martedì 14 luglio 2009

Susanna, frammento 34


Zefiria, 27 giugno,

Mini-cronaca della giornata. Visita ai miei familiari prima della partenza da Akiskene. Faccio un sommesso appunto ai genitori, che non sono venuti a trovarci nei due giorni precedenti: tutti presi dal fidanzamento della figlia minore, trascurano ogni altro nodo di interesse, compreso il nipotino. La cosa mi addolora un po’, ma cerco di non farla pesare troppo. La mamma si scusa: pensava, tra l’altro, che restassimo ancora qualche giorno. Indi, abbracci e baci. E spazio sgombro per l’impegno massimo. Rientriamo, quasi all’ora di pranzo.
Alle 14, 30 il fidanzato in campo, e futuro terzo cognato, viene a prelevarci a casa nostra e ci accompagna alla stazione di Realpolia, distante un paio di chilometri dal nostro paese insulare. Si mostra molto disponibile, come ogni bravo fidanzato, e giocherellone col bambino, al quale compra dolci e pupazzetti. Giampiero, sul treno, non rinuncia alla sua batteria di domande: sulla nuova conoscenza, la sua grande macchina nuova, e altro solletico. Della parola “fidanzato” conosce già la corposa semantica: l’amato zio fratello di mamma è il fidanzato di Rosanna, e viceversa: non è difficile immettervi il nuovo arrivato.
Dopo sei interminabili ore di viaggio plurimo, cioè con sali-scendi tra un mezzo e l’altro, non privo della solita ansia indotta dalla vivacità del piccolo, si arriva a Zefiria. Mio cognato ci aspetta alla stazione con la sua macchina, e ci porta alla nostra umile casetta “continentale” in modico affitto. Gioia della piccola peste domestica, che ritrova il suo preferito compagno di giochi.
Fra poco si cena, ospiti dei neo-parenti dirimpettai.
                                                *
Trovo, qui, una lettera di Gulizza, che apro con stupida ansia, quasi fosse un cenno del Fato. Mi spiega perché Ciaccò non ha pubblicato il mio pezzo su Dante nell’ultimo numero della “Gazzetta letteraria” e mi assicura che uscirà su quella di domani. Figurati l’ansia, quaderno. Sono sicuro che stanotte sognerò il contesto. E chissà con quali amplificate deformazioni da adrenalina repressa e non vinta. Finge di compiacersi del mio impegno su Possibilità e necessità, un saggio polemico con i suoi recenti articoli inneggianti alla più dogmatica ottocentesca necessità causale. Mi manda anche un ritaglio della Sicania con un suo articolo su Nietzsche, dove cita il mio nome e relativo mini-saggio nicciano, già scampolo della “parte prima” della mia tesi di laurea, poi gradito ospite di “Teoretica” e finalmente incluso nell’antologia Mondo trofico, curata dal prof. Rama. Mi ha fatto piacere, anche se un piacere ridotto: avevo già visto e letto l’articolo, infatti, durante il breve soggiorno isolano. E’ sempre quello apparso anche sulla Gazzetta di Parma.


28 giugno

Come previsto, stanotte ho sognato Ciaccò e dintorni. Egli aveva pubblicato il mio articolo dantesco, ma in una pagina diversa dalla letteraria, e quasi “a margine”: una sorta di atto dovuto, ma poco convinto. Nel sogno io sfogliavo il giornale, cioè la Gazzetta dello Stretto, con dolorosa trepidazione. La stessa che ha mosso la mia mano stamattina, quando, al grido del giornalaio ambulante, mi precipitai alla finestra bassa sulla strada per comprare il giornale, l’avido braccio steso fino allo strillone in lento arrancare col suo fascio a tracolla, la mano a strozzare fra pollice e indice le 60 lirette del prezzo. Veloce spoglio delle pagine per arrivare alla letteraria: l’articolo c’era. Un tuffo al cuore, ma di gioia. E non è collocato “ai margini”, anzi sta in posizione eminente: taglio alto e centro-pagina, su sei colonne. Una specie di promozione al rango di onorevole conclusione della rassegna dantesca, durata tutto l’anno precedente e la prima metà del presente. Meno male. Anzi, molto bene.
Me lo sono letto subito, e ne sono soddisfatto. Anche la penalità cieca dei refusi mi ha usato misericordia: solo un paio, piccoli e ininfluenti.

