domenica 5 luglio 2009

Susanna, Frammento 33


Domenica, 19 giugno

Mutili appunti frettolosi. Lavoro: stamane, lezione a Sirta, dalle 10 alle 11,30. Argomento nuovo, Schelling, il filosofo dell’Assoluto come “Identità indifferenziata” che si viene differenziando in Natura e Spirito lungo le vie del Tempo prodotto insieme al correlativo fenomenizzarsi. Nell’affannato svolgersi – tentavo di introdurre in quel fresco cervello vergine – l’Identità originaria viene sciogliendo le sue implicitezze, evolvendo dal primigenio tumulto delle realtà “morte” alle prime forme di vita elementari, e da queste a quelle via via più complesse, fino all’uomo, col suo megacervello, e alla connessa autocoscienza. Da questo dualismo conclamato (inconscio-coscienza, natura-spirito) l’Assoluto può ritrovarsi come perfetta unità soltanto nella sintesi dei due poli realizzata dall’Arte, organo e suprema ontofania dell’Identità originaria. L’artista, infatti, opera in un’ambigua duplicità, parte cosciente e parte no. Sa quel che vuole rappresentare (pittura scultura musica o altro che sia la sua specialità) ma non sa quel che, nei fatti e potenzialmente, ha immesso nell’opera. Perciò accade che sia un critico, uno spettatore sensibile, un lettore congeniale a rivelargli aspetti significati e bei segreti a lui non chiari nei tempi dell’esecuzione.  O creazione che si voglia enfatizzare.
Abbiamo ripetuto un’altra parte di Kant (schematismo trascendentale, con ovvi richiami al quadro double dei giudizi e delle categorie) e un sintetico Fichte, distinto in “primo” e “secondo”. Il primo, baldanzoso killer del noumeno kantiano e banditore euforizzato dell’immanentismo totale. Il quale, imperniato sull’Io assoluto, “necessario” erede parricida del vecchio barbuto crudelissimo Dio biblico, ne prende il posto di “creatore” universale; ma soprattutto di rompiscatole etico, che riduce l’infinita ricchezza fenomenica della feconda e multiforme Natura a grigio materiale mono-uso, battezzato non-io, quale necessario ostacolo dell’imperativo morale che ne deve trionfare in ciascuno dei suoi dinamici momenti essais ed essorts. Il “secondo Fichte” è quello che, “invecchiando”, diventa, di tappa in tappa, traditore sofistico, transfuga mascherato (di illusorie pure ragioni logiche) e riformatore verboso di quel  giovanile e inebriato idealismo egolatrico, ora costretto alla resa davanti al rispolverato divino Essere trascendente (una specie di rana esopica che rinunci all’impresa davanti all’irraggiungibile bue cornuto). Schelling, di solito, riesce più simpatico ai giovani d’ambo i sessi: non foss’altro, per quel senso e rispetto della irriducibile molteplicità inventiva della vivente puttana natura. Ma anche per quel privilegiamento dell’Arte, come viatico al “colorito” Assoluto, contro la plumbea Egocrazia fichtiana (scusa, quaderno, questi paroloni e neologismi). Naturalmente, anche il “vecchio” Schelling tralignerà parecchio, flirtando con la ineludibile Religione e il peccato originale, ma restando su terreno latamente metafisico piuttosto che strettamente religioso. E neppure il pomposo Hegel si salverà dalle insidie spurie della bassa empiria socio-politica, e finirà col riammettere una qualche differenza ontologica fra Weltgeist  e Gott.
Ai tempi della mia collaborazione alla rivista del prof. Lastrada ho recensito, per quelle pagine accoglienti (anzi, pazienti) un polpettone di saggio su Hegel che ne dimostrava la (pretesa) compatibilità con la Trascendenza religiosa. Quante ore del mio tempo sprecai per quell’inutile sforzo! Ne conservo ancora alcuni degli estratti, parecchie pagine di analisi puntuale e di critiche rispettose ma decise, filate al telaio della teoresi lastradiana. Un documento della mia scadente autorevolezza di fronte ai testi di peso. E alla tentazione rematosa.
*
Il resto del dì, passeggiata a Siderato con gli amici e virtuali parenti Carolui, nonché il cognato e fidanzato oramai ufficiale, anche se ancora lontano dagli incontri formali fra le coppie di genitori. Situazione che non ci risparmia ansie e batticuori, perché il solerte cognato è l’incarnazione perfetta del saggio proverbio sul lupo che perde il pelo ma non il vizio: continua, come se niente fosse, a sfarfallare da un fiore di grazia all’altro. Rientra tardi a casa, e costringe, a volte, la famiglia di Rosy ad attenderlo, per pranzo o cena, fino a impudiche ore tardive. Scommetterei che prima o poi si farà scoprire dalla ragazzona ingenua, che sembra torpida, ma vede e capisce. Che parla poco, ma rimugina assai (come avremo già segnalato, quaderno). Speriamo bene.
Jolly della coppia, mio figlio, che dallo zio continua a essere viziato. Se ne vanno soli, tutti e tre, ed è il piccolo a chiedere la distanza dai genitori: sa che con quei due qualcosa ci scappa sempre. Giusto come con Susy (o quasi).


20 giugno

Giornata piena di scuola pubblica e lezioni private. Ore 8,30 – 14, 30: esami orali dei candidati per l’idoneità alla IV classe (c’è anche qualche maschietto), cioè all’ultimo anno di corso. Naturalmente, tutti i candidati, femmine e maschi, sono raccomandatissimi. Oggi cinque, un ragazzo e quattro ragazze, che in qualche misura rispondono: se non arrivano alla sufficienza piena, non ne sono lontanissimi. Insomma, considerate le attenuanti generiche, hanno titoli per una fondata ipotesi di assoluzione-ammissione. Dicesi ipotesi perché gli scritti sono sensibilmente più discosti delle prove orali dalla bramata sufficienza, e insomma oscillano tra l’insufficienza e la mediocrità. Purtroppo, una candidata ha fatto, come si bestemmia in gergo, “scena muta”. Ed era la più bella, la più formosa e polputella dell’intero florilegio femminile di buon livello estetico. Contava sulla raccomandazione (autorevole) o sulla bella presenza? O sul combinato disposto? Difficile, infatti, avallare la seconda ipotesi, visto che la commissione d’esame è a prevalenza femminile, e che le donne difficilmente perdonano la bellezza delle fanciulle in fiore. A meno che loro, le donne sedute da “questa parte del tavolo”, non abbiano vistosi titoli per sentirsene al sicuro. Che non è davvero il caso nostro: vuoi per meno tenera età, vuoi, soprattutto, per minore armonia di linee nel volto e nel corpo, disegnati da madre natura piuttosto distrattamente. Né la simpatica Pina, che potrebbe confrontarsi bene sul piano della figura, può gareggiare, col suo pancione troppo incinto, con l’economia morfologica di questo corpo floridamente vergine. Allora, sul combinato: calcoli infondati, perché neanche la componente maschile e giovane può promuovere il nulla assoluto. Non può, non deve, non dovrebbe: dipende. Da cosa? Dalla forza della pressione subita nel riceverne “segnalazione”. Se la forza è troppo “forzuta” qualcuno della Corte potrebbe trovare l’impudenza di (almeno) tentare.

Pomeriggio. Dopo parca siesta agitata da sogni maldestri e impiccioni, lezione di italiano a Susy: Dante, Paradiso, canti XV e XVII. E’ (o riesce a mostrarsi) abbastanza serena, ascolta attenta, memorizza e ripete quasi fedelmente.
Le parentesi divagatorio-rilassanti (?) filano, tra spine di sospetti e rovi di timori, con tormentate compensazioni di vuoti e di pieni. Lei, si sa, reagisce ottimamente agli stimoli culturali, e la risposta è sempre pronta, di riflessi e di mente. Ai posteri la decrittazione umorosa. Oh, il delicato alonare intorno al parziale prensile destro tentato da memori narici!


21 giugno

Mini-diario del giorno. Mattina, dalle 8,30 alle 13,30, esami orali, ut supra; cioè, per l’ammissione alla IV classe. Tre candidati, tutti e tre (ma che bisogno c’è di dirlo?) super-segnalati: nessuno raggiunge la sufficienza, ma due qualcosina riescono a ripetere. La terza, ahimè, tace o farfuglia. Ed è, doppio ahimè, una mia ex alunna, bocciata lo scorso anno, che si ripresenta a scuola per esservi riammessa. E’ tanto belloccia, modellata, col visetto pieno e un incarnato che fa venire l’acquolina in bocca e disturba il respiro. Come mostrava le gambe, le scultoree gambe (da crampi al diaframma). Ma purtroppo a tanto pieno corporale fa riscontro un deserto assoluto di vuoto cognitivo. Specifico, s’intende. Mi trema la mano a scriverlo, ma preme la triste realtà: voto, in filosofia e psicologia, tre. Che avrebbe potuto essere anche una derelitta unità nuda, se pietà solidarietà e venustà non avessero congiurato per un po’ di clemenza, cioè per un pur minimale aggancio a eventuali possibilità di soluzioni “consiliari” non drastiche.

Ancora delusioni dalla Gazzetta dello Stretto: la pagina letteraria non porta il mio articolo sul saggio gulizzano Fisiologia di Dante. Per di più, Ciaccò annuncia l’ultima puntata di questo bilancio del centenario: una rassegna delle manifestazioni dantesche peloritane. Dunque non ha intenzione di pubblicare il mio articolo, pur rivisto e approvato dal Gulizza? E perché mai? O esagero, non insolitamente, in nerume previsionale?
La delusione mi brucia. A dare valvola di sfiato alla tensione viscerale, ne scrivo al professore. Il quale, da parte sua, non ha risposto alla mia ultima lettera. Che succede? Mi vogliono liquidare? Cosa mai avrei fatto (o non fatto) di così imperdonabile? Forse perché ho avuto l’ingenuità di confidare al Gulizza che gli amici dello Stretto mi chiamano “pappamolla” per una mia (più presunta che reale) arrendevolezza nei suoi confronti? Sarebbe meschino. Ma poi: sono più i vuoti che i pieni nelle me “risposte” alle richieste del comune amico (e maestro?). Il quale, non a torto (dal suo punto di vista, un po’ facilone e frettoloso), si lamenta della mia pigrizia, della mia scarsa disponibilità ai suoi desideri. Che sono tanti e prementi, ma poco congruenti con la mia incapacità di montare i magri volumetti cari alla sua parsimonia di fatica tempo citazioni. E anche denaro, visto che a pagare le spese di stampa sarebbe lui. Mi ci vorrebbero un paio d’anni almeno per tentare una cosina decente. Dice che sono logorroico, incontentabile, accademico malgrado tutto (cioè, malgrado i suoi esempi, peraltro così sguarniti di risonanza mondana). Forse ha ragione. In parte, certamente: sono ingordo, non mi sazio mai di letture documentali, citazioni, auctoritates da onorare servire esibire. Peggio di un clericus dei luminosi tempi delle sacre Scholae. E pare inutile la lezione del “dire in breve”, cui mi costringe la collaborazione giornalistica. Infatti, anche su questo terreno, non mancano i richiami i consigli i (dolorosi quanto inevitabili) tagli degli amici. Dell’amico gazzettiero, specialmente, che il mestiere lo conosce bene e non deroga dai suoi codici. Non può, del resto. Né posso negare che più volte ha forzato la costrizione ambientale per risparmiare all’amico rematoso i prevedibili mal di pancia: evitare i tagli o ridurli al minimo quasi indolore. Ma forse queste lagne me le sono ripetute altre volte su queste pagine vanamente esorcistiche. Ho bisogno di tempi lunghi, è un fatto. Unica attenuante: dopotutto, ho il mio lavoro, che mi spreme già abbastanza. E non godo di una grande capacità di applicazione: inclino piuttosto all’astenia che all’esuberanza stakanovista.
In ogni caso, l’eventuale esclusione ciacconesca dal “Centenario” sarebbe la classica goccia che fa traboccare il vaso (magari da notte). Non sopporterei il colpo: troppo duro per le mie delicate meningi. Romperei, e definitivamente, con Ciaccò. E forse anche con Gulizza (mai con Rama, però, sempre delicato e signorile. Forse un po’ troppo verso il nervoso Gulizza). Anche lui, dovizioso di consigli e pretese, poverissimo di comprensione fisiologica. Paradossale, per un autore che si ispira alla biologia e fa così largo uso di dna e dintorni (magari con qualche licenza scarsamente compatibile con la vera genetica contemporanea).
Al Ciaccò ho perfino chiesto se conosce certi colleghi della mia commissione di maturità magistrale che vengono dalla sua città. Mi risponderà? Peraltro, non so bene perché gli abbia rivolto quest’appello: giornalismo e scuola, due ambienti che raramente s’incontrano. Vedremo. Intanto vado a fare quattro passi con la famiglia, a smaltire il cocktail di bile e adrenalina prima della cena. Il lungomare fa al caso. E mi preparo agli inevitabili incontri con amici colleghi e alunne. A stanotte, quaderno. O, meglio, a domani. Stanotte spero di fare buoni sogni. Uno, soprattutto: un frondoso ombreggiante fresco albero di “susine” fra docili cespugli inclinati sopra l’acqua di un torrente arcadico: un ritaglio di pace al centro della già cominciata calura africana di questa faticosa marina magnogreca.

22 giugno,
ore 22

La giornata. Ore 8-12.30, esami di idoneità. Che fatica. Non tanto per la quantità delle domande e il numero, non eccessivo, delle candidate: a stancare, fino allo stress, è la qualità delle risposte, la loro approssimativa frammentarietà, la scarsa presa concettuale, l’esile consistenza, spesso, del palese imparaticcio d’occasione. Dov’è mai l’interesse verace, il gusto per il sapere in quanto tale? Eccezioni? Una o due, ma a metà: trapela dalla maschera del “pro esame” una certa vivacità mentale, ma più come promessa, al momento sopraffatta dall’urgenza dell’appuntamento utilitario. Ad ogni modo, in questa generale siccità, una promessa è già acqua fresca di ruscello (come quella del sogno che non ho fatto stanotte). Specialmente se si protende da due occhi azzurri annegati in liquida luce palpitante.
Per il resto, nulla di nuovo sul fronte Scuola. Al consiglio per lo scrutinio, dalle ore 13 alle 14 e mezzo, si sono commesse le solite porcheriole. Stavolta soprattutto a vantaggio della cugina del severo preside frammassone e liberale. Ce l’aveva raccomandata a tutti noi professori, per l’occasione più che “dipendenti”, amici e sodali. Anche io l’ho “aiutata”, ma quanto le altre candidate, né più né meno. E gliel’ho detto. Magari dolcificando un po’: “Sa, io sono fatto così: se debbo aiutare una persona, aiuto nella stessa misura le altre che sono nelle stesse condizioni. Mi sento meglio, dopo. Non dico no all’amico, e non commetto doppia ingiustizia. S’intende, il tutto nei limiti di una minimale, ma per me invalicabile, decenza”. Il Venerabile mostra di apprezzare. Sincero?
Con tutta la buona volontà, mia e dei colleghi, i risultati sono al limite del disastro: su 12 candidati, 7 sono stati respinti, 5 rimandati a settembre. Ho lottato per salvare un ragazzo dalla bocciatura: un buon figliolo, che suscita solidale comprensione. Alla cugina del preside è rimasta una sola materia da riparare, l’italiano: una disciplina dove si può giocare meno d’indulgenza e sordità, visto che scripta manent. Il compitino della candidata era piuttosto miserello di pensiero-immaginazione, e un po’ più del tollerabile claudicante in grammatica e lessicalia.

Pomeriggio. Lezione a Susanna. Un po’ filosofia, un po’ italiano. Comincia a entrare nella temperie “esame”: risponde discretamente. Intermezzo, con qualche usata susina di sano sapore filiaco. Che avarizia di nota. Ma va bene così.


