giovedì 30 luglio 2009

Susanna, frammento 35


30 giugno

Et idem et semper eadem. Bisestilico sgorgo, stasera, in ciniche danze di coincidenze profane. Sie ist immer appetitlich. Und heute abend ist sie sehr gut mit mir gewesen. Ella ha estado muy disponible esta tarde.
Che stultitia questo voler fermare nuclei di tempo in punti di inchiostro. E chiudere in gusci di rigidi scarabocchi liquidi turgori in fuga. Miliardi di atomi rutilanti di silente rumore dentro e sotto il verde dell’inchiostro per tentare l’impossibile decantazione del panta rei. Ah giorni di luce e di fuoco in questa gonfia estate dall’orizzonte infoscato! Ma il mio corsivo straniero non è sans pécher...
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Un cadavere ambulante, verde poco meno dell’inchiostro di questa biro: fegato in disfacimento cirrotico ed emorragie nel corpo gonfio di un “applicato” di segreteria che ha pochi mesi di stenta vita residua e vuole sposarsi fra pochi giri del residuo scontato. Vorrei conoscere l’eroina di tanta impresa. La sposa, sto dicendo. Non si rende conto del monco e corroso avvenire in attesa? Non è verosimile. Ci sono molle segrete di interessi in gioco? Si dice, in giro. Né la cosa appare inverosimile: sposa, indi vedova, erediterebbe casa e altri beni (modesti, s’intuisce, ma pur sempre appetibili da una modesta condizione). Buona combinazione per ricominciare. Qualche anima pia sussurra che lei si sacrifica per dargli un po’ di felicità. Pochi mesi, poche occasioni di legittimo sesso, frugali bevute alla grama coppa della vita avara. Questo, lei, la sposa promessa, vuole dargli? Sarebbe opera meritoria, per sé. Ma se dietro al “per sé” c’è, come dicono altri, l’ “in sé” di un’eredità, il bouquet si complica. Con buona pace dei dicotomici, noi, quaderno, approviamo in toto. Ci sia residuale amore (nato intero), ci sia, incollato, interesse materiale, si aggiunga pietosa empatia: ci sta bene il tutto. E agli angeli di sogno lasciamo l’astratta purezza delle  fantasie di fumo.
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Ma si avverte anche una certa nausea della vita inquinata.
E dei commissari della incombente maturità. Il solito, discutibile e discusso, preside degli anni inquieti, gli inizi della mia “carriera magistrale”: presidente della 2a, e forse anche della 3a commissione, che sarebbe la mia: cioè quella in cui sono rappresentante d’istituto (di istituto, non, come sarebbe logico e sano, di classe. Sparagnino fino al ridicolo, il nostro Stato ragioniere). Per fortuna, c’è anche, nella 3a commissione, un commissario di filosofia-pedagogia che è stato mio collega e amico in questa scuola due anni fa. Insomma, abbiamo avuto la riunione o seduta preliminare per gli “esami di stato”. Che cominciano domani.

Un roveto al cuore. Punture e bruciori. E una stanchezza da morire. Cui si aggiunge l’angoscia per Rina che sta peggio, malgrado le cure. E la necessità schifosa di questa difesa che mi manda a letto senza sonno. La gola congesta della loquace malata non le permette di pronunciare che stente parole deformate dal dolore. Noto, quaderno, che tutte le rabbie suscitate da quella loquacità così spesso aggressiva (a volte non priva di ragioni, confessiamolo) si sciolgono in umida compassione per questa sofferenza “ingiusta”. Quasi che la sentissi spostata dal bersaglio corretto (moi), a quello sbagliato. Capricci dell’ironico burlone, sua Oscurità il Caso.


Venerdì, 1 luglio.
Ore 22,30’

Prova scritta di italiano. Temi balordi. Burocrazia luteziana. Non abbiamo ancora un presidente: il nominato ministeriale ha declinato l’invito. Un certificato medico, che non si nega a nessuno, e il collega misterioso, dopo la formalità indolore della cosiddetta visita fiscale, si godrà beato le vacanze. Probabilmente è del capoluogo, dunque sul mare. Che ha tante belle spiagge, per singoli e famiglie. Però, chi può dirlo? Magari sarà malato veramente. O impedito da diverso inghippo. ¿Quien sabe? E a noi che ce ne frega? Né l’improbabile motivazione seria intacca di un’unghia la consolidata prassi del “no, grazie!” immotivato e godereccio. Spesso il morbo giustificatore sta tutto nel misero compenso per i commissari che aggiungono fatica a fatica, rogne e riduzione di relax.
E’ arrivato, stamane, anche il commissario di italiano, che alla riunione era ancora assente: altra sostituzione, altro rimpiazzo di rinunciatario. Il presente, tratto dalle liste di riserva del Provveditorato, ha tutte le carte in regola. Per essere un’emerita testa di kappa. Ma non priva di risorse comiche e competenti sorprese. Ne sentiremo delle belle.
Durante l’assistenza, ho cercato di aiutare un po’ tutti, ma specialmente le mie alunne. E, fra loro, con occhio più vigilante, “quella”, raccomandata anche da mia moglie, che, pur sofferente, non dimentica l’amica.
Non chiedermi come mai, quaderno: è la prassi, il bello della prassi. O, in linguaggio televisivo più esplicito, il bello della diretta. E della dritta. Che più dritta non si può. E’ anche il brutto. Per varie ragioni. Prima: non puoi aiutare tutte nella stessa misura; indi, c’è chi si accontenta e non manca chi recrimina accusando. Seconda: le brave, quelle che non hanno bisogno di aiuti e aiutini, raramente gradiscono che si dia aiuto a chi ne ha bisogno. Al massimo, tollerano l‘usanza: tanto bene è radicata, e integrata nel sistema! Una terza ragione ammonisce sulla diversa reattività al suggerimento: c’è chi lo coglie correttamente e chi pasticcia sull’incomprensione parziale, e al limite perfino totale. Prende, cioè, fischi per fiaschi: per esempio, una parola per un’altra. Nell’insieme, tuttavia, si può ritenere proficuo il mio movimentato lavoro di assistenza. Alla fine, che c’è di male? Si mette in pratica il precetto evangelico: dar da bere agli assetati. E le ragazze sono più o meno tutte assetate. A essere precisi, anche le brave apprezzano interventi migliorativi: il rilievo di una svista, la segnalazione di una sciatteria, e simili. Naturalmente, non si va oltre certi limiti. Per ragioni ambientali e di equilibrio nel rapporto fra colleghi commissari e collega rappresentante d’istituto (est modus in rebus). E di equità verso l’ “utenza esaminanda” (come ha detto un commissario).
Spreco di sigarette, durante l’assistenza. No, non dentro l’aula: candidati e candidate sono collocati nei corridoi, e le finestre sono aperte. Pericoli di ingressi illegali, di temi svolti fuori e introdotti furtivamente attraverso le finestre? Sono ben sorvegliate. Più facile un movimento nei bagni: anche quelli sorvegliati, ma non si può escludere la complicità (diversamente interessata) di qualche bidello/a.
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Che pungiglione, che trafitture nella regione toracica sinistra. Perché non mi imbavaglio contro la tentazione? Va bene che, anche non fumando, i miei colleghi mi costringerebbero lo stesso a farlo: fumerei comunque il loro fumo passivo. Che, oltre ad essere sgradevole, fa male ugualmente. O di più.
E che pena queste sofferenze costituzionali chiamate esami. Intanto è troppo stressante “portare” l’intero programma di tutte le materie: sarebbe più razionale e umano pretenderne una bella porzione, con gli argomenti principali obbligatori e una parte degli altri a scelta dei candidati. Costringerli a memorizzarli tutti per tutte le materie, significa non solo sottoporre gli studenti a una fatica improba, nociva alla salute, ma altresì incoraggiarne il ricorso alla raccomandazione. C’è da scommettere che le ragazze sono quasi tutte “segnalate”. Nel quasi si possono incontrare esemplari di due categorie: quella dei poveri cristi senza conoscenze pertinenti (contadini, operai, Gente d’Aspromonte…); e quella delle ragazze e dei ragazzi bravi, e orgogliosi, che non vogliono inquinare le prove. Categoria, quest’ultima, poco, pochissimo popolata. Perché? Ma perché capita che anche i bravi e le brave non disdegnino un appoggino: giustificato press’a poco così: siccome sono tutti raccomandati, accetto di essere segnalato/a anch’io perché si valorizzi la mia preparazione. E non mi venga diminuito il voto alto che dimostrerò di meritare. Non è pura teoria e prurito di testimone sospettoso: la cosa ha plurimi riscontri.
Per tutto questo, che scivola a valle, e tantissimo altro, che accade a monte e sale in alto loco, vien voglia di ridere in faccia a tutti noi, commissari esterni, presidenti, ministro, direttori generali del ministero. Per finire con presidi e colleghi meritevoli di altri, meno delicati, impieghi. E ai rappresentanti d’istituto no? Anche, certo, ma un po’ meno: in quanto tali, essendo più vittime che carnefici. Certo, quando viene il nostro turno, sappiamo essere pure noi commissari esterni meritevoli di quelle risate virtuali.
Altre ragioni per ridere in faccia a tutti, e cantare ai colletti bianchi la verità terrosa dell’esistenza, si trovano nei programmi, nell’orientamento culturale dell’Istituzione. Quale appare anche, e soprattutto, dai temi di italiano agli esami di maturità: poteva mancare l’eterno Spiro? Non poteva, e infatti eccolo dardeggiare di rapinosa luce nella traccia dantesca: “L’umano e il divino nel Paradiso di Dante”. Ed è la traccia numero uno: chiara e dicotomica, quanto generica e “orientata”. Né, poi, così nuova e originale (formulazione a parte, o magari compresa). Immagino cosa succederebbe se qualche candidato/a tentasse di ridurre quel divino all’umano troppo umano che costituisce la sostanza antropologica e morale della Commedia. Le ragazze che l’hanno scelta, con involontaria ironia, hanno raccontato qualche episodio della cantica. Vanno forte i soliti san Francesco e san Domenico, Cacciaguida, avo e profeta dell’accaduto, l’incantato elogio della Madonna, umile e alta più che creatura; e simili olezzi. Una delle girls dell’altra sezione ha tenuto a precisare, con qualche indugio ricamatorio, che Dante è “un grandissimo poeta”. E tante cose ancora sono accadute in questa memorabile giornata di silenzioso cimento e tacita adrenalina sussurrante (comunicano tra loro a voce bassa, quasi, appunto, in sussurro, le ragazze durante la prova). La piccola, paffutella Mimma Minniti ha pensato bene di tenersi accanto, sul banco, la bianca coroncina del rosario, tutta raccolta e in esposta evidenza. E’ ben tra le più brave, Mimma, ma un aiutino trascendente non si rifiuta mai. Susanna, a volersi arrendere all’amuleto, avrebbe preferito, forse, due corna rosse da diavoletto ghignante. Molto diffuso, quasi totalitario, il segno di croce quale incipit di scongiuro e buon augurio. Nel quasi s’accuccia, lo scetticismo astinente dell’osannata Susy, coronato dall’altro, delle compagne-amiche più strette. Gente laica!
Ho aiutato anche Lella La Mela, il fiore dorato dal gambo corto, l’occhiglauca perduta della scorsa estate. Che non ha rifiutato l’aiuto. Anzi. Negli occhi, un lampo marino di umida luce. Sono sicuro che pure lei soffre di questa “separatezza”. Tanta buona amicizia in frantumi: come non rimpiangerla? E finita, poi, per fisime ed esagerazioni: di orgoglio, gelosie sfocate, isterismi scaricati su innocenti (che c’entrava Lella con la sorella maggiore?).
                                    
La sera, visite, seccature, sprechi di tempo. Alunne che chiedono, già ora, notizie sul loro tema! O che narrano la loro avventura “compositiva”, in cerca di pareri e previsioni. Troppa vicinanza tra scuola e privato? Anche questa è prassi diffusa. Di paese, di territorio, di regione? Forse non soltanto. Ma non sono stato al centro-nord: né come insegnante, né, ancora, come commissario esaminatore.