Il modesto evento s’è montato da sé una bolla emozionale che organizza diversi elementi di appagamento nella scarna mitologia personale. Gli elementi: le delusioni delle settimane precedenti, la triangolazione Assaggi–Ciaccò–Gulizza ribollente di scatti adrenalinici, il sogno di stanotte. E perfino la condizione dell’acquisto del giornale: direttamente da casa, senza il fastidio della sortita obbligata. La cosa accade non rare volte, è vero, se mi trovo in casa  (domeniche e festivi, per esempio); ma oggi ha avuto un sapore e una fragranza particolari. Quasi una consegna a domicilio del dono bramato rivendicato e insidiato. E dunque, con un di più che sa di grazia, a compenso delle pene d’amore perdute (anche la cultura può crescere a passioncella assorbente e punitiva).
E forse di un’altra compensazione bisognerebbe parlare (almeno tra noi, quaderno, no? O l’abbiamo già fatto nelle tue pagine precedenti?). Si vuole dire che, quando altre e più grasse mitologie (religiose, metafisiche, estetiche…) vengono meno, il fertile cervello bisapiente inventa presto dei surrogati: come le mini-mitologie personali, sentimentali, domestiche. E le maiuscolate collettive: di clan, di partito, etniche, ideologiche, e via allargando. Nelle quali, purtroppo, s’avverte pur sempre un vago sentore metafisico. Vago, e minimo, nelle personali; meno vago e più carico di ectoplasmi pragmatici, non sempre incruenti, in quelle plurali e collettive.  E qui  mi fermo, a scanso di  prolissi sospiri e sterili espirazioni vagabonde.
Alle ore nove, lezione di filosofia al giovane Sirta.
                                                *
Nel pomeriggio, lezione di italiano a Susanna. Deliziosa nella guaina del vestitino bianco a strisce trasversali nere, centrali e parallele. Quasi a sottolineare il centro di quel piccolo mondo ambulante: pancino appena visibile nella stretta del tessuto, e sotto-pancia di puro annuncio, ben nascosto. Ovvero, sprofondato nel gioco schermato delle mobili pieghe danzanti al molle passo della sua snellezza nervosa. Il vestito, di buon gusto e adatto alla figura di Susy, è un regalo di mia moglie. Calzava sandali perfettamente coordinati al vestito, e i piedi nudi occhieggiavano di orgoglio ben fondato fra quelle strisce di cuoio leggero.
Ci ha raccontato che il suo vecchio professore di religione le ha detto, incontrandola e soffermandosi paternamente sorridente: “Sei cresciuta!” Guarda un po’! Laconico e allusivo, ma anche discreto e pudico. Lo conosco bene, padre Panella: siamo colleghi all’Istituto magistrale dove insegno. E’ persona seria e dignitosa: non ha potuto nascondere l’ammirazione per tanta esplicita bellezza, ma l’ha espressa copertamente. Ovvero: non ha potuto frenare la spinta a dire, e l’ha sciolta nel linguaggio velato che consente giudizi anche audaci senza offendere. Mi si sveglia un ricordo: il racconto di un collega sul suo conto. Un sacerdote della diocesi criticava, non ricordo più perché, padre Panella; egli ne parlava al nostro collega fondatamente discolpandosi. Quindi, quasi a compimento dell’autodifesa, aggiungeva: “Io non mi sono mai sporcato col sesso”. Alludendo, ovviamente, a trascorsi del suo confratello in Cristo, trascorsi ben  noti nell’ambiente zefirese. Persona a modo, dunque, don Panella; e degno di farci pensare che non mancherebbe mai di rispetto a un’ex allieva. Ma, vivaddio, anche capace di apprezzare comm’il faut i doni profani della divina Provvidenza.
E poi Susy ha detto anche altre cose. Per esempio, che stamattina gli sguardi dei maschi sono stati particolarmente fastidiosi. Venendo a piedi da casa sua, lei ha avuto modo e tempo di subirne parecchio, di “fastidio”: c’è almeno un buon chilometro di strada da lì al centro, e poi qui, a casa nostra. Domande pertinenti: questo pomeriggio, è andata meglio? ha avuto meno sguardi? Un po’ meno, dice, data l’ora, ma pur sempre una vera ossessione. Già: una volgare fastidiosa ossessione. E persecuzione. Ci credo. A parte, forse, il “fastidio” e il “fastidiosa” (che, infatti, noi mettiamo fra virgolette, vero quaderno?). Altrimenti, perché venire a piedi, quando avrebbe potuto farsi accompagnare da uno dei fratelli in macchina? Forse voleva sfoggiare il vestito nuovo, e saggiarne il potere catalizzante sui “fastidiosi” maschi delle più varie età e condizioni sociali. Dal garzone del fornaio, insomma, al settantenne don Panella, digiuno di sesso per amore di Cristo.
O vogliamo sottilizzare? Digiuno, forse, di sesso plurale. Penso a Onan?
Che ci sarebbe di male? Anzi di men che naturale. Poi ci sono sogni e segni di perfetto controllo corporale spontaneo. Spesso onirico. Ma di che m’impiccio?   Anche perché, di passo in passo, si finirebbe sul tema perennemente caldo dei preti pedofili. E dei correlati scandali, sempre gestiti dalle autorità supreme con la pelosa ipocrisia del “sopire, troncare”. Ovvero, nascondere e negare, promuovere e allontanare. Salvo l’impossibilità materiale della maschera per tosta resistenza dell’opposizione parentale delle vittime imberbi. E di quella diretta delle cresciute e barbate.