23 giugno

Oggi, prima giornata di tregua dalla scuola: per alcuni giorni sarò libero dalle gioie avvelenate del lavoro istituzionale, del suo ambiente ricco di quello specifico “umano troppo umano”. Mattinata in movimento: per sistemare le cose di qua, prima e in vista della partenza per la Sicania. Incontri e saluti con i nostri amici, a cominciare dai dirimpettai neo-parenti in progress. La prosperosa fidanzata semi-ufficiale di mio cognato ha fatto un regalino a Giampiero, un volume di figure da colorare e completare.  Braci abbracci, buon viaggio, a presto, e così sia. Poi visita alla famiglia di Susanna, con dolci e bevande sul tavolo rotondo del soggiorno e breve riunione di familiari e amici intorno. Lei, Susy, è voluta venire con noi fino al centro, dicendo ai suoi che mandassero il fratello Berto a prenderla a casa nostra entro un’ora. Altri saluti baci e auguri di ottimo viaggio. Susanna è scesa con noi, però s’è allontanata per sbrigare, disse, una commissione sul corso principale. E’ tornata dopo mezz’ora con un regalo per Giampiero, un bel leone di legno molle e peluche, ruggente e semovente, che lo ha, dapprima un po’ spaventato, poi deliziato. Con accompagnamento di dolci e baci per l’onomastico di domani. Verso le 12 e mezzo l’abbiamo riportata a casa, precedendo l’eventuale venuta del fratello: desiderio del piccolo, che ha voluto stare ancora un poco con la sua amica prediletta. Avendo già salutato tutta la famiglia, l’abbiamo lasciata, come da suo desiderio, all’ingresso del condominio.
Mi resta un’ora per leggere il quotidiano prima del pranzetto, parcamente pre-viaggio. Indi, preparazione del bagaglio, riposino sulla sdraio (mezz’ora), ripulitura e via alla stazione: ci ha portato mio cognato, che rimane ancora in Megan Ellas un paio di giorni prima di rientrare anche lui nella Terra dei Ciclopi. Alle ore 15, partenza. Col rapido. Giampiero non si fa capace della defezione dello zio prediletto: con chi giocherà, poi, a casa, anzi nell’altra casa? E intende, nell’altra terra, quella dei boschi, anzi del bosco per eccellenza, la cosiddetta “Sciara di Giove”, più volte esplorata con lo zio avventuroso e giocherellone. C’è voluto un bel po’ di impegno per convincerlo che lui aveva ancora da fare a Zefiria, che sarebbe arrivato in Sicania fra qualche giorno, e così via. Quanto al genere di affari o daffare del mitico zio, Giampiero non ha l’età per essere informato (e per sua fortuna, e nostra, non l’avrà ancora per molti anni). In verità, il bel Casanova matematico, oltre a fare il professore pubblico e statale, fa anche lezioni private; ma temo che la calamita attuale sia di ben diversa pertinenza. Ad onta, ahimé del fidanzamento para-ufficiale.
Sulla nave traghetto si scende dal treno, si va ai bagni, si prende un caffé in due (io propongo due, Rina dispone uno: devo riguardi al mio stomaco). Giampiero scorrazza per la grande sala e sulle terrazze, attirando l’attenzione benevola dei passeggeri. E naturalmente, mangia e beve con generosa alacrità. E fa pipì, come noi due genitori guardiani. La traversata dello stretto è tranquilla, il mare è calmo, il cielo azzurro. Giampiero contempla i gabbiani in volo e fa le sue domande sulle meraviglie della vita e i misteri del mondo. Al solito, si perde tempo nell’imbarco e sbarco del treno, con la segmentazione e la ricomposizione del convoglio. E alla stazione di Zancle, per l’aggancio di nuove vetture.

Ore 21,30: si arriva alla nostra stazione. Finalmente. Dopo sei ore e mezza: un tempo compatibile con un viaggio da Catania a Roma in un Paese appena più civile. Dalla stazione al nostro paesello a monte, altro mezzo di spostamento, altro tempo: 20 minuti di corriera e siamo a… Stavo per dire a casa. Invece il capolinea è a ridosso della piazza centrale. E da qui a casa ci sono ancora cinque minuti di strada a piedi. Imboccata la nostra via, mandiamo avanti Giampiero, che raggiunge il negozietto, rallegrando i suoceri (il suocero, cioè, e la sua nuova moglie). Ed eccoci, un minuto dopo, tutti riuniti. I due affettuosissimi anziani non sapevano del nostro arrivo per stasera, e si sono euforizzati. Poco dopo si chiude il negozio e si lavora alla preparazione della cena. Il “si” impersonale, in verità, annacqua una piccola verità effettuale ben definita: sono i suoceri a muoversi, costringendo Rina al riposo, dopo la fatica del viaggio scomodo.
Mentre i due volenterosi preparano, io mi concedo alle mini-delizie del ritorno, dell’arrivo: spogliarsi, lavarsi, rivestirsi con panni domestici, palpare i libri sugli scaffali, quasi una carezza di saluto, e una mezza promessa di meno fuggevoli incontri. Ma a quali dei tanti ancora non letti toccherà la grazia? I giorni di vacanza, prima della ripresa con gli esami di maturità, non sono tanti.
E palpando o carezzando i cari, amati, e magari, in certi casi, amati-odiati libri, disporsi all’attesa della cena. Quindi cenare, la famigliola riunita intorno al tavolo quadrato della stanzetta intermedia, con modesta ambizione di saletta da pranzo, faute de mieux, Giampiero al centro dell’attenzione, tenero sorvegliato speciale dell’amore comune, con le sue esigenze alimentari, i suoi capriccetti, la sua irrequietezza. Parca e ricca cena, poca varietà di cibi, abbondanza ospitale in ciascuno di essi: formaggi, salame, prosciutto crudo e cotto, ampia scelta di frutta, vinello subetneo di qualità, di maschio sapore e modesta gradazione alcolica. Il televisore acceso, gli scambi verbali scarsi, e per lo più fra noi tre e Giampiero, con le sue domande, i suoi perché?, come mai?, e tutta la sua curiosità “assorbente” (Montessori). Piccole felicità. Da raccontare giusto a un diario minimo, e a nessun altro.


24 giugno

Spremuta della giornata, ricca di incontri. Festa di San Giovanni, oggi, dunque onomastico di mio padre e mezzo onomastico di mio figlio. Gli estremi di un arco che si tende per una freccia incapace di scoccare. Metafora frusta, ma spinosa: vi si maschera tutta la coscienza (mia) delle nostre carenze socio-pragmatiche, delle nostre ritrosie introverse.
Solita sveglia super-mattutina, disbrigo faccende fisio-estetiche personali. Colazione, sosta nel salotto rosso a leggere l’ultimo libro di Cassola. Poi nostra (cioè, del nostro terzetto) visita ai miei genitori, euforico uso ludico-tenero del nipotino raggiante e sgambettante da parte di nonni digiuni da mesi, avida perlustrazione infantile della vecchia casa, piano terra e primo, cortile orto e terrazzino inclusi, e tante domande e risposte tra nonni e piccolo erede. Con annessi dolcetti tra un bacio e l’altro.
Prima sera, visita alla famiglia paterna, cioè di nuovo ai genitori con in più l’ultima sorella, stamani assente, perché ospite dei futuri suoceri. E ora, invece, presentissima, cioè coronata di fidanzato e mezza sua famiglia (genitori e sorella maggiore). Grandi abbracci, baci, bla bla bla. E’ gente del luogo, del quartiere, addirittura, anche se da tempo trasferita dalla periferia al centro della vicina   Realpolia, in una sua zona nuova, assai ambita e orribilmente zeppa di palazzoni-caserma. Tutto sommato, e fatte le debite sottrazioni, un’oretta lieta. Almeno per noi di famiglia. La futura cognata di mia sorella, invece, era triste: so che aspira alle attenzioni coniugali di mio fratello, ma senza speranza. Lui, intanto, era assente per “motivi insuperabili”. Ma anche per non incoraggiare la donzella nelle sue illusioni.
Non gli fa sangue, dice lui: cioè, non l’attira fisicamente. Anzi, per dirla tutta, gli ispira una certa repulsione: per il taglio della bocca, i grossi talloni, l’incarnato biancastro, e chissà che altro. Non è che sia brutta, semplicemente non scocca tra le loro pelli la scintilla della simpatia. Non scocca in lui, si capisce. E pensare che i genitori sarebbero tutti e quattro felici di questo secondo matrimonio: i miei e quelli di mio cognato: brava figliola, lei; universitaria e laureanda, educatissima, tutta scuola e famiglia. E chiesa. Ma questo ultimo particolare non si somma ai pregi, nell’ottica del fratello, anche lui, se non “tormentato” come me, alquanto freddo verso quelle sponde. Peccato. Anche perché pare che questa ritrosia del fratello sia destinata a limare un poco il feeling tra i consuoceri e fra i miei genitori e il nuovo acquisto domestico. Nessun rischio, comunque, per la perfetta intesa fra i due colombi: storia indipendente e schietta, la loro passione è a prova di bomba. E sia pure, la bomba, la delusione in campo. Meno male.
Non è mancato nemmeno un fondo di malinconia per certe assenze. L’anno scorso,  di questi tempi, e in queste occasioni (il nostro ritorno dalla Calamagna, e simili) zio Silvio era il centro e il perno più vivo di queste innocenti gioie collettive: aria fresca nel cortile neo-piastrellato della vecchia casa dai molteplici destini, cenette loquaci, cibi sani, bevutine contenute (lui era già malato, ma non ancora nelle condizioni decadute dell’inverno scorso). Ora lo zio è un rimpianto irto di spine. E una macchia putrida che inzuppa la terra.

25 giugno,
tarda sera

Mi pareva troppo bello per essere vero. E non è durato. Questo ristoro di vacanza indisturbata, questo riposo ritmato su svagati vagabondaggi in città, quiete attese della cena davanti al televisore acceso, o riempite di letture affrettate di gusto “furtivo”; questa parentesi di nostalgie mediate dai luoghi, di inventari sentimentali e culturali registrati su vecchie foto e sbiaditi ritagli di giornale, il facile proustismo che rianima le mie prime audacie “incoscienti” su occasionali madeleine di carta; questo dono è stato sospeso. Hanno investito il fratello minore di mio suocero. Lui faceva un’inversione di marcia sulla nazionale con la sua “Ape”, uno sconosciuto figlio di buona donna gli è piombato addosso con la sua “Giulia 1600” lanciata a tutto gas.
La telefonata che ci ha avvertito è arrivata con molto ritardo: l’incidente era avvenuto all’una e ai parenti è stato notificato alle sette (di sera). Il bersaglio della malasorte era già in ospedale da subito dopo il fattaccio; lo abbiamo raggiunto mentre lo trasportavano dal pronto soccorso in corsia. E’ ridotto a mal partito: il viso è tutto un’escoriazione, la testa ha un lungo taglio, una frattura al bacino non si sa di quale estensione sia, il trauma cranico lo ha tenuto in successivi stati di incoscienza per non so quanto tempo. Stentava a riconoscerci, il fratello, me e Rina, che siamo i parenti più vicini a lui. I sanitari non nascondono qualche timore di lesioni interne non ancora emerse.
Al termine della visita, siamo andati alla sede della polizia stradale, per attingervi notizie più precise e dettagliate, ma  non c’erano che due guardie ignare. Siamo passati, allora, dalla più vicina stazione dei carabinieri, quella di Castel Normanno, che ha registrato l’incidente. Il maresciallo ci rivela che il torto principale è dello zio, che manovrava dove non doveva; all’investitore si può imputare solo un concorso di colpa per eccesso di velocità presunto (e magari dimostrabile dagli effetti dell’impatto). Insomma, una specie di classica accoppiata, il danno e la beffa. Si era supposto che l’Ape, col suo carico di merce varia, ma dello stesso genere (mangimi per animali domestici), si trovasse presso la caserma dei carabinieri; ma non c’era nulla. Siamo, infine, tornati a casa, progettando i prossimi movimenti, a cominciare da domani. Pochi erano i giorni di vacanza prima della campagna “maturità”, e ci sono stati tolti, risucchiati dalla iattura, cui è impossibile sfuggire. E si fa presto a dire pazienza.
Questo scarno quarantacinquenne è uno sfigato doc: separato dalla  moglie, per eccesso di intrusione di una suocera megera, in piena rottura con i parenti di lei, minacciato dai suoi fratelli, padre di un bel bambino della cui legittimità genetica è stato indotto a dubitare infondatamente più dal suo temperamento sospettoso che da elementi oggettivi (e da qualche non improbabile insinuazione malevola di estranei ostili), indebolito nelle sue difese psicofisiche dalla situazione stressante, era un soggetto a rischio di imprudenze per difetto di vigilanza. Ed ecco il frutto avvelenato di tanta convergenza di fattori distruttivi.

26 giugno, domenica

Continua la giostra intorno all’incidente. Siamo stati alla Polizia, e vi abbiamo trovato una dolorosa sorpresa. Si era sperato, dalle parole dei carabinieri, in un concorso di colpa per eccesso di velocità: pare che non ci sarà neppure questa piccola sottrazione al peso della malora. La polizia ci ha dichiarato che la colpa non può essere dell’investitore, neppure in parte, perché il giovanotto frettoloso viaggiava sulla nazionale, con assoluto diritto di precedenza e senza limiti di velocità, mentre lo zio gli ha tagliato la strada all’improvviso con quell’assurda inversione di marcia appena dietro una curva. Era impossibile, per l’investitore, evitarlo. Anche frenando, come, del resto, ha fatto, sbandando, ma senza evitare di prenderlo in pieno. Amen. Resta l’amaro in bocca per due ragioni: prima, l’evidente eccesso di velocità non punibile dell’attore, sia pure involontario, di tanto scempio; seconda, la mancanza di un segnale con limite di velocità in una strada tanto frequentata e così pericolosa. Il solito Mezzogiorno mezzo civile e mezzo notte berbera. Tra l’altro, con manutenzione stradale approssimativa e di imprevedibile arbitrio cronologico. Ma non voglio aprire questo libro, come dice mia madre.
Siamo andati a trovare l’investitore, che aveva paura di incontrarci, e voleva evitare di riceverci. Lo abbiamo rassicurato già al citofono, e si è convinto. Che altro ci restava da fare, dopo le illuminazioni oscure della polizia? Gli abbiamo parlato con quasi dimessa gentilezza, contro i suoi timori di chissà che scontri. Che ci sarebbero stati, certo, con altre persone al nostro posto. Con gentilezza, dunque, e con la legittima curiosità di saperne di più dalla viva voce del protagonista attivo, per così dire. E’ un giovane rappresentante di medicinali. E’ stato cortese, s’è mostrato molto dispiaciuto del danno inflitto al nostro congiunto, ha ripetuto la versione già nota, ci ha promesso che non avrebbe preteso risarcimenti per i danni provocati dallo scontro alla sua bella macchina: avrebbe fatto la denuncia all’Assicurazione in modo da aiutare lo zio, delle cui condizioni socio-economiche si rendeva conto. Abbiamo ringraziato e siamo andati a trovare l’infortunato all’ospedale.
Soffre parecchio. Né lo ingesseranno tanto presto: ci sono lenti tempi tecnici da rispettare. Mi addolora vederlo in quello stato. Molti punti di sutura al viso, soprattutto in fronte. Escoriazioni da tutte le parti. E soprattutto, quella frattura del bacino. Ne avrà per mesi. Deo gratias.

Pomeriggio. Ritorno a Liotria per nuova visita allo zio: noi tre e i suoceri. Io resto fuori dell’ospedale col bambino: mia moglie non vuole che entrie. Perché? Porta male, per il piccolo. Insomma, superstizione pura. Ci sono abituato. Quando si decideranno, le Competenze specifiche, a proibire l’ingresso negli ospedali ai bambini inferiori ai dieci anni? Tutto lento, nel lento Sud. Tranne la malavita e i già operanti intrecci con la multiforme spregiudicatezza della politica.
Ne approfitto per mostrare qualche cosa della grande città al bambino, sempre avido di novità. Dopo una ventina di minuti, Rina esce e ci raggiunge. Così tutti e tre ce ne andiamo a dare un po’ di svago più appropriato all’età di Giampiero. Si va alla Villa grande, cioè ai giardini pubblici monumentali, dove il piccolo ha modo di correre e soprattutto godere la vista di tanti animali, dai pesci della grande vasca con fontana zampillante alla varia fauna del piccolo zoo sotto e dietro il grande poggio-piazza balconato. S’è divertito tanto, specialmente con le estrose scimmie acrobate, così espressive e comunicative, avide e brave nello sbucciare banane e noccioline con le agili mani. Il divertimento non è stato privo di qualche brivido per il piccolo: quando una scimmia saltava e si aggrappava alla grata, diciamo prossimale, della gabbia, lui faceva un saltino all’indietro, ad evitarne il contatto. Molto attraente anche l’elefante, per Giampiero, che lo vedeva per la prima volta in carne e realtà non virtuale. Com’è grande, papà. Perché è così grande? Ahi, ci risiamo con le domande prive di senso adulto. Perché la natura lo ha fatto così. E perché lo ha fatto grande e le scimmie piccole? La natura fa così, certi animali li fa grandi, certi altri piccoli. E perché fa così? Omissis. Anche i pappagalli colorati hanno ricevuto il suo gradimento ciarliero e indagatore. Figurarsi il loro parlare, non riscontrabile negli altri animali. Insomma, Giampiero nel paese delle meraviglie.
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Siamo a casa da circa un’ora, e le donne preparano la cena, la solita cenetta ghiotta ma parca, per motivi di capienza e prudenza (leggi dispepsia nel sottoscritto). Ma già il sapore si annuncia come ieri sera: intriso di amaro non medicinale. La quieta atmosfera di resa domestica (tregua ai pensieri di peso, disciplina della calma dolce, letture svagate e poco mirate…) s’è guastata senza rimedio. L’immagine dell’infortunato gioca le sue intermittenze intrusive sul nostro schermo mnestico intriso di impotente compassione. Pace. Domani si riparte, si ritorna nella Magnagrecia jonica.
E alle sue palesi e nascoste attrattive, siano pure intrugliate con spine di responsabilità e nebulate di incertissime possibilità scolastiche.

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