Assieme alle seccature, ma ben distinte, pure visite gradite. Viene Susanna per la solita lezione. Dopo la lezione (di italiano: su Dante e il XV del Paradiso, che “ripete”), Susy mi prepara la cena. Ma non vuole cenare con me. Significherebbe troppa intimità, e lei ne ha pudore. Cioè, in realtà, non intende alimentare malumori in Rina, ancora a letto, sofferente, e dunque dalla tavola imbandita assente. Io mangio con particolare concentrazione, mentre Susy, assolto il compito di domestica cuoca vicaria, siede accanto al letto a far compagnia quasi monologante all’amica non ancora risanata. Finita la mia cenetta meditativa (su quella novità d’impianto), Susy sparecchia. Fermentano immagini di possibilità remote. Né propriamente auspicate.
Verso le undici, sbarca in casa mezza famiglia susynica, la metà femminile, cioè. E si raccoglie intorno al letto della malata. Che cicaleccio! Quando vanno via, è già mezzanotte. Viene a prenderle uno dei fratelli di Susy con la sua macchina. Rina è contenta della visita. Ma accusa un po’ di depressa atrabile: febbre e dolente gola in fiamme le impediscono di partecipare compiutamente alla conversazione, per difficoltà di deglutizione e respiro. Gianpiero risente della indisposizione materna, ma i suoi quattro anni appena compiuti lo aiutano a distrarsi se qualche gradita presenza si fa disponibile ai suoi giochi. E al suo bisogno di lasciare la casa per qualche ora in cerca di spazi più ariosi.

2 luglio

Sabato ebraico: riposo a scuola. Mezzogiorno: arrivano rose per mia moglie: dalla famiglia di Rosy, la fidanzata del cognato. Pomeriggio: Susanna porta un regalo alla stessa festeggiata: un cofanetto con carillon e ballerina in figura di danza, che ruota sulle note della musichetta. Il cofanetto è tappezzato di velluto rosso, e l’interno del coperchio è foderato di specchietti rettangolari che moltiplicano l’immagine della danzatrice ruotante. Molto carino. E sostanzioso: nel cofanetto c’è pure una collana e degli orecchini. Susy non conosce tircheria. E’ uno dei suoi lati più cattivanti. Rina compie gli anni: ventisette. Dimenticavo: Giampiero ha già provveduto a rompere le gambe alla ballerina. Mancava, infatti, il suo marchio personale sul compleanno materno.
Dopo le effusioni, a base dei prevedibili e consueti “non dovevi”, “come no?”, “non dovevi, voglio dire, spendere tanto”, “lei merita anche di più”, e via con la musica: dopo tanto fiato e sonorità, lezione a Susy. Matematica, stasera. Non riesce ancora a risolvere i problemi. A meno che non siano di una facilità che certamente non troverà agli esami. Ne risolviamo un paio, sforzandomi di farle entrare nella fascinosa testolina l’impianto dell’impostazione. E soprattutto, di collocarvelo stabilmente.
A sera inoltrata, mamma e sorella vengono a prenderla. Si fermano fino a mezzanotte anche stasera, replicando la visita a Rina. Che comincia a stare meglio. Come faranno a riempire di chiacchiere tutto questo tempo?
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Pensieri oziosi di un affaccendato.
Poiché nella levigata compattezza bucherellata dell’ontologia domestica si è presentato un hueco più diametrato del solito recente, i Dasein del già ampiamente teorizzato binomio loco y hermético vi hanno incuneato non insolite chances di allegra locura y efusiòn corporal. Perdurando, ostinato, lo sbarramento ematicoide dell’interieur, le manipolazioni si sono appagate di periferie concettuali. Che sono pur sempre gratificanti, da la boca a las piernas. Fuori da ogni decente possibilità di controllo le rimpiante ben lubrificate latebre del rustichesco ninferno decameronico. Peraltro, già percorso, con reiterazioni inventive (come sai, quaderno), soltanto in preludio vestibolare, ovvero  assaggio di soglia delusa. Le opere e i giorni: in versione “locura”. Tamen...
Al tamen soddisfatto, però, è tempo di accompagnarne, anzi sovrapporne un altro. Di ben diverso peso: l’esame incombente dovrebbe tagliare ogni tentazione esplorativa. Fino al “fatidico giorno”. Ci riuscirò? Ci riusciremo? Non si sa. Affatto saputo è che devo. A costo di mordermi labbra e nocche.
Devo, sì. Dobbiamo. Qui si parrà tua nobilitate, magister. Che l’eroico Alfieri ci aiuti. Ma lui era favorito: qui le forze attrattive sono diabolicamente più insidiose.

Domenica, 3 luglio

Bagno ristoratore alle poltrite membra. Poi barba e colazione. Indi, lezione di filosofia alla candidata e al candidato esterni alla maturità classica. Come ieri, alla stessa ora, per le stesse due ore e passa. Nel solito miscuglio di piccole soddisfazioni e meno piccole delusioni. Bah! La filosofia, si sa, non è cibo leggero per la comune attrezzatura cerebrale votata più al percepibile concreto che al vaporoso astratto. E difatti, le piccole soddisfazioni s’affacciano quando dall’empireo categoriale si plana sulle bassure “confrontabili” del corpo e sue pertinenze. Forse che fra le mie alunne i preferiti non sono stati sempre Schopenhauer (nel loro slang confidenziale, Shopy), Nietzsche, Freud, Feuerbach…?
Pranzo, per la prima volta dall’inizio della malattia, con Rina a tavola. Quella sua aria sofferente, il volto smagrito, attenuato il normale rosa delle gote, le danno una commovente aura “mistica”. Ed è il tempo infido dei rimorsi, dei serpentini sensi di colpa. Non vado a letto con la sua migliore amica, e tuttavia l’ampiamente documentata sensiblerie verso quel polo magnetico conosce un saltellante ritorno di punture epigrastiche. Be’, sono contento di averla avuta accanto davanti al maggior tavolo della casa e del suo tempo. Contentissimo anche Gianpiero, che ne festeggia il ritorno nella compagine del terzetto a modo suo, con trillante irrequietezza. Dopo il pasto, avrebbe voluto uscire insieme a lei, ma alla fine si è accontentato della mia sola compagnia. Al rientro, tentativo di riposo mezzo abortito, mentre il piccolo scorrazza per gli spazi liberi e non liberi dei vicini parenti in pectore.
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Pomeriggio di seccature e seccatori: processione di visitatori in cerca di notizie sugli scritti e dintorni. Tranne un caso: Guido Lagona, collega di filosofia in forza al liceo classico di Sozerato, nonché assessore regionale democristiano al turismo e spettacolo. Viene a “raccomandarmi” gente per gli esami in corso al magistrale, e riceve segnalazioni omogenee da parte del riluttante ma rassegnato qui scrivente sottoscritto. Anche Guido è in commissione di maturità, sempre a Zefiria, ma al liceo classico, dove si sono presentati i due allievi privati in attesa della prova orale. Privati e non paganti, per via di legami amichevoli col cognato.
Guido ha portato il figlio, un bel biondino vivace e risoluto, poco più in anni di Giampiero. Hanno giocato un po’ insieme, e hanno trovato il tempo di litigare per la prepotenza dell’occhiglauco biondino grintoso. Che il padre ha debitamente rimproverato e frenato, ma con scarso esito. Finché sono ripartiti, lui contento della missione compiuta, io di essermi scaricato della vischiosa incombenza “commendatizia”.
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Susanna risolve problemi di geometria, con lunghe interruzioni. A un certo punto mette il broncio. Poi le passa. Siamo alle saltuarie crisi di scoraggiamento. Più che legittime e comprensibili. Io, pour ce que me concerne, ho evitato deviazioni e deragliamenti. O meglio, ho cercato di evitarli, ma lei non pareva d’accordo, e ha strappato qualche leggera sfilacciatura al mio non possumus. Indi, mio mini-disagio. A lezione finita, verso le otto (ora legale), mamma e sorella di Susy vengono a prenderla, ma Rina invita Susy a cena e lei accetta. Dopo l’inevitabile breve sosta, accompagno le due donne a casa loro, ovviamente in macchina. E’ la seconda volta in due giorni che Susy cena con noi. Stasera c’è anche il fratellino più piccolo, Mino (Giacomino), undici anni di frenesia cinetica. E di precoce malizia. Susy dice che si sveste e veste in sua presenza senza imbarazzi. Una volta, in risposta a non so che osservazione e di chi (certo riguardante pudore e rispetti) rispose: “Oh, mbe’, Mino mi sapi”. Che tradotto suona: mi sa, mi conosce. Come ebbe a precisare in rapida sintesi: appunto, si spoglia e si veste in sua presenza. Come se lui non fosse cresciuto, in corpore et in mente, dai suoi lontani quattro e cinque anni. Ma lì, in quella famiglia, numerosa e franca, con poco spazio a disposizione nella modesta casa, le cose vanno così. Al contrario che nelle nostre case, nella mia paterna e in quella omologa di Rina (il cui padre soffre sddirittura di una sorta di ipermoralistica sessuofobia).