29 giugno

Data di peso, questa, e giornata conseguente: è il compleanno di Giampiero. Piccola festa domestica, e gran movimento tra casa e paese: la torta ordinata e prelevata, insieme al festeggiato, contorno di altri dolciumi di suo gusto, euforia lampeggiante dell’innocenza protetta. E gli invitati: la famiglia di Susy (non al completo, tuttavia), la famiglia Carolui, il cognato neo-fidanzato, i coniugi Anello. L’anno scorso c’erano anche le sorelle La Mela, oggi, con mio rimpianto, lontane e ostili. Tutte, ma per volontà e decisione di una sola, la delusa n.1, aspirante protesa e scartata alla congiunzione maritale con il cognato bello e bellimbusto, attratto da più fresca modellata carne e da migliore volto. Giampiero in piena espansione cinetica, fino alle inevitabili monellerie. E tante foto, molti regalini, quello di Susy il più consistente: un trenino con tanto di rotaia e ampia autonomia di moto a batterie. Rina apprezza e “concede” il tempo e la fatica che do alla comune amica: Lei non ama la tirchieria di chi riceve senza dare.
Purtroppo, tocca proprio a Rina guastare un po’ la festa, con la sua salute malconcia: ha la gola in crescente infiammazione, congestione, difficoltà di deglutizione, dolore. Nel progredire del malanno, è spuntata la febbre, nel tardo pomeriggio. E a sera, le difficoltà vocali sono diventate piena impossibilità di articolare parole. Una brutta angina, dice il medico. E prescrive antibiotici, antinfiammatori, vitamine. Non senza avvertire che il decorso clinico non prevede una guarigione rapida, né sul lato febbre né su quello infiammatorio. Pazienza, sopportazione, cura scrupolosa, e rigorosa clausura in casa (quella che avrebbe dovuto praticare già da ieri, almeno, e non ha praticato). Rina non fa mai pesare le sue sofferenze: è una bella virtù per chi le sta accanto. Ma anche un rischio per lei: quello di sottovalutare il fatto morboso. E’ già capitato altre volte. Con ovvie ricadute su tutta la casa. Insomma, non c’è virtù che non comporti qualche rospo per eccesso di “bellezza”. Si conferma, sempre, l’antica massima: “ottima cosa è la misura”.
                                              *  
Ma la pietà per la dolorosa circostanza non ha impedito al fatuo diarista qui assorto di cedere alla tentazione erotologica mediata dalla consueta lezione di italiano a chi sai tu, quaderno paziente. Tra esposizione di storia letteraria e lettura di Dante, ripetizione di lei e correzioni di lui, il “demonico” (non confondere con “demoniaco”!) sofistico trova  spazi e s’insinua, perentorio e sfacciato.
Forse il diarista si giustificherebbe: in fondo, che malattia è? Mica si tratta di un male a rischio vita! Già: si è in diritto di pensare a cosa di lieve pericolosità. Tutt’al più, fastidiosa di inibizioni e frustrazioni dolenti. Ma io consiglio al Fatuo di non incanaglirsi nella miseria delle auto-assoluzioni. Accetti la sua condizione di colpevole, rinunci alle scuse. E pure alle attenuanti. Soprattutto, non si abbandoni alle consuete registrazioni coperte.
Semmai giocherelli un po’ con letteratura e autori eccitanti. Ripetendo Fogazzaro (more scolastico, sia pure) stasera Susy ha risvegliato certi ricordi critici e pungolato il mio modesto sadismo di laico allergico alla bacchettoneria. Nel capitolo fogazzariano della vallardiana “Storia dei generi letterari italiani”,  volume Il Romanzo, l’Autore traccia un ritratto tanto scrupoloso quanto spietato del “serafico romanziere” vicentino. Vi si possono gustare passi come il seguente sull’indole tendenzialmente fanatica del narratore:

