedere questi poveri soldati partire per il fronte?”, Lettere a Dina)). E così via, facendo parlare le cinque girls, quale più quale meno, a
seconda della personale disposizione e preparazione. Naturalmente ho illustrato la più recente e rivoluzionaria interpretazione verghiana, quella del Gulizza: ne ho ricordata la ricca Bibliografia, lo studio della sensibilità biologica del Siciliano, la sua incerta evoluzione ideologica e la ben documentata, relativa involuzione linguistico-letteraria (per cui, contro il parere del Momigliano e dei suoi vaccarielli, il Gesualdo sarebbe meno valido dei Malavoglia). Altrettanto naturalmente ho consigliato alle ragazze di non citare Gulizza (nemmeno Rama, che ne accetta le tesi verghiane) e di mostrarsi informate solo se dovesse prendere l’iniziativa di citarlo l’improbabile commissario di Italiano aggiornato e sicanico. Improbabile, ma non impossibile, dopotutto: la Sicania è così vicina!

Il D’Annunzio, “fatto di corsa” dall’insegnante, risulta il meno metabolizzato dalle inquiete testoline, tranne che da Tana, che ha letto Il piacere, oltre che le solite poesie antologizzate. Sparlando del mito del superuomo, abbiamo colto l’occasione per un confronto con Nietzsche, incluso nel programma di filosofia, e per un ripasso guidato degli snodi principali di quel pensiero così biologicamente terragno e corporale nella sua fase culminante e finale. Stella si è cimentata con l’estetismo esistenziale e letterario del Pescarese, ha illustrato, tra consenso e dissenso, sia l’impegnativo “io nacqui ogni mattina” che la fagolatrica “parola gemmata in su le carte”; sia l’italiano para-idiolettico che il “gusto sensuale della parola”. Mi sono permesso di richiamare a confronto qualche giudizio del Praz, del Rama e del Gulizza: quello, tutto sommato, piuttosto indulgente (pur nella sua minuziosa “recensione” di fonti e
“plagi”), questi (meno eruditi di don Mario, ma più esigenti), assai severi con la “parola” dannunziana, contrapposta a una vera “sintassi”, scarsamente operante nel magnificatore del verbum che scintilla soverchiante. La pioggia nel pineto è stata una discreta performance di Adele e La sera fiesolana di Nella. Un cenno anche al “Notturno”, che forse raccoglie il meglio dell’“orbo veggente”.
Di corsa, con l’auspicio di un prossimo incontro riparatore, il trattamento di Pirandello, “autore complesso e difficile”, secondo l’allarmistico avvertimento della collega di italiano. E sotto, Stellina, con la crisi della ragione e il relativismo cognitivo (Così è se vi pare, Uno nessuno centomila… ), l’incomunicabilità, le maschere nude, persona e personaggio, la vita-teatro e il teatro nel teatro, inseguendo una mimesi impossibile, o un’osmosi diffusa, tra vita e palcoscenico. Ma anche l’incisività della sua scrittura, la fertile, a volte spregiudicata, inventiva lessicale e sintattica, la vivacità e densità dei suoi dialoghi. Così via, per quasi tre ore, faticose e non sgradevoli. Né – viva la carica energetica trasfusa dalla grazia muliebre – ignare del canto 240 del Paradiso, lettura e spiegazione, distribuite tra le cinque Grazie.
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Indi pausa e riposo, ma breve, perché incombeva il ragazzo Sirta, con la terza lezione di filosofia. Che tocca Fichte: da spiegare, per il momento. Gli faccio ripetere pezzi di Kant. Ripete a sufficienza: l’essenziale scolastico l’ha capito. L’altro, quello più aspro e contorto, più complicato (prima che complesso) e meno necessario, forse non l’aveva capito del tutto neppure l’Inventore, herr Immanuel, col suo ombrello e i suoi tè mattinieri, la sua ossessione sincretistica e il mammismo pietistico depistante, le sue passeggiate cronometriche e pensanti (ma perché escludere, tra noi, quaderno, le sue “devozioni” onanistiche!?). Figuriamoci certi e tanti professori di liceo e non solo. Compresi gli autori delle storie magne “del pensiero occidentale”, i quali si guardano bene dal fornire concretizzanti esempi a illustrazione dell’immenso apparato formale teutonico (intuizioni pure, categorie, schemi, principi dell’intelletto
puro e altra bazza). E magari, quando qualche spericolato originale si azzarda, smarrona con esempi sfocati o tutto-fare. Et in Arcadia ego? Spero di no. Ma soprassediamo.
Che vizio ostinato, queste divagazioni. E dire che mi aspetta (intendo, su questo quaderno), lei, la Susy susinesca, che oggi ha profumato il nostro mezzodì con un delizioso distillato, delicatamente insinuante. E ne ha soffuso anche il dantesco Paradiso, canto XII.
Pochi e fuggevoli the touches delle estreme corde musicali, mediati, in chiave catalitica, dal distillato delicato sopra decantato. E viva la rima.
A integrazione sognante: Eros, come tagliatore d’alberi / mi colpì con una grande scure, /e mi riversò alla deriva / d’un torrente invernale (Anacreonte, Eros, Quasimodo)
Dopo di che, sono così stanco e ronzante d’acufene indotto, che vado a fare due passi sul lungomare insieme a Rina e al bambino. Magari a prendere un gelato, prima di cena. Giampiero se l’è già prenotato.

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