Due cene con Susy, e sia pure remorata di fratellino, significano aura nuova nel volume sensibile delle nostre stanze. Una sorta di pizzicante elettricità soffusa che avvolge ogni oggetto movimento gesto parola sorriso risata. Le risate di Susy (quando riesce a seppellire la mutria esaminale) risuonano alte e squillanti: l’analogon, in verbo dotto, è un vasto lampo di brezza fresca dentro l’afa estiva.
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Rileggendo questa pagina ventilata dalle risate sopra evocate mi vellica l’ennesima tentazione citatoria: vorrei trascriverci sopra un delizioso quadretto di un impareggiabile letterato con l’anima: Concetto Marchesi. Una vecchia conoscenza, in quanto autore della più ammirata e sostanziosa Storia della letteratura latina; una scoperta recente come narratore e maestro di bella scrittura. Un composto che concilia arguzia, ironia, delicatezza di sentimenti, straordinaria disposizione empatica verso la vita sofferente e mortificata (sia umana o soltanto animale), vivace sensualità e una scelta lessicale perfettamente aderente alla disposizione ritmico-sintattica, mai stentorea, incline più alla levità sorridente che alla mutria moralistica. La scelta politica, poi, me ne completa, per la sua precocità e coerenza estrema (fino al rischio, da rettore in Padova, di finire fra gli artigli dei tedeschi, post 25 luglio ’43) l’icona “carnale” che costringe alla simpatia assoluta. Leggerlo e rileggerlo è una vera godurie.
Il passo che sto per trascrivere sta nel vibrante Libro di Tersite (dedica: “A Pellegrino, fratello laico e cercatore del convento di Sant’Antonio a Monte”).
Lo scrittore è ospite di certi signori amici suoi; s’è allontanato e ora ritorna. Eccone la descrizione degli ambienti, premessa a un dialogo frizzante di sensuale arguzia:
Quando ritornai il giorno dopo, alle undici e mezzo, la cameriera, giovane e saporita, mi fece attraversare un corridoio e poi una grande sala e poi un altro corridoio, finché aprendo un uscio lucido e bianco mi disse lentamente: – I signori sono di là che discorrono. La signora la prega di volersi accomodare costà –. E mi introdusse nel gabinetto di toilette riservato alla padrona di casa.
Nella umida frescura odorosa respiravo la misteriosa essenza dell’invisibile corpo. La lucida bianchezza delle vasche, il tepore morbido degli accappatoi, il lieve disordine degli sgabelli levigati rivelavano tutto un intimo rito di bellezza ignuda. Sedetti davanti alla specchiera, dov’erano disposti gli oggetti consueti della farmaceutica femminile; ed estrassi fuori dalla conchiglia cristallina il piumino della cipria. Era grande, bianchissimo, leggero leggero. Preso per il popolino d’oro e lievemente agitato, il cigno si veniva facendo più gonfio e più grande come acquistasse una strana vita, e i tanti fili delle piume sottili, che si rialzavano ai lati, scoprivano appena il cuscinetto che aveva il colore della tortora. Io ci soffiavo su, adagio, adagio, per allargare quel petto di seta.
In quel momento apparve sulla soglia della stanza lei, la padrona di casa. Una malizia fanciullesca di beffa illuminava di grazia tutto il suo volto.
–   Buon dì, brutto signore! Oh, cosa fate?
–   Buon dì, bella signora! Cerco un cuore.
– Là dentro?
– Qua dentro.
– Soffiandoci sopra?
– E’ il miglior modo per destare i cuori.
Dalle sue labbra sgorgò una risata così fresca e limpida che avrei aperto la bocca per accoglierne lo zampillo.
Quella signora sapeva ridere e sorridere adorabilmente. Io sono insaziabile di sorrisi, fratello Pellegrino: penso spesso che bellezza sarebbe morire in mezzo a volti sorridenti.
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Distratto e assorbito in ben calamitanti altrove, il mio ego stressato rimpiange, a volte, il lavoro creativo che langue e tace. A compenso punitivo, da stasera, e fino alle prove orali, tace e langue anche il modesto eros. Intra et extra moenia. Ut supra dixi. O quasi. Ma non è facile. Dico: sottrarre al suo parziale uso extravagans lo spazio libertatis coevo e coeso alle susiniche Stunden. Questo, dicevo, non è facile, visto che il doppio usage s’era cristallizzato in solide abitudini gelose della propria integrità. Ma tant’è. Stavo per dirti, quaderno, “la rinuncia è dei forti!”; ma il diavoletto ironico ha scodinzolato dentro l’orecchio interno un micidiale “appunto!” . Insomma, la sfida si fa dura.
Anche certi aggettivi andrebbero evitati. Cancello? A che pro? Maiora premunt. Per esempio, ma esempio cogente: due sere fa una compressione vaso–circolatoria fra ingressi fagico-erogeni agganciati provocò nella controparte una macula evidente di quasi totale assorbimento della gamma hertziana ottica inferiore. Incidente ben probatorio, agli occhi non distratti di familiari et matris. Brividi di Angst, nel fondo del pozzo mentale qui scrivente. Non fugati del tutto dalla notifica, tra ansiosa e divertita, dell’improbabile spiegazione che all’evento allotrio diede l’inquisita interessata in sede di tribunale familiare (ovvero, più parcamente, materno). Mica esiste un partner canonico al suo fianco. Insomma: sospetti spenti o tuttora caldi di interrogativi pensosi, in quel di susanìa? Ancora stasera, qui, in domo amicitiae, l’assenza, da quel sito carnoso inferiore, di un (quasi) centimetro cubo-curvo dell’elemento preferito da Roberto Grossatesta, brillava come diamante nero di insinuante eccedenza accusatoria. Interessante, poi, nell’aula scolastica mattutina del giorno esaminale primo, l’evidenza eidetica di tanta macula in quella festa policroma di abitini eleganti e pallori venuseo-scolastici in ansia. L’avranno notata, le folte presenze diversificate dello spazio minoico? Il proprietario di queste righe custodiva in un angolo buio del cerebro arcaico un rimescolio di tacito orgoglio imbavagliato nel silenzio.
Il tacito orgoglio è però inciso di una deduzione contrastante: l’inquisita, in casa sua, è una sorvegliata speciale: tanto suggerisce il rilievo materno ut supra dixi. E si torna alle vibrazioni di Angst dentro i condotti meningei.

4 luglio, sera

Oggi, compito di latino. Testo arduo, lingua tortuosa, insomma un brano di Quintiliano, che ha fatto sudare anche qualche dottoressa in latinis. Molti dubbi fra le candidate. Indi, molte consultazioni. Anche fra colleghi del ramo, e affini. Ho partecipato, si capisce, a queste conventions, traendone non vani lumi per le nostre alunne, quella in particolare (ma che ti preciso a fare, quaderno?).
Giornata faticosa di tensione multipolare e lunga : di mattina, per quanto detto sopra, di pomeriggio, per la “correzione” degli scritti: temi d’italiano e versioni di latino. Con i primi scontri. La generale mediocrità dei docenti mi crea difficoltà di relazione e sacrifici di orgoglio. Che fatica, usare toni pacati con colleghi incapaci della  minima elasticità mentale. Non leggono, specie le donne. E perciò conservano un’idea angustamente scolastica e vetero-grammaticale dello scrivere. Vedono errori dove non esistono, segnano blu opinabili discrezionalità sintattiche, al massimo suscettibili di un segnetto rosso a futura memoria. Cioè, per chiarire, in sede di prove orali, se la candidata ha usato scientemente una certa forma, o a caso e  in opaca ignoranza. Il commissario di italiano e storia, per esempio, non prevede e non ammette che si possa iniziare un periodo con un pronome relativo: lo considera “errore blu”. Ed io a torcermi le budella per fargli capire l’evoluzione dell’italiano scritto, l’importanza di una misurata flessibilità nell’impegno letterario: come si potrebbe scrivere anche soltanto un buon articolo di giornale soffocati dal grammaticismo d’antan di questi ghiozzi bavosi? L’ho mezzo convinto, per via d’una certa diffusa stima nei miei confronti e verso il mio amico-maestro (avrei dovuto dire all’inverso, lo so, ma ormai è scritto). Domani gli porterò qualche elzeviro del Corriere della sera e della Stampa, dove quell’uso è di casa.
Come non bastasse la fatica nel lugubre ambiente della stravecchia scuola, nel resto del pomeriggio-sera, lezione di matematica a Susy. Risolve qualche problema, con lenti vantaggi sui tentativi precedenti. Troppo lenti per cavarne utile decisivo nella prova di domani. Le servirà, comunque, essere corretta nei calcoli. Non è escluso che riesca anche a capire l’impostazione di un problema, ma dovrebbe trattarsi di un caso semplice. Il che, invece, sembra da escludere. Vedremo. Certo che si partecipa all’ansia delle ragazze (e delle famiglie). Un po’ per una fisiologica immedesimazione con chi soffre; un po’ perché le famiglie  tendono a scaricare sul rappresentante d’istituto (ricorda quaderno: uno per commissione) la responsabilità maggiore dell’eventuale insuccesso dei figli. Né costoro sono del tutto alieni dallo stesso male. Anche se, ovviamente, le eccezioni non mancano. Eccezioni, appunto: non la doverosa regolare normalità. Ma così va il mondo (della Scuola italiana. E meridionale in privilegiato primis).
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La Chute. Il bel titolo camusiano mi si è arrampicato alle orecchie. E’ bensì sprecato tra queste linee dritte inzavorrate di colorati inchiostri (ora è rosso); ma non posso rinunciarvi. Non mi è concesso. La mia chute non è così romanzesca, ed è anche meno complessa e più ordinaria; tuttavia, mi pesa. Forse quanto la sua al personaggio Clamant, giudice-penitente. Non lo sono un poco anch’io? Non sono, io pure, costretto a farmi, in qualche misura, giudice-penitente? L’uomo che si accusa per potere accusare gli altri, che severamente giudica se stesso, prima di darsi licenza d’essere implacabile giudice agli altri. Insomma, di che si tratta? E non lo sai, tu, quaderno? Non stavi qui sotto, dentro il cassetto inchiavardato di questo tavolo, quando è avvenuto il non concesso e non previsto? Avrai recepito, no?, e inciso nella tua innocente memoria fisica le sonorità divergenti dell’eccedenza tabù. Ma se proprio vuoi saperne di più, continuo la flebile flagellazione. Non si erano escluse certe operazioni matematico-filosofiche fino alla conclusione dell’experiri esaminale? E invece? Invece è accaduto. L’Io fichtiano degradato a bassa empiria corporale ha ceduto al richiamo della foresta. Duplice foresta: metafora e verità effettuale. Colpa sua? Non essere villano con Venere Urania se scopre il segreto ctonio. Non dare a lei la colpa del tuo fallo (duplice anch’esso, come la foresta nera sopra onorata). Homo sum,  nihil humani a me alienum puto. Sì, latineggia pure. Il fatto resta. Factum, fatum. Fare e dire. E viceversa. Con un di più di impazienza olfattiva, che applicata a intricarsi in quella luttuosa tricologia, sub specie digiti, raggiunte le scivolose vie del Sancta Santorum, irraggia insolita fragranza dal cilindroide prensile, a stretti intervalli calamitato dalle impilate coane respiratorie. Insolita e meno elisia, ma santamente ctonia. Stravaganze? Lo so. Né reciterò un ipocrita mea culpa.
Che non avvenga più, che non si cada ancora, però. O perderò del tutto la residua stima di me. Residua quanto vuoi, ma così necessaria. Si ha un bel pavoneggiarsi a spirito libero e mente superiore ai comuni laccioli etico-sociali: certi confinamenti contano. E stasera mi circola in vene febbrili un immusonito disagio smorza-appetito.

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