Questa Dama bianca delle rose [personaggio del romanzo Leila], ch’è tutta una caricatura involontaria della bontà della fedeltà dell’altruismo, vuol fare il bene per forza, come donna Prassede: soltanto che il Manzoni detesta e ironizza il tipo psicologico di donna Prassede, mentre il Fogazzaro lo esalta. Quest’uomo che si fa assertore d’un “cattolicesimo progressista” non meglio specificato, ha una mentalità così unilaterale, inquisitoriale e ristretta, da richiamare alla mente di chiunque, senz’ombra di prevenzione, l’immagine di un sacrestano zelante. /Non c’è un suo personaggio di qualche rilievo, che non venga sottoposto – presto o tardi – a una specie di esame teologico. Apriamo Malombra : “il conte aveva una religione tutta propria... Le opinioni di Marina non erano così nette e precise” (I, 5). Daniele Cortis: “alzò le labbra dalla tazza, e disse a mezza voce, tranquillo: – “E’ cattolico, Lei? – (cap. III). A questa domanda ossessionante i personaggi del Fogazzaro rispondono a gruppi terribilmente uniformi [...] Eppure, per quanto preparati a trovare il nome di Dio in ogni pagina del Fogazzaro, talvolta si rimane sconcertati, tanto il riferimento scende dal pedantesco al morboso.”

Morbosità, che non è solo l’ambigua mescolanza di sensualità e religione, il sado-masochismo di certe rinunce brucianti di desiderio soffocato, ma sono anche, e sopra ogni altra, le sortite teologali di pura barbarie. Alla piccola Ombretta annegata nella darsena viene affibbiato un compito salvifico che all’autore sembra nobile e al povero non-credente suona di sconcia disumanità. Ecco il marito Franco che consola la moglie:

“Non sai la nostra Maria cosa dice in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli, ciascuno di voi non ha che l’altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a lui e stiamo insieme per sempre”.

Né si perita di parlare direttamente al Regista celeste, a chiedere permessi strabilianti e consegnare confessioni molto edificanti:

“E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettessse di piangere, ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando con sua madre?”

Commento nel Romanzo: dopo avere appena lodato “il dolore materno, che confina con una lucida follia di toccante risonanza”, il testo segnala l’arrivo del marito che “aggela ben presto ogni cosa.  S’egli parla alla moglie [...] sentiamo l’imparaticcio; s’egli parla a Dio [...] il bigottismo sfuma ridevolmente nell’inumanità;  e se, per finire il capitolo con luminarie, il Fogazzaro sottopone le sue due creature al giudizio di Dio [...] vediamo pendere sul capo dello scrittore un crudele dilemma: meschino o retore.”

 Si potrebbe dire meglio la miseria morale del “credere nonostante tutto?” Anche se quel nonostante è un’immonda pustola di crudeltà in maschera? Eppure è quel che accade in cinque miliardi di cervelli drogati di fede. Ecco, infatti,  un pezzetto di quel “giudizio di Dio”:

“Colui che meglio è conosciuto dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza [...] aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e sul viso dell’uomo. Mentre l’alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le lagrime, di vigor vitale; la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre salivano in fondo a’ suoi occhi spenti”

 Insomma, “il grande, inatteso dolore che guarisce [...] non risolve un bel nulla”: il devoto, e neghittoso, Franco, chiuso nel suo egoismo blindato dalla fanatica illusione, s’illumina d’immenso, pregustando il paradiso; la moglie, straziata nel ventre mutilato della figlia, sprofonda sempre più nelle tenebre esterne. E “Ombretta che annega nella darsena non solo non salda effettivamente il dissidio fra le coscienze dei suoi genitori, ma non costituisce neppure quell’episodio di superiore evidenza, cui s’inchina anche qualche critico acerbo del Fogazzaro” (Il romanzo, pagg. 318-19).
                                                
Un intreccio di accensioni analogiche, poi, mi fa ricordare, per somiglianza e per contrasto, ossimoricamente, quell’arguto giudizio del Croce sul “misticismo galeotto” di Antonio Fogazzaro (saggio del 1903): che richiama alla mente del critico “quel gran santo di Roberto d’Arbrisselle, del quale il Voltaire narra che s’era scelto una nuova forma di martirio: coricarsi tra due monache nude, stare a carezzarle l’intera notte, et le tout sans pécher”.
Forse quest’ultimo scampolo di ghiottoneria analogica è stato il motore dell’intera carrellata memoriale. Fino a rimettermi in mano i testi utilizzati in questa divagazione non troppo divagante (Se si vuole guardare Sotto il velame). E della quale, naturalmente, ho fatto partecipe Susy.

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