sabato 25 ottobre 2008

Cinenostrum o res nostra?


Un nostro simil-reportage di due anni fa sulla benemerita manifestazione cinefila Cinenostrum, che ha luogo nell’area archeologica di Acicatena, chiudeva (dopo meritati elogi all’organizzatore tecnico Mario Patanè) con una punta di rammarico e l’auspicio che le cause del malumore sparissero nelle edizioni succesive. Ahimé, mai speranza fu così malriposta: quest’anno, quarto della rassegna, quelle macule sono diventate colossali magagne.
Veniamo al fatto. Nei pieghevoli del programma si dice e promette che lo spettacolo inizia alle 19.30: è naturale che gli spettatori, per garantirsi un posto a sedere, comincino a venire molti minuti prima, magari fino a un’ora di anticipo sul tempo previsto. E difatti si fanno avanti i primi fin dalle 18.30. Ma trovano chiuso l’ingresso. Dopo un’ora di arrivi, una folla di inquieti postulanti preme sull’ingresso sordamente sbarrato. Occorre precisare che fra loro ci sono tanti anziani, alcuni con qualche acciacco? Si suona, si batte sul ferrigno portone, ci si sfoga fra noi, volano parole di meravigliato disappunto. Niente da fare: da quella parodia di Castello kafkiano non giunge una voce, non fa capolino un volto, non si pronuncia una parola di scuse o chiarimento. L’ora del presunto inizio viene scavalcata, e non di poco, nel più blindato silenzio dei castellani senza volto.
Primo consuntivo. Basterebbe tanta sordità per cogliere l’insensibilità dei responsabili. Echeggiano frasi coerenti con il mirabile progetto: “Ci trattano come mandrie, è un’indecenza, sono modi da cafoni arroganti…” E via sbottando. Nessuno, tuttavia, sospettava che potesse aspettarci di peggio: e invece il peggio c’era: in attesa dietro il portone finalmente aperto. Dei signorini pieni di dignità inquisitoriale spiegano enigmatici fogliacci davanti agli occhi stressati dei primi ingredientes: sono elenchi di persone invitate. I “guardiani” pretendono che ciascuno di noi tiri fuori dalle tasche un misterioso invito, o almeno una carta di identità per controllare se il titolare sia o no incluso in quelle liste di privilegiati decise dall’organizzazione logistica. La sensazione di essere incappati in una atmosfera kafkiana si accentua. Quei pupazzi in abiti scuri con pretesa di filtrare la crema degli invitati diedero l’ultima carica al serbatoio di rabbia che mi era cresciuto dentro. Il piccolo mister Hyde che ciascuno di noi piccoli dottor Jekyll si porta dentro balzò fuori dalla sua tana giurassica ed esplose nelle incontenibili escandescenze della mia furia. E fu così convincente che i contegnosi “tutori del tempio” ammutolirono, imitati da inutili guardie comunali di muto presidio. Dissi che si era superato ogni limite dell’indecenza, che quel comportamento era stupida arroganza e barbarie disumana, che andassero a riferire ai loro capoccia maldestri il nostro sdegno. Dietro di me e dei miei scorreva una folta fila di gente che non si lasciò fermare da quelle cariatidi innocenti, ma pompose. Senonché, giunti alle sedie di plastica bene allineate, ci imbattiamo (incredibile!) in altre barriere: le vallette, simpatiche ragazzotte in divisa, anche loro con tanto di fogli in mano, pretendevano di riuscire dove erano falliti i signorini maschietti. E allora furono musica soave al mio orecchio offeso le sonore proteste delle signore sans papiers. Dal canto mio tornai a concentrare sguardi convincenti sulla nuova barriera, personificata (per fortuna della vista) dalle graziose guaglione, significando che dalle poltroncine bene allineate in molte file noi, io e i miei, non ci saremmo mossi. Le signore che ci seguivano a ruota, trascinate dal mio involontario esempio, cominciarono ad occupare le sedie riservate, seguite dai loro mariti, ormai liberati dal malriposto timore reverenziale verso così discutibili autorità. Risultato: guadagnammo cinque o sei file di quelle rispettabili sedie, per noi e per altri meno decisi, che s’inserirono nella nostra protesta. Una bella signora, alla fanciulla che domandava il famoso invito (“Lei, signora, ce l’ha?”) rispose che sì, l’invito ce l’aveva, di assoluta validità: “Sono cittadina italiana, catenota, pago le tasse, e chi vi manda a fare ‘ste figuracce organizza questi spettacoli con i soldi miei e degli altri contribuenti. Dunque ‘s’accomodi, e non insista perché hic manebimus optime.”
Riassumendo. Questi genî di politici avevano destinato l’intera distesa delle poltroncine in plastica agli invitati; cioè agli amici, ai porta-voti, a parenti degli amici e via abusando. Altro particolare: tanti di questi signori e signore e famiglie presenti degli elenchi erano di altri paesi, spesso lontanucci, rivelando così, in rebus, il comparaggio fra la piccola Acicatena e la grande Acireale (ricca di hinterland). Insomma, i nuovi eletti, a cominciare dal sindaco (nonché consigliere regionale, e quindi “onorevole”) per finire al meno votato, ma pur salvato, dei consiglieri comunali avevano deciso di riservare le sedie (ripetiamo: tutte) a una sorta di casta in là minore, e dunque di ammassare i fuori-casta, i paria, in quanto presenza ininfluente, sopra una specie di larga scala di micragnose tavole-gradini (in chiaro: strette al risparmio!). Le sedie, poi, erano suddivise in due settori e colori: una serie di file, bianche, sotto il palcoscenico, riservate ai politici (e familiari), il resto, molto più ricco di unità e file, agli invitati. Il popolo anonimo e alieno diventava l’oraziano spregevole volgo: Odi prophanus vulgus et arceo.
Ora, se è già un odioso discrimine riservare posti alle cosiddette autorità e familiari et ultra, quando la riserva si slarga fino alle dimensioni qui denunciate diventa un abuso di potere assolutamente incostituzionale e civicamente insopportabile. A tanto ha reagito la mia indignazione. E questa pubblica “confessione” valga come un contributo di chiarezza di un cittadino che vorrebbe contestualizzarvi un caloroso invito a lor signori perché evitino, in futuro, simili sgorghi di arroganza e le connesse figuracce. A qualcuno potrebbe saltare in testa di farne un caso giuridico-mediatico.
P. s. Dimenticavo di aggiungere che la stessa prepotenza si è rivelata nel riservare ai soliti privilegiati gli spazi stradali di possibile posteggio più vicini al sito, transennandoli con colorate fettuccine provocatorie e costringendo il vulgo di cui sopra a percorrere distanze lunghe fino al chilometro e mezzo e di più. Col solito menefreghismo verso le persone anziane. Io ero “portato”, e i familiari che mi ospitavano mi “depositavano” nelle vicinanze del posto, e da lì venivano a prelevarmi alla fine dello spettacolo. Di più: mi pregavano di non accendere un altro fuoco polemico. Così abbozzai. Ma non fino a sopportare l’intera serie di serate.
Per il resto, niente da dire. O quasi: il quasi ospita l’esorbitanza di certe esibizioni verbali dei soliti politicucci di incerta eloquenza, di qualche giornalista di bianco pelo stagionato (nel più cauto moderatume nazionale), di certi collaboratori del regista-attore. Quanto al festeggiato, il “Grande grande grande Verdone” (tale il titolo tematico della rassegna) non ha deluso davvero: sia quando narrava le sue avventure biografico-professionali, senza risparmiarsi nel confessare coram populo le sue debolezze e nevrosi (curate, elettivamente, con la sublimazione della trasposizione artistica), sia quando, sullo schermo, offriva un antipasto di famose sue “imitazioni”. I film, poi, tutti gradevoli, con punte di eccellenza, rappresentavano il meglio dell’instancabile operosità del cineasta prolifico (accettabile perfino qualche parziale e inevitabile, remake di ruoli e figure psicologiche).
Ma il presente sfogo non è nato come recensione alla piacevole rassegna: basti questo fugacissimo cenno finale.

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