sabato 25 ottobre 2008

L'orso russo si sveglia


Dopo vent’anni di pazienza coatta verso le troppe provocazioni della molto democratica America e dei suoi docili alleati, era prevedibile un risveglio ringhioso dell’orso umiliato, che nell’“era” delle risposte moderate era venuto silenziosamente rafforzandosi. Ma le anime candide dell’Intellighentsia occidentale gridano allo scandalo e invocano severe sanzioni per cotanto peccato. Ed è spettacolo euforizzante vedere e udire come vengono rimosse montagne di fatti, negate evidenze solari, distorte azioni e omissioni del non immacolato Occidente pieno di pustole democratiche ostentate come altrettante purezze.
I fatti, dunque, e le azioni, spalmate in un ventennio di iperattivismo geopolitico. All’indomani del famoso crollo del Muro par excellence, fine dell’89, gli Usa attivarono iniziative mirate a decomporre l’impero sovietico. Con la complicità dei Paesi Nato, si incoraggiarono tutti i soggetti antisovietici a disfare quel sistema, certamente indebolito dalla corruzione burocratica e dalle incaute concessioni liberali del benintenzionato quanto ingenuo Gorbaciov. Caddero così ad una ad una le repubbliche periferiche (Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Germania Orientale…) seguite, presto, da alcune di quelle che formavano la federazione russa, il cuore del sistema. Anche l’indipendente Iugoslavia comunista, venuto meno il collante della forte personalità titina, si sfascia. E l’Occidente americanisant coglie l’occasione per atteggiarsi a difensore dei diritti civili delle minoranze e custode monopolista del verbo democratico. In nome di questi valori mette a fuoco i Balcani, provocando inaudite sofferenze alle popolazioni civili. Capolavoro di tanto zelo, l’attacco alla Serbia di Milosevic, che cerca di salvare il salvabile della compagine socialista ereditata dal carismatico Tito: e l’Italietta, fedele suddita, più che fiera alleata, di quel santuario assiologico detto Usa, presta il suo territorio a quei bombardieri che massacrano le solite incolpevoli popolazioni civili, riducendo quel Paese a una condizione pre-industriale.
E siccome l’appetito vien mangiando, Bush, per fare meglio del “bombardiere” Clinton, non si limita ad aizzare e armare e foraggiare altri capi e capetti del mondo ex comunista in fregola di democrazia elettoralistica (in ineriore homine, condizione di abbuffate energetiche per rapaci gruppetti di capi e capetti) ma concepisce l’eroico disegno di “chiudere” la Russia in una corona di satelliti militari e di missili pronti all’uso. Come? Installandoli prima in territorio polacco e ceco e poi magari in altri avanposti “liberati”. La giustificazione? Non potrebbe essere più ridicola e derisoria: prevenire attacchi terroristici di provenienza islamica, e in particolare dall’Iran satanico. Insomma, Bush e corte, reduci dalle gloriose imprese dei macelli provocati nei Balcani, in Iraq e in Afghanistan, decidono di aggiungere quest’altro aureo monile al loro medagliere delle marronate sanguinarie: tanto, l’orso sonnecchia. E continuerà ad incassare.
Senonché l’orso era venuto svegliandosi, ed erano gli improbabili crociati della Democrazia taroccata a non essersene accorti. Malgrado la piaga della Cecenia in rivolta (altro regalo dell’Occidente liberale), malgrado i salassi inferti dal dissoluto ubriacone Eltsin e complici alle finanze statali, il suo erede, il “piccolo” Putin, ex Kgb, ha scosso la potenza russa assopita, ne ha risanato (parzialmente) l’economia con gli enormi giacimenti di gas e petrolio, ha ripulito le forze armate, ingaggiato fisici e ingegneri di alto livello per ripotenziare e ammodernare quell’immenso arsenale, ha punito alcuni grossi papaveri della casta oligarchica, e ha deciso che era ora di finirla con le umiliazioni e le provocazioni ingoiate senza adeguate risposte. Ed ecco che, quando il furbastro Saakashvili, presidente della Georgia, incoraggiato dalla Casa Bianca alleata, attacca l’Ossezia del Sud, regione non georgiana a netta prevalenza etnica russa, l’orso putiniano risponde per le rime. Rime micidiali, da far passare la voglia a eventuali futuri sognatori “democratici”, di praticare la via georgiana.
E qui scoppia il Caso: la risposta russa, benché prevedibile, ha sorpreso, allarmato e suscitato condanne e commenti di puro delirio nel soave Occidente senza macchia. Putin ha fatto un uso esagerato della forza, Putin ha invaso un Paese sovrano, Putin ha lanciato una sfida all’Euro-America. E via salendo con le imputazioni. Indi si passa alle ingiunzioni: Putin ritiri subito i carri armati, restituisca l’Ossezia, rispetti l’integrità territoriale della Georgia. E simile musica. Ad ogni bordata di castronerie e minacce spuntate, Putin e Medvedev rispondevano (a Sarkozy, presidente di turno della Ue) con impegni precisi, ma non accomodanti. Il parlamento russo ha poi riconosciuto l’indipendenza delle due regioni contese, Ossezia Sud e Abkhazia (proclamata dai relativi parlamenti). La nuova sfida ha suscitato altre reazioni nervose nelle teste eminenti del Patto Atlantico. Le più comiche delle quali stanno agli estremi di un arco: come dire, dalle intimazioni del potente Bush alle esalazioni del nano politico Pierferdi Casini. Grida il primo: la Russia deve ritirarsi subito. Miagola il secondo: è da ingenui fidarsi di Putin. Dentro l’“arco” c’è chi si avvicina di più al Cespuglio mammonico e chi al vociferante nanetto. Fra i primi, brillano di corrusco furore (impotente) i dioscuri della defunta stagione dei nouveaux philosophes, André Glucksman e Bernard-Henri Lévy, che ingombrano di fragorose panzane le incolpevoli pagine del Corsera mielato (dal direttore Paolo Mieli). La logica dei due ponzatori è coerente con l’era digitale, perfettamente dicotomica: 1- 0, positivo-negativo. Positivo è tutto ciò che si autoproclama democratico, negativo tutto ciò che contrasta quell’astratto schema teoretico. Per i due, dunque, Saakashvili è la ragione fatta carne, Putin il diavolo neo-sovietico o vetero-zarista. Il fatto che sia stato quel presidente “democratico” ad attaccare l’Ossezia filorussa, non conta. Quanto alla presunta democraticità del georgiano, bisogna leggere quello che ha detto in una intervista al Corsera Salomè Zurabishvili, ex ministra degli Esteri di Tbilisi tra il 2004 e il 2005, “espulsa dal governo di Saakashvili”, contrario all’accordo che la patriota realista aveva raggiunto con Mosca “per il ritiro russo dalle basi militari ancora presenti in Georgia.” Salomè torna in Francia (sua “patria” dell’esilio), e parla con verità di quel finto martire. Eccone qualche pensierino: “dialogo e conciliazione non fanno parte dell’armamentario politico del presidente.” Il cane fedele di Bush è “ancorato ai vecchi sistemi della cooptazione politica sovietica.” La democrazia georgiana? “Direi piuttosto un abbozzo di società neo-comunista tale e quale a quella russa”. Questo è l’agnello azzannato dall’orso russo in risposta al suo azzardo.
Al ridicolo, in quanto inevitabile secrezione del fanatismo ideologico, non c’è limite. Un chiaro esempio è nel netto capovolgimento dei fatti operato da quel Mosè della democrazia verbale che è il citato Lévy: siccome Putin aveva raccolto forze presso il confine ossetico per prevenire o contrastare l’azzardo di cui sopra, secondo questo genio gallo-ebraico, a cominciare la guerra è stato lui: non meditava, forse, da tempo la canagliesca impresa? Ma se tutti hanno visto che è stato il georgiano a invadere l’Ossezia! bazzecole! I fatti non contano quando il pregiudizio ideologico comanda. Il nervosismo indotto dall’odio cresce in ragione diretta del realismo che ispira la reazione europea. Da Washington prosegue un fuoco di moniti inviti minacce culminanti con l’invio del neocon Cheney, vice di Bush, a incoraggiare-ammonire gli alleati “mollicci”: si diano una mossa, si facciano sentire dal mostro Putin. A sostegno di questa politica del grosso abbaio, una flotta militare Usa entra in Mar Nero con la scusa degli aiuti umanitari: il rischio di “collisioni” fra le due flotte cresce con il risico. Ma queste passeggiate ai bordi del territorio russo non sono provocazioni, secondo la logica democratica.
Quanto sopra detto non include ancora il massimo vulnus del chicchirichì paralogico occidentale: non si è ricordato che l’Assazia e la Abkhazia, a sbugiardante scorno della retorica occidentale, sono da vent’anni non regioni di Paesi inclusivi, ma vere repubbliche indipendenti, promosse da fior di referendum. In Ossazia il 98% dei votanti sancì l’indipendenza. Ma allora perché questo cas(in)o? Semplice: quei referendum non sono riconosciuti dalla “comunità internazionale” (leggi, Euro-Usa). Con quale motivazione? Questa: in Ossezia erano stati ammessi al voto solo i cittadini con passaporto ossetico! Cioè, la cosa più naturale del mondo. “L’Abhkazia è sostanzialmente nella stessa situazione. Si autogoverna, ha il rublo come moneta e le residue forze georgiane” presenti nel suo meridione “si sono ritirate poco tempo fa”. La situazione storico-politica delle due repubbliche malamente rivendicate dalla Georgia è illustrata in un onesto servizio sulla Stampa da Boris Biancheri (che smaschera la “colossale ipocrisia” occidentale con dettagliate considerazioni).
La linea prevalente nella politica italiana è quella della cautela: condividere la verbale condanna “unanime” della Russia, che ritira con comodo le forze armate e riconosce l’indipendenza delle due repubbliche filorusse, ma ripetere che non si può isolare una tale potenza: ha il gas, ha il petrolio, ci serve il suo appoggio nelle grandi questioni internazionali. Un colpo al cerchio Putin uno alla botte Cheney. Mentre non si placa la gara degli esperti a chi le spara più grosse contro la nuova Russa arrogante e imperiale: l’ultima di queste “teste d’uovo” (o del Kappa) azzera ben “dieci miti”, dal presunto accerchiamento della Russia all’umilizaione di Putin, dal ritorno alla guerra fredda all’onnipotenza politico-economica delle risorse energetiche del territorio russo. Con quali picconate di argomenti? Semplice: negando l’evidenza intenzionale e scambiando la tattica pelosa per strategia. Si può accerchiare un continente? No. E non è tale la Russia? Putin umiliato? Al contrario: Bush lo ha trattato con estrema cortesia e delicatezza. L’energia? E che ci vuole a cercare nuove fonti, a disegnare nuovi percorsi per gas e petrolio lontani dal controllo territoriale russo! E così via.
La perla del fitto assalto è quel Putin trattato con dolcezza: una smaccata tattica di corteggiamento infido scambiata per amicale sincerità! Ma c’è qualche voce dissonante nel coro della politica italiana? Ce ne sono, e vengono da dove meno le aspetteresti. Cossiga pone ai retori del crucifige questa domandina: che direbbe Bush se alcuni stati sudamericani decidessero di associarsi con la Russia e se ne facessero “garantire” l’indipendenza? Perfino un Tremonti riconosce le ragioni di Putin e le provocazioni del dittatore georgiano. Con più distese e solide valutazioni geopolitiche Sergio Romano sviluppa una linea convergente con le posizioni appena segnalate: l’antico timore russo dell’accerchiamento, le umiliazioni subite negli anni Novanta, lo sfascio a gran pena risanato e così via.
Aggiungeremmo a tali argomenti un ricordo storico: quando Kruscëv, su richiesta del minacciatissimo Fidel Castro, tentò di impiantare rampe missilistiche a Cuba, l’allora presidente degli Usa, John Kennedy, rischiò un conflitto con l’Urss e impose al Russo di cassare il progetto in cambio di un formale impegno a non aggredire Cuba. Ma sono argomenti che non bucano la scorza dogmatica dei nostri politologi d’accademia: Panebianco si diletta a sezionare con lama unidirezionale il “nazionalismo autoritario” di Putin & co., a spiegare ai profani il neo-imperialismo russo, a confrontare “I profeti disarmati e la prepotenza di Putin”, e così sia: senza un brivido di dubbio sulle responsabilità vere (o almeno bipartisan).
Naturalmente, il blocco dei “Paesi Liberi” si mobilita per danneggiare l’economia russa: ritirando denaro da quelle banche, pretendendo un aumento di tassi contro i rischi, e simili “insulti”. Primeggia, in questa gara, la fedelisima Albione, più blairiana che mai nel motto dell’ubbidir tacendo: La business community è irritata dal piglio guerriero della nuova Russia. E decreta: “Mosca paghi il prezzo”. E non è che non lo stia pagando. Mentre i dioscuri continuano a latrare: il Lévy pungola la Ue perché “trovi il coraggio di ‘morire per Tbilisi’” (metafora per intendere durezza di sanzioni e fermezza di minacce), il gemello siamese dell’astrattezza democratica, Glucksmann, pur riconoscendo che “stavolta l’Europa ha saputo opporsi a Putin”, teme che la ritrovata concordia possa rivelarsi fragile e ammonisce. Magari insultando solo un po’ meno di Bernard-Henri (“ricatto,… Suicidio col gas… Coma petrolifero annunciato”.)
Ma preferiamo chiudere con le risposte colorite che Putin ha dato alle accuse dell’ipocrisia occidentale. La reazione russa all’agguato georgiano: “che dovevamo fare, pulirci il moccio sanguinolento ed inchinarci?” Risposta eccessiva, quella russa? “volevate che agitassimo un temperino, che rispondessimo brandendo una fionda, quando contro di noi venivano usati lanciatori multipli di razzi, carri armati e artiglieria pesante?”
Naturalmente, qualche lettore ci accuserà di “santificare” Putin. E pazienza.

Nessun